- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
UNA LINGUA NUOVA. LA LINGUA DELLA PAROLA
- La lingua della parola
- Il teorema della redenzione
- La lingua dell’autorità
- La lingua dell’annunciazione
- La lingua della notizia
- La lingua della volontà e il giro della morte
- La lingua civile
- La lingua dell’esperienza della parola
- Il capitalismo nuovo e la sua lingua
- La lingua della cura
- “Sì, però…”, l’ipotiposi. E non c’è più litigio
- Particolarità, proprietà, virtù della parola non sono personali
- Non c’è più da aspettare
- I termini della scommessa
- La lingua della vita
La lingua della parola
Ruggero Chinaglia La negazione della psicanalisi avviene proclamando la sua possibile conversione in psicoterapia, conversione impossibile, inimmaginabile ma, tuttavia, tentata e pubblicizzata. La conversione in psicoterapia è il modo con cui viene negata la parola, mediandola con la negazione della sua lingua.
Per negazione della parola intendo, per esempio, l’esaltazione, l’apoteosi di ciò che possiamo chiamare comportamentologia, cioè tutto ciò che si inscrive nel discorso del comportamento, della personalità, nel discorso delle scienze umane, ciò che viene ascritto al discorso dell’umano, come caratteristica di genere. Che questa negazione proceda dall’università non deve sorprendere, in quanto l’università e il centro di conservazione del sapere e di negazione della novità che procede dalla parola. Né deve sorprendere che dall’università il negazionismo si estenda a vari strati della società, alla scuola, all’ospedale, al tribunale, alle aziende e in numerosissimi altri settori.
Comportamento è il termine più di moda. Anche personalità. Comportamento con la sua grammatica, con la sua prescrittività e con la sua altra faccia, i disturbi! I disturbi del comportamento e della personalità sono ciò che deve incanalare ognuno per mantenerlo nell’appartenenza alla comunità, all’identità di genere. Comportamento, personalità, modalità, atteggiamenti, risposte all’applicazione di stimoli. Stimolo-risposta, stimolo-comportamento, cioè abolizione della parola, abolizione del suo dispositivo, abolizione del cervello come dispositivo della parola per l’instaurazione di meccanismi.
Il termine cervello ormai è, invece, sempre più usato per indicare una presunta sede di “meccanismi” emotivi e comportamentali, con l’abolizione del ragionamento, del calcolo, della ricerca, dell’istanza culturale e artistica cui ogni condotta espone, perché non è reattiva. Pensare che la risposta che ciascuno dà a una questione sia reattiva, istituisce l’umano e la sua presunta scienza, posta un gradino inferiore a quello animale, cui quanto meno è riconosciuto l’istinto, che non è un meccanismo.
L’“evoluzione” e il “progresso” scientifico approdano in quest’epoca alla negazione della parola, alla negazione del ragionamento e all’istituzione del meccanicismo comportamentale. La nozione di comportamento, con la sua ideologia, è la tomba della parola e dell’intelligenza, è la tomba dell’arte e della cultura. Per questa via, con l’istituzione del comportamento universaleggiante e della sua grammatica, avviene la negazione della parola, quanto meno, il tentativo di negarla e abolirla. E con l’abolizione della parola, il tentativo è di abolire anche l’istanza intellettuale, la questione intellettuale come questione della parola, del dispositivo di parola e del dispositivo pulsionale, per ridurre ognuno all’appartenenza all’ordine comune, la cui risposta deve essere conforme alla grammatica stimolo-risposta. Non si tratta più, in questi apparati, di parlare, ma di comportamentarsi, di comportarsi, cioè, secondo la grammatica riconosciuta normale e morale, cioè secondo la normalità.
Il prescrittivismo toglie ogni variazione e ogni differenza inscrivendole nel disturbo; ossia, ogni variazione e ogni differenza deve rientrare fra le penalità e le penitenze che l’apparato ascrive all’anomalia, che deve essere assente, abolita in nome della normatività, della normalità, della grammatica: la parola, con la sua logica, con la sua struttura e con il suo dispositivo deve essere assente.
È con la mitologia del comportamento, con l’esaltazione del comportamento, con l’esaltazione della guida encefalica di ogni essere umano, dell’“encefalo arcaico” cui ognuno deve sottomettersi e sottostare, che la psicoterapia trova la sua esaltazione. In particolare quando il comportamentismo tenta di accampare presunte adiacenze o orientamenti analitici o psicanalitici che nulla, in realtà, possono avere a che fare con l’analisi, con la psicanalisi e con la parola, che non segue metodologie. Infatti, un conto è il metodo della parola, un altro conto è una metodologia applicata alla parola per tentarne l’imbrigliamento, il contenimento, l’ingabbiamento, attingendo all’organicismo e al sostanzialismo.
Nulla di più contrario alla parola, dove non c’è sostanza. Riproporre, come già si era tentato nell’Ottocento e nel primo Novecento, il primato dell’organicismo è il tentativo di ripristinare, di rinverdire il mito della padronanza sulla materia. L’umano non sopporta di non avere il controllo e la padronanza sulla materia delle cose, sulla materia intellettuale e, quindi, lo sforzo maggiore di ogni apparato che si istituisce a tutela dell’umano, è quello di proporre ogni accorgimento come favorevole all’acquisizione della padronanza e del controllo sulla materia della parola.
Quando la psicanalisi è sorta, è cominciata come talking cure. Così la definì Anna O., una delle prime pazienti che si avventurarono con Freud nell’esperienza psicanalitica di allora, cioè “la cura parlando”. L’accezione precisa di “parola”, in Freud, è molto sfumata, in quanto usa altri termini, ma occorre precisare che Freud si trovava in un contesto dove la parola era bandita, e che già solo istituire un’ipotesi differente rispetto alla mitologia organicista dell’epoca era uno squarcio. Che idea avesse della parola è leggibile tra le righe dei suoi scritti. Il fatto che ponesse la questione dell’onirico come preliminare alla sua elaborazione è molto indicativo, perché lascia intendere come la questione fosse non già sulla normalità o sulla normatività, non già su quanto di consueto e comune ci fosse nel parlare, ma su quanto di Altro si produca parlando! Con la sua terminologia e seppure con il parziale adeguamento alla terminologia dell’epoca, Freud pone in primo piano la questione onirica, cioè la questione dell’Altro che procede dalla parola e di quanto di impadroneggiabile si produca dal parlare, fornendo un’altra accezione di cura, la talking cure, la cura cui è impossibile applicare un protocollo.
La questione del protocollo non si poneva nei termini odierni ma, certamente, si poneva la questione del convenzionalismo, dello schematismo, dell’imbrigliamento, della mitologia dell’ospedale psichiatrico, del malato di mente e del sapere che andava mantenuto, circoscritto e applicato. Invece dell’universalismo, Freud offre un’altra proposta, un altro modo: la cura senza protocollo, la talking cure, dove si tratta del parlare, dell’ascolto, del capire ciò che si dice parlando, di ciò che si dice fra le righe, d’intendere ciò che di Altro si dice. Altro rispetto all’intenzione, Altro rispetto al senso comune, Altro rispetto al sapere comune. Altro. Altro che fa sì che proceda e prosegua la ricerca, l’intendimento senza fine, perché l’ombelico dell’onirico non è mai raggiunto. Il punto oscuro che l’onirico presenta non è mai raggiunto e non è mai chiarito definitivamente.
Già allora Freud intende e propone questo: processo infinito, esperienza infinita, procedura infinita, ricerca infinita, vita infinita, esperienza particolare, unica nella differenza assoluta che la contraddistingue in ciascun caso, unica e assoluta nella sua differenza. Ciò non è tollerato oggi come non fu tollerato ai tempi di Freud, che ebbe e subì una reazione notevole da parte dell’apparato del sapere.
La questione della parola non è tollerata nemmeno oggi. Lo possiamo testimoniare noi, ben capendo verso cosa è rivolto l’attacco che è stato sferrato al movimento cifrematico da quando è sorto con la sua esperienza a tutt’oggi. L’attacco verso Armando Verdiglione, verso il movimento, verso i modi, le invenzioni, le esperienze, verso i valori che l’esperienza ha prodotto in vari settori, artistico, culturale, scientifico, editoriale, settori senza protocollo, senza la sottomissione all’apparato del sapere come sapere circolare da trasmettere e applicare senza variazione e senza differenza, è per mantenere l’idea di sistema.
Oggi, ciò che viene chiamata scienza è ben lontano dalla scienza, è la statistica che si avvale dell’esigenza del sistema. È impensabile tutto ciò che oggi viene chiamato scienza, se viene scardinata la nozione di sistema, perché vengono meno i parametri di riferimento, viene meno l’ipotesi della ripetibilità degli eventi, che è ciò che istituisce il discorso come scientifico. L’esperienza di parola, l’esperienza di psicanalisi, non comporta la ripetitività degli avvenimenti, di ciò che accade. L’atto è irripetibile, l’atto è ciascuna volta originario, gli effetti sono imprevedibili. Ciò che si produce è originario. Non si fonda su ciò che è stato prima, ma avviene imprevedibilmente, artisticamente, inventivamente, scientificamente in quanto si produce qualcosa di nuovo. Questa è la scienza: la produzione di qualcosa di nuovo! Senza possibile sottomissione alla statistica, senza possibile sottomissione al catalogo dei saperi, senza prevedibilità, senza conoscenza.
Ciò fa paura, perché rende inapplicabile la conoscenza, lo schema. Esige, pertanto, la formazione assoluta, particolare che riguarda la parola, il suo modo, la sua esperienza, il suo avvenire, il suo divenire. Non si apprende dai libri. Non si apprende. Si fa, si vive. Insegnamento e formazione procedono dalla parola nel dispositivo di ricerca, d’impresa, di attuazione delle istanze della parola. Impossibile altrimenti. L’apparato ha paura della parola, osteggia la parola come ciò che incrina il sistema, che è il terreno su cui l’apparato sorge. Togli il sistema e non c’è più l’apparato, non c’è più il potere dell’apparato, non c’è più la burocrazia. Allora è chiaro che per consentire il mantenimento della nozione di sistema, dell’idea e della parvenza di sistema, occorre abolire la parola, abolire la comunicazione a favore del surrogato chiamato comunicativa, e di cui ogni rappresentante umano deve essere dotato.
La comunicativa è la capacità di comprendere e farsi comprendere, la capacità di “parlare la stessa lingua”. Perché, abolita la parola, sarebbe possibile parlare tutti la stessa lingua come lingua della comunicativa, la lingua degli esseri senza la parola, senza l’equivoco, senza la menzogna, senza il malinteso. La lingua parlata è la lingua già parlata! Parlare la stessa lingua vuole dire parlare la lingua già parlata, già data come lingua, prima ancora di parlare. È la lingua ideale, la lingua che non c’è. In quanto ideale è la lingua morta, lingua che sta solo nel vocabolario: lingua dei vocaboli. Chi parla, parlando, non parla per vocaboli, ma dice cose che ignora di dire. La lingua della parola non è fatta di vocaboli, è lingua che non ha già la sua significazione, le cose che si dicono non sono già significate, dicendosi. È lingua che esige il dispositivo dell’ascolto, della ricerca, esige l’analisi e non il vocabolario come strumento della sintesi, ossia della ricomposizione del sapere comune che deve essere mantenuto inalterato dagli esseri parlanti, cioè dagli esseri senza parola, gli esseri dotati di comunicativa, ma senza parola, gli esseri che, in quanto si attengono alla comunicativa, possono annoverare come relazione unificante la partecipazione emotiva.
Tolta la parola, abbiamo le emozioni, l’emotività, la partecipazione emotiva, la possibilità empatica come colmo dell’unificazione. Senza parola, abbiamo l’unificazione ideale alla sofferenza comune, ideale, umana, senza sfumature, data per assodata per via di comunicativa, perché tutti dobbiamo sentire allo stesso modo e partecipare empaticamente alla stessità del pathos. Tutti dobbiamo partecipare della sofferenza, ognuno deve sottomettersi alla sofferenza. Lo diceva Buddha, lo diceva la teosofia, lo diceva Maometto, lo diceva Allah, ovviamente lo diceva anche san Paolo, tutti dobbiamo sottometterci, restare sottomessi alla sofferenza. E dalla sottomissione, sperare empaticamente nell’avvenire migliore, senza pulsione, senza domanda, senza soddisfazione, senza riuscita, ma oscillando tra la colpa e la pena, perché ognuno ha la sua colpa e deve scontare la sua pena. Questo trasmette la comunicativa, l’ideologia della colpa e della pena come lingua dello stato umano, come lingua dello stato delle cose, lingua ideale, lingua parlata, lingua cui ognuno ha diritto di avere l’accesso diretto. Bene, non c’è accesso diretto alla parola! L’uguaglianza naturale di accesso diretto alla parola non c’è!
L’accesso alla parola non è diretto perché la parola non è sostanziale e non è monolitica. Si fa della sua particolarità, della sua struttura, della sua scienza e, dunque, non c’è come possibile accesso diretto. La parola esige la ricerca, la qualificazione, la tensione verso il valore che nulla ha a che fare con la mitologia dei valori condivisi, che devono significare il genere nella sua appartenenza all’umano o alla comunità. La parola non è comune, non è comunitaria, non accomuna. La questione intellettuale non è la questione accomunante. La lingua della parola non è la lingua comune, non è la lingua parlata. Addirittura non è parlabile. Occorre dire che con la cifrematica la lingua della parola risorge, si libera, in un certo qual modo, dall’imbrigliamento, dall’isolamento cui è costretta dall’ideologia del sistema, che è reazione alla parola. Il sistema è l’invenzione che tenta di imbrigliare la parola. Il sistema non è originario, è invenzione dei filosofi e dei sacerdoti, da quegli egizi a quelli cinesi, a quelli indiani, a quelli islamici.
La parola è originaria, non il sistema. Questa è la questione effettiva. Ogni disciplina sorge come reazione contro la parola. Ogni grammatica insegue il mito della lingua parlabile, unica, comune, canonica, ma è un mito che si sgretola parlando, già parlando, solamente parlando. Parlando, l’idea della lingua comune si dissipa, ma ciò complica le cose a chi deve trasmettere il sapere, a chi deve mantenere il discorso come discorso di riferimento, come discorso della storia, del potere. Discorso che si fonda sulle categorie istituite, per esempio, dai filosofi, che sono stati tra i primi avversari della parola che rendeva ingovernabile la città, la polis, la ragione e che, quindi, occorreva imbrigliare, contenere con la grammatica, cioè con la spiritualizzazione.
La grammatica della parola è spiritualizzante in quanto persegue l’ideale unificante. A fronte di questo tentativo di grammaticalizzare la parola, cioè di darle un canone, constatiamo invece che ciò che si dice entra nella struttura, e ciò che si struttura, si struttura differentemente. Differentemente! Questo lo constatiamo, per esempio, con il senso, il sapere, l’intendimento, la verità. Impossibile sostenere la verità come causa. Parlando, abbiamo effetti di verità, non il mantenimento della verità ipostatizzata, né del senso ipostatizzato, né del sapere ipostatizzato.
Il motto di spirito, l’umorismo sono esempi dell’impossibile imbrigliamento della combinatoria linguistica. Metafora, metonimia e catacresi sono esempi dell’impossibile imbrigliamento della parola, della linguistica differente da quanto proposto da ogni apparato disciplinare. La lingua parlata, la presunta lingua comune si riscontra, in realtà, come lingua del litigio, dove ognuno vuole avere ragione per non avere torto; è la lingua dell’alternativa, della binarietà, del contrasto, è la lingua dove la contraddizione non è ammessa, è la lingua delle coppie oppositive. Ma la contraddizione non è la contrapposizione. La contraddizione come modo del due è costitutiva della parola, modo negato dai principi aristotelici. E la contraddizione è negata anche dalla filosofia indiana, iraniana, islamica, cristiana, dallo yin o yang, dal sopra o sotto, dal sì o no. Tutti esempi di contrapposizioni costanti che hanno orientato nell’unica direzione la così detta civiltà, come civiltà contro la parola, contro la tolleranza. Civiltà dell’alternativa, della guerra, della contrapposizione, civiltà che si avvalgono della lingua della contrapposizione, dell’alternativa, delle coppie oppositive, della lingua dov’è tolto il due, il tre, l’Altro. Tertium non datur. O sì o no. E la gamma delle sfumature, delle ipotesi, delle interpretazioni, la gamma metaforica, metonimica, dove vanno? Vanno nel casellario delle classificazioni, nell’elenco dei disturbi, perché la gamma deve essere contenuta, non può essere assoluta, deve rispettare il canone; e così la parola è già abolita, espunta. La lingua è espunta, espunta la parola libera, leggera, la parola nella sua integrità che agisce con i suoi effetti temporali, effetti linguistici, narrativi.
Con la parola è impossibile mantenere le credenze; credere di appartenere allo stesso ceppo, alla stessa comunità, allo stesso pianeta, alla stessa origine. È impossibile credere di potere convincere o di potere essere convinti. Il convincimento sarebbe l’azione del soggetto sull’Altro, l’esercizio del potere di convinzione, di legame, di legare a sé. Questo è il convincimento: negazione del due, negazione della suggestione, della persuasione e dell’influenza come virtù del funzionamento della parola, virtù di ciò che funziona come nome, significante, Altro. È l’attribuzione del potere di convincimento al soggetto, il mantenimento delle proprie convinzioni per non dare ragione all’Altro.
Ma, l’Altro non è qualcun altro. L’Altro nella parola è la struttura dell’onirico: sogno e dimenticanza. È quanto di inimmaginabile si produce parlando, cioè funzionando la parola. La parola è senza schiavo e il convinto è lo schiavo, colui che è legato. Non c’è convinzione o convincimento, ma, funzionando la parola, interviene persuasione, suggestione, influenza che sono virtù della parola, non assecondamento alla volontà altrui. Fino a che vige la lingua dei soggetti, la lingua parlata, la lingua degli enti, la lingua della sostanza, vige l’idea del potere invisibile, il potere che qualcuno può esercitare su qualcun altro. Questa credenza si mantiene perché nella lingua dei parlanti l’analisi è negata e, al più, è possibile convincersi o rimanere convinti. Ma ciò è senza analisi, perché è imposto il canone della sintesi.
L’analisi è specifica della parola, è la teorematica della parola. Se una credenza giunge a dissiparsi è per via di analisi, non per via di cambiamento. Qualcosa che si credeva, non c’è più. Perché non c’è più? Perché non c’è mai stata, ce n’era la credenza. Ma, senza l’analisi è impossibile che intervenga questo “non c’è più”, il teorema. Senza l’analisi resta la credenza, perché resta l’alternativa esclusiva: o sì o no. Non c’è la gamma, non c’è l’Altro, non c’è la logica singolare triale. C’è l’idea del nulla e la sua alternativa, l’accettazione del canone.
La questione è, dunque, qual è, com’è la lingua della parola, come far sì di non respingerla, come capire di cosa si tratti, come farne l’esperienza, come non reagire alla parola e alla sua lingua. Questa è la scommessa intellettuale, la questione della nominazione e pure la scommessa della cifrematica: come non lasciare che la parola sia negata.
Se c’è qualche domanda, possiamo proseguire il dibattito.
Marcello Toncelli Vi può essere teorematica da sé, senza che vi sia il dispositivo psicanalitico, quindi, avvalendosi del ragionamento, dell’intelligenza, ma da sé?
R.C. Anche il dispositivo di parola è da sé.
M.T. Sì, ma non è da solo.
R.C. Ecco. L’idea di fare da solo è un’idea curiosa. Anche l’onanista vuole fare da solo.
M.T. Chi?
R.C. Chi è l’onanista? Chi fa da solo. Perché negare il dispositivo, la collaborazione, la molteplicità?
M.T. Perché, magari, non vi è la possibilità di instaurare un dispositivo.
R.C. La possibilità è ideale, è sempre ideale.
M.T. Ideale?
R.C. È ideale, spirituale, spiritualistica. La questione è della testimonianza, della prova, non della possibilità. La questione è di ciò che entra nell’atto e procede, prosegue e si valorizza. Questo importa. Non ciò che è, ma ciò che giunge al valore. Questa è la scommessa: che ciascuna cosa giunga al valore.
M.T. Volevo fare un’altra domanda. Prima ha parlato di risorgimento della parola.
R.C. No, mi oppongo.
M.T. Rinascimento. “Con la cifrematica la lingua della parola risorge”, ho scritto male io?
R.C. Risorge. La resurrezione non è il risorgimento.
M.T. No?
R.C. No!
M.T. Risorgere è rinascimento?
R.C. Piuttosto.
M.T. Rinasce e quindi nasce per la seconda volta, per una nuova volta.
R.C. Risorge, cioè non muore mai.
M.T. Non muore mai?
R.C. “Non muore mai” è senza l’idea di fine.
M.T. Però, se qualcosa risorge, prima muore.
R.C. Questa è la credenza. Che per risorgere sia necessario morire è un’idealità, cioè, nella parola nulla muore, ma il senso e il sapere risorgono, non sono mai gli stessi. Il processo non è mai finito.
M.T. Quindi, c’è un rinnovamento continuo.
R.C. No, non c’è nessun rinnovamento, perché il rinnovamento procede dalla morte del significante, che muore e poi si rinnova. Questa è la mitologia della fine.
M.T. Diciamo che ce n’è sempre uno nuovo, che ogni significante è nuovo.
R.C. Sì, e perché questo accada non è necessario che muoia. Qui sta la questione importante, altrimenti, sulla funzione di morte come necessaria, abbiamo la civiltà vigente. Ogni filosofia, ogni religione, ogni impostazione prescrive la morte per rinascere nell’aldilà.
Nella parola la necessità, la funzionalità di morte non c’è. E non è questione da poco. Perché da ciò discende che non c’è necessità della pena e della colpa, non c’è la necessità della purificazione, non c’è l’alternativa fra il puro e l’impuro. Insomma, tutta una certa mitologia dell’alternanza si dissipa.
M.T. Prima ha parlato anche della polis greca, nella quale vi erano dei filosofi che per promuovere questo controllo hanno inventato alcuni principi. Ci sono testimonianze precedenti a quest’istituzione di controllo, relativamente all’incontrollabilità effettiva della parola?
R.C. Beh, le testimonianze che giungono sono sempre dalla parte governativa, o come religioni o come filosofie, e sempre prescrivono il bene da una parte e il male dall’altra, la colpa e la punizione, l’espiazione e il miraggio della divinizzazione. È la costante dall’Egitto all’India, all’Iran alla Cina. Queste sono civiltà antiche e questo propongono.
M.T. Ha detto divinizzazione e…?
R.C. Espiazione, purificazione, ascesi. A partire dall’impurità dell’origine che deve essere scontata come pena.
M.T. Comunque, prima di Socrate c’erano i…
Daniela Sturaro I presocratici.
M.T. Qual era la filosofia prima di Socrate, che lui aveva combattuto? Mi sfugge il nome.
R.C. I presocratici, d’accordo. Ma, quelli prima, come si chiamavano?
M.T. Eh, non mi ricordo.
R.C. Gli aedi.
M.T. No.
Pubblico Perché, cosa dicevano?
M.T. Sostenevano la non identità, variazione e differenza.
R.C. Sì, varie cose, certo.
M.T. Magari può essere una testimonianza.
R.C. Nessuno si ricorda chi fossero costoro?
Pubblico Cercavano un principio.
R.C. Prima, prima.
Pubblico Prima ancora gli aedi.
R.C. Però, lei non si ricorda?
Pubblico No. C’era identità tra poesia e religione e espressione.
R.C. Il poeta era tale, in quanto invasato, ispirato dal dio.
Pubblico Era espressione dell’umano.
R.C. Ma ispirato.
Pubblico Però l’ispirazione è già una visione successiva.
R.C. Sì, esatto; infatti lì era proprio invasato.
Pubblico Posso chiedere qualcosa? Ci sono così tanti elementi che potrei andare avanti parecchio, ma non so se… Mi ha fatto piacere ascoltare tutto e ascolterei anche di più. Ipotizzi che io sia perfettamente in sintonia.
R.C. Questo non è ipotizzabile.
Pubblico Però, un appunto storico sul Buddha, che è più per il superamento del dolore che non per la dichiarazione della sottomissione al dolore, ma ciò non ha importanza.
R.C. Sì, ma è sempre un processo di purificazione, di ascesi, eccetera.
Pubblico Il buddismo, non tanto perché è un estremo di un certo pensiero… Ma, quando lei ha iniziato a parlare di iraniani, indiani, subito mi si è acceso un riflettore sul pensiero indoeuropeo, chiamiamolo così, che è un modo di vedere e di parlare, per cui sembra che si sia formato un intero metodo mentale, che è quello che adesso chiamiamo occidentale. Anche se io preferisco dire nordoccidentale. Metodo che adesso, tra l’altro, sta entrando in discussione, perché con la globalizzazione ci sono più mondi, fra quelli che lavoravano di immagini in Oriente, e con quello creavano un linguaggio a partire dalle immagini. E, appunto, questa micidiale forza che si è creata con il discorso e con il problema del potere (e sono il primo a cui piacerebbe tanto se si approfondisse di più la questione del potere), e con il metodo mentale indoeuropeo, cioè quelli che facevano la caccia, che si davano delle indicazioni che funzionavano meglio; è stata una cosa molto più maschile, un pensiero che ha portato più maschilismo rispetto alla visione orientale. Io, sia detto, non sono nessuno. Sono un operaio, ma di cosa sto parlando? Ho seguito tutto quello che ha detto e adesso mi mancano degli elementi che forse non avrei una gran voglia di seguire. Però, glieli chiedo brutalmente. Mi dia qualche luogo di elaborazione cifrematica, che non sia la frequentazione di qualche cappella privata.
È molto interessante questa proposta del discorso della parola, che ho visto molto connessa con la visitazione della visione della vita e, quindi, come espressione della vita. E mi verrebbe voglia di chiedere quale relazione ci sia da una parte con il significato, ma, forse, qui si apre troppo, e dall’altra con la socialità. E qui non si scherza, perché non si è fatti per essere soli, cioè si crepa prima. Non so, è una cosa complessa. Comunque, la socialità fa parte, pare, dell’essere e di come siamo fatti. Può bastare, mi fa piacere ascoltarla.
R.C. Per attingere informazioni in merito a quelle che sono le testimonianze della cifrematica, abbiamo qui alcune dispense di vari corsi, tenuti negli anni precedenti, oppure ci sono i libri di Armando Verdiglione, ci sono riviste, pubblicazioni, sorte durante quarant’anni di esperienza, e queste sono disponibili e leggibili.
Pubblico Diciamo i capisaldi dell’elaborazione cifrematica, quelli che si possono anche comunicare, oltre cui avviare.
R.C. Capisaldi è difficile ipotizzarne, ma ci sono i libri. Lei vuole alcuni titoli di libri?
Pubblico No, vorrei proprio il gesto linguistico o comunicativo che si possa definire cifrematico. Io sono qui perché in questi giorni c’è un festival della poesia in città e, quindi, in qualche modo vengo proiettato in una situazione linguistica. Anche questa sera sembra che l’abbiano fatta insieme al festival.
R.C. Questa conferenza è testimonianza cifrematica. Se vuole, come gesto linguistico, questa conferenza è un gesto linguistico della cifrematica. Per affrontare più in dettaglio alcune questioni, non resta che proseguire, per esempio, la frequentazione a altre conferenze oppure leggere alcuni dei testi che sono pubblicati. Questo per cominciare. Leggere qualche cosa non è da parte sua ipotizzabile?
Pubblico La lettura è strettamente connessa con il tempo e con il tempo di vita e, invece, il presente spera darsi anche comunicativo abbastanza immediato e vivibile; per cui sicuramente, appena ho cinque minuti, cerco di affrontare la biblioteca che mi sono costruito e che non riuscirò mai a terminare di leggere. Sicuramente qualcosa entrerà anche di questo, anche se uno spera sempre nelle scorciatoie. Penso che la scorciatoia è un termine che potrebbe buttare dentro nella sua predicazione sulla parola liberata, o comunque svincolata. Mi verrebbe da chiedere se ritiene la natura, sì o no, molto in catene, non appena si sia prodotta come vita. È una riflessione recente che mi facevo sul fatto che la vita in sé è una produzione strutturata, presuntuosa, ma immediatamente strutturata in ogni sua esperienza pratica.
R.C. Adesso, qui ci sarebbe da parlare per ore, ma giusto per darle una prima eco, ritengo che non ci siano scorciatoie.
Pubblico Comunque, già eco mi piace come parola.
R.C. E ritengo che la natura sia senza catene, in quanto non è strutturata. Si struttura, ma non è strutturata mai.
Pubblico O.k., è il discorso di prima, della risorgività, che per me è un’evidenza. Non si pone il problema della rinascita, nel senso che non devi spiegare alla sorgente dell’acqua di montagna se sta sorgendo o rinascendo e che forma assuma, però, è anche vero che a ritroso…
R.C. Questo è solo per dare un’evocazione, però, adesso, vediamo se ci sono anche altri che hanno domande. Ci sono altre domande? Notazioni, evocazioni, sensazioni, ragionamenti, tracce di vita?
D.S. E allora facciamola valere questa parola! Dopo avere ascoltato quanto abbiamo sentito questa sera.
R.C. Nel suo ecumenismo lei chi rappresenta?
D.S. Nessuno, non rappresento nessuno.
R.C. Era un pluralis maiestatis. Pensavo fosse portavoce.
D.S. Non voglio rappresentare nessuno di preciso. Occorre fare valere la forza che abbiamo, che passa attraverso di noi, per fare valere la parola, perché anche nella mia piccola esperienza ho potuto constatare che la mia vita si è complicata estremamente. E credo che, senza gli strumenti che sono riuscita a acquisire con la formazione in questi anni, mai avrei potuto affrontare prove così difficili. Allora penso sia giunto il momento di scrollare via tutto questo peso della cultura occidentale, orientale, mediorientale e aprire il varco attraverso cui la parola giunga a noi, ma giunga, anche, a chi crede di essere già in un posto sicuro perché sta nella scienza, e crede che con la scienza riuscirà a diventare immortale.
R.C. Certo, sono d’accordo con lei a parte due dettagli. È la parola che dà la forza, e non la forza che deve fare valere la parola, perché la forza procede dalla parola. È perché la parola è in atto che la forza è in atto, in quanto è la forza che caratterizza linguisticamente la domanda. È la forza della domanda, di quella domanda che, proprio perché si situa nella parola, non cessa mai e alimenta la ricerca, l’istanza di riuscita. Inoltre, più che aprire i varchi, si tratta di accorgersi che ci sono. I varchi ci sono, sono aperti. Occorre accorgersene. Aprire il varco sembrerebbe impresa eroica, ma il varco è aperto. Funzionando la parola, i varchi sono aperti: sono i varchi del senso, del sapere e della verità che sono aperti. Però, bisogna accorgersene.
D.S. Quando si va all’ospedale non si vedono tanti varchi.
R.C. Beh, è auspicabile di sì, sennò ci si resta oppure addirittura…
D.S. Per dire degli apparati che sono ben tappezzati per non fare vedere nessun varco.
R.C. Appunto, non si tratta di vivere conformemente all’apparato, ma di vivere nella parola. Questa è la scommessa. La scommessa è che non c’è alternativa tra natura e cultura, ma la natura è la natura delle cose, cioè la loro struttura e occorre capire come sia la struttura, cosa rilascia, quali contributi dà la struttura, cioè la struttura delle cose, perché le cose non sono ma si strutturano. Ciò avvia un altro scenario, un altro panorama, un’altra vita con un’altra forza, come lei notava.
Stefano Fior Adesso, ha indicato che la forza procede dalla parola e ricordo che in qualche incontro precedente aveva indicato che non è che si debba avere autorità per parlare ma, parlando, nella parola c’è l’autorità. Diciamo che, nella vita che procede, me ne accorgo molto frequentemente e ripetutamente e in diverse sfaccettature. Però, non riesco a intendere questo: c’è il parlare e c’è il blaterare, che è il parlare comune, e c’è questa forza nel fare le cose, nello svolgerle, nel portarle a conclusione, e come si articola la domanda, la pulsione. Logico che c’è una formazione e un’intellettualità che si articola e si sviluppa perché avvenga questo, ma faccio fatica a cogliere la differenza. E permane un enigma riuscire a cogliere come questo avvenga, perché che uno blateri o uno parli, comunque esprime qualcosa. Se io guardo a livello puramente formale, una persona comunque parla, però, logicamente, un discorso è blaterare e un discorso è parlare.
R.C. Appunto, non è questione formale. Eventualmente, è questione di formalizzazione, cioè non il modo con cui si presenta il discorso di qualcuno, ma si tratta di come l’intervento, che avviene per qualcuno parlando, giunge a compiersi in direzione del valore, cioè gli dà un contributo. Blaterando, non c’è nessun contributo, nel senso che il mantenimento della grammatica della lingua, all’interno della convenzione che riguarda il mantenimento del sapere, può giungere a un contributo per la svista, cioè per la svista delle intenzioni, per un incidente che la parola può rilasciare travalicando le intenzioni, in quelle falle che dicevamo prima, quando nel varco si produce qualcosa d’inaspettato. Perciò, anche la formula “blaterare” non è assoluta, e anche blaterando può accadere che si apra il varco, cioè che il varco che era stato chiuso, diciamo così, dalla chiusura ideologica, trovi invece l’occasione di restare aperto.
Ma ciò che lei notava come differenza che riguarda il parlare, è il tenere conto degli elementi costitutivi della parola, il tenere conto di qual è la logica, e che in ciascun atto non si tratta di ciò che dice lei contro quello che dice un altro, ma si tratta di “ciò che si dice” nel suo intervento e di come questo dirsi giunge a qualificarsi, cioè a valorizzarsi. Non per contraddire o contrastare il detto di qualcun altro, ma per giungere al valore contro il suo stesso fantasma, contro la sua stessa convinzione, contro ogni speranza, come diceva lo scrittore cubano Armando Valladares. Perché si tratta di non lasciarsi prendere dalla credenza, dalla “propria idea delle cose”, ma di andare oltre. La propria idea delle cose è sempre una rappresentazione limitante le cose.
Come ce ne accorgiamo? Ce ne accorgiamo analiticamente. Occorre che il modo analitico sia in atto. Non è spontaneo, non va da sé, ma esige la parola. E, contro la parola, c’è ogni forma di astuzia: astuzia della ragione, della consuetudine, dell’abitudine. Tutto ciò che tende a confermare l’abitudine, la consuetudine, l’usanza, la mia idea è sospetto di analisi, cioè esige l’analisi. La soggettività tende a prevalere per questioni di comodità, di abitudine, di usanza, di consuetudine, di facilità. Non va affatto da sé trovare i mezzi e gli strumenti per non cedere alle proprie abitudini, alle proprie consuetudini, usanze, idee di sé, idee sull’Altro, rappresentazioni dei propri limiti, dei limiti altrui, delle ragioni e dei torti.
Pubblico Non entra l’inconscio, dottore?
R.C. Dove?
Pubblico In questi casi, lei dice dell’abitudine.
R.C. Ciò che lei chiama l’inconscio è la lingua della parola, per cui entra! Se non viene chiuso fuori, entra. L’inconscio è l’idioma, è la particolarità di quel che si dice; non è ente, entità, angolo oscuro di qualcosa. L’inconscio è la lingua di quel che si dice. Non è lingua volontaria, ma è secondo la particolarità, quindi secondo la logica particolare della parola. Non è la lingua parlata! È la lingua da capire, da ascoltare, da intendere, da qualificare!
Tutto ciò esige l’analisi e il processo di valorizzazione, di qualificazione. Esige di fare l’esperienza della parola, di capire come funziona, e ciò esige un dispositivo.
Patrizia Ercolani Diceva che, per via di analisi, qualcosa che si crede non c’è più perché non c’è mai stato. Pensavo che non c’è mai stato perché il tempo non è mai stato tolto, non è toglibile, per cui, in questo senso, non si può dare ragione o torto all’Altro.
R.C. Certo, chiaro, infatti. Cioè, è lunga e soprattutto larga e lastricata la strada del pregiudizio! Non è che per magia un pregiudizio scompare. Eh, no! Esige lavoro. È più facile dire che il pregiudizio è mio e me lo tengo perché è la mia verità. È più facile, molto più facile, che non accogliere Altro che incrina il pregiudizio. Ma, l’Altro che incrina il pregiudizio, non è che arriva dallo spazio per magia, è un frutto del dispositivo di parola e di una serie di altre cose che avremo modo di esplorare ulteriormente.