- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
UNA LINGUA NUOVA. LA LINGUA DELLA PAROLA
- La lingua della parola
- Il teorema della redenzione
- La lingua dell’autorità
- La lingua dell’annunciazione
- La lingua della notizia
- La lingua della volontà e il giro della morte
- La lingua civile
- La lingua dell’esperienza della parola
- Il capitalismo nuovo e la sua lingua
- La lingua della cura
- “Sì, però…”, l’ipotiposi. E non c’è più litigio
- Particolarità, proprietà, virtù della parola non sono personali
- Non c’è più da aspettare
- I termini della scommessa
- La lingua della vita
La lingua della parola
Ruggero Chinaglia La negazione della psicanalisi avviene proclamando la sua possibile conversione in psicoterapia, conversione impossibile, inimmaginabile ma, tuttavia, tentata e pubblicizzata. La conversione in psicoterapia è il modo con cui viene negata la parola, mediandola con la negazione della sua lingua.
Per negazione della parola intendo, per esempio, l’esaltazione, l’apoteosi di ciò che possiamo chiamare comportamentologia, cioè tutto ciò che si inscrive nel discorso del comportamento, della personalità, nel discorso delle scienze umane, ciò che viene ascritto al discorso dell’umano, come caratteristica di genere. Che questa negazione proceda dall’università non deve sorprendere, in quanto l’università e il centro di conservazione del sapere e di negazione della novità che procede dalla parola. Né deve sorprendere che dall’università il negazionismo si estenda a vari strati della società, alla scuola, all’ospedale, al tribunale, alle aziende e in numerosissimi altri settori.
Comportamento è il termine più di moda. Anche personalità. Comportamento con la sua grammatica, con la sua prescrittività e con la sua altra faccia, i disturbi! I disturbi del comportamento e della personalità sono ciò che deve incanalare ognuno per mantenerlo nell’appartenenza alla comunità, all’identità di genere. Comportamento, personalità, modalità, atteggiamenti, risposte all’applicazione di stimoli. Stimolo-risposta, stimolo-comportamento, cioè abolizione della parola, abolizione del suo dispositivo, abolizione del cervello come dispositivo della parola per l’instaurazione di meccanismi.
Il termine cervello ormai è, invece, sempre più usato per indicare una presunta sede di “meccanismi” emotivi e comportamentali, con l’abolizione del ragionamento, del calcolo, della ricerca, dell’istanza culturale e artistica cui ogni condotta espone, perché non è reattiva. Pensare che la risposta che ciascuno dà a una questione sia reattiva, istituisce l’umano e la sua presunta scienza, posta un gradino inferiore a quello animale, cui quanto meno è riconosciuto l’istinto, che non è un meccanismo.
L’“evoluzione” e il “progresso” scientifico approdano in quest’epoca alla negazione della parola, alla negazione del ragionamento e all’istituzione del meccanicismo comportamentale. La nozione di comportamento, con la sua ideologia, è la tomba della parola e dell’intelligenza, è la tomba dell’arte e della cultura. Per questa via, con l’istituzione del comportamento universaleggiante e della sua grammatica, avviene la negazione della parola, quanto meno, il tentativo di negarla e abolirla. E con l’abolizione della parola, il tentativo è di abolire anche l’istanza intellettuale, la questione intellettuale come questione della parola, del dispositivo di parola e del dispositivo pulsionale, per ridurre ognuno all’appartenenza all’ordine comune, la cui risposta deve essere conforme alla grammatica stimolo-risposta. Non si tratta più, in questi apparati, di parlare, ma di comportamentarsi, di comportarsi, cioè, secondo la grammatica riconosciuta normale e morale, cioè secondo la normalità.
Il prescrittivismo toglie ogni variazione e ogni differenza inscrivendole nel disturbo; ossia, ogni variazione e ogni differenza deve rientrare fra le penalità e le penitenze che l’apparato ascrive all’anomalia, che deve essere assente, abolita in nome della normatività, della normalità, della grammatica: la parola, con la sua logica, con la sua struttura e con il suo dispositivo deve essere assente.
È con la mitologia del comportamento, con l’esaltazione del comportamento, con l’esaltazione della guida encefalica di ogni essere umano, dell’“encefalo arcaico” cui ognuno deve sottomettersi e sottostare, che la psicoterapia trova la sua esaltazione. In particolare quando il comportamentismo tenta di accampare presunte adiacenze o orientamenti analitici o psicanalitici che nulla, in realtà, possono avere a che fare con l’analisi, con la psicanalisi e con la parola, che non segue metodologie. Infatti, un conto è il metodo della parola, un altro conto è una metodologia applicata alla parola per tentarne l’imbrigliamento, il contenimento, l’ingabbiamento, attingendo all’organicismo e al sostanzialismo.
Nulla di più contrario alla parola, dove non c’è sostanza. Riproporre, come già si era tentato nell’Ottocento e nel primo Novecento, il primato dell’organicismo è il tentativo di ripristinare, di rinverdire il mito della padronanza sulla materia. L’umano non sopporta di non avere il controllo e la padronanza sulla materia delle cose, sulla materia intellettuale e, quindi, lo sforzo maggiore di ogni apparato che si istituisce a tutela dell’umano, è quello di proporre ogni accorgimento come favorevole all’acquisizione della padronanza e del controllo sulla materia della parola.
Quando la psicanalisi è sorta, è cominciata come talking cure. Così la definì Anna O., una delle prime pazienti che si avventurarono con Freud nell’esperienza psicanalitica di allora, cioè “la cura parlando”. L’accezione precisa di “parola”, in Freud, è molto sfumata, in quanto usa altri termini, ma occorre precisare che Freud si trovava in un contesto dove la parola era bandita, e che già solo istituire un’ipotesi differente rispetto alla mitologia organicista dell’epoca era uno squarcio. Che idea avesse della parola è leggibile tra le righe dei suoi scritti. Il fatto che ponesse la questione dell’onirico come preliminare alla sua elaborazione è molto indicativo, perché lascia intendere come la questione fosse non già sulla normalità o sulla normatività, non già su quanto di consueto e comune ci fosse nel parlare, ma su quanto di Altro si produca parlando! Con la sua terminologia e seppure con il parziale adeguamento alla terminologia dell’epoca, Freud pone in primo piano la questione onirica, cioè la questione dell’Altro che procede dalla parola e di quanto di impadroneggiabile si produca dal parlare, fornendo un’altra accezione di cura, la talking cure, la cura cui è impossibile applicare un protocollo.
La questione del protocollo non si poneva nei termini odierni ma, certamente, si poneva la questione del convenzionalismo, dello schematismo, dell’imbrigliamento, della mitologia dell’ospedale psichiatrico, del malato di mente e del sapere che andava mantenuto, circoscritto e applicato. Invece dell’universalismo, Freud offre un’altra proposta, un altro modo: la cura senza protocollo, la talking cure, dove si tratta del parlare, dell’ascolto, del capire ciò che si dice parlando, di ciò che si dice fra le righe, d’intendere ciò che di Altro si dice. Altro rispetto all’intenzione, Altro rispetto al senso comune, Altro rispetto al sapere comune. Altro. Altro che fa sì che proceda e prosegua la ricerca, l’intendimento senza fine, perché l’ombelico dell’onirico non è mai raggiunto. Il punto oscuro che l’onirico presenta non è mai raggiunto e non è mai chiarito definitivamente.
Già allora Freud intende e propone questo: processo infinito, esperienza infinita, procedura infinita, ricerca infinita, vita infinita, esperienza particolare, unica nella differenza assoluta che la contraddistingue in ciascun caso, unica e assoluta nella sua differenza. Ciò non è tollerato oggi come non fu tollerato ai tempi di Freud, che ebbe e subì una reazione notevole da parte dell’apparato del sapere.
La questione della parola non è tollerata nemmeno oggi. Lo possiamo testimoniare noi, ben capendo verso cosa è rivolto l’attacco che è stato sferrato al movimento cifrematico da quando è sorto con la sua esperienza a tutt’oggi. L’attacco verso Armando Verdiglione, verso il movimento, verso i modi, le invenzioni, le esperienze, verso i valori che l’esperienza ha prodotto in vari settori, artistico, culturale, scientifico, editoriale, settori senza protocollo, senza la sottomissione all’apparato del sapere come sapere circolare da trasmettere e applicare senza variazione e senza differenza, è per mantenere l’idea di sistema.
Oggi, ciò che viene chiamata scienza è ben lontano dalla scienza, è la statistica che si avvale dell’esigenza del sistema. È impensabile tutto ciò che oggi viene chiamato scienza, se viene scardinata la nozione di sistema, perché vengono meno i parametri di riferimento, viene meno l’ipotesi della ripetibilità degli eventi, che è ciò che istituisce il discorso come scientifico. L’esperienza di parola, l’esperienza di psicanalisi, non comporta la ripetitività degli avvenimenti, di ciò che accade. L’atto è irripetibile, l’atto è ciascuna volta originario, gli effetti sono imprevedibili. Ciò che si produce è originario. Non si fonda su ciò che è stato prima, ma avviene imprevedibilmente, artisticamente, inventivamente, scientificamente in quanto si produce qualcosa di nuovo. Questa è la scienza: la produzione di qualcosa di nuovo! Senza possibile sottomissione alla statistica, senza possibile sottomissione al catalogo dei saperi, senza prevedibilità, senza conoscenza.
Ciò fa paura, perché rende inapplicabile la conoscenza, lo schema. Esige, pertanto, la formazione assoluta, particolare che riguarda la parola, il suo modo, la sua esperienza, il suo avvenire, il suo divenire. Non si apprende dai libri. Non si apprende. Si fa, si vive. Insegnamento e formazione procedono dalla parola nel dispositivo di ricerca, d’impresa, di attuazione delle istanze della parola. Impossibile altrimenti. L’apparato ha paura della parola, osteggia la parola come ciò che incrina il sistema, che è il terreno su cui l’apparato sorge. Togli il sistema e non c’è più l’apparato, non c’è più il potere dell’apparato, non c’è più la burocrazia. Allora è chiaro che per consentire il mantenimento della nozione di sistema, dell’idea e della parvenza di sistema, occorre abolire la parola, abolire la comunicazione a favore del surrogato chiamato comunicativa, e di cui ogni rappresentante umano deve essere dotato.
La comunicativa è la capacità di comprendere e farsi comprendere, la capacità di “parlare la stessa lingua”. Perché, abolita la parola, sarebbe possibile parlare tutti la stessa lingua come lingua della comunicativa, la lingua degli esseri senza la parola, senza l’equivoco, senza la menzogna, senza il malinteso. La lingua parlata è la lingua già parlata! Parlare la stessa lingua vuole dire parlare la lingua già parlata, già data come lingua, prima ancora di parlare. È la lingua ideale, la lingua che non c’è. In quanto ideale è la lingua morta, lingua che sta solo nel vocabolario: lingua dei vocaboli. Chi parla, parlando, non parla per vocaboli, ma dice cose che ignora di dire. La lingua della parola non è fatta di vocaboli, è lingua che non ha già la sua significazione, le cose che si dicono non sono già significate, dicendosi. È lingua che esige il dispositivo dell’ascolto, della ricerca, esige l’analisi e non il vocabolario come strumento della sintesi, ossia della ricomposizione del sapere comune che deve essere mantenuto inalterato dagli esseri parlanti, cioè dagli esseri senza parola, gli esseri dotati di comunicativa, ma senza parola, gli esseri che, in quanto si attengono alla comunicativa, possono annoverare come relazione unificante la partecipazione emotiva.
Tolta la parola, abbiamo le emozioni, l’emotività, la partecipazione emotiva, la possibilità empatica come colmo dell’unificazione. Senza parola, abbiamo l’unificazione ideale alla sofferenza comune, ideale, umana, senza sfumature, data per assodata per via di comunicativa, perché tutti dobbiamo sentire allo stesso modo e partecipare empaticamente alla stessità del pathos. Tutti dobbiamo partecipare della sofferenza, ognuno deve sottomettersi alla sofferenza. Lo diceva Buddha, lo diceva la teosofia, lo diceva Maometto, lo diceva Allah, ovviamente lo diceva anche san Paolo, tutti dobbiamo sottometterci, restare sottomessi alla sofferenza. E dalla sottomissione, sperare empaticamente nell’avvenire migliore, senza pulsione, senza domanda, senza soddisfazione, senza riuscita, ma oscillando tra la colpa e la pena, perché ognuno ha la sua colpa e deve scontare la sua pena. Questo trasmette la comunicativa, l’ideologia della colpa e della pena come lingua dello stato umano, come lingua dello stato delle cose, lingua ideale, lingua parlata, lingua cui ognuno ha diritto di avere l’accesso diretto. Bene, non c’è accesso diretto alla parola! L’uguaglianza naturale di accesso diretto alla parola non c’è!
L’accesso alla parola non è diretto perché la parola non è sostanziale e non è monolitica. Si fa della sua particolarità, della sua struttura, della sua scienza e, dunque, non c’è come possibile accesso diretto. La parola esige la ricerca, la qualificazione, la tensione verso il valore che nulla ha a che fare con la mitologia dei valori condivisi, che devono significare il genere nella sua appartenenza all’umano o alla comunità. La parola non è comune, non è comunitaria, non accomuna. La questione intellettuale non è la questione accomunante. La lingua della parola non è la lingua comune, non è la lingua parlata. Addirittura non è parlabile. Occorre dire che con la cifrematica la lingua della parola risorge, si libera, in un certo qual modo, dall’imbrigliamento, dall’isolamento cui è costretta dall’ideologia del sistema, che è reazione alla parola. Il sistema è l’invenzione che tenta di imbrigliare la parola. Il sistema non è originario, è invenzione dei filosofi e dei sacerdoti, da quegli egizi a quelli cinesi, a quelli indiani, a quelli islamici.
La parola è originaria, non il sistema. Questa è la questione effettiva. Ogni disciplina sorge come reazione contro la parola. Ogni grammatica insegue il mito della lingua parlabile, unica, comune, canonica, ma è un mito che si sgretola parlando, già parlando, solamente parlando. Parlando, l’idea della lingua comune si dissipa, ma ciò complica le cose a chi deve trasmettere il sapere, a chi deve mantenere il discorso come discorso di riferimento, come discorso della storia, del potere. Discorso che si fonda sulle categorie istituite, per esempio, dai filosofi, che sono stati tra i primi avversari della parola che rendeva ingovernabile la città, la polis, la ragione e che, quindi, occorreva imbrigliare, contenere con la grammatica, cioè con la spiritualizzazione.
La grammatica della parola è spiritualizzante in quanto persegue l’ideale unificante. A fronte di questo tentativo di grammaticalizzare la parola, cioè di darle un canone, constatiamo invece che ciò che si dice entra nella struttura, e ciò che si struttura, si struttura differentemente. Differentemente! Questo lo constatiamo, per esempio, con il senso, il sapere, l’intendimento, la verità. Impossibile sostenere la verità come causa. Parlando, abbiamo effetti di verità, non il mantenimento della verità ipostatizzata, né del senso ipostatizzato, né del sapere ipostatizzato.
Il motto di spirito, l’umorismo sono esempi dell’impossibile imbrigliamento della combinatoria linguistica. Metafora, metonimia e catacresi sono esempi dell’impossibile imbrigliamento della parola, della linguistica differente da quanto proposto da ogni apparato disciplinare. La lingua parlata, la presunta lingua comune si riscontra, in realtà, come lingua del litigio, dove ognuno vuole avere ragione per non avere torto; è la lingua dell’alternativa, della binarietà, del contrasto, è la lingua dove la contraddizione non è ammessa, è la lingua delle coppie oppositive. Ma la contraddizione non è la contrapposizione. La contraddizione come modo del due è costitutiva della parola, modo negato dai principi aristotelici. E la contraddizione è negata anche dalla filosofia indiana, iraniana, islamica, cristiana, dallo yin o yang, dal sopra o sotto, dal sì o no. Tutti esempi di contrapposizioni costanti che hanno orientato nell’unica direzione la così detta civiltà, come civiltà contro la parola, contro la tolleranza. Civiltà dell’alternativa, della guerra, della contrapposizione, civiltà che si avvalgono della lingua della contrapposizione, dell’alternativa, delle coppie oppositive, della lingua dov’è tolto il due, il tre, l’Altro. Tertium non datur. O sì o no. E la gamma delle sfumature, delle ipotesi, delle interpretazioni, la gamma metaforica, metonimica, dove vanno? Vanno nel casellario delle classificazioni, nell’elenco dei disturbi, perché la gamma deve essere contenuta, non può essere assoluta, deve rispettare il canone; e così la parola è già abolita, espunta. La lingua è espunta, espunta la parola libera, leggera, la parola nella sua integrità che agisce con i suoi effetti temporali, effetti linguistici, narrativi.
Con la parola è impossibile mantenere le credenze; credere di appartenere allo stesso ceppo, alla stessa comunità, allo stesso pianeta, alla stessa origine. È impossibile credere di potere convincere o di potere essere convinti. Il convincimento sarebbe l’azione del soggetto sull’Altro, l’esercizio del potere di convinzione, di legame, di legare a sé. Questo è il convincimento: negazione del due, negazione della suggestione, della persuasione e dell’influenza come virtù del funzionamento della parola, virtù di ciò che funziona come nome, significante, Altro. È l’attribuzione del potere di convincimento al soggetto, il mantenimento delle proprie convinzioni per non dare ragione all’Altro.
Ma, l’Altro non è qualcun altro. L’Altro nella parola è la struttura dell’onirico: sogno e dimenticanza. È quanto di inimmaginabile si produce parlando, cioè funzionando la parola. La parola è senza schiavo e il convinto è lo schiavo, colui che è legato. Non c’è convinzione o convincimento, ma, funzionando la parola, interviene persuasione, suggestione, influenza che sono virtù della parola, non assecondamento alla volontà altrui. Fino a che vige la lingua dei soggetti, la lingua parlata, la lingua degli enti, la lingua della sostanza, vige l’idea del potere invisibile, il potere che qualcuno può esercitare su qualcun altro. Questa credenza si mantiene perché nella lingua dei parlanti l’analisi è negata e, al più, è possibile convincersi o rimanere convinti. Ma ciò è senza analisi, perché è imposto il canone della sintesi.
L’analisi è specifica della parola, è la teorematica della parola. Se una credenza giunge a dissiparsi è per via di analisi, non per via di cambiamento. Qualcosa che si credeva, non c’è più. Perché non c’è più? Perché non c’è mai stata, ce n’era la credenza. Ma, senza l’analisi è impossibile che intervenga questo “non c’è più”, il teorema. Senza l’analisi resta la credenza, perché resta l’alternativa esclusiva: o sì o no. Non c’è la gamma, non c’è l’Altro, non c’è la logica singolare triale. C’è l’idea del nulla e la sua alternativa, l’accettazione del canone.
La questione è, dunque, qual è, com’è la lingua della parola, come far sì di non respingerla, come capire di cosa si tratti, come farne l’esperienza, come non reagire alla parola e alla sua lingua. Questa è la scommessa intellettuale, la questione della nominazione e pure la scommessa della cifrematica: come non lasciare che la parola sia negata.
Se c’è qualche domanda, possiamo proseguire il dibattito.
Marcello Toncelli Vi può essere teorematica da sé, senza che vi sia il dispositivo psicanalitico, quindi, avvalendosi del ragionamento, dell’intelligenza, ma da sé?
R.C. Anche il dispositivo di parola è da sé.
M.T. Sì, ma non è da solo.
R.C. Ecco. L’idea di fare da solo è un’idea curiosa. Anche l’onanista vuole fare da solo.
M.T. Chi?
R.C. Chi è l’onanista? Chi fa da solo. Perché negare il dispositivo, la collaborazione, la molteplicità?
M.T. Perché, magari, non vi è la possibilità di instaurare un dispositivo.
R.C. La possibilità è ideale, è sempre ideale.
M.T. Ideale?
R.C. È ideale, spirituale, spiritualistica. La questione è della testimonianza, della prova, non della possibilità. La questione è di ciò che entra nell’atto e procede, prosegue e si valorizza. Questo importa. Non ciò che è, ma ciò che giunge al valore. Questa è la scommessa: che ciascuna cosa giunga al valore.
M.T. Volevo fare un’altra domanda. Prima ha parlato di risorgimento della parola.
R.C. No, mi oppongo.
M.T. Rinascimento. “Con la cifrematica la lingua della parola risorge”, ho scritto male io?
R.C. Risorge. La resurrezione non è il risorgimento.
M.T. No?
R.C. No!
M.T. Risorgere è rinascimento?
R.C. Piuttosto.
M.T. Rinasce e quindi nasce per la seconda volta, per una nuova volta.
R.C. Risorge, cioè non muore mai.
M.T. Non muore mai?
R.C. “Non muore mai” è senza l’idea di fine.
M.T. Però, se qualcosa risorge, prima muore.
R.C. Questa è la credenza. Che per risorgere sia necessario morire è un’idealità, cioè, nella parola nulla muore, ma il senso e il sapere risorgono, non sono mai gli stessi. Il processo non è mai finito.
M.T. Quindi, c’è un rinnovamento continuo.
R.C. No, non c’è nessun rinnovamento, perché il rinnovamento procede dalla morte del significante, che muore e poi si rinnova. Questa è la mitologia della fine.
M.T. Diciamo che ce n’è sempre uno nuovo, che ogni significante è nuovo.
R.C. Sì, e perché questo accada non è necessario che muoia. Qui sta la questione importante, altrimenti, sulla funzione di morte come necessaria, abbiamo la civiltà vigente. Ogni filosofia, ogni religione, ogni impostazione prescrive la morte per rinascere nell’aldilà.
Nella parola la necessità, la funzionalità di morte non c’è. E non è questione da poco. Perché da ciò discende che non c’è necessità della pena e della colpa, non c’è la necessità della purificazione, non c’è l’alternativa fra il puro e l’impuro. Insomma, tutta una certa mitologia dell’alternanza si dissipa.
M.T. Prima ha parlato anche della polis greca, nella quale vi erano dei filosofi che per promuovere questo controllo hanno inventato alcuni principi. Ci sono testimonianze precedenti a quest’istituzione di controllo, relativamente all’incontrollabilità effettiva della parola?
R.C. Beh, le testimonianze che giungono sono sempre dalla parte governativa, o come religioni o come filosofie, e sempre prescrivono il bene da una parte e il male dall’altra, la colpa e la punizione, l’espiazione e il miraggio della divinizzazione. È la costante dall’Egitto all’India, all’Iran alla Cina. Queste sono civiltà antiche e questo propongono.
M.T. Ha detto divinizzazione e…?
R.C. Espiazione, purificazione, ascesi. A partire dall’impurità dell’origine che deve essere scontata come pena.
M.T. Comunque, prima di Socrate c’erano i…
Daniela Sturaro I presocratici.
M.T. Qual era la filosofia prima di Socrate, che lui aveva combattuto? Mi sfugge il nome.
R.C. I presocratici, d’accordo. Ma, quelli prima, come si chiamavano?
M.T. Eh, non mi ricordo.
R.C. Gli aedi.
M.T. No.
Pubblico Perché, cosa dicevano?
M.T. Sostenevano la non identità, variazione e differenza.
R.C. Sì, varie cose, certo.
M.T. Magari può essere una testimonianza.
R.C. Nessuno si ricorda chi fossero costoro?
Pubblico Cercavano un principio.
R.C. Prima, prima.
Pubblico Prima ancora gli aedi.
R.C. Però, lei non si ricorda?
Pubblico No. C’era identità tra poesia e religione e espressione.
R.C. Il poeta era tale, in quanto invasato, ispirato dal dio.
Pubblico Era espressione dell’umano.
R.C. Ma ispirato.
Pubblico Però l’ispirazione è già una visione successiva.
R.C. Sì, esatto; infatti lì era proprio invasato.
Pubblico Posso chiedere qualcosa? Ci sono così tanti elementi che potrei andare avanti parecchio, ma non so se… Mi ha fatto piacere ascoltare tutto e ascolterei anche di più. Ipotizzi che io sia perfettamente in sintonia.
R.C. Questo non è ipotizzabile.
Pubblico Però, un appunto storico sul Buddha, che è più per il superamento del dolore che non per la dichiarazione della sottomissione al dolore, ma ciò non ha importanza.
R.C. Sì, ma è sempre un processo di purificazione, di ascesi, eccetera.
Pubblico Il buddismo, non tanto perché è un estremo di un certo pensiero… Ma, quando lei ha iniziato a parlare di iraniani, indiani, subito mi si è acceso un riflettore sul pensiero indoeuropeo, chiamiamolo così, che è un modo di vedere e di parlare, per cui sembra che si sia formato un intero metodo mentale, che è quello che adesso chiamiamo occidentale. Anche se io preferisco dire nordoccidentale. Metodo che adesso, tra l’altro, sta entrando in discussione, perché con la globalizzazione ci sono più mondi, fra quelli che lavoravano di immagini in Oriente, e con quello creavano un linguaggio a partire dalle immagini. E, appunto, questa micidiale forza che si è creata con il discorso e con il problema del potere (e sono il primo a cui piacerebbe tanto se si approfondisse di più la questione del potere), e con il metodo mentale indoeuropeo, cioè quelli che facevano la caccia, che si davano delle indicazioni che funzionavano meglio; è stata una cosa molto più maschile, un pensiero che ha portato più maschilismo rispetto alla visione orientale. Io, sia detto, non sono nessuno. Sono un operaio, ma di cosa sto parlando? Ho seguito tutto quello che ha detto e adesso mi mancano degli elementi che forse non avrei una gran voglia di seguire. Però, glieli chiedo brutalmente. Mi dia qualche luogo di elaborazione cifrematica, che non sia la frequentazione di qualche cappella privata.
È molto interessante questa proposta del discorso della parola, che ho visto molto connessa con la visitazione della visione della vita e, quindi, come espressione della vita. E mi verrebbe voglia di chiedere quale relazione ci sia da una parte con il significato, ma, forse, qui si apre troppo, e dall’altra con la socialità. E qui non si scherza, perché non si è fatti per essere soli, cioè si crepa prima. Non so, è una cosa complessa. Comunque, la socialità fa parte, pare, dell’essere e di come siamo fatti. Può bastare, mi fa piacere ascoltarla.
R.C. Per attingere informazioni in merito a quelle che sono le testimonianze della cifrematica, abbiamo qui alcune dispense di vari corsi, tenuti negli anni precedenti, oppure ci sono i libri di Armando Verdiglione, ci sono riviste, pubblicazioni, sorte durante quarant’anni di esperienza, e queste sono disponibili e leggibili.
Pubblico Diciamo i capisaldi dell’elaborazione cifrematica, quelli che si possono anche comunicare, oltre cui avviare.
R.C. Capisaldi è difficile ipotizzarne, ma ci sono i libri. Lei vuole alcuni titoli di libri?
Pubblico No, vorrei proprio il gesto linguistico o comunicativo che si possa definire cifrematico. Io sono qui perché in questi giorni c’è un festival della poesia in città e, quindi, in qualche modo vengo proiettato in una situazione linguistica. Anche questa sera sembra che l’abbiano fatta insieme al festival.
R.C. Questa conferenza è testimonianza cifrematica. Se vuole, come gesto linguistico, questa conferenza è un gesto linguistico della cifrematica. Per affrontare più in dettaglio alcune questioni, non resta che proseguire, per esempio, la frequentazione a altre conferenze oppure leggere alcuni dei testi che sono pubblicati. Questo per cominciare. Leggere qualche cosa non è da parte sua ipotizzabile?
Pubblico La lettura è strettamente connessa con il tempo e con il tempo di vita e, invece, il presente spera darsi anche comunicativo abbastanza immediato e vivibile; per cui sicuramente, appena ho cinque minuti, cerco di affrontare la biblioteca che mi sono costruito e che non riuscirò mai a terminare di leggere. Sicuramente qualcosa entrerà anche di questo, anche se uno spera sempre nelle scorciatoie. Penso che la scorciatoia è un termine che potrebbe buttare dentro nella sua predicazione sulla parola liberata, o comunque svincolata. Mi verrebbe da chiedere se ritiene la natura, sì o no, molto in catene, non appena si sia prodotta come vita. È una riflessione recente che mi facevo sul fatto che la vita in sé è una produzione strutturata, presuntuosa, ma immediatamente strutturata in ogni sua esperienza pratica.
R.C. Adesso, qui ci sarebbe da parlare per ore, ma giusto per darle una prima eco, ritengo che non ci siano scorciatoie.
Pubblico Comunque, già eco mi piace come parola.
R.C. E ritengo che la natura sia senza catene, in quanto non è strutturata. Si struttura, ma non è strutturata mai.
Pubblico O.k., è il discorso di prima, della risorgività, che per me è un’evidenza. Non si pone il problema della rinascita, nel senso che non devi spiegare alla sorgente dell’acqua di montagna se sta sorgendo o rinascendo e che forma assuma, però, è anche vero che a ritroso…
R.C. Questo è solo per dare un’evocazione, però, adesso, vediamo se ci sono anche altri che hanno domande. Ci sono altre domande? Notazioni, evocazioni, sensazioni, ragionamenti, tracce di vita?
D.S. E allora facciamola valere questa parola! Dopo avere ascoltato quanto abbiamo sentito questa sera.
R.C. Nel suo ecumenismo lei chi rappresenta?
D.S. Nessuno, non rappresento nessuno.
R.C. Era un pluralis maiestatis. Pensavo fosse portavoce.
D.S. Non voglio rappresentare nessuno di preciso. Occorre fare valere la forza che abbiamo, che passa attraverso di noi, per fare valere la parola, perché anche nella mia piccola esperienza ho potuto constatare che la mia vita si è complicata estremamente. E credo che, senza gli strumenti che sono riuscita a acquisire con la formazione in questi anni, mai avrei potuto affrontare prove così difficili. Allora penso sia giunto il momento di scrollare via tutto questo peso della cultura occidentale, orientale, mediorientale e aprire il varco attraverso cui la parola giunga a noi, ma giunga, anche, a chi crede di essere già in un posto sicuro perché sta nella scienza, e crede che con la scienza riuscirà a diventare immortale.
R.C. Certo, sono d’accordo con lei a parte due dettagli. È la parola che dà la forza, e non la forza che deve fare valere la parola, perché la forza procede dalla parola. È perché la parola è in atto che la forza è in atto, in quanto è la forza che caratterizza linguisticamente la domanda. È la forza della domanda, di quella domanda che, proprio perché si situa nella parola, non cessa mai e alimenta la ricerca, l’istanza di riuscita. Inoltre, più che aprire i varchi, si tratta di accorgersi che ci sono. I varchi ci sono, sono aperti. Occorre accorgersene. Aprire il varco sembrerebbe impresa eroica, ma il varco è aperto. Funzionando la parola, i varchi sono aperti: sono i varchi del senso, del sapere e della verità che sono aperti. Però, bisogna accorgersene.
D.S. Quando si va all’ospedale non si vedono tanti varchi.
R.C. Beh, è auspicabile di sì, sennò ci si resta oppure addirittura…
D.S. Per dire degli apparati che sono ben tappezzati per non fare vedere nessun varco.
R.C. Appunto, non si tratta di vivere conformemente all’apparato, ma di vivere nella parola. Questa è la scommessa. La scommessa è che non c’è alternativa tra natura e cultura, ma la natura è la natura delle cose, cioè la loro struttura e occorre capire come sia la struttura, cosa rilascia, quali contributi dà la struttura, cioè la struttura delle cose, perché le cose non sono ma si strutturano. Ciò avvia un altro scenario, un altro panorama, un’altra vita con un’altra forza, come lei notava.
Stefano Fior Adesso, ha indicato che la forza procede dalla parola e ricordo che in qualche incontro precedente aveva indicato che non è che si debba avere autorità per parlare ma, parlando, nella parola c’è l’autorità. Diciamo che, nella vita che procede, me ne accorgo molto frequentemente e ripetutamente e in diverse sfaccettature. Però, non riesco a intendere questo: c’è il parlare e c’è il blaterare, che è il parlare comune, e c’è questa forza nel fare le cose, nello svolgerle, nel portarle a conclusione, e come si articola la domanda, la pulsione. Logico che c’è una formazione e un’intellettualità che si articola e si sviluppa perché avvenga questo, ma faccio fatica a cogliere la differenza. E permane un enigma riuscire a cogliere come questo avvenga, perché che uno blateri o uno parli, comunque esprime qualcosa. Se io guardo a livello puramente formale, una persona comunque parla, però, logicamente, un discorso è blaterare e un discorso è parlare.
R.C. Appunto, non è questione formale. Eventualmente, è questione di formalizzazione, cioè non il modo con cui si presenta il discorso di qualcuno, ma si tratta di come l’intervento, che avviene per qualcuno parlando, giunge a compiersi in direzione del valore, cioè gli dà un contributo. Blaterando, non c’è nessun contributo, nel senso che il mantenimento della grammatica della lingua, all’interno della convenzione che riguarda il mantenimento del sapere, può giungere a un contributo per la svista, cioè per la svista delle intenzioni, per un incidente che la parola può rilasciare travalicando le intenzioni, in quelle falle che dicevamo prima, quando nel varco si produce qualcosa d’inaspettato. Perciò, anche la formula “blaterare” non è assoluta, e anche blaterando può accadere che si apra il varco, cioè che il varco che era stato chiuso, diciamo così, dalla chiusura ideologica, trovi invece l’occasione di restare aperto.
Ma ciò che lei notava come differenza che riguarda il parlare, è il tenere conto degli elementi costitutivi della parola, il tenere conto di qual è la logica, e che in ciascun atto non si tratta di ciò che dice lei contro quello che dice un altro, ma si tratta di “ciò che si dice” nel suo intervento e di come questo dirsi giunge a qualificarsi, cioè a valorizzarsi. Non per contraddire o contrastare il detto di qualcun altro, ma per giungere al valore contro il suo stesso fantasma, contro la sua stessa convinzione, contro ogni speranza, come diceva lo scrittore cubano Armando Valladares. Perché si tratta di non lasciarsi prendere dalla credenza, dalla “propria idea delle cose”, ma di andare oltre. La propria idea delle cose è sempre una rappresentazione limitante le cose.
Come ce ne accorgiamo? Ce ne accorgiamo analiticamente. Occorre che il modo analitico sia in atto. Non è spontaneo, non va da sé, ma esige la parola. E, contro la parola, c’è ogni forma di astuzia: astuzia della ragione, della consuetudine, dell’abitudine. Tutto ciò che tende a confermare l’abitudine, la consuetudine, l’usanza, la mia idea è sospetto di analisi, cioè esige l’analisi. La soggettività tende a prevalere per questioni di comodità, di abitudine, di usanza, di consuetudine, di facilità. Non va affatto da sé trovare i mezzi e gli strumenti per non cedere alle proprie abitudini, alle proprie consuetudini, usanze, idee di sé, idee sull’Altro, rappresentazioni dei propri limiti, dei limiti altrui, delle ragioni e dei torti.
Pubblico Non entra l’inconscio, dottore?
R.C. Dove?
Pubblico In questi casi, lei dice dell’abitudine.
R.C. Ciò che lei chiama l’inconscio è la lingua della parola, per cui entra! Se non viene chiuso fuori, entra. L’inconscio è l’idioma, è la particolarità di quel che si dice; non è ente, entità, angolo oscuro di qualcosa. L’inconscio è la lingua di quel che si dice. Non è lingua volontaria, ma è secondo la particolarità, quindi secondo la logica particolare della parola. Non è la lingua parlata! È la lingua da capire, da ascoltare, da intendere, da qualificare!
Tutto ciò esige l’analisi e il processo di valorizzazione, di qualificazione. Esige di fare l’esperienza della parola, di capire come funziona, e ciò esige un dispositivo.
Patrizia Ercolani Diceva che, per via di analisi, qualcosa che si crede non c’è più perché non c’è mai stato. Pensavo che non c’è mai stato perché il tempo non è mai stato tolto, non è toglibile, per cui, in questo senso, non si può dare ragione o torto all’Altro.
R.C. Certo, chiaro, infatti. Cioè, è lunga e soprattutto larga e lastricata la strada del pregiudizio! Non è che per magia un pregiudizio scompare. Eh, no! Esige lavoro. È più facile dire che il pregiudizio è mio e me lo tengo perché è la mia verità. È più facile, molto più facile, che non accogliere Altro che incrina il pregiudizio. Ma, l’Altro che incrina il pregiudizio, non è che arriva dallo spazio per magia, è un frutto del dispositivo di parola e di una serie di altre cose che avremo modo di esplorare ulteriormente.
Il teorema della redenzione
Ci sono alcune testimonianze a proposito del cartello di lettura e scrittura in corso. Comincia Fabrizio Moda.
Fabrizio Moda L’urgenza. L’urgenza si instaura con la domanda, esige la domanda, che è un effetto del funzionamento della parola. Domanda di valorizzazione e specificazione del proprio progetto e programma di vita. Da cui l’urgenza di attuazione, urgenza infinita, incolmabile. Come cincischiare se la vita è originaria, cioè senza inizio e senza predestinazione?
Taluni ritengono che l’urgenza sia un attributo personale, una facoltà del soggetto posseduta per caso di nascita o per una congiunzione astrale favorevole. Il dispositivo di parola, o è escluso a priori, o lo si subordina alla genetica. C’è poi chi percepisce il fare come indaffaramento, cioè nella padronanza del fare, fare ciclico, sistemico, padroneggiato, finalizzato, e c’è pure chi ci mette un vieppiù, dove l’ideologia della calma è rappresentata anche nella immobilità fisica, per cui, tra il divano e il letto, tra la TV e lo psicofarmaco, ritiene di potere trarre profitto anche dal risparmio muscolare.
Ma è il sembiante la causa, non la presunta volontà del soggetto. E vale nell’atto, nell’atto di parola, nel dispositivo opportuno. Senza, c’è solo il soggetto, e il soggetto rimanda perché non trova interesse, non trova urgenza, necessità, occorrenza. Non solo non cerca occasioni, non si industria, ma non coglie neppure quelle opportunità che il caso indicherebbe platealmente. Il soggetto subordina il fare al potere fare, al dovere fare, al sapere fare, istituisce l’ordinalità al posto dell’adiacenza, il conoscere al capire e all’invenzione. E in assenza di urgenza, l’indolenza; e ci si trascina nella vita: non c’è niente da fare, è già tutto scritto.
L’indolenza cosa indica? Nessun dolore. In effetti, di cosa si duole il soggetto? Cosa istituisce il fare, o cosa lo frena? La parola è originaria e nel dispositivo di parola l’urgenza è assoluta, irrefrenabile. Ma il discorso occidentale si oppone all’impadroneggiabilità della parola e del tempo, all’inconoscenza della parola e del tempo, e struttura i suoi codici per fare l’economia di quei mali che l’ingestibilità produce. Il discorso occidentale baratta l’arte, la scienza, la poesia, l’invenzione per la statistica dei mali e la statistica sui morti. La conoscenza dell’origine è la conoscenza stessa della morte, mentre la conoscenza genealogica toglie l’infinito della vita a favore dell’ideologia della predeterminazione, religione sempre in voga, che espunge la parola, impedisce la domanda e l’urgenza del fare, disciplinando il tutto, il supposto tutto, nella relazione stimolo-risposta, nel soggetto perfetto, attante sociale ideale, che è, per così dire, il capolavoro offerto al mondo dalla sociologia, dalla psicologia, dalla psichiatria e dalle varie logie, come non plus ultra della padronanza sulla vita e sul mondo: padronanza e conoscenza della morte. Quale urgenza se la morte è certa e incombe?
L’analisi, la teorematica, indica il modo della dissipazione delle fantasmatiche genealogiche, di origine e di padronanza che, con i loro apparati e ideologie, contengono il tempo e la parola, e quindi impediscono i loro effetti.
Il cartello di lettura e scrittura è un dispositivo di parola, dispositivo di formazione intellettuale, dispositivo che accoglie la logica singolare duale e le quattro logiche singolari triali della parola. Quindi, dispositivo che si dispone all’apertura e che accoglie l’infinito della parola, dispositivo pragmatico che necessita di strutturazione e di valorizzazione di ciascun atto.
R.C. Ecco, ma quindi, questo cartello è tra i dispositivi che occorre strutturare o tra quelli che hanno già una struttura e di cui non si è tenuto conto?
F.M. Non se n’è tenuto conto.
R.C. In nome di quale curioso accidente una proposta che ha avuto il suo accoglimento, e quindi l’enunciazione, l’annunciazione di attuazione, è poi negata? Ignorando anche come avviene questa negazione? Come se fosse la cosa più frequente che possa capitare quella di assumere e accogliere una proposta, un impegno, e poi non tenerne conto.
F.M. Sì, la cosa non mi è chiarissima, in effetti. Nel senso che, per quel che mi riguarda, c’è stato un cedimento alla difficoltà organizzativa. E di trovare di volta in volta un escamotage per non spingere a organizzare l’appuntamento, lì c’è stato un cedimento.
R.C. Ci voleva un escamotage?
F.M. Ci voleva uno sforzo organizzativo in più che non c’è stato.
R.C. Sì, appunto! Perché nulla avviene per inerzia.
F.M. No, assolutamente niente.
R.C. Lei si aspettava invece?
F.M. Mi aspettavo una maggiore facilità, quello sì. Ma non c’è stata, e quindi mi sono fatto vittima, in qualche modo.
R.C. E i motivi per cui è stato travolto da questa difficoltà, sono ancora ignoti? A parte l’indicazione che si tratta di soggettività che permane, lei dice. Permane con il rimando, con la giustificazione.
F.M. Un motivo, che mi è sembrato abbia dato un “contributo” a questa difficoltà organizzativa, è stato il fatto di non avere “accettato” il ruolo di organizzatore, cioè ho lasciato che ognuno dei componenti si “arrangiasse” o desse un contributo così, democraticamente.
R.C. Chi gli aveva attribuito questo ruolo?
F.M. Nessuno.
R.C. Ah ecco. Se l’è attribuito da solo. Si è investito e disinvestito.
F.M. Esatto.
R.C. Perché, nessuno gli aveva affidato questo ruolo.
F.M. No.
R.C. Né come incarico, né come mansione, né come compito, né come ruolo. Quindi, se l’è attribuito e poi respinto.
F.M. Certo. Ho ritenuto che soltanto con una certa insistenza si sarebbe potuto fare qualcosa, però, per qualche motivo, questa insistenza non l’ho attuata.
R.C. Cioè, lei voleva vedere se altri insistevano perché lei facesse qualche passo. Voleva essere invitato.
F.M. Forse. Questo non lo so. Forse questo no, però…
R.C. C’è ancora molto da capire in merito.
F.M. Sì.
R.C. Quindi, questo lo aveva indispettito: non avere ricevuto questo incarico!
F.M. No!
R.C. Sicuro?
F.M. No, neanche questo.
R.C. Ecco, è stato celere nella risposta, da destare molto sospetto. Però, una riunione c’è stata.
F.M. Tre.
R.C. Tre. Ah ecco. Che cosa è avvenuto in queste tre riunioni per poi dissuaderla dal procedere ulteriormente?
F.M. No, anzi, sono state tre riunioni di cui, in qualche modo, ho potuto apprezzare il dispositivo, nel senso che quando è iniziato non ne ero entusiasta. Facevo fatica anche a capire dove fosse il dispositivo.
R.C. Beh, prima di incominciare, certo. Come diceva una canzone, “prima di cominciare non c’era nulla”… Solo cominciando…
F.M. E invece ho trovato gli aspetti positivi.
R.C. Ah ecco, che l’hanno completamente dissuaso dal proseguire, cioè era troppo facile, troppo bello.
F.M. Non so. Non l’intendo così.
R.C. Però, dopo tre appuntamenti da cui emergeva che c’era dispositivo, a quel punto ha detto: “Beh, adesso basta. Vediamo come se la cavano”. È materia da esplorare. Va bene, grazie. E poi c’è Daniela Sturaro in questo cartello. Prego.
Daniela Sturaro Ho fatto un’introduzione che non c’entra niente. Proprio niente. “Maestra, io ho paura che scoppi la guerra tra la Cina e l’Italia, perché non so da che parte stare”. Il gioco delle parti. Sembra che nella vita degli umani occorra decidere da che parte stare. Risolversi per l’una o per l’altra delle parti. Se sei un attore, ma non solo, hai il tuo ruolo da interpretare e devi vestirti della parte di quel personaggio. Quasi sempre degli amleti, deculturati o analfabeti funzionali, di quelli che imperversano nei vari social network, reggendo i fili di discussioni interminabili dove si intrufolano i cosiddetti troy, o disturbatori delle chat, per le loro intrusioni sgrammaticate, irritanti, impertinenti che interrompono il flusso civile delle discussioni on-line. I guastafeste, quelli che mai sono invitati e sempre sono anonimi. È quel che si può dire un “dialogo tra sordi”, che già per dirsi dialogo include la prevedibilità di domande e risposte e che richiede la sordità, come condizione, di chi pensa solo quello che deve dire egli stesso. Anche così, si apprestano le fazioni opposte e ricorrenti. Poco importa se via Internet o nell’oralità quotidiana. Tuttavia, occorre dire che il più alto numero di derivati e composti di pars, come parte o porzione, sfocia la sua coda di pavone nel XX secolo. È l’epoca dei partigiani e, passando di là, si giunge rapidamente ai partiti e per contrappunto ai camaleontici opportunisti, ai qualunquisti che a loro, comunque sia, va bene. La lotta politica raggiunge il suo apice a varie riprese con cadenza decennale e poi plana nel compromesso. Ecco, allora, che fa la comparsa il partito armato che scompiglia gli schieramenti, mettendo tutti contro il nemico che spara.
In questo scenario i politologi e i pennivendoli di regime, fanno la loro analisi che si conclude con nessuna concessione, mentre il boia, chiamato “tribunale del popolo”, entra in azione e miete la sua vittima sacrificale che, secondo la tesi di René Gilard, serve a ricomporre le fratture del sistema sociale.
Passato il tormentone, per non dismettere la buona abitudine a manifestare la volontà del popolo, tutti contro la mafia. Cos’è? Quel che regge i fili in modo oscuro e anonimo con mandanti e mandati, pentiti e dissociati e quelli che non vengono mai meno, cioè gli irriducibili, sia nella mafia che nel partito armato, sia nei servizi segreti che sembrano convergere in questa congiuntura chiamata “strategia del terrore”. L’ultimo singulto di scontro armato viene messo in scena al G8 di Genova. Quelle che seguono sono pallide repliche di un copione ormai poco avvincente. Tutto ciò è cronaca fuori dalla parola.
La parola vive fuori dalle compartimentazioni partitiche, e anche dal processo alle intenzioni chiamato “Mani pulite”, commissionata da Magistratura Democratica con i suoi condannati a morte senza appello. In questo panorama storico sciagurato, c’è chi indica un’altra via in magnificenti convegni nelle città più importanti del pianeta, con autori del calibro di Borges, intellettuali, artisti e scienziati per gettare una luce nella barbarie e dare avvio al secondo rinascimento nella parola.
Già. Perché la scuola di pensiero su cui poggia per intero la civiltà occidentale procede dall’espulsione più o meno consapevole, ma sempre deliberata, della parola. Ma, come? Noi che andavamo così fieri della nostra cultura, senza natura, occidentale, con le sue produzioni mitologiche, filosofiche, letterarie, con i suoi traguardi scientifici che la ponevano al di sopra di ogni altra.
In realtà, senza la parola, ci troviamo in percorsi obbligati che portano dritti alla morte. Chi invece rifiuta la civiltà occidentale, riconoscendo l’elemento militarista e mortifero e abbraccia per converso quella orientale, per un pregiudizio di pacifismo e pretesa armonia, non ha che da leggere uno degli ultimi libri di Armando Verdiglione Urkommunismus. La paura della parola, dove attraverso l’analisi degli scritti fondatori delle principali correnti del pensiero orientale, risulta che il tanto acclamato e tranquillizzante yoga è strettamente connesso con le arti marziali che sfruttano la forza del nemico per sconfiggerlo. E perfino il nirvana, inteso come pace dei sensi, è assenza di desiderio e implica l’uccisione della pulsione. Dice il Buddha: “L’uomo raggiunge la pace solo quando cessa di desiderare. Perché la tua anima sia quieta, non ambire alcuna cosa”. E, allora, sono da rifuggire sia la tradizione culturale occidentale, quella che viene insegnata a scuola, sia la tradizione culturale orientale, nella quale molti credono di trovare rifugio. In verità, sono entrambe trappole di morte.
E qual è allora il traguardo cui ambire? Certamente la parola, che non è da conoscere né padroneggiabile. Non si diventa specialisti della parola come avviene nelle scienze dure o molli che siano, così come vengono ripartite e definite dalla glotto-linguistica. E tutto ciò è rintracciabile nelle conferenze sino a qui ascoltate, senza passare attraverso la lettura del testo di Verdiglione che io non ho ancora affrontato. Per far sì che ciò avvenga, cioè che vi sia lettura, è in via di approntamento un cartello di lettura che si struttura con la formula del tre più uno, dove l’uno è variabile e il tre non è lo stesso, ciascuna volta che avviene l’incontro.
Patrizia Ercolani e Giampietro Vezza preferiscono non leggere i loro testi. La loro testimonianza orale è nel video pubblicato su YouTube.
R.C. Questo cartello è anche l’occasione per analizzare speranze, illusioni che ci sia l’automaticismo delle cose e viga un modello ideale dell’accadere, differentemente dal quale si tratterebbe di negatività. Occorre individuare, anche in ciò che accade contro ogni aspettativa, quale sia la politica in atto, e trarre le indicazioni, analizzare i riscontri che si fanno, che se ne hanno, le facili conclusioni. L’analitico non è facile e neanche armonico. Non è il modo con cui si spera che le cose accadano! Le cose accadono in modo difforme e contrastante dalle attese e dalle speranze. E, quindi, a maggior ragione, si tratta di fare l’analisi e dissipare, dissolvere mitologie, ideologie, idealità, negatività, attribuzioni, soggettività che possono rappresentarsi nella memoria. Ma, non per questo, si può togliere la parola. Niente e nessuno può togliere la parola se l’analisi avviene, se la clinica avviene.
È chiaro che analisi e clinica non sono doni elargiti, ma sono frutti che si conquistano per lo sforzo della domanda, non per inerzia o per automaticismo. Ciò è da tenere nel conto, altrimenti ognuno si condanna alla pena detentiva, alla redenzione e alla conseguente pena detentiva, cioè alla pena infinita. Fine pena, mai! Questa è la pena detentiva: la pena che ha come miraggio, come suo termine, come sua finalità la redenzione. Potete trovare alcuni contributi di un certo interesse, a questo proposito, nel film che attualmente è nelle sale, che magari qualcuno di voi ha già avuto modo di leggere, che si intitola Il professore e il pazzo. Film assolutamente recente, di quest’anno, che è l’adattamento cinematografico del romanzo L’assassino più colto del mondo. Narra la vicenda di come è sorta l’attuazione dell’Oxford English Dictionary, il dizionario della lingua inglese. È un documento interessante per l’aspetto storico e, ancor di più, per gli aspetti clinici che la storia propone e che sono da indagare, perché la vicenda del dizionario è il pretesto per presentare un’altra vicenda. E soprattutto è l’opportunità di interrogarsi su quale sia, oggi, l’incidenza sociale della redenzione, dell’idea e della mitologia della redenzione. Redenzione, ossia, che cosa? La liberazione, il riscatto, la salvezza, il rimedio, lo scampo. Redentore è il liberatore.
Qual è l’incidenza sociale, oggi, dell’idea di essere liberati? Liberati dalla droga, dal male, dalla morte, dalle malattie. Liberati! Liberati dalla colpa e dalla pena. La mitologia della liberazione come incide, non solamente nel contesto religioso, ma sociale, morale, civile? Cosa che non viene assolutamente considerata, prendendo come accettabile e ineluttabile l’alternanza della colpa e della pena e l’incidenza del tribunale morale e sociale nella vita dei cittadini, i quali attendono, auspicano, chiedono, pretendono la liberazione, la redenzione, l’intervento del redentore.
Chi è il redentore? Come interviene il redentore? Da cosa redime? Qual è l’esigenza della redenzione? Qual è l’ipostasi da cui parte la necessità della redenzione? In che modo l’ideologia e la mitologia della vendetta attingono alla questione della redenzione? Sembra una bella cosa! La redenzione, però, tra le sue righe e le sue pieghe, che cosa implica e che cosa propone? La necessità del sacrificio e dell’espiazione! La necessità della colpa e della pena! La sottomissione alla colpa e alla pena! Perché, a un certo punto, sarebbe stato necessario l’intervento del redentore? Cristo è il redentore nella religione cristiana. Perché a un certo punto deve intervenire il redentore? Per togliere cosa? Per favorire cosa? Per avviare cosa? È sempre elogiata l’attività del redentore: è arrivato e ha redento. Ma, a che pro? Con quale scopo? Per togliere l’ira di Dio. Ma, perché Dio era irato? E con chi? Dopo la redenzione, Dio invece era placato, era contento. Ma, la colpa era stata tolta? È stata tolta con il redentore? O è rimasta come toglibile mentre prima era uno stigma intoglibile? Quindi, la colpa è rimasta, la pena è rimasta, l’ideologia è rimasta, ma con la necessità del sacrificio! Qual è l’incidenza nella morale sociale e civile della necessità del sacrificio per la redenzione? Che non è solo redenzione religiosa, ma è redenzione morale, sociale, civile. Questo film è un’ottima occasione per ragionare su questi temi che, certamente, se ci si affida all’aspetto romanzesco, scenografico, sentimentale, emotivo, emozionale, possono non essere colti. Eppure ci sono.
Il film narra la vicenda di un condannato alla pena redentiva. È curiosa la vicenda. Il dottor Minor, comandante di reggimento nella guerra di secessione americana, marchia a fuoco un soldato che aveva disertato. Questo soldato diventa il suo persecutore. Lo insegue costantemente. Non con buone intenzioni, presume il dottor Minor che, infatti, cerca di scappare da tutte le parti. Finché una sera, sentitosi inseguito, tende un agguato al persecutore. “Lo” insegue e “lo” uccide con alcuni colpi di pistola, proprio sulla porta di casa del cittadino Merrett, che aveva inseguito avendolo scambiato per “lui”. Il dottor Minor viene subito prelevato e portato in tribunale, dove viene giudicato. E come viene giudicato dalla giuria popolare? Viene giudicato non colpevole, perché non aveva intenzione di uccidere Merrett. Lo aveva scambiato per il suo persecutore, ma il dottor Minor non aveva intenzione di ucciderlo. E il tribunale lo assolve, la giuria lo assolve. Minor non voleva uccidere Merrett. Ce l’aveva con un altro, quindi è innocente. Non aveva l’intenzione né la premeditazione di uccidere quella persona: va assolto.
Però, il dottor Minor, non è proprio una persona normale! Si sentiva inseguito dal suo persecutore. Ciò lo rende pericoloso e ne viene decretato il ricovero nel manicomio criminale di Broadmoor, vicino a Oxford. Un posticino non proprio ambito. Per quanti anni? Fino a quando abbia conseguito la redenzione! È condannato alla pena redentiva, la cui durata non si può prevedere. Una volta giunta la redenzione, si potrà constatare che si è redento!
È la pena a vita? Quando si può definire redento il condannato, l’imputato, il detenuto? E il condannato coincide con il colpevole? Condannato alla pena detentiva, ma non colpevole del reato ascrittogli.
Il dottor Minor non fa autocritica, non chiede perdono e accetta la sua pena. La pena inflitta da quale giudice? Dalla giuria popolare? No, perché lo assolve. Dal giudice? Il giudice infligge la pena redentiva. Non detentiva, ma redentiva! È la pena dello psichiatra, la pena che infligge lo psichiatra, che deve misurare, con la redenzione, l’adeguamento alla normalità. Minor non è condannato al carcere, ma al manicomio criminale, con finalità redentiva. Ma anche il carcere dovrebbe avere finalità redentiva. Qual è lo scopo sociale della pena? La rieducazione via redenzione. È condannato per redimersi. La pena deve avere lo scopo redentivo.
Il dottor Minor vive nel suo manicomio criminale in condizioni di isolamento, unico modo di sentirsi sicuro rispetto al suo persecutore che lo incalza, il quale potrebbe passare tra le fessure del pavimento, attraverso le inferiate, attraverso lo spioncino della porta. Il persecutore può passare per ogni dove. E il dottor Minor aspetta l’esecuzione della sua pena, che, nei termini in cui gli è stata comminata, è una pena capitale. Il dottor Minor è perseguitato dal ricordo del soldato disertore che ha marchiato a fuoco, per il quale lui non ha avuto nessuna “pena”. Eppure ritiene di avere commesso una colpa: una colpa senza pena! Allora deve commettere un’altra colpa, perché il suo senso di pena sia soddisfatto, e uccide un passante! Anche a Torino, recentemente, un passante è ucciso da un tizio, il quale, prima dice che l’ha ucciso perché aveva un’espressione felice, poi, invece dice che l’ha scambiato di persona. L’ha visto uscire dalla stessa casa dove abitava la moglie, l’ex moglie o fidanzata che sia. Quindi, l’ha ucciso per uno scambio di persona. È innocente. Non voleva ucciderlo, ha scambiato la persona. O l’ha ucciso perché era felice? Qual è la verità? Qual è la versione vera? Quale rilevanza dare alle dichiarazioni del colpevole? Il tribunale ammette che il colpevole possa mentire per difendersi, per scagionarsi. Quale rilevanza tra la colpa e la pena?
Il dottor Minor è una persona colta, molto colta, e chiede di leggere libri. Trova, in uno dei libri che gli vengono procurati, l’annuncio del dottor Murrey, il quale, incaricato di redigere il nuovo dizionario della lingua inglese, dopo alcuni anni, si ritrova al punto di partenza, per cui chiede l’intervento di volontari. Uno tra questi volontari sarà il dottor Minor, che si butterà a capofitto nell’impresa di collaborare. Darà degli apporti straordinari. Lavora e lavora. Contribuisce e contribuisce. Chiede anche, a un certo punto, di risarcire la vedova, di cui ha ammazzato il marito, la quale viveva nell’indigenza assoluta con cinque o sei figli. Chiede di risarcirla con la sua pensione, ma la vedova si oppone. Dice che non c’è possibilità di risarcimento. Non c’è possibilità di misurare la perdita del marito, l’omicidio del marito, con nessuna proposta di risarcimento.
E il dottor Minor lavora ancora di più. Si trova bene nel manicomio criminale, perché non è più tra le mura del manicomio, con il suo lavoro. Con il contributo che dà a quest’opera, è altrove. Ma, il dottor Minor propone ancora alla vedova di contribuire, di risarcire. La vedova a un certo punto, provata dall’indigenza, dalle difficoltà vere della vita, dai figli che non hanno da mangiare, acconsente. E accetta il contributo di tutta la pensione di Minor, di tutto ciò che riceveva dalla pensione di guerra. Ma, si oppone a incontrare il reo, il quale chiede e chiede finché la vedova a un certo punto acconsente e lo incontra. Però, dice che non l’ha perdonato affatto. Anzi, la sua colpa resta gravissima e imperdonabile, e non creda di cavarsela così a buon mercato.
Il dottor Minor rifiorisce, è veramente soddisfatto. Finalmente! Il suo ideale redentivo si avvicina. Più si sacrifica, più soffre e più la sua redenzione è prossima. Sono tutti contenti. Anche lo psichiatra che lo ha in cura è contento. Contento, ma non contentissimo, perché le cose vanno fin troppo bene.
A un certo punto, la vedova sente appagata la sua esigenza di vendetta. Ormai sta bene, mangia bene, veste bene. Anche i figli stanno bene. Sono tutti contenti, a parte una figlia, che non perdona. E a quel punto, la vedova scambia il suo debito, il senso del suo debito verso il dottor Minor, che eroga mensilmente la sua pensione, prende il suo debito per amore. Si sente innamorata del dottor Minor e, con la connivenza del direttore del manicomio criminale e di alcuni secondini, lo incontra. Lo incontra mentre era intento all’elaborazione di un termine del dizionario, che era “accomodamento”. Essendosi imbattuto nel termine accomodamento, la tentazione di accomodare le cose prevale.
Accomodamento, conciliazione, ossia abolizione del due. La conciliazione comporta che il due è abolito. È applicato il taglio al due, per cui i due opposti possono conciliarsi. L’accomodamento, la conciliazione prevalgono, e in nome dell’amore che sembra ispirare questo accomodamento, avviene l’incontro tra il dottor Minor e la vedova, ormai non più addolorata. E per amore, per un malinteso senso dell’amore con cui scambia il senso del suo debito, la vedova si fa amante del dottor Minor.
È lo sfacelo. La vedova si fa amante e l’Altro è abolito. Il dottor Minor, a fronte del biglietto che la vedova gli presenta dichiarando il suo amore e che dice: “Se è amore, che altro possiamo fare?”, il dottor Minor risponde: “Allora, non c’è più redenzione”!
Se c’è amore non c’è più redenzione! Ma, anziché intenderlo come teorema, teorema della redenzione: non c’è più colpa, non c’è più sacrificio, lo intende come negazione dell’espiazione che per lui era vitale, in quanto significava la sua redenzione, la liberazione dalla sua colpa.
Cosa fa allora il dottor Minor? Semplice, si evira! Perché dice che ha ucciso il morto due volte, e in più gli ha rubato la moglie. E si evira. Quale terapia in nome dell’amore, dove vige la condanna alla redenzione? L’autocondanna alla redenzione? L’accettazione della colpa e della pena?
Come intervenire quando si tratta dell’autolesionismo? Con l’amore? La mutilazione, l’autolesionismo è in nome dell’amore! In quanto non trova l’odio del tempo! L’odio, per cui le cose si fanno e non restano vincolate all’idealità della colpa e della pena, alla bilancia della colpa e della pena. E il dottor Minor, una volta travolto da questa ondata di amore che toglie l’Altro, si trova repentinamente davanti due persecutori. Non più uno solo, ma due, il soldato e la vittima, colui che ha ucciso, il morto ammazzato che dice di avere ucciso per la seconda volta, e in più l’ha derubato della moglie.
Sono solo alcuni spunti, ma direi di notevole interesse sulla questione del risarcimento, dell’accomodamento, sulla stanchezza come succedaneo, come sostitutivo impossibile dell’assoluzione. Il dottor Minor, immediatamente, va quasi in catalessi. Non è proprio una catalessi, è una stanchezza assoluta. La soluzione data dal film è un po’ dolciastra, ma non ci interessa. Ciò che interessa è il testo della questione dell’idealità della redenzione, dell’idealità del risarcimento, dell’accomodamento che in greco si dice κατά-λυμα. Accomodamento, κατάλυμα, che equivale a dire che le cose sono finite, che lo scioglimento è avvenuto. Kατάλυμα: dopo lo scioglimento, dopo che il tempo è finito, l’annichilimento, l’idea del nulla. La stanchezza come modo della catalisi, non dell’analisi, ma della catalisi.
Intanto questo, come primo riscontro del film che merita di essere letto. Soprattutto tenendo conto più della vicenda del dottor Minor che non del signor Murray, che poi diventa professor Murray, in quanto insignito di una laurea ad honorem. Certo, le vicende si intrecciano e anche questo intreccio sarebbe da valutare ulteriormente, da capire. Ma l’interesse è la questione della redenzione come modalità e come somministrazione della pena e della colpa nella forma dell’algoritmo sociale.
Marcello Toncelli Perché l’amore aveva tolto la colpa? Aveva tolto l’Altro?
R.C. Perché si è trovato “a tu per tu” con la vedova, senza più l’Altro, con la vedova che l’aveva perdonato. Aveva tolto l’incommensurabilità e la non proporzione tra il misfatto e la pena, senza tenere conto della fantasmatica che era in atto da parte del dottor Minor, che trovandosi in un discorso geometrico, non poteva prescindere dall’idea penitenziaria. Non è che si può scherzare con la pena, con la colpa e con la gestione del sacrificio, dove la bontà è letale! Cioè, ognuno scarica il barile sull’Altro. Come diceva quel film di Massimo Troisi, Pensavo fosse amore… invece era un calesse.
Quindi, pensava fosse amore, invece era debito!
M.T. Ma se si instaura l’amore transitivo, l’Altro è tolto?
R.C. Se si instaura l’amore transitivo, sì.
M.T. L’Altro è tolto. Nella coppia che tende all’unità, l’Altro è negato.
S.R. È l’accomodamento che è intollerabile.
R.C. Certo. È un compromesso, è segno del compromesso con il due. Il compromesso è intollerabile in quanto toglie l’Altro, toglie una serie di cose tenendo conto del fantasma redentivo, anziché del teorema della redenzione. Allora, ciò che si scrive è il fantasma di redenzione, la redenzione come misura di normalizzazione sociale.
S.R. È nel fantasma di redenzione che l’accomodamento è intollerabile, no? È intollerabile comunque.
R.C. Certo. Tanto più se vige un discorso, una costruzione geometrica, dove lo stato penitenziario è indefinibile, perché occorre scontare la colpa. C’è anche il libro che si può leggere e si intitola L’assassino più colto del mondo, scritto da Simon Winchester.
Daniela Sturaro E il lavoro che stava conducendo per il dizionario della lingua inglese?
R.C. A quel punto, cessa. Una volta che l’amore transitivo ha tolto l’Altro, cessa ogni attività perché l’accomodamento toglie la forza. La catalisi è un altro modo della catalessi. Qui si tratta non della catalessi, ma della catalisi. È scambiata per catalessi nel film, ma non è catalessi. È catalisi, cioè l’accettazione dell’accomodamento.
D.S. Poteva anche non accettarlo?
R.C. Certo, ma l’ha accettato.
D.S. Dal momento che ha inviato la sua pensione?
R.C. No, ma questo lo esploriamo la prossima volta.
La lingua dell’autorità
Ruggero Chinaglia Questo è il terzo incontro che dedichiamo alla lingua nuova, ossia alla “lingua della parola”. Sembra una ridondanza, una cosa che si possa dare per scontata che la lingua sia la lingua della parola, ma abbiamo più di qualche indizio per dire che la lingua comune, quella che viene considerata la lingua comune, la lingua parlata, la lingua che serve per comprendersi, non è la lingua della parola. È la lingua comune, parlata per comprendersi, ma non è la lingua della parola. La lingua nuova, la lingua della parola esige la linguistica dell’attuale e non già la linguistica della semantica, o della diacronia e della sincronia, o della fonetica e della morfologia, né del lessico della neuro o della psicolinguistica. Tanto meno la linguistica cognitiva, che sono forme di descrizione e di contenimento di una lingua che in realtà non c’è, la lingua ideale, che deve corrispondere a determinati canoni per essere comune, per essere la lingua del comprendersi, la lingua che consentirebbe l’empatia, la simpatia, il capirsi al volo, il capirsi sentimentale, il capirsi anche senza parlare. A tutto ciò serve questa linguistica che, in realtà, è la linguistica della lingua morta, la lingua riscontrabile nel vocabolario, che risponde al canone, la lingua prescritta per sancire e determinare l’appartenenza e la comunanza: l’appartenenza di genere, l’appartenenza sociale, la comunanza sociale. È la lingua che deve prescindere dallo sforzo intellettuale per qualificare ciò che si dice, la lingua cui ognuno è abituato, che ognuno crede di parlare per comprendersi con gli altri. È la lingua che non c’è, perché la lingua con cui ciascuno parla è, invece, la lingua che esige lo sforzo per qualificare ciò che si dice, in quanto ciò che si dice va oltre le intenzioni, oltre ciò che si voleva dire, oltre il significato che si voleva dare alle parole. È la lingua che esige l’analisi.
La lingua della parola è lingua analitica. Non è lingua sintetica, non è lingua che si fa di significati, non è lingua semantica, delle cose che si volevano dire o che si crede di dire. È la lingua che si fa delle cose che si dicono e che non si sa quali siano. È lingua che esige la qualificazione perché non è già qualificata.
Quale può essere l’incidenza nell’educazione, nella formazione, nell’istruzione della lingua della parola è ancora sconosciuto, perché la lingua adottata nelle varie istituzioni, nei vari apparati sociali e istituzionali è la lingua parlata, la lingua delle cose dette, la lingua del vocabolario. Se, però, consultate i vocabolari o i dizionari della lingua italiana, per ciascun lessema che potete cercare, il riferimento è alla credenza, all’ideologia, alla disciplina, alla mitologia cui l’estensore del vocabolario si riferisce per dare un significato a quel lessema. Il riferimento non è alla proprietà linguistica che risulta dalla combinatoria, ma il tentativo è di fare del lessema il veicolo della visione del mondo. Ognuno che usa quel lessema deve partecipare della visione del mondo, deve partecipare del sapere cui quel lessema si riferisce. Non è un lessema libero, che lascia libera l’interpretazione, ma è un lessema da cui l’interpretazione è praticamente bandita perché il significato è assegnato. E la lingua che ne deriva è la lingua che tende a uniformare e a essere uniformata al senso comune.
Ciò non è interessante, perché non lascia vagare quel che si dice nella combinatoria, ma la restringe al significato che quel lessema deve avere, al significato che quella frase deve avere per rientrare nel sentimento, nella sensazione, nella visione, nel sapere che deve essere partecipato dalla comunità. È la lingua i cui riferimenti sono già dati. I riferimenti culturali, artistici, scientifici, ideologici sono già assegnati e devono rientrare nello standard comunicativo. La lingua è lingua da cui la comunicazione è tolta a favore della comunicatività, cioè la trasmissione delle parole che abbiano un senso, un significato, un sapere già assegnato che deve garantire la trasmissione del sapere. Non l’invenzione di sapere nuovo, di senso nuovo, non favorire l’invenzione e la produzione, elaborazioni nuove e differenti, ma il mantenimento della visione del mondo, della concezione sociale, dell’appartenenza e della condivisione. E queste caratteristiche prescindono dalla parola.
La parola non è padroneggiabile. Esige la qualificazione. Il valore di ciascun lessema è da trovare e risalta dal processo di qualificazione che procede dall’analisi. Ciò che invece viene impartito dagli apparati della linguistica e della comunicativa è che la comunicazione non deve esserci, perché potrebbe sovvertire la visione del mondo. Cioè, è chiamata comunicazione la trasmissione del sapere. È preso per modalità comunicativa lo schema del secolo scorso che riguarda la teoria dell’informazione, dove c’è un emittente, un ricevente e un messaggio che deve andare inalterato dall’emittente al ricevente.
Sarebbe comunicazione questa dove non ha da intervenire alterazione nel messaggio? Ma non c’è una parola che possa essere identica a sé! Non c’è una parola che nel suo corso non sia in viaggio, quindi nell’alterazione, nella differenza e nella variazione! L’uso della parola si fa per metafore, metonimie e catacresi: nulla di stabile! La comunicazione si fa dell’intervento della metafora, della metonimia e della catacresi, quindi della retorica della parola che riguarda l’oralità.
Nulla di meno stabile dell’oralità, dove il senso, il sapere, la verità sono effetti, e non cause di ciò che si dice. Pensare che il senso sia causa, il sapere sia causa, la verità sia causa vuole dire parlare la lingua del vocabolario, la lingua dei luoghi comuni, lingua senz’arte, senza cultura, senza invenzione, senza libertà, senza leggerezza, senza quelle virtù del principio per cui la parola vaga libera, leggera, integra e non già saputa. L’idea della lingua parlata è la lingua che nega se stessa, nega i suoi valori, cioè l’arte, la cultura, l’invenzione, la produzione di sapere nuovo, la poesia, la musica, la scrittura. Tutto ciò è dato come già fatto, implicito, scontato e ciò è la lingua automatica, la lingua per gli automi, robotica, la lingua della programmazione delle macchine. Quest’idea di lingua viene dall’informatica e, prima ancora, dalla cibernetica. È la versione moderna della lingua cibernetica, cioè della lingua della programmazione delle macchine, la lingua per essere obbediti, che deve prescindere da ciò che viene chiamato in cibernetica il “rumore” della lingua, cioè da tutto ciò che potrebbe fare deragliare la macchina dall’ordine che le viene impartito. Ma, il rumore è proprio ciò che nella “lingua di ciò che si dice”, dà la ricchezza rispetto al senso, al sapere, alla verità!
Che ne sarebbe di una parola senza lapsus, sbaglio di conto, errore di calcolo, cantonate, senza sviste? Sarebbe la lingua robotica, cibernetica, degli automi, dell’obbedienza. Sarebbe la lingua del controllo, senza arte e cultura, senza differenza e variazione, la lingua dello standard, la lingua che presuppone di avere una causa finale, la lingua che deve finire nell’esecuzione dell’ordine che viene dato, la lingua finalizzata. Non è la lingua della parola, della poesia, del racconto, non è la lingua nel suo modo narrativo, dell’oralità!
La lingua della parola, dell’oralità, lingua che non ha riscontro nel vocabolario, ma rispetto a cui parlando, s’istituisce il glossario e il dizionario che viene dall’analisi e dalla qualificazione di ciascun termine nella direzione del valore è secondo il parlare. Ciascun termine si situa nella domanda e tende al valore, tende a qualificarsi e non a dire ciò che è già stato detto, non a ripetere le cose già dette per mantenere la stabilità rispetto al senso, all’origine, al fine, all’essere. No! La tensione della parola è rivolta alla qualificazione, alla qualità, al valore. E il valore è sconosciuto, non si sa prima! Esige la ricerca, l’impresa. Esige la lingua della ricerca, dell’impresa, della parola, la lingua senza sostanza, senza soggetti perché, parlando, gli effetti si producono, si producono “poi”, non ci sono “prima”!
Gli effetti non sono ciò da cui si comincia a parlare, ma sono ciò che avviene parlando. Il senso, il sapere e la verità sono effetti della parola. E gli effetti favoriscono la formazione, l’insegnamento, la trasformazione se non vengono negati; perché non è automatico che ci sia parola e la sua lingua. La lingua non entra automaticamente in vigore. No! Abbiamo le prove che negli apparati, nelle istituzioni, la lingua della parola non c’è, la lingua è negata. Perché? Perché è scomoda. Non consente la parità linguistica, il gruppo linguistico, non consente l’applicazione di algoritmi. E tutto ciò che invece serve all’apparato è potere essere usato per algoritmi.
Non c’è algoritmo in grado di governare la parola. Questa è la questione intellettuale effettiva. Mentre, se verificate qual è l’orientamento della ricerca tecnologica, disciplinare, di ogni tipo, la ricerca va in direzione di trovare la chiave per scoprire il segreto presunto, per capire senza sforzo. Qual è la chiave per decodificare la parola come sistema? Questa è l’aspirazione massima tecnologica e disciplinare; ma questa chiave non c’è. Non c’è perché la parola non è sistema, non fa parte del sistema, non è sistematica e non è sistematizzabile, e quindi non è assoggettabile alla codifica per renderla governabile dall’algoritmo. Questo è il problema per cui la parola è per lo più negata, perché non si presta all’uso sistematico, alla ripetitività. Non si presta all’accezione di scienza dell’epoca. Che cosa è chiamata scienza? La possibilità di ripetere il fenomeno. È scientifico ciò che è ripetibile. È la scienza su base statistica. La parola non è applicabile a quest’accezione di scienza. Impossibile fare la statistica del parlare perché la parola non è discorso, non entra nel discorso come possibilità di venire semiotizzato. Non c’è semiotica della parola perché non c’è sostanza che possa significare la parola, non c’è fondamento.
Ecco le basi della lingua della parola, della questione intellettuale che la parola pone. La parola è senza origine, senza fine, senza riferimento ideologico, sociologico, mitologico, psicologico e quant’altro. La parola non può entrare in una psicologia, non c’è psicologia della parola. Se consultate un vocabolario alla voce mente, psiche, lingua, parola e altro, troverete delle definizioni che c’entrano poco o nulla con la questione del parlare, con “ciò che si dice”, con la questione intellettuale, con la libertà della parola.
L’idea di una psiche comune, umana, l’idea di mente comune, umana, l’idea di lingua comune, umana, sono idee ridicole. Infatti, sono idee che vengono dalla filosofia di duemila anni fa, sono la versione moderna delle sfere aristoteliche. E il riferimento odierno è ancora quello, con tutta la sua incidenza. Provate a ascoltare anche i così detti scienziati che scrivono nei loro libri, negli articoli o quando vengono intervistati, quante volte citano il termine sfera per indicare un contesto: la sfera sessuale, la sfera intellettuale, la sfera intima, la sfera familiare. La sfera, le sfere. Ma quali sfere? Non ci sono sfere, non c’è sistema! Non c’è né geocentrismo né eliocentrismo. Non c’è un sistema di sfere che possa contenere gli effetti imprevedibili della parola e della lingua della parola, contro cui costantemente avviene la reazione per una sorta di risparmio energetico che ognuno pensa di potere attuare parlando per significati, invece che parlando e ascoltando ciò che, parlando, si dice.
Parlando, si dicono cose che per lo più non vengono ascoltate, e quindi non vengono capite, intese. E così ognuno va avanti dritto senza ascoltare ciò che si pone nella domanda che lo dirige, perché ciascuno è mosso dalla domanda. Ma, se la domanda non viene ascoltata, analizzata, capita, non viene intesa è come se non ci fosse! E così ognuno diventa un robot, una macchina, una macchina orientata da che cosa? Dai luoghi comuni! E i luoghi comuni dicono che sarebbe orientata dai sentimenti e dalle emozioni, che sono termini per indicare il comportamento. Ognuno sarebbe orientato dal comportamento. E cos’è il comportamento? È la risposta allo stimolo. La risposta più comune che lo stimolo applicato riceve. Così trovate scritto. Ecco il comportamento, l’idea di comportamento come modello di legame della comunità. Il buon comportamento, cioè il comportamento conforme, l’omologazione agli stimoli. Che vengono da cosa? Dalle emozioni. E cosa sono le emozioni? Sono le “cose” innate in ognuno e che esigono la stessa risposta! Bello! Ma questo è drammatico, se ci pensate e ci ragionate. È una cosa drammatica! E su ciò, su quest’impostazione poggiano le istituzioni più importanti: scuola, sanità, ricerca, tribunale. Qual è la grande aspirazione dei giudici? Che le sentenze possano venire comminate per algoritmo, senza neanche più bisogno del dibattimento, indizi, indagini, prove. Algoritmo-sentenza.
Questa sarebbe la questione intellettuale dell’era moderna? No, questa è la negazione della questione intellettuale dell’epoca, che si caratterizza come epoca che contrasta la parola, che reagisce alla parola, che si oppone alla parola a favore del discorso comune omologante perché, come già notava il buon Sigmund Freud, la questione della lingua, e quindi anche la questione della parola, è la questione dell’afasia. Afasia non come disturbo patologico che impedisce di parlare, ma come proprietà originaria della parola che non consente di comprendersi, proprietà che esige lo sforzo, che riguarda il modo, il tono, la qualità delle cose che si dicono.
Nulla di scontato! La lingua procede dall’afasia e non ha un codice comune attraverso cui si svolge. Esige la ricerca, l’indagine, l’analisi. E le risposte non giungono per sintesi, ma per ipotesi, illazioni, tentativi, interpretazioni, per via degli equivoci, delle menzogne, dei malintesi che il funzionamento della parola produce nel suo corso. Equivoci, menzogne, malintesi, non comunicativa diretta, non rivelazione, ma ricerca, annunciazione.
Annunciazione! Il dispositivo dell’annunciazione procede dall’afasia, cioè le cose si dicono; dicendosi, si dividono; dividendosi, si piegano e, così la molteplicità di quel che si dice. Molte pieghe, non una versione unica. Qual è la piega che interviene in quel dettaglio e lo valorizza? Qual è? Bisogna cercarla! Non sta scritta da qualche parte, non è già data, non è quella che penso io. È da capire.
Che qualcosa sia da capire, che cosa vuole dire? Che non ci sono concetti, nessun riferimento possibile alla concettualizzazione. Il concetto non vuole dire niente. La comunicazione non è concettuale, ma avviene per pieghe, dalla molteplicità alla semplicità. La comunicazione è semplice, tende al semplice, però passa attraverso il molteplice, non per concetti. Il concetto è la negazione dello specifico. Ci possiamo capire per concetti? No, concettualmente ognuno resta della sua idea e tutti gli altri hanno torto. Concettualmente io ho ragione e voi avete torto. Il concetto è chiaro. Concetto, cosa vuole dire? Il concetto favorisce la presa, cum capio, per prendere; per prendere qualcosa, ne faccio un concetto, vago, indistinto, generico. La qualificazione dissipa la concettualità. È un’altra lingua, non c’è più visione del mondo. Ci sono particolari, che sono le cose che danno valore. I dettagli, le minuzie, le quisquilie, perché è lì che interviene il tempo. Il concetto è senza tempo, il dettaglio è, invece, l’effetto del tempo.
Come interviene il tempo nella conversazione, nella narrazione, nel racconto? Con i dettagli! Evitare i dettagli vuole dire evitare il tempo, vuole dire mantenere una soggettività e una visione delle cose che altrimenti non avrebbe più modo di sostenersi. Evitare i dettagli vuole dire mantenere i ricordi per evitare un’altra scena, che qualcosa che giunga nuovo. L’afasia, quindi, come assenza di origine, di base, di codice, di significato comune, del detto. Per via dei dettagli, delle quisquilie, dei particolari nulla è mai detto, nulla è mai stato, nulla è. La realtà non è reale, la realtà è narrativa e, parlando, nessuno si trova mai nella stessa scena. Questa è la chance della trovata, dell’invenzione, il bello della parola, la sua ricchezza.
Ciò accade perché, parlando, la parola non è un tutto unico. La parola come segno, parlando, entra nella tripartizione: nome, significante, Altro. Tre segni in un solo segno, tre funzioni in un solo funzionamento. La parola funziona, ma funzionando ci sono tre funzioni: il nome, il significante e l’Altro. Da questi tre funzionamenti il sapere, il senso e la verità. E ciò è incontenibile e imprevedibile. La chance è nella disposizione a accogliere la comunicazione della parola, quello che già non sappiamo, ma che si può ascoltare e si può intendere. La tripartizione del segno è costitutiva della parola e è inimmaginabile, è ciò per cui la parola non può essere sistematizzata, ciò per cui ciò che si produce non può essere previsto.
Un aspetto importante che procede proprio dal funzionamento è la questione dell’autorità della parola, la lingua dell’autorità. Come interviene l’autorità parlando? Dell’autorità c’è una fiaba, una fiaba che dice che l’autorità è la capacità o la facoltà di farsi obbedire, ascoltare, di prevaricare, di farsi rispettare. Questa non è l’autorità che procede dalla parola, ma è la concezione dell’autorità come principio di autorità che viene dall’ipotesi ontologica, cioè l’essere, in quanto non manca di nulla, ha insita l’autorità per essere obbedito. E in questa concezione dell’essere c’è la questione della gerarchia: chi, per gerarchia, sta al più alto livello avrebbe l’autorità per comandare, per imporre, per essere obbedito, seguito, riconosciuto. Questa è la fiaba dell’autorità scambiata per il potere, il così detto potere dell’uomo sull’uomo, il potere sull’Altro, sulle cose, l’esercizio del potere per dimostrare la padronanza.
Non è questa l’autorità nella parola. L’autorità non è la facoltà di qualcuno, ma è una proprietà della parola: parlando, interviene l’autorità. Addirittura, l’autorità è ciò che consente di non avere paura di parlare, di non avere paura dell’infinito. La questione che passa come la paura di parlare in pubblico è, in realtà, la paura dell’infinito, è la paura dei risvolti imprevisti che può prendere un intervento, esponendo a chissà quali pericoli. La negazione, la reazione all’infinito della parola, comporta allora la paura di parlare, comporta la presunta esigenza o facoltà di tacere, proprio per controllare, per controllarsi, per rispettarsi, non osando.
La questione è lo zero, che a un certo punto è entrato nella matematica per opera, chi dice degli indiani, chi degli arabi, chi degli egizi e che ha consentito alla numerazione di volgersi all’infinito e non più al finito, come era prima della sua introduzione – per esempio, per i latini la numerazione comincia dall’uno e va avanti, perciò, iniziando dall’uno, da un’origine certa, la numerazione è finita e, infatti, il latino è la lingua della certezza – ebbene, lo zero che nella matematica interviene a un certo punto e apre all’incontabile, cioè alla matematica dell’infinito, mentre prima c’era la matematica del finito, quello zero, nella lingua c’era già, nella parola c’era già. Lo testimoniano i Sumeri con la prima lingua di cui c’è testimonianza, la scrittura cuneiforme, dove c’era già la rappresentazione grafica dello zero: zero, uno, intervallo. Nome, significante, Altro. Lo zero nella parola, lo zero da cui qualcosa comincia.
Senza lo zero nulla comincia. Senza lo zero le cose sono. Senza lo zero c’è la lingua dell’ontologia, la lingua dell’essere, la lingua morta. Ma, con lo zero, qualcosa comincia e lì c’è l’autorità. Già lì c’è l’autorità, in qualcosa che incomincia. L’autorità non è ciò che impone la sua governance. L’autorità è esattamente l’indice che qualcosa incomincia e incomincia nell’infinito e, con ciò che incomincia, incomincia anche la forza, la domanda, la tensione, incomincia lo sforzo intellettuale per la qualificazione.
Auctoritas, l’aumento. Ciò che incomincia tende all’aumento, tende, proseguendo, a aumentare. Perché aumenta? Perché ciò che incomincia si dispone ai vari indici della parola, a entrare in una struttura, nella combinatoria, si dispone a scriversi. Questa è l’autorità della parola, e la lingua dell’autorità è la lingua dello zero, la lingua analitica, la lingua senza l’idea di fine, di finalità, la lingua la cui tensione è libera e non è rivolta a qualcosa che deve finire. L’idea di fine toglie l’autorità e favorisce la paura, nega il dispositivo della parola e l’instaurazione della legge, dell’etica e della clinica della parola, che sono i tre compimenti della parola che si rivolgono alla qualità. È una struttura complessa quella della parola.
Di solito, si parla della parola per negarla, pensando di averla in mano. Chi parla della parola non ha esperienza della parola. È vano parlare della parola, importa parlare e, parlando, lasciare che le cose si dicano. E mentre le cose si dicono, si attiva il dispositivo narrativo dell’ascolto, della scrittura, dell’intendimento. La questione intellettuale è questa, non quella psicologica per cui tutti avremmo uno schema cui rispondere e adeguarsi, per rientrare nel caso standard, altrimenti siamo schedabili per anomalia. No, l’anomalia è costitutiva della parola!
Lo zero, l’autorità e l’autore. Qual è l’autore di quel che si dice? Dove sta l’autore? La questione omerica. Chi è l’autore dei poemi omerici? La questione di Shakespeare. Chi è l’autore dei versi shakespeariani? Qual è l’autore, si chiede Pirandello nei sei personaggi che cercano l’autore? Dov’è l’autore, qual è l’autore? Non già l’idea di origine, non già l’idea di appartenenza, ma l’autore, cioè lo zero. Lo zero da cui procede la qualificazione, il senso, il godimento, il dispendio. L’autore è lo zero.
Dove vedere lo zero? È invisibile! Funziona e, se lo zero funziona – e funziona, se non è negato – abbiamo la processualità. Se lo zero è negato, è tolto, allora abbiamo la lingua morta perché è tolto il parlare stesso. Come togliere lo zero? Con l’idea di origine, di fine, con l’idea di sé, delle proprie idee, con l’idea di avere ragione contro un fantomatico avversario che avrebbe torto. Nella lingua dei litiganti, dove vigono le coppie oppositive, lo zero è tolto: uno contro l’Altro. Dove il due è tolto abbiamo la lingua degli opposti: bene contro male, alto contro basso, dentro contro fuori. Non già la lingua dell’ossimoro, da cui le cose procedono per qualificarsi, ma la lingua delle opposizioni, delle contrapposizioni, la lingua della guerra. E dove non c’è la guerra? Dove? La guerra c’è nelle coppie, nelle famiglie, nelle istituzioni, negli apparati… Dove non c’è guerra?
Nella lingua della parola non c’è guerra, ma non perché si trovi l’accomodamento o l’appianamento o il compromesso, ma proprio perché non ce n’è bisogno. Non c’è la necessità che uno vinca e l’Altro perda nella lingua dell’autorità. Certo, senza autorità avviene la rappresentazione di chi è più forte, più prestante, di chi deve stare sopra al più debole, contro chi è più sotto, contro chi deve perdere. Vincere o perdere. Chi sa dove sta la vittoria nel dispositivo della parola in cui si tratta del valore, in cui l’avvenire deve ancora scriversi?
Allora, la questione è come combattere, come fare, come vivere secondo la parola e le sue virtù, accogliendo la parola, le indicazioni della parola, l’augurio della parola che è variante dell’autorità e dell’autore. Impossibile negare l’augurio, si tratta di accogliere, lasciare che si scriva. Certo, occorre fare, occorre non opporsi allo sforzo costruttivo, allo sforzo della domanda che tende al valore. Occorre non opporsi alla tensione.
La lingua del vocabolario dice che lo sforzo è male, che la tensione è male. Lo chiamano stress, lo stress patologico! Nel vocabolario la tensione è addirittura male, patologia. Quale educazione senza stress, senza tensione? Quale formazione senza tensione, quale educazione senza il “non” dell’avere e il “non” dell’essere? Quale istruzione, educazione, quale formazione? Il toglimento della parola, dell’autorità, dell’abbondanza, il toglimento del funzionamento della parola con il suo “non”, porta all’appiattimento, all’eliminazione dell’educazione, della domanda, dove ognuno accampa il suo diritto a qualcosa. Ma, come? Senza combattere, lottare, chiedere? Paradossale, assurdo! E con la lingua algoritmica è constatabile che avviene così. Basta ascoltare il telegiornale, leggere i giornali e possiamo seguire, giorno per giorno, la vicenda della negazione della parola.
Noi combattiamo, invece, perché non ci sia la negazione della parola e proponiamo la lingua della parola come la lingua dell’autorità. Così e con altri modi che seguiremo a indicare e a testimoniare in altri prossimi appuntamenti.
Se c’è qualche domanda, possiamo precisare.
Marcello Toncelli Volevo chiedere una cosa riguardo allo zero e al due, perché l’altra volta aveva detto che le cose procedono dal due e questa sera mi è sembrato che sia l’autorità a partire dallo zero; quindi non ho capito la differenza fra lo zero e il due. Il due come ossimoro e lo zero come indice dell’autorità?
R.C. Che cosa non ha capito?
M.T. La differenza fra lo zero e il due.
R.C. L’ha appena detta.
M.T. Lo zero come indice dell’autorità e il due come indice dell’ossimoro.
R.C. Non solo. Il due come ciò da cui le cose procedono, quindi il due come apertura. La logica diadica.
M.T. Non procedono anche dallo zero le cose, simultaneamente?
R.C. Bisogna distinguere, non è che tutto procede da tutto. C’è la logica diadica e qui si tratta del due originario. Nella parola, le cose procedono dal due. Non dall’uno, ma dal due, e questo procedere è la procedura della parola. Non c’è un’origine da cui tutto inizia, ma le cose procedono dal due, non da due cose, ma dal due irrappresentabile, che è l’apertura della parola. L’apertura della parola, il due: logica diadica per cui non c’è contrapposizione. I filosofi, in qualche modo, questo l’avevano già capito e la chiamavano contraddizione. Parlando, c’è contraddizione.
I filosofi, però, l’avevano capito solo per dire che ciò era male, che occorreva non avvenisse, che bisognava essere unidirezionali, cioè partire dall’inizio e andare verso la fine, senza contraddizione. Invece no, nella parola c’è contraddizione, c’è il due. Un modo del due è l’ossimoro, dove bene e male non sono né contrari né contradditori, ma sono ossimoro: bene-male. È bene? È male? È bene-male, cioè ossimoro. L’ossimoro non può mai essere diviso. La divisione dell’ossimoro darebbe la coppia oppositiva. E l’ossimoro nella parola è indivisibile.
Questo è un primo aspetto e la tolleranza comincia da qui. Poi, ci sono le varie logiche singolari triali. Il funzionamento è una di queste. Lo zero sta nel funzionamento, tre funzioni in un funzionamento. La parola funziona con tre funzioni: nome, significante, Altro. Tre funzioni, un unico funzionamento. Come ce ne accorgiamo? Con gli effetti di senso, sapere, verità. Quindi, ce ne accorgiamo man mano, e dopo, non prima. Non possiamo prevedere il funzionamento. Lo zero, nel funzionamento, è una di queste funzioni. Lo zero o autore o nome, possiamo chiamarlo in vario modo. Non c’è conoscenza di ciò, non c’è conoscenza che possa rendere la cosa prevedibile per farne un sistema e dire che adesso tocca allo zero, poi tocca all’uno, poi tocca all’Altro, come se facessimo la conta per stabilire a chi tocca prima. No, questa possibilità di padroneggiare la parola e la sua materia non c’è. C’è l’occasione di disporsi alla parola. Tentare di padroneggiarla vuole dire già impedirla. Semplice, ma è così.
Pubblico L’ascolto attivo rientra nell’elemento altro della parola?
R.C. In che senso attivo?
Pubblico Nel senso di accogliere quello che l’altro dice…
R.C. Sì, ho inteso. Lei dice l’ascolto di “un altro” che parla. Intanto, occorre che l’ascolto sia attivo, parlando, senza un altro che parli a noi, perché l’ascolto procede non da “un altro”, ma “dall’Altro”, cioè dall’Altro che contrassegna la funzione vuota. Abbiamo detto tre funzioni: nome, significante e Altro, Altro che è la sede del sogno e della dimenticanza. L’ascolto si fa della combinatoria di ciò che procede da queste tre funzioni e, quindi, non solamente se un altro ci parla, ma occorre che l’ascolto sia attivo anche mentre ciascuno di noi parla. Non è una facoltà l’ascolto, non avviene per buona volontà. È frutto del dispositivo analitico e del dispositivo di qualificazione, quindi frutto dell’esperienza.
Pubblico Quindi un’abilità.
R.C. No, è un frutto. Frutto che non si può chiamare né facoltà né abilità, perché non dipende né dalla volontà di qualcuno né dalla capacità.
Pubblico Io pensavo che fosse la somma di tutte e due.
R.C. È frutto senza somma, una risultante non algebrica, non assegnabile e che non è possibile stabilire quando avvenga e quando no. C’è qualcosa di aleatorio in ciò, ma è così.
Pubblico Ma io posso mettermi in ascolto attivo oppure no?
R.C. Non dipende da lei mettersi in ascolto, cioè non è un mettersi, non è un atteggiamento. Vediamo cosa non è: non è un atteggiamento, una facoltà, una capacità, un’abilità. Come avviene?
Pubblico In modo istintivo.
R.C. Beh, si avvale anche dell’istinto, perché no? Ma è oltre l’istinto, perché l’ascolto si instaura quando non c’è più soggetto della padronanza, dell’idea e della parola, soggetto della volontà, della capacità e della verità, soggetto della padronanza, del controllo e del discorso. È certamente una cosa difficile da capire.
Pubblico [Audio non comprensibile] … È un ascolto come un “ascolto passivo” quello che lei sta dicendo.
R.C. La questione è che non è né passivo né attivo. È indeterminabile, è travolgente. Cioè, non è la capacità di assegnare o distinguere categorie. Si instaura quando non ci sono più categorie, quando è in atto il processo di qualificazione, dall’apertura in direzione della qualità. È incomprensibile senza l’analisi la questione dell’ascolto, perché non è fonetico.
Pubblico Non è fonetico o non è solo fonetico?
R.C. Non è fonetico. Giusto per lasciarla riflettere un altro po’.
Altre domande? Prego.
Barbara Sanavia Ascoltando, a proposito dell’ascolto, mi chiedevo se avviene per tensione, cioè non per volontà ma per tensione, per desiderio di comprendere.
R.C. Per tensione certamente.
B.S. La tensione è data dal desiderio, ci deve essere il desiderio, non è per volontà.
R.C. Attorno alla questione del desiderio occorrerà ragionare. Anche il desiderio non è coniugabile, non sta nella formula “io desidero”, quindi nemmeno su “io desidero sapere, io desidero conoscere, io desidero ascoltare”.
B.S. Non lo pensavo così, lo pensavo come tensione.
R.C. Come tensione sì, certo. Pare preciso.
B.S. Poi sullo zero. Pensavo che c’è lo zero quando non c’è significazione, quando non c’è già una significazione.
R.C. Esatto, sì.
B.S. Per cui, parlando, non c’è significazione nemmeno in quello che si intende dire, nel senso che c’è questa idea di volere dire qualcosa, ma in realtà, nella comunicazione poi…
R.C. Esatto, magari c’è un’idea, ma questa idea non fa sbarramento, non è tale da fare, con la sua significazione, da sbarramento allo zero. Se invece fa sbarramento, cioè se non può essere che così, allora lo zero è negato e il dispositivo della parola è barrato.
B.S. Poi c’è la questione dell’autore.
R.C. Per capire un po’ la questione dell’autore non guasterebbe leggere Pirandello, la pièce, chiamata dramma, Sei personaggi in cerca d’autore. Perché è dramma? Perché i sei personaggi sono personaggi! Non trovano l’autore! Nella rappresentazione che ognuno ha di sé, l’autore è negato e allora c’è il personaggio della vicenda negativa, dell’idea di sé negativa, della vicenda malefica.
B.S. Già significata.
R.C. Già significata dal detto e dal fatto, anche se ideali. Se qualcosa è rappresentato come fatto, detto, anche se ideale, allora si instaura il personaggio, l’autore è negato e la storia si chiude.
B.S. L’autore in divenire, perché non può essere già determinato.
R.C. L’autore dispone le cose al divenire! È questione di disposizione e di disponibilità.
Altri?
Pubblico Volevo chiedere se poteva riprendere quel punto sul parlare in pubblico come paura dell’infinito. Se può specificare meglio in che senso paura dell’infinito. Infinito inteso come miliardi di domande a cui non saprei rispondere oppure come massa di persone che mi guardano?
R.C. È la stessa cosa. Siccome l’infinito non è rappresentabile, nel momento in cui viene negato produce una rappresentazione che deve giustificare la negazione. Allora, gli esempi che lei faceva sono calzanti. Come ci rappresentiamo l’infinito? Nella moltitudine di persone che stanno lì a guardare e guardano proprio me, nell’ipotetica possibilità di una miriade di domande a cui non saprei rispondere. Sempre con un’eventualità negativa a fronte di qualcosa di grande, d’incommensurabile con cui io devo stabilire il rapporto. È il rapporto che fa paura, perché il rapporto chiude, fa da chiusura e la paura è della chiusura, anche se paradossalmente si pensa il contrario, anche se tutte le psicologie della terra sostengono che bisogna ricorrere a vari accorgimenti per fare i furbi. Ma non c’è furbizia che tenga nei confronti della parola, dell’idea, delle cose. Si tratta di capire e dissipare la rappresentazione, ciò che fa da chiusura. È semplice ma non è negoziabile. Non può essere come un mettersi d’accordo. O si dissipa o resta lì! È questione di logica. Sono cose semplici ma efficaci.
È una delle cose più comuni ciò che viene chiamata paura di parlare in pubblico. In realtà è paura di parlare, perché il pubblico è già nella parola e è irrappresentabile. Nel momento in cui ce lo rappresentiamo ce l’abbiamo davanti come ostile in vario modo, ma è un’etichetta la “paura di parlare in pubblico”, che serve per le classificazioni psicologiche. Quella che si pone come paura di parlare in pubblico che natura ha? Di cosa si tratta? Questa è la domanda, la questione. Ciò che si pone apparentemente con questa etichetta, da cosa è costituita? Non lo sappiamo fino a che non facciamo l’analisi della cosa. Il fatto di dare un’etichetta a qualcosa, non vuole dire che si tratta di quella cosa lì. L’etichetta segue la classificazione, la categoria, lo schema, il tentativo di compartimentare le cose per renderle riconoscibili. Ma ogni etichetta è fasulla.
M.T. Com’è che il pubblico è già nella parola?
R.C. In quanto infinito. Il pubblico è l’indice dell’infinito, quindi, è già nella parola. L’infinito è nella parola.
M.T. Non come un pubblico di persone.
R.C. Bravo, esatto. Pubblico non rappresentato come un insieme di persone. Questa è una rappresentazione per dargli un significato, un assetto, per dire che è quella cosa lì, ma è una denominazione di comodo. Poi, in realtà, non sappiamo qual è la materia di questa denominazione, quali sono i costituenti. Questo è il bello della ricerca, perché noi pensiamo di sapere e poi ci accorgiamo che non sapevamo nulla. Però, man mano acquisiamo dati, elementi, frutti e ci arricchiamo di varie cose anche impensabili. Con la lingua della parola ci arricchiamo.
La lingua dell’annunciazione
Ruggero Chinaglia Buonasera. State comodi? Siete comodi? Lei si è portato il cuscino per stare più comodo. Forse prevedeva qualche scomodità e non aveva torto, ma non è detto che col cuscino la cosa diventi comoda, né la sedia né la cosa.
La comodità. Comodo, scomodo. Un’idea di alternativa, un’idea di padronanza. La cosa è scomoda e la facciamo diventare comoda, ci accomodiamo sulla cosa, padroneggiamo la cosa perché diventi comoda. La comodità è idea di sostanza, l’accomodamento è idea di sostanza, di padronanza, di gestione della cosa. Al pazzo proponevano l’accomodamento, ma il pazzo non sopportava l’idea di accomodamento. L’accomodamento toglie la forza, così dice il pazzo a chi lo vuole salvare dalla pazzia, dall’anomalia, dalla morte certa, dalla malattia certa, salvare dalla certezza.
Ognuno ha una certezza e che se ne fa? Ognuno ripone nella sua certezza la sua salvezza perché ognuno punta a salvarsi, a salvarsi dalla sorte avversa, dalle dicerie, dalle etichette, dal rio destino. L’idea di salvezza è idea di sostanza, è accomodamento. L’accomodamento, ossia l’ipotesi della comodità. Come trovare la comodità? Con l’accomodamento! Occorre trovare un compromesso, una mediazione, una sostanzializzazione che renda le cose stabili e, quindi, accomodabili, accomodanti, accomodate. Le cose stabili sono quelle su cui ci si può accomodare.
Come accomodarsi sulle cose instabili? Come accomodarsi sulla parola? La parola non si presta a nessun accomodamento e a nessuna sostanzializzazione, eppure ognuno si rappresenta la parola per cercare di controllarla, dirigerla dove possa risultare meno scomoda. Il soggetto sostanzialista, ossia ognuno che tenti di negare la parola si accomoda sulla sostanza, cioè su ciò che potrebbe costituire il fondamento e rendere la parola stabile, ferma, immutabile e questo diventa l’alibi alla parola, l’alibi alla vita: l’alibi della sostanza.
Posta la sostanza come fondamento, la domanda si volge in domanda di essere, di cosa essere, di cosa diventare per non contraddire il mandato dell’origine, il legame con l’origine, per restare fedeli e consoni all’origine, al popolo, alla cerchia, coerenti, collegati, consustanziali con il proprio popolo, con la propria origine. Ma la domanda, ciascuna domanda, rispetto a questa consustanzialità, è disturbo, disturbo che non tollera rimedio!
Prendiamo il caso della domanda tanto temuta da alcuni: “Che cos’è la cifrematica?”. Domanda che certamente assilla il soggetto sostanzialista, il soggetto che si ritiene preposto a dare la risposta esaustiva e, siccome la risposta sostanzialista alla domanda sostanzialista deve essere definitiva, esaustiva, allora nessuna risposta può essere azzardata, perché risulterebbe imprecisa, imperfetta, insufficiente rispetto all’ideale di completezza che la risposta deve avere per giungere a qualificare l’essere finalmente localizzato, controllato nella sostanza. La rappresentazione della risposta esaustiva toglie l’audacia di affrontare la prova, di azzardare l’ipotesi. La risposta ideale, la risposta già data, la risposta sostanziale non può essere certamente contraddetta da una risposta qualunque, imprecisa, balbettante: la risposta autentica, la risposta indicativa di ciò di cui si tratta!
La parola, la sua logica, la sua esperienza. Come volgere la parola e l’esperienza in definizione? Come sostanzializzare la cosa? Come descrivere la parola che diviene cifra? Come dare la fotografia della cosa, l’essenza della cosa, il valore della cosa? Come dare la cifra della cosa? Come dare la sostanza della cifra? Come spiegare la parola, la sua esperienza, la procedura, la logica? Come spiegare? Come spiegare l’inspiegabile? Come togliere la piega, come abolire il racconto? Come restituire l’esperienza, volendo descriverla, spiegarla? Spiegare a chi? Spiegare perché? Descrivere, parlare, raccontare, narrare possono togliere il sogno della parola? Possono togliere la metafora, la metonimia, la catacresi? Sì, in nome della purezza del senso, della purezza del sapere, della completezza della spiegazione, della totalità dell’etichettatura, in nome della verità confessata.
Come dire la verità? La verità della cosa, la verità dell’esperienza, la verità di sé, la verità dell’Altro? Dire la verità, confessare la verità in nome del nulla, della purezza del nulla, perché l’Altro, l’Altro che sa, potrebbe sanzionare l’incompletezza, l’impurezza, l’imprecisione, la fabula, la metafora, la metonimia, la catacresi in nome della corretta versione dei fatti. Ecco come il giudiziario si impone alla parola: in nome del racconto ideale, in nome del racconto dei fatti! Il racconto ideale, la descrizione ideale in nome dell’oggettività garantita dal garante universale, cioè il nulla. Come rispondere alla domanda inquisitoria? Ma la domanda non è inquisitoria, la domanda va in direzione della cifra, la domanda instaura l’interlocuzione non l’interrogatorio, procede dall’apertura e va in direzione della qualificazione, non della chiusura, non dell’oggettività, non della rendicontazione.
Glossario e dizionario si instaurano con la domanda, non con la lingua unica. La domanda instaura l’annunciazione, la lingua dell’annunciazione, il dispositivo dell’annunciazione che è la conversazione. Togliere l’Altro dalla conversazione? Fare dell’Altro l’inquisitore? È la soggettività inquisitoria, sociale, è la soggettività tout court, è l’idea di sé imperante, è il canone di sé. L’idea di essere è la negazione dell’idea come operatore, come connessione, in direzione non dell’essere o dell’ontologia, ma in direzione della scrittura delle cose, di come le cose si scrivono, dove si scrivono e come, scrivendosi, si qualificano, si valorizzano. E valorizzandosi non c’è nulla da temere, non c’è da assumere nessun personaggio, non c’è da mantenere nessun riferimento al passato, all’origine, all’essere, all’idea di sé, all’idea dell’Altro.
L’idea dell’atto è la negazione dell’atto, l’idea dell’avvenire è la negazione dell’avvenire. Pensarsi, credersi, vedersi: “Eh, ma io mi vedo già come sarò, come farò, come non sarò, come non sarò in grado, mi vedo, mi vedo finito”. Pensarsi, vedersi, credersi sono ipotesi di fine del tempo, consacrazioni dell’idea di fine del tempo, cedimenti all’idea che il tempo sia finito o che possa finire non riuscendo a spiaccicare parola, non riuscendo a dire, perché dire dovrebbe soddisfare la domanda inquisitoria dell’Altro inquisitore.
Ognuno si pensa in un tribunale, si rappresenta in un tribunale oppure in un ospedale se non addirittura già in un cimitero, e ognuno può credere di credersi, può pensare di pensarsi e ritenere che questa sia la realtà, la realtà oggettiva. No! Questo è il cedimento all’idea di fine del tempo, all’idea di appartenenza all’origine che fa pendant con l’idea di fine. Togliere l’Altro, togliere il tempo, negare la parola, negare l’Altro, negare il tempo. L’idea negativa non è un’idea, è la negazione dell’idea. L’idea opera per la scrittura e non c’è idea negativa. Ogni idea negativa è la negazione dell’idea e esige di essere analizzata, non creduta, accettata, subita. Ogni idea negativa è la negativa del tempo, è l’applicazione alle cose dell’idea di fine del tempo e, allora, le cose finiscono, sono già finite. L’idea negativa interviene perché qualcosa non avvenga, non perché la cosa è negativa, ma perché non avvenga qualcosa che metta in discussione l’idea di sé, la rappresentazione di sé.
Come negare il corso della domanda, lo svolgimento della domanda, l’attuazione della domanda? Pensando alla soluzione! La soluzione di chi sembra non accontentarsi di qualcosa perché vuole qualcosa di risolutivo, subito! Senza il tempo, senza lo svolgimento, subito! Senza il corso, subito! Senza la direzione, subito! E così è negato l’atto e l’attitudine. Negando l’atto è negata l’eventualità dell’incontro e, quindi, l’incontro è tolto, abolito, non ci sarà più nessun incontro.
L’idea di sé, la certezza di sé, la rappresentazione di sé, la padronanza di sé sono gli alibi contrapposti alla memoria, alla scrittura e strutturazione della memoria. La memoria esige il tempo ma, togliendo il tempo, è tolta la memoria e affiorano i ricordi, i ricordi di “Quando, una volta…”, di quando non c’era l’idea di sé. Si cercano i ricordi per salvarsi dall’idea di sé e, negando la memoria, ognuno si affida volentieri alle memorie, alle sue memorie, ai suoi ricordi, a com’era un tempo, alle proprie certezze e convinzioni per non correre il rischio della domanda, per non correre il rischio di verità, il rischio della risposta. Per non correre il rischio ognuno si affida alla visione ideale, all’idealità, a “Come sarebbe bello se le cose fossero così”.
Vedendosi nell’ideale, pensandosi nell’ideale, ognuno si rappresenta, in realtà, nell’aldilà, in un mondo migliore, in una vita migliore, non nell’oltre, proprio per non correre il rischio della prova di verità, la prova dell’oltre: oltre il fantasma materno, oltre l’idea di fine, oltre l’idea di sé, oltre la certezza di sé, oltre lo sbarramento, oltre la cerchia, oltre la definizione. Oltre la lingua del vocabolario, quindi nella lingua del glossario e del dizionario, nella lingua dell’invenzione, dell’arte, della valorizzazione delle cose che si scrivono, non delle cose che sono già scritte, già pensate, non come possono essere pensate da qualcuno, non come sono, ma come si scrivono e come divengono. Le cose non sono, non sono mai, avvengono, divengono, accadono, ma non sono.
La negazione dell’atto procede dall’idea di gravità; le cose gravi, che pesano, che segnano. Ma l’atto è originario e la gravità degli atti, delle cose, del giudizio, la gravità è la negazione dell’originario. La gravità sarebbe ciò che segue al taglio della relazione, come se l’apertura, che è data da legame-slegame, tagliata, diventasse o tutto legame o tutto slegame. La gravità è intesa come rottura, rottura del due, rottura della relazione, come taglio del due.
La lingua dell’annunciazione è la lingua dell’attitudine, esige la linguistica dell’atto. Ci sono due modi in cui l’attitudine viene intesa banalmente, cioè esigendo il soggetto, la soggettività. Una è l’attitudine come inclinazione naturale, adattamento, propensione; sarebbe una forma di soggettività che si manifesta come indice dell’idoneità, dell’abilità naturale, innata, attitudine a fare questo, a fare quello, attitudine a un certo tipo di studi, a un certo tipo di attività, a un certo lavoro e non a un altro, inclinazione, sarebbe la deportazione naturale, chi è portato per qualcosa. L’altro modo sarebbe l’attitudine come atteggiamento, che è parente della personalità, anche qui in un’accezione psicologica, banalizzante. Mentre la prima attitudine sarebbe quella per cui qualcuno è adatto a fare qualcosa, l’altra attitudine sarebbe quella per cui qualcosa è stato fatto e perciò c’è attitudine a quella cosa. L’atteggiamento indica che c’è attitudine, ma, sia in un caso sia nell’altro, è tolto l’atto, l’attuazione, il modo in cui le cose entrano nell’atto e non sono già attuate, perché non c’è attitudine senza l’annunciazione, senza il dispositivo dell’annunciazione, che esige la conversazione, la narrazione, il racconto. Dispositivo in cui il programma e il progetto dispongono le cose all’attuazione che, quindi, non è né naturale né personale né soggettiva: non c’è il soggetto dell’attuazione, ma il dispositivo dell’attuazione! Non c’è il soggetto dell’attitudine ma il dispositivo dell’attitudine!
Nessuno è adatto, abile, idoneo per natura, senza il dispositivo dell’annunciazione, senza l’annuncio. Senza che le cose entrino nell’arca, nella struttura, come possono disporsi all’attuazione? Questo esige la disposizione, la generosità, l’umiltà, perché l’atto è originario, non è imparabile, non è assumibile. Non è questione di soddisfazione se le cose avvengono. Che la domanda si rivolga alla cifra non è questione di soddisfazione, non è questione di volontà né di volere. “Io so cosa voglio e quindi questa cosa non la faccio perché non rientra nelle mie previsioni, nelle mie esigenze, nelle mie certezze, nell’idea che ho di me. Potrò farla, ma in un altro momento, quando saprò farla, quando potrò farla, quando la mia idea di me e la mia idea delle cose corrisponderanno, saranno un tutt’uno, quando questa sarà un’esigenza di soddisfazione”. Le cose non procedono dalla soddisfazione. L’istinto, il desiderio, il bisogno non si definiscono in base alla soddisfazione né traggono soddisfazione dagli atti o dai fatti. Il sogno non è mai soddisfatto e, già lo notava Freud, per via del suo ombelico, non giunge mai alla sua soddisfazione completa, alla verità che ne rappresenterebbe la significazione. Nessuna significazione del sogno, nessuna significazione della domanda, nessuna significazione dell’istinto, del desiderio, del bisogno. Nessuno ha bisogno, nessuno ha desiderio, nessuno ha istinto di qualcosa.
L’umanizzazione – o, meglio, l’animalizzazione, la banalizzazione, la psicologizzazione, il toglimento della parola riducendo la domanda alla coscienza – ha potuto lasciare credere che il desiderio sia indice di una mancanza di qualcosa, e quindi è desiderio di quella cosa, e così l’istinto e il bisogno. Questa è la rappresentazione della modalità delle cose che finiscono per soddisfacimento. Ma l’atto non finisce, le cose non finiscono, la domanda non finisce, la soddisfazione non finisce, non tura una falla, non c’è questo positivismo della domanda e della soddisfazione, non vige pulsionalmente il principio del piacere per cui il piacere sarebbe noto e si tratta di fare ciò che dà piacere. Desiderio e istinto sono paradossi, paradosso dell’equivoco l’istinto, paradosso della menzogna il desiderio. Paradossi che mai si risolvono, che mai finiscono, che mai possono essere controllati, padroneggiati, soddisfatti sostanzialmente. L’idea del soddisfacimento, come soddisfacimento del desiderio, dell’istinto, del bisogno, è un’idea drogologica, psicologica, è un’idea demonistica che parte dall’idea della possessione. Il desiderio non è mai soddisfatto, l’istinto non è mai soddisfatto, il bisogno non è mai soddisfatto.
Il lancio e il rilancio della domanda indicano proprio questo, che la domanda non finisce, che il sogno non finisce e non è mai finito. L’ombelico del sogno, quello che Freud chiamava l’ombelico del sogno, è il suo incubo, l’indice dell’infinito, l’indice dell’odio, l’indice della mens. Il desiderio non è gestibile in nome della mancanza nota, in nome della desiderabilità, non è una proprietà del soggetto, non è coniugabile, ma è l’indice del paradosso della menzogna, quindi del funzionamento. Qualcosa funziona nella domanda e in questo funzionamento si instaura il desiderio e così l’istinto. Non c’è sostanza che possa dare la fine delle istanze della parola. Non c’è pericolo di fine! Questa è la questione, questo dice la lingua dell’annunciazione, ma occorre che non sia negata, che non prevalga la paura come rappresentante dell’idea di sé, della finitezza di sé, del cedimento alla finitezza di sé. Occorre interrogare gli indici della parola quando si pongono, occorre interrogare le questioni che si pongono, occorre azzardare ipotesi, risposte, illazioni, proposte, in direzione della qualificazione. Come avviene la qualificazione senza la molteplicità, senza che la molteplicità si scriva, senza che la memoria si scriva, senza che il disturbo si scriva e non si rappresenti nell’idea di sé?
Se ci sono domande, se c’è chi osa avanzare una domanda…
Marcello Toncelli Non mi è chiaro perché il desiderio non possa avere una soddisfazione sostanziale. Per esempio, se vi è il desiderio di compiere un progetto, poi, quando il progetto viene compiuto, il desiderio sembra che si soddisfi.
R.C. Non c’è il desiderio di compiere un progetto.
M.T. No?
R.C. Come può lei dire preventivamente che ha il desiderio di qualcosa?
M.T. Il desiderio di realizzare un progetto.
R.C. Per esempio?
M.T. Un progetto aziendale.
R.C. E quindi?
M.T. Quando questo progetto sarà realizzato e avrà successo, sarò soddisfatto.
R.C. Ah, ecco. Quindi questa formulazione è nell’ipotesi di essere soddisfatto. E perché lei lo chiama desiderio questo?
M.T. Perché lo desidero.
R.C. Perché lei crede di sapere che cos’è un desiderio.
M.T. Sì.
R.C. E in base a cosa? In quale lingua? Di quale lingua dispone lei per dire che sa che cos’è desiderio e che il desiderio sia desiderio di quella cosa?
M.T. La lingua comune.
R.C. Quindi lei parla la lingua comune e si bea della lingua comune.
M.T. Esatto.
R.C. Eh no! C’è un’altra lingua, che è la lingua dell’annunciazione, senza cui esiste solo la soggettività sostanzialista, l’idea di sé, l’attribuzione di un nome convenzionale alle cose in una lingua convenzionale; ma non c’è la parola. Viene chiamato desiderio qualcosa che nulla ha a che fare con il desiderio e che riguarda solamente un’ipotesi di volontà. Quello che lei chiama desiderio di fare un progetto sarebbe che lei vuole fare un progetto, no?
M.T. Sì, voglio che si realizzi.
R.C. Vuole! Ecco, lei vuole! Che c’entra questo col desiderio?
M.T. Allora intendiamo due cose diverse.
R.C. È chiaro. Quello che nella lingua comune viene chiamato desiderio è un’attribuzione della volontà a un soggetto. Nulla di più. Attribuzione di volontà che può giustificare, poi, qualunque deragliamento, inversione di rotta, difficoltà, problematicità, ma non indica che ciò vada nella direzione della domanda. Non lo indica affatto, è una formulazione convenzionale. Non è che uno può fare l’elenco dei propri desideri; sì, certo, può farlo nella lingua convenzionale, parlando di qualcosa cui viene dato questo nome, ma che non riguarda il desiderio come paradosso della menzogna, cioè paradosso del funzionamento della parola, perché è da questo che si trae di cosa si tratta quanto al desiderio, quanto all’istinto, quanto al bisogno nella direzione verso la qualità e non nella così detta esecuzione di un compito, di un’idealità, di una sintomatologia. Ognuno può dire io desidero: “Io desidero diventare un bravo ragazzo, io desidero diventare ricco, io desidero vivere a lungo…”. E cosa fai per questo? Niente, perché ogni cosa potrebbe incrinare questa longevità ideale. Allora ognuno può dire quello che vuole. Ma ciò che si dice si scrive proprio perché si situa nell’esperienza della parola, nella restituzione dell’esperienza della parola, di ciò che si capisce, si intende e si fa, nel modo del gerundio.
L’idea di potere formulare desideri, istinti, bisogni è ideologica, non è nel gerundio, ma è in uno scenario ideale, sociale, familiare, fiabesco. Che adiacenza ha effettivamente con la domanda che è in corso? Ognuno può dire di sapere cosa vuole fare e il mondo, certo, è pieno di persone che dicono di sapere cosa vogliono; e sapere quello che si vuole sarebbe veramente il segno della prestanza. Poi, magari, a un certo punto, dicono che pensavano di sapere quello che volevano, ma che adesso non lo vogliono più. Dopo tutto, si può sempre cambiare idea, no? Si può sempre cambiare idea: “Mi sono sbagliato, ho preso un abbaglio”.
Qual è la prova di verità? Ognuno crede di dovere essere preparato per affrontare le cose, formato, saputo, imparato, fortificato, edotto per rispondere correttamente se correttamente interrogato. È la schiavitù platonica. Che bellezza! Bisogna aspettare di essere preparati alla risposta corretta rispetto alla domanda corretta. Ognuno, quindi, può aspettare. Aspettiamo! Aspettate gente, aspettate! “Verrà un giorno…” disse, levando alta la mano, ma gli fu impedito di proseguire. La profezia! Ognuno si fa oggetto di profezie, profezie per lo più negative ovviamente, e si fa scaramantico rispetto alle presunte predizioni negative. Ma, la profezia non è dell’Altro, la profezia è provocazione, indica la direzione della domanda e non è la profezia dei genitori, dei parenti, degli amici, nei nemici, di chissà chi, non è di qualcuno.
M.T. La profezia indica cosa?
R.C. Indica la direzione. Questo non se lo aspettava, eh? Ma la profezia non è il destino segnato, non indica il destino, non è la predestinazione. La profezia esige il dispositivo per accorgersi che c’è, per capire che c’è, per intendere quale sia. Non è il desiderio materno “Non vedo l’ora che mio figlio diventi… Che mia figlia sia…”, e bla bla, ognuno si impegna a diventare il soddisfacimento del desiderio presunto della madre, del padre, dell’amico, dell’amica, di Tizio, di Caio, di Sempronio, di Felicino, di Anacleto e di quant’altri. Ognuno diviene il mezzo e il modo del soddisfacimento altrui. Non è così. Non è questo il soddisfacimento!
Qual è la lingua del soddisfacimento? Questo occorre reperire, non la sostanza del soddisfacimento, ma la lingua, i mezzi e i modi del soddisfacimento! Non le sostanze del soddisfacimento. È chiaro questo? Perché mi pare che viga invece un’idea drogologica del soddisfacimento, un’idea sostanziale che avviene per coniugazione: “Io voglio, io desidero, io so, io, io, io!”, “Io so quello che voglio, ma non riesco a farlo”, “Io so cosa devo fare, ma non riesco a farlo perché non lo so fare”, “So quello che è da fare, ma non riesco a trovare il modo”. Incagliamento della padronanza, incagliamento del sapere aggregato al fare, al volere fare, al sapere fare, al dovere fare. Idee della prescrizione, idee del soddisfacimento presunto, di sostanza, di fine, di origine che avviluppano, restringono e, anziché spalancare la porta, la chiudono. E allora c’è chi si nasconde, chi tituba, chi rimanda, chi aspetta, chi non sa decidere perché pensa di potere saperlo e pensa che l’attuazione dipenda dal sapere. No, l’attuazione non dipende dal sapere!
Beh, ma sto rispondendo prima ancora che voi mi facciate le domande.
Maria Antonietta Viero C’è una questione: dire la verità, in nome della verità di un presunto fatto che, però, per dirlo esige l’atto di parola. Introducendo l’atto di parola, di quale verità si tratta del fatto? Ammettiamo: c’è un incidente che viene rilevato e, nel rilevare l’incidente, sembra che possa essere descritto il fatto. Allora, come l’atto di parola dissolve il fatto e assolve la colpa di Tizio, di Caio e di Sempronio rispetto al fatto, al presunto fatto? Ma il fatto resta.
R.C. Quindi, restando il fatto, resta la colpa, resta tutta l’impostazione giudiziaria, tribunalizia, accusatoria.
M.A.V. Sì, ma allora come assolvere, nell’atto, il fatto che in ogni caso viene rilevato, scritto e posto come fatto? Perché sembrerebbe che l’atto che ammette la domanda, porterebbe a un effetto di verità che non è la verità del fatto, cioè nell’atto il racconto dissolve il fatto e comporta un effetto di verità, ma è la verità nella domanda.
R.C. Questo può accadere. Se nel racconto il fatto si dissipa, ecco che può instaurarsi qualcosa della verità, certo. Ma se si vuole la verità del fatto, si è fritti, c’è la frittata. Magari c’è a chi piace la frittata, ma non c’è parola, c’è disputa, tribunale, diatriba.
M.A.V. Anche un caso pensato, o descritto, o inteso come negativo è un’occasione d’intendere altro rispetto al fatto stesso.
R.C. Certo. La verità non è verità del fatto, è verità che segue all’instaurazione della cifra e, quindi, siamo in un’altra galassia, in un’altra costellazione. Parlando, intervengono le costellazioni per via dell’adiacenza di una cosa e di un’altra cosa. Pensare di dovere rispondere alla domanda inquisitoria nega le galassie, nega le costellazioni, nega la lingua. Infatti, di cosa è fatta la lingua? Di costellazioni, di galassie, mica di una parola in fila all’altra senza riverberazione, senza adiacenze, senza equivoci, menzogne, malintesi, senza effetti di senso, di sapere. No! Le cose procedono per riverberazione. Chi, invece, vuole andare dritto alla meta è nel pantano. Dritto alla meta, cosa vuole dire?
M.T. Dritto alla fine.
R.C. Dritto alla fine, chiaro. Dritto alla propria idea di fine, cioè senza fare le acquisizioni che la parola offre, le acquisizioni che vengono da costellazioni, galassie, adiacenze, riverberazioni.
M.A.V. Mi pare di capire qualche cosa in questo senso, che dire la verità sul fatto è conseguire la meta finale per sancire il fatto, anziché cogliere che “dicendo” il fatto, ciò apre all’equivoco, alla menzogna, alla combinazione del malinteso, insomma apre a un’occasione d’intendere qualcosa della domanda.
R.C. Sì, d’intendere. Intendere che c’è Altro. La cosa che gli umani si negano è soprattutto questa: che c’è Altro. C’è Altro da capire, Altro da intendere, Altro da fare, Altro da dire, Altro da ascoltare, Altro. Negando ciò, è negata la lingua, è negata la parola e si procede per luoghi comuni, frasi fatte, mitologie o ideologie, ma è negata l’acquisizione, è negato il bello, il bello della cosa, l’utile, ciò che eccede.
Sabrina Resoli Non ho una domanda, pensavo alla fantasia che l’Altro possa sapere la verità su di sé, per cui, parlando, l’Altro scoprirebbe che si sta mentendo.
R.C. È una brutta situazione!
S.R. Pensavo a quello che si diceva all’inizio. Il cercare la risposta definitiva, la risposta esaustiva, è pensare che ci sia una risposta che non lascia dubbi e pensavo se l’idea che esista una tale risposta si basi sull’ipotesi che l’Altro sappia la verità.
R.C. Ma questa è un’animazione, è un colloquio con il magistrato, è un interrogatorio. Questo che lei chiama Altro, è in realtà il soggetto inquisitorio che occorre ingraziarsi. Come potere ingraziarsi il soggetto inquisitorio? Confessando! Confessando subito tutto quello che si sa e soprattutto tutto quello che non si sa, perché sia chiaro che non si sa, e, quindi, l’atto di sottomissione è al sapere, all’Altro che sa, all’Altro inquisitorio.
S.R. Spesso si sente chi avvia una conversazione scusandosi già per quello che non saprà dire, se quello che dirà non sarà…
R.C. Questa è furbizia. Può essere anche una captatio benevolentiae. L’oratore che vuole ingraziarsi il pubblico, incomincia facendo atto di umiltà, di modestia per ingraziarsi il pubblico e favorire la disposizione dell’uditorio a udire le cose che l’uditorio sa già, perché nulla spaventa di più l’uditorio che l’ipotesi di ascoltare qualcosa che non sa! Risulterebbe molto impegnativo e favorirebbe l’esodo del pubblico, il quale volentieri ascolta quello che sa, ma non quello che non sa, perché questo lo impegnerebbe assai.
Qual era, quindi, la domanda?
S.R. La domanda non c’era…
R.C. Non c’era la domanda! Ecco, brava, neghiamo subito ante litteram che possa esserci domanda.
C’è Fernanda che ha alzato la manina.
Fernanda Novaretti Volevo chiedere se questa cosa della risposta esaustiva ha a che fare con la curiosità, in qualche modo.
R.C. No, la nega.
F.N. No, come se la risposta che viene data non fosse all’altezza di provocare in qualche modo la curiosità.
R.C. Siamo già nella rappresentazione erotica. La rappresentazione erotica procede dall’idea che x deve soddisfare y, la risposta di x deve soddisfare la domanda di y. Sarò in grado di soddisfare la domanda di x o di y? Sarò in grado? Non sarò in grado! È un concetto amoroso della soddisfazione. Riusciranno i nostri eroi a soddisfare la domanda del soggetto inquisitorio? Romanzo d’avventura, è già tutto un impasto, un invischiamento, c’è x che fa la domanda, y che deve rispondere e soddisfare la domanda. Se poi x non è soddisfatto, si incattivisce e brandirà la frusta per vendicarsi. Allora dice che non va neanche a quell’appuntamento, perché non ci sarà soddisfacimento erotico. Questa è la rappresentazione di chi pensa di dovere rispondere esaustivamente.
M.T. È la relazione sociale?
R.C. Sì, è l’ideologia sociale del soddisfacimento, sociale e psicologica, dove tutto è impostato sui soggetti anziché sulla parola. Attori sono i soggetti perché non c’è nome, ci sono i personaggi e non c’è il nome, e quindi è un teatro di personaggi senza gli attori e senza gli autori, è una lotta, un incontro di lotta. Questo è il meno che si possa dire. Non c’entra la curiosità, ma l’idea di dovere dare soddisfazione, cioè il duello. Avete presente la formula del duello? Voglio soddisfazione! Anzi, non lo dice nemmeno il protagonista, ma manda i padrini che dicono: “Il nostro rappresentato chiede soddisfazione”. “Perbacco” rispondono i padrini di quell’altro, “Sì, sì, gliela darà!”, e si godono lo scontro da cui uscirà magari il morto, per dare soddisfazione.
La soddisfazione dove sta? La formula del duello è bene indicativa della rappresentazione della soddisfazione psicologicamente intesa, che nulla ha a che fare con il soddisfacimento della domanda, con la questione del piacere che è tutta un’altra faccenda, di cui può esserci testimonianza ma non pretesa, non “domanda di piacere” o “domanda di soddisfazione”.
È una cosa curiosa, è una cosa su cui possiamo ragionare, mi pare. È una questione, no? Attenzione, quindi, all’idea di credere di dovere dare soddisfazione a qualcuno, che è una cosa che può essere analizzata. Non applicata, ma analizzata!
La lingua della notizia
Ruggero Chinaglia Chi si crede, si pensa, si definisce, chi crede all’immagine che crede di avere di sé, chi crede a tutto ciò nega la parola in nome dell’appartenenza al sistema, alla cerchia, alla genealogia, al ghenos, al genere che deve essere rappresentato dall’evoluzione e dal progresso.
L’idea di evoluzione e di progresso negano la parola, la notizia e la novità che sono bandite come blasfemia. I lessemi evoluzione e progresso, così in voga, acclamati, condivisi, così usati, sono celebrazioni dell’origine. Per la biologia, l’origine comune è il caposaldo della teoria evolutiva. Non ci sarebbe evoluzione senza l’ipostasi dell’origine comune. Ogni principio evolutivo esige l’origine comune.
Anche la nozione di progresso si affianca al principio evolutivo, pur uscendo dai limiti biologici per allargarsi a ambiti sociali, politici, ideologici, di presunta civiltà. Il progresso della civiltà e il progresso sociale presumono l’avanzamento dal bene al meglio. Progresso e evoluzione sottendono la volontà di bene, sottendono l’idealità del bene, di come rivolgersi al bene. È bene funzionale, morale, ideale, sociale che sfocia nell’idea di salvezza dal male, salvezza dalla morte. Parlare o pensare in termini di evoluzione e di progresso è mantenere il riferimento al fondamento dell’origine, sia come idea, sia come principio primo. Farsi esponente dell’evoluzione o del progresso è farsi portatore dell’origine e significato dall’idea di origine, dalla propria idea di origine, dall’idea della propria origine.
Questo è il limite che nega le virtù intellettuali: aderire all’ipostasi dell’origine. Aderire all’idea di evoluzione e di progresso è come dire negare la qualità della vita, farsi esponente biologico in nome della vita animale, in nome della morte certa. E ogni problema vario e eventuale è conseguenza. Diretta conseguenza! Pretendere di dissipare il problema, mantenendo questo riferimento all’origine e alla morte, è vano. Il riferimento all’origine non necessariamente vige solo menzionando l’origine, ma si avvale di succedanei, metafore spirituali, sociali, credenze e ha la sua lingua, la lingua comune, cioè la lingua che si attua come lingua del buon senso, lingua del sapere, lingua di riferimento, lingua parlata, lingua del sapere comune. Ogni riferimento al sapere assunto come verità, al sapere condiviso, al sapere certificato, al sapere vigente è riferimento all’origine, al ghenos, alla cerchia, al gruppo, all’insieme, alla compagnia di riferimento, che si caratterizzano per alcuni punti fermi, grazie a cui possiamo asserire che “noi sappiamo”.
“Noi sappiamo che” è la formula dell’appartenenza al genere, all’origine, alla mortalità, al pregiudizio che nega la parola. Il riferimento al punto dato come punto fermo, acquisito, condiviso, si costituisce come fondamento attorno cui può sorgere, istituirsi e confermarsi la comunità, la compagnia, il gruppo confermato dal pregiudizio sulla parola, sul genere, sull’origine. È il pregiudizio di disporre della base comune, del fondo comune, del carattere comune che possa istituirsi come stigma, come caratteristica.
Questo è il sociale, da distinguere dal civile che indica, invece, l’accoglimento dell’Altro, l’instaurazione dell’Altro, gli indici del diritto e della ragione dell’Altro, della struttura dell’Altro; gli indici della differenza assoluta per cui la parola è accolta senza riserve, paura, vergogna, senza pudori, pregiudizi, preconcetti. La negazione del diritto e della ragione dell’Altro, della differenza, la negazione degli effetti della parola istituisce la lingua dell’origine, la lingua sostanziale, la lingua che deve mantenere il riferimento alla sostanza come idea comune, cioè la sostanza di sé, dell’Altro, sociale, di genere, la sostanza di riferimento.
“In buona sostanza, cosa vuoi dire?”, “In buona sostanza, fammi capire cosa vuoi dire”, “In buona sostanza, io cosa sono? Come sono? Come dovrei fare?”, “Cosa dovrei fare in buona sostanza?”, “Cosa dovrei dire per non essere fraintesa, per non essere esposta agli imprevisti della parola?”, “Cosa dovrei dire perché possiamo capirci, perché ognuno capisca, senza equivoci, senza malintesi, perché sia chiara la sostanza?”. Per la comprensione occorre ci sia il riferimento sostanziale, il riferimento all’origine, all’evoluzione, al progresso, il riferimento a cosa siamo, a dove siamo, a dove andiamo, a cosa vogliamo, perché sia chiaro che noi siamo uguali!
La lingua dell’origine, lingua senza equivoci, malintesi, sfumature, la lingua che non ponga l’eventualità della domanda, ma l’interrogativo “Cosa penserà di me se dico qualcosa che non è comune? Che cosa penserà l’Altro di me? Cosa penseranno gli altri di me?”, è la formula che interviene quando, per una svista imprevista, imprevedibile al soggetto, interviene qualcosa di equivoco, di non comune, di non scontato. Allora, l’irruzione della differenza improvvisa, imprevista, respinta, si volge per il fantasma materno nella domanda: “Adesso cosa penserà di me? Cosa penseranno gli altri di me, che non appartengo più alla stessa origine, allo stesso genere, allo stesso clan? Penseranno che non appartengo più al ghenos, che sono diverso, che sono diversa, che non sono a norma, che non sono normale?”.
Sta qui la vergogna dell’alterità, quasi sensazione dell’alterità, della differenza che viene considerata la deroga alla prescrizione di essere come il ghenos comanda, un indice della diversità sociale, indice dello statuto intellettuale che irrompe nella soggettività e a cui la soggettività si oppone, fa ostruzione, perché la soggettività si pone come sostegno dell’appartenenza al genere. La vergogna dell’alterità e della differenza è la vergogna dello statuto intellettuale, è la vergogna della sessualità che irrompe nonostante le barriere soggettive, le prescrizioni sociali dell’appartenenza e le prescrizioni sociali dell’erotismo sociale.
Lo statuto intellettuale è marcato dall’insopportabile della distinzione, dall’insopportabile della provocazione e dall’incompatibile della differenza sessuale, che è differenza assoluta; non differenza di Tizio rispetto a Caio, non differenza di genere o di persona, ma differenza assoluta, senza pari, senza comparazione possibile, senza rappresentazione possibile. Lo statuto intellettuale è inconciliabile con la relazione sociale, con l’appartenenza sociale che è l’appartenenza al genere, cioè l’idea di genealogia. Lo statuto intellettuale è statuto nel dispositivo della parola e è caratterizzato dalla solitudine, non dalla compagnia, dalla condivisione, dall’euforia o dalla disforia, non dalla depressione, dalla rappresentazione del male dell’Altro o dall’etichetta sociale, non dalla convenienza sociale o dalla prescrizione sociale, ma dalla solitudine, che è prerogativa dell’oggetto, condizione della salute. La solitudine volge alla salute, e sentirsi solo o sola è allucinazione della solitudine negata.
Solamente negando la condizione della parola, l’oggetto della domanda, è possibile sentirsi soli, ossia senza parola, senza l’Altro, senza dispositivo. Soli, nella rappresentazione del deserto o della foresta, senza la parola, cioè fuori dal sociale, dalla compagnia, dalla comitiva che garantisce l’uniformità dell’origine. Sentirsi solo è indice del compromesso fantasmatico con l’origine, con la genealogia, con la negazione della parola. Indica la conformità al posto ideale che ognuno si assegna in ossequio alla genealogia, il posto presunto assegnato dal nome del nome, dal nome che dovrebbe rappresentare l’essere nella genealogia, nel ghenos, nell’evoluzione, l’essere nel progresso familiare, sociale, ideale.
Il fantasma di genealogia è fantasma materno, fantasma di fine del tempo, fantasma di origine. Genealogia, fine del tempo e origine sono tre modi di negare il tempo, la parola, il divenire. Tre modi di sancire l’appartenenza ideale al popolo ideale, alla famiglia ideale, allo stigma ideale, all’etichetta ideale che ognuno si affibbia, si assegna, si consegna, per poi dire: “Io sono così, io questo sono, che ci posso fare?”. “Io sono”, è il modo di negare il funzionamento della parola, di negare il “non”, la funzione dell’impossibile dell’uno, il modo per credere di potere definirsi, conoscersi, sapere cosa si è, e, conseguentemente, cosa si può fare. Fantasma di genealogia, di origine, di fine del tempo, tre modi con cui si afferma la negativa del tempo.
Quante volte ricorre la formula “Ma ormai il tempo è finito. Il tempo non c’è più. Non c’è più tempo. Non farò in tempo perché il tempo sta per finire”? Come darsi la morte più di così? Come assegnarsi la morte certa più di così? Come negare la sessualità più di così? L’idea dell’ultimo minuto, dell’ultimo tentativo, dell’ultima volta è per confermare l’ipotesi che il tempo passa, scorre e quindi finisce. L’idea dell’ultimo si bilancia con l’idea di rimando, per far sì che l’ultimo tempo si estenda prima di finire e non scada mai e nulla possa finire perché, se qualcosa avvenisse, sancirebbe che il tempo, a quel punto, può finire o forse è già finito.
Ecco la lingua della fine, del finito che ognuno assume pensando che si tratti solamente di modi di dire. I modi di dire sono i modi della lingua comune, della soggettività. Sono i modi della condivisione dell’origine e della fine. La lingua della fine, del finito, della mortificazione è la lingua del vocabolario normale, normativo, la lingua dei modi di dire, dei modi comuni, la lingua normale, delle cose sostanziali, delle cose comuni e note, la lingua delle cose chiare, già così chiare che non esigono chiarimento né valorizzazione. Il valore non è richiesto nella lingua, è bandito. La normalità e l’idea di appartenenza alla normalità, bandiscono il valore e istituiscono il genere, il generico, lo standard. In questa fantasmatica il valore è una complicazione che esige la soluzione definitiva, la soluzione sostanziale, una volta per tutte, senza lingua.
Alla lingua è sostituita la sostanza, la rappresentazione sostanziale di sé e dell’Altro e così ognuno sa ciò che è, ciò che può fare, ciò che può diventare, ciò che è diventato; sa ciò che non può fare, non può diventare, non può essere perché già è. Ogni idea deve essere l’applicazione del sapere che quell’idea è presunta significare. Non ci sono più idee e fantasie, ma conoscenza, sapere e sostanza. La fantasia si sostantifica nel reale e, così, avviene la sospensione della parola e della lingua, nella rappresentazione di essere ciò che si pensa. Non c’è più l’idea, c’è il sapere “So che… Sappiamo che…”, convertendo ciò che si pensa nel sapere di sé e nel sapere dell’Altro, cioè nella negazione di sé e nella negazione dell’Altro. Il sapere sull’Altro e sulle cose è la prescrizione all’idiozia, l’abolizione della particolarità, della scrittura della particolarità, della differenza e della scrittura delle cose.
L’esperienza della parola è sprovvista di riferimento sostanziale o ideologico, è esperienza narrativa, linguistica, esperienza della valorizzazione di cui esige testimonianza, racconto, cifratura. È inesauribile e senza fine. L’analisi, la teorematica, è il preambolo alla valorizzazione e alla qualificazione. Come può avvenire la qualificazione di qualcosa in assenza della teorematica? Se quel qualcosa è assunto come tale, come può essere qualificato? Chi può qualificare qualcosa se parte dall’idea tale? Se la cosa è tale, se io sono tale, se noi siamo tali, se ogni cosa è tale nulla può mutare, nulla può accadere.
Ognuno chiede tempo per capire, formarsi, aumentare le conoscenze per imparare di più. Ma se l’ipostasi è che le cose sono tali, se viene negato il preambolo, come può avvenire la qualificazione? Come può avvenire la scrittura della qualificazione, la valorizzazione, la scrittura della valorizzazione, la capitalizzazione dell’esperienza? Ognuno può valutare, sulla base del proprio itinerario, quante barriere, quante opposizioni, quanti contrasti, quante negazioni frappone alla direzione della parola, al proseguimento, all’accadimento della parola, al divenire delle cose in nome del presunto intervento salvifico che dovrebbe cambiare le cose. L’intervento del cambiamento, negando però il preambolo, l’esperienza, la parola, invocando il cambiamento salvifico, immaginifico, magico! L’intervento salvifico è nei confronti dell’inesauribilità della domanda. “Eh, ma occorre pure che a un certo punto la domanda termini, le questioni terminino, il divenire termini con il raggiungimento di un essere, dell’essenza stabile, della stabilità definitiva!”. Certo, e che sarà significata dal rigor mortis, stabile, indice dello stato definitivo!
Che la domanda sia contrassegnata dall’ancora e dall’oltre è intollerabile dal fantasma materno. Ancora e oltre dissipano il fantasma materno sulle cose, dissipano il solco, il confine, il limite e l’idea di sé e dell’Altro; la rappresentazione di sé e la definizione di sé. Ancora e oltre impediscono la presa sostanzialista, definitoria, definitiva. Il fantasma materno tenta di sostituire alla ricerca, all’impresa e al dispositivo della parola, l’intervento salvifico: la soluzione! “Eh, ma qui non c’è mai soluzione!”. Come dire che non c’è fine. Infatti, non c’è fine né soluzione. C’è qualificazione, variazione, differenza, arte, invenzione. Non c’è soluzione.
Questo è il teorema della ricerca: non c’è più soluzione. Questo è il teorema dell’analisi: non c’è più soluzione, non c’è sostanza che possa sciogliersi o diluirsi; non c’è solvente. C’è teorema, c’è la teorematica e l’assiomatica per via della costruzione, della scrittura del progetto e del programma, che non sono proprietà magiche del progetto e del programma, ma sono proprietà dello sforzo intellettuale, proprietà dell’esperienza, proprietà della vicenda e proprietà del viaggio. Chiaro che se si toglie il viaggio…
L’intervento salvifico, invece, anziché il viaggio, l’esperienza e l’avventura, è ciò che consentirebbe l’applicazione dell’algoritmo. Algoritmo algebrico e geometrico con la prescrizione di ciò che ognuno deve fare per rispondere convenientemente all’algoritmo stesso, e per potere consentire, con la lingua unica, la traduzione e la trascrizione del disagio, che da virtù del principio è così volta in malattia mentale o disturbo mentale. L’alterità, l’alterazione, la variazione, la qualità, anziché proprietà del viaggio, potrebbero così diventare una classificazione del mentale come malattia e come disturbo.
Questo è ciò che avviene negando la parola e negando il disagio come virtù del principio, e accettando l’alternativa che questa negazione comporta, accettando l’alternativa tra bene o male, tra bene di sé o male di sé, tra bene dell’Altro o male dell’Altro. Bene o male? Essere o non essere? L’alternativa che procede dalla negazione della parola è la base del pregiudizio psichiatrico, che ordina l’anomalia della parola e della domanda in malattie mentali e disturbi mentali.
Negata la parola, l’analisi, la qualificazione, l’esperienza, ognuno si trova nel pregiudizio psichiatrico e nella classificazione conseguente; si trova a dovere scegliere tra il canone normale e il canone anormale. Perché comunque di canone, di classificazione si tratta! E, infatti, il pregiudizio psichiatrico, con il suo ordine alternativo, alimenta il pregiudizio di sé e il pregiudizio dell’Altro come indice del fantasma materno. Il pregiudizio psichiatrico procede da un ordine ideale che presuppone la mente cosmica, la mente universale, normale, comune, generale, cioè di genere e il cui funzionamento sia univoco, rettilineo, meccanico. I famosi meccanismi mentali per cui ognuno ha i suoi.
La questione è in che modo e in che misura ognuno aderisce al pregiudizio psichiatrico, cioè applica alle cose, alle parole, alla vita, il principio della bilancia e del bilanciamento, cioè il principio equazionale in base al quale, per una proprietà dell’uguaglianza, qualcosa manca o qualcosa è in eccesso. Per ciò, a ognuno bisogna dare o togliere, dando quello che manca e togliendo quello che è in eccesso, in modo da ristabilire l’equilibrio della bilancia, l’equilibrio dell’essere. Il bilanciamento, per ristabilire la quantità normale, la quantità di sostanza, di sforzo, di fatica, di lavoro, di bene, di male, la quantità di soddisfazione. Come deve essere ognuno? Cosa bisogna fare perché sia conforme al principio di uguaglianza, al principio di conformità?
Il principio psichiatrico è la conformazione al principio dell’uguale, da cui discende la prescrizione dell’uguale sociale che si compie idealmente con l’applicazione dell’algoritmo mentale, ossia della normalità mentale. Questo è l’algoritmo mentale: la normalità mentale, l’ideale mentale, la mentalità ideale, l’assenza di parola, l’abolizione del disturbo strutturale. Ciò che si struttura disturba ma, il disturbo, è la strutturazione! Come abolire il disturbo? Abolendo la struttura! Come abolire la struttura? Con l’essere ideale, con la sostanza ideale, con l’algoritmo ideale, con la circolarità, circolando!
Ogni campagna preventiva in materia di salute, di disagio, di suicidio e di varie altre cose, è una campagna egualitaria. È in nome dell’uguaglianza che si può fare la campagna di prevenzione, presupponendo e prescrivendo il canone egualitario. L’uguaglianza ideale è ciò che istituisce e mantiene il pregiudizio psichiatrico con i suoi canoni diagnostici, di conoscenza. Canoni che istituiscono il paziente psichiatrico, che deve essere paziente, consenziente e collaborante con la cura, ossia con il principio del male e del suo nome, il nome che lo rappresenta socialmente.
La nominabilità del male è ciò che istituisce il prontuario medico e psichiatrico. La nominabilità invece della nominazione! La nominabilità invece dell’oralità, della lingua che procede dall’afasia. Nominabilità, che procede dall’abolizione della lingua, dall’abolizione dell’afasia e dall’abolizione della parola. C’è la sostanza, non c’è la parola, per cui le cose sono nominabili. La nominabilità assicura l’uguaglianza delle cose, per cui non c’è pericolo, non c’è nessuna possibilità di equivoco, di malinteso, ma la certezza della comunicazione, della comunicabilità. Nominabilità, ripetibilità, conoscenza: questa è la linea e l’allineamento. Linea e allineamento una volta tolta la parola e tolta la lingua con ciò che le sta attorno. Tolto il “circa”, tolta la ricerca e l’indagine per capire il circa, ciò che sta attorno.
Forse che il dire sottostà all’idea di sapere? “Non so cosa dire”. Oh, “Non so cosa dire”. Forse che il fare sottostà all’idea di sapere? “Non so cosa fare, non so come fare, non so. Oh, non so… Se sapessi, quante cose farei! Quante cose direi se sapessi! Allora sì! Se avessi saputo sarebbe stata un’altra vita”. Parlare, fare, non sottostanno al principio di competenza, né al principio di conoscenza, né al principio di pertinenza. Non c’è luogo della parola, del sapere, della certezza, della competenza. La parola è senza luogo.
Sapere cosa dire, cosa fare, come fare istituisce l’idea di misurarsi con il compito, con la missione, con la difficoltà. Misurarsi per stabilire se si è all’altezza, se si è abbastanza per sapere e per fare. E così ognuno si chiede, misurandosi, se sarà all’altezza e, misurandosi, evita la prova. “Intanto prendo le misure”, come le prende il falegname, anzi, adesso non c’è più il falegname, c’è direttamente il becchino che prende le misure senza più passare dal falegname, le misure per l’assegnazione del posto. Ognuno, misurandosi, si assegna il suo posto. Altrimenti, perché misurarsi, perché misurarsi con il compito? Se le cose procedono, perché misurarsi? Se le cose accadono, avvengono e divengono, perché misurarsi? Perché definirsi, perché credersi? Perché?
Tutto ciò fa parte della lingua del finito, della finitezza, della lingua del pregiudizio psichiatrico. Chi formula quest’ipotesi è un aderente del pregiudizio psichiatrico, che sia chiaro. Non c’è possibilità di compromesso: o si instaura lo statuto intellettuale nel dispositivo di parola o c’è il pregiudizio psichiatrico. È inutile ogni mediazione, ogni tentativo di misurazione, di compromesso o di approssimazione, “Mah, forse, solo un po’, ma non più di tanto”, quel che basta per evitare la blasfemia, l’accusa di differenza assoluta – non di differenza relativa, ma assoluta – quel che basta per evitare lo sconcerto dell’idea: “Ma cosa gli altri penseranno di me? Penseranno che sono diverso? Che sono diversa? Che non appartengo più? Che ho rinnegato l’origine, la famiglia, la genealogia?”. Ohibò! E, allora, il ricorso alla conformazione, a quello che, in ossequio all’animale fantastico, viene chiamato… Come viene chiamato quell’animaletto che si confonde sullo sfondo?
Barbara Sanavia Camaleonte.
R.C. Non il camaleonte.
B.S. Il camaleonte non si confonde? Non cambia?
Lucio Panizzo Animaletto che si nasconde sullo fondo? Mi sfugge.
R.C. Si chiama ereditarietà!
Daniela Sturaro L’erede?
R.C. No, capisco che lei è tutta presa dall’erede che è nato, ma non è un erede quello, è un bambino, senza eredità.
B.S. Cercavo di immaginare a cosa si riferisce come animaletto. Pensavo a una cosa scientifica.
L.P. Ma, non è riferito alle varie ricerche sui piselli? A Darwin?
R.C. No. Inoltre, non è stato Darwin a fare ricerche sui piselli.
L.P. Ah, no?
Pubblico Mendel.
L.P. Mendel! Mi confondo.
D.S. Ma, veramente è un animale? Non saprei.
R.C. È interessata lei all’animale, eh!
D.S. Non è un animale vero e proprio, nel senso di un insetto…
R.C. Come si chiama quella proprietà per cui c’è similitudine dell’animale? Ma come? Quante volte ne abbiamo parlato!
B.S. Forse si riferisce alla genealogia?
R.C. No, assolve il principio genealogico. È così che seguite voi? Ma come? Che cosa abbiamo più volte ribadito che viene chiamata ereditarietà ma che, invece, assolve un principio…
B.S. Mimetico?
R.C. Il mimetismo! Il camaleonte è un animale che sfrutta il mimetismo, no? Mimetismo, questa proprietà di sancire, esaltare, confermare la credenza nella genealogia, riprodurre la caratteristica ritenuta dominante, significativa, genealogica, che vale come etichetta. Il mimetismo! Per soddisfare il postulato genealogico ognuno si mimetizza e ogni forma mimetica è negazione della parola, abolizione della parola, negazione del viaggio, del cammino, del percorso. È un appello alla salute sostanziale, genealogica. È la forma erotica, ma la domanda non è richiesta erotica. La domanda è sessuale, esige il proseguimento, l’apertura, non la chiusura, non la risposta.
La negazione dell’interlocuzione, la paura dell’interlocuzione come si formula? “Eh, magari mi domanda qualcosa”. Sì! E come può accadere che non ci sia domanda? Solo che la domanda non è la richiesta. La domanda esige di trovare il lancio e il rilancio, non la risposta, non la chiusura, non la conferma del “che cos’è?”.
Il “che cos’è?” esige il lancio e il rilancio, non la risposta, non la sostantificazione della cosa. La cosa non è descrivibile. La cosa è indicibile, non segue il principio dell’ineffabile della sostanza. Non c’è cosa che, parlando, non intervenga nella metafora, nella metonimia, nella catacresi, nella narrazione, nel racconto. Solamente pensando che la cosa sia rappresentabile nella sostanza può intervenire l’ineffabile della cosa. “Come posso io rispondere alla domanda se ignoro la cosa? Se non so com’è fatta la cosa nei minimi particolari? Se non ho la conoscenza della cosa?”. L’ineffabile non è proprietà della parola, le cose sono indicibili. Impossibile dire le cose. Le cose si dicono, ma è impossibile dire le cose. E, dicendosi, le cose si dividono, dividendosi si piegano, piegandosi si fanno, facendosi si scrivono.
Come potere dire le cose? Abolendo la lingua, la cosa, la parola! È l’incontro spirituale quello per cui a domanda c’è risposta, è il convegno spirituale tra l’inquisitore e la sua vittima, è il convegno erotico dove il richiedente deve trovare soddisfacente la risposta. Al posto della parola, l’abdicazione.
Ciascuna cosa, parlando, è travolta dal funzionamento, dal tempo. Ciascuna parola è parola nuova. La lingua della parola è la lingua della novità, la lingua dello scambio, è la lingua della novità, dell’annunciazione, della qualificazione, della valorizzazione. Come credere di trovare comprensione, identità, accettazione, accordo senza negare la lingua, la parola e i suoi modi, senza negare l’esperienza? Come promuovere l’esperienza negando i modi stessi della parola, presumendo di partire dalla conoscenza, presumendo che l’atto sia già avvenuto, presumendo di avere la conoscenza dell’atto, la conoscenza sull’atto, sulle cose che si diranno, sul dispositivo da instaurare? È l’incontro fra cadaveri.
La promozione della parola non può negare i modi della parola, non può negare l’interlocuzione, il transfert, la qualificazione, l’atto nella sua originarietà di cui non c’è conoscenza. La lingua della novità è la lingua senza il canone dell’accordo egualitario e senza il canone dell’erotismo accomunante. Questa è l’esigenza intellettuale, sta qui la questione intellettuale senza accomodamento possibile.
La lingua della volontà e il giro della morte
Ruggero Chinaglia Il momento è propizio perché il mare non sia più la metafora del naufragio e non sia più rappresentante del mondo nascosto popolato dai cadaveri, ma avvii piuttosto la fabula dell’approdo. Il mare, la navigazione, l’approdo. L’approdo, navigando. Navigando, viaggiando, facendo. La navigazione esige lo sforzo. La navigazione, all’insegna della ricerca, dell’esplorazione, all’insegna del rischio. Navigando, il rischio. Rischiando, l’approdo.
Oggi, la navigazione ha svilito i termini che l’hanno caratterizzata, anche storicamente, come modo del viaggio, della ricerca, della trovata, dell’invenzione. L’invenzione dell’America avviene navigando. Colombo inventa l’America navigando. Oggi, la navigazione è all’insegna dell’algoritmo, cioè della metafora della volontà dell’Altro nascosto, contrapposto all’Altro manifesto, all’Altro evidente che non esige la ricerca ma la manifestazione di sé, la conferma dell’idea di sé, la realizzazione dell’idea che passa per la testa, della testa con ciò che ci sta dentro. Ma, il viaggio, la navigazione esigono lo sforzo, esigono il rischio, esigono la conversazione, la narrazione, il racconto. Esigono il dispositivo del viaggio che si fa della parola e dei suoi modi, nel gerundio: conversando, narrando, raccontando. Allora, le cose si scrivono.
Il viaggio non si fa per confermare l’idea di sé o l’idea dell’Altro, per dimostrare l’idea di sé con tutte le negatività, le pecche, le impronte, le stigmate dell’origine, della famiglia intesa come la famiglia di origine. L’idea di sé si conferma nel giro della morte, il giro dall’origine alla fine. Il giro della morte: il giro dei pensieri, delle pensate senza attraversamento, senza viaggio. Il giro dei pensieri applicati, dei pensieri che diventano automaticamente sapere e verità. Il giro della morte, il giro dall’origine alla fine, dimostrando la predestinazione in cui ognuno si crede votato: predestinazione dell’origine, predestinazione della fine, predestinazione al negativo. Nel giro della morte nulla si scrive perché regna l’attesa che si compia l’idea negativa, la negatività su cui ognuno si fonda come soggetto. La negatività diventa prescrizione dell’attesa e il soggetto si distingue per attendere, per evitare tutto ciò che può mettere in questione e in discussione la negatività, che è il suo fondamento. Evitamento della parola, del dire, del fare. Evitamento del testo.
Il testo che si dice, il testo di ciò che si dice è enigmatico. Il testo che si scrive, il testo di ciò che si scrive è enigmatico. L’onirico è enigmatico, la struttura è enigmatica. Nulla di misterico o di misterioso. Nulla di arcano o di nascosto. Enigmatico! Ciascun elemento è enigmatico. Il misterico, il misterioso, l’arcano possono appellarsi a un sapere che il daimon, o l’Altro inteso come daimon, o la divinità intesa come daimon può custodire, celare. E quindi rivelare. È vano formulare quiz per sciogliere l’enigma che resta inevitabile e indecifrabile. Il testo esige l’ascolto, la lettura e la scrittura. Esige la cifratura verso un altro testo. Non certo la decifrazione.
Perché la “lettura” del testo? Perché la lettura rilascia l’enigma della differenza sessuale, non rileva la spiegazione della differenza sessuale. Rilascia l’enigma, l’enigma della questione intellettuale, del vivere, della sessualità. L’enigma che giova all’intendimento lungo le vie del fare. L’evitamento del pragma, del fare, del dispositivo pragmatico vanifica la parola e l’esperienza, abolisce la ricerca e l’impresa. Nega la ricerca e l’impresa perché realizza il pregiudizio di sé togliendo l’Altro, togliendo la struttura che si scrive e ciò che nella struttura si scrive. Abolizione della memoria e esaltazione dei ricordi. I ricordi di sé, i ricordi dell’origine, i ricordi che realizzano ogni idea di sé. I ricordi tolgono la forza. Perseguendo i ricordi, abbiamo la stanchezza, l’inerzia. Abbiamo l’idea del nulla che deve rappresentare il modo di vivere.
La parola, il suo testo, la sua scrittura non sono sottomessi al principio dell’utilità e della finalità. A che scopo, a quale fine io dovrei fare questo e quell’altro? Rischiare questo e quell’altro intendendo l’utilità e la finalità come il lasciapassare del testo? Il testo avrebbe senso in quanto utile e finalizzato all’utilità prevista e approvata.
Il giro della morte, il giro della predestinazione, il giro del sapere sull’utilità e sul fine. Sapere ciò che si è: negazione del tempo e del divenire, negazione della parola e dell’effettualità. Stabilità emotiva, ideale, inerziale. Fissità, immobilità, soggettività. La soggettività è immobile.
Il futile e il frivolo del testo sono fiori, frutti della fluenza del testo, della superfluenza che é il modo del tempo. Il futile, il frivolo giovano alla scrittura del testo con la scrittura dell’esperienza, scrittura del viaggio, cioè scrittura non soggetta alla prescrizione di ciò che deve accadere. Il soggetto presume di sapere ciò che deve accadere, di come devono andare le cose e sottopone le cose alla prescrizione del giro della morte, alla negazione pragmatica. È la celebrazione di sé e dell’idea di sé. Celebrazione dei limiti, delle pecche, dei deficit e delle deficienze soggettive. Il soggetto è deficiente per antonomasia, per definizione. Manca sempre di qualcosa. Manca di ciò che idealmente dovrebbe essere, o raggiungere, per sapere e potere fare in modo conforme, per rispondere alla conformità.
Ma il testo non finisce. Il testo non è mai finito. Il dispositivo non è mai finito nonostante ogni rappresentazione soggettiva, nonostante ogni idea di finitezza che il soggetto getta dinnanzi a sé per indursi a accettare la morte bianca, la morte della parola. Il testo prosegue con la cifratura di quel che si dice e si scrive. Prosegue con l’altro testo. Il processo è infinito, senza stanchezza e senza idea di fine. Il processo intellettuale è il processo senza idea di fine. La qualificazione non è mai finita. Sta qui il disturbo della parola. Processo infinito, strutturazione infinita. Produzione infinita, acquisizione infinita. Ma non per il soggetto che deve imporre la sua legge della sufficienza. La sufficienza di sé, contrapposta al rischio della parola.
Il testo si cifra, la parola si cifra. La questione intellettuale procede per cifratura, non per decifrazione. La tentazione sostanzialista invoca la decifrazione del messaggio, dei segni per capire qual è la verità dei segni. L’idea di decifrazione è sorretta dall’idea di svelamento. È l’idea di rivelazione, idea apocalittica. Cosa può essere svelato? Forse la verità come verità ultima? La verità che costituisce il destino nascosto? Nascosto, ineluttabile e comune per gli appartenenti al ghenos? Agli appartenenti all’origine comune? Al popolo dell’origine comune? Come è giunta a affermarsi l’idea che la verità debba essere svelata o rivelata? E chi può fare la rivelazione? Chi può attuare lo svelamento?
La decifrazione è atto divinatorio, è mantica, arte della previsione. Prevedere le cose, prevedere la fine è lo sport preferito dei comuni mortali. Prevedere quando sarà, come sarà la fine. Premunirsi per la fine, per gestire la fine. Gestire la vita con l’idea di fine. La decifrazione poggia sull’idea del tempo che finisce. C’è un tempo finito, per cui la decifrazione comporta la verità del testo, la fine del testo, il codice del testo, la verità nascosta nelle cose. La verità nascosta, ideale, ultima, la verità della fine che può essere solo rivelata. Quindi, la credenza nella decifrazione è credenza nel fondamento che possa essere rivelato, è credenza nel fatto determinante, è credenza che indica il privilegio di potere sapere e capire i segni della volontà del daimon. Il daimon ha accordato a qualcuno il privilegio di svelare i segni, di svelare la verità, di sapere la verità sui segni; il disegno del daimon, il disegno dell’ente superiore.
Capire la lingua del daimon. Svelare la volontà del daimon. Svelare, capire per svelamento, per rivelazione. E ognuno mira a essere un rappresentante di tale privilegio, che assicura senza sforzo la rivelazione. Basta aspettare, e l’ente, la divinità, il daimon, il buon padrone manifesterà la sua predilezione, la sua bontà. Basta aspettare e si saprà come fare, si saprà il da farsi, ciò che si deve fare. Si saprà ciò che si può fare d’accordo con il daimon, d’accordo con il nulla in assenza di programma, di progetto e di domanda. Tutte complicazioni che esigono lo sforzo, la questione intellettuale, il dispositivo, la navigazione. Che esigono di andare oltre l’alto mare per giungere all’approdo.
Ognuno che si ispira alla decifrazione – cioè al codice ante litteram, preesistente, cui il testo sarebbe conforme – insegue la superstizione della sostanza, del controllo sulla sostanza, della padronanza sulla sostanza. La decifrazione sarebbe all’insegna della padronanza finalmente riuscita sulla sostanza, che svela la sua natura, la sua essenza, la sua verità, la sua sostanzialità grazie al daimon e alla sua benevolenza. Dunque, la decifrazione è nella costellazione dell’idea di bene e della finalità di bene, dell’idea di fine e della finalità del tempo che finisce. Per conseguire la decifrazione è chiaro che occorre partecipare al disegno divino, alla finalità del disegno divino, alla finalità del bene del daimon, essere inscritti nella schiera dei sudditi del daimon, i sudditi del nulla.
Decifrazione e analisi sono incompatibili. La decifrazione nega l’analitico. L’idea di decifrazione nega la questione intellettuale, nega la parola, la logica e la struttura, nega la scrittura, nega ciò che avviene. Per la decifrazione le cose sono già avvenute, la verità è già scritta, il testo è finito. Quindi, la decifrazione nega l’analisi e le virtù del principio della parola; nega la parola se non come parola del daimon, la parola detta dal daimon, la parola che indica la volontà di bene del daimon, parola che significa la volontà superiore. Ogni suddito aspira alla volontà superiore e si realizza nel seguire la propria volontà come volontà superiore, la volontà del giro della morte.
Così si può capire, forse, la delega che è attribuita alla volontà, alla propria volontà, alla volontà di sé, alla volontà soggettiva: la volontà di vivere, di morire, di capire, la volontà come misura del possibile potere sulle cose. Infatti, è noto il detto “volere è potere”. La volontà di potere, diceva qualcuno, il potere della volontà, diceva qualcun altro.
In un mondo senza la parola, popolato da soggetti rappresentanti del daimon, rappresentanti dell’entità ideale superiore che nega la parola, è resa funzionale la volontà di bene, la finalità di bene. Idea di bene che è sempre bene ideale. Un ottimo pretesto per giustificare i propri limiti.
Dove si dirige la volontà? A cosa si rivolge la volontà? Da chi è diretta la volontà? Chi è padrone della volontà? La volontà rappresentata come entità, presuppone il padrone della volontà, il soggetto della volontà: voglio-non voglio, cui segue posso-non posso, so-non so, debbo-non debbo. La libertà del soggetto oscilla fra le due contrapposizioni che indicherebbero la libertà di fare o non fare, di volere o non volere, di sapere o non sapere, di dovere o non dovere.
Con il soggetto, la volontà si sdoppia tra la volontà di bene e la volontà di male, tra il soggetto buono e il soggetto cattivo, tra il soggetto da premiare e il soggetto da punire. E, allora, per il mondo dei soggetti si pone la questione di come gestire il male e il bene, e come gestire la volontà di bene e la volontà di male. Ma, per ognuno, il fine superiore è il fine di bene: chi sbaglia può redimersi, chi fa il male può redimersi. E come? Espiando e penitenziando.
Lo sdoppiamento della volontà, secondo il principio di non contraddizione, istituisce la volontà penale e la volontà penitenziaria. E il destino sdoppiato è l’Ananke: punizione e costrizione, necessità del fato o del destino, organizzato o rivelato da un dio nascosto o rivelato. Inutilità della ricerca e attesa della rivelazione. Ricerca della punizione e della penitenza per l’espiazione, per la redenzione. Perché la colpa è l’origine comune.
Nessun soggetto può ipotizzare il conseguimento della finalità di bene senza espiazione, punizione, redenzione, penitenza. E ognuno, conforme all’idea di sé, come soggetto, si dispone alla successione di queste modalità. Ognuno può interrogarsi sulla misura in cui accetta la predestinazione dettata dalla volontà penale e dalla volontà penitenziale. Pena e penitenza. L’Ananke esige l’applicazione della pena e della penitenza.
Nessuno ammette di accettare la predestinazione, di credere nella predestinazione. Nessuno ammette di accettare l’algoritmo algebrico o geometrico che lo guida nella scelta secondo la volontà di bene, ma l’algoritmo sta lì. Nessuno ammette di accettare la categorizzazione, l’idea di predestinazione al bene. E, tuttavia, ognuno tenta di attuare la misurazione e la ripartizione fra ciò che è bene e fra ciò che è male. La valutazione comune è su questo: quanto bene e quale bene, quanto male e quale male. E sulla quantificazione del bene e del male, ecco la volontà penale e la volontà penitenziaria.
Ognuno si rivolge al bene. Come? Evitando il male e la relativa condanna. E persegue la così detta socialità, il perseguimento del bene comune, evitando il male, l’idea di male, il male di sé, il male dell’Altro, il male comune. Ma, il proprio bene è il bene comune? Perseguire il proprio bene è perseguire il bene comune? Per ognuno vige l’automatismo della superstizione. Automatismo della condanna, del giudizio morale, del giudizio universale. Automatismo del giudizio come se il giudizio fosse la definizione del bene e del male. Di quanto di bene e di quanto di male è insito nell’atto, nell’azione.
Secondo la predestinazione, secondo questa visione delle cose, ognuno si fa supporto della volontà penale e della volontà penitenziaria. E giudica in conformità alla volontà, tolto l’Altro, tolta la parola. Tolta la parola perché nella parola il giudizio è il giudizio dell’Altro. Perché il giudizio non verte sull’alternativa fra il male e il bene, non è il giudizio sulla relazione originaria. Il giudizio viene dalla molteplicità, viene dalla struttura del sogno e della dimenticanza. È il giudizio della combinatoria senza superstizione, senza l’applicazione dell’idea di sé cui conformarsi e dell’idea dell’Altro.
Ognuno si assegna la pena e la relativa penitenza secondo il rispettivo algoritmo, e trova che sia l’una sia l’altra sia meritata e giusta. Giustizia della pena, giustizia della penitenza. Giustizia penale e giustizia penitenziaria. Non già giustizia secondo provocazione, secondo identificazione, secondo la profezia, secondo la promozione, secondo la causa. No, quella è abolita. Ognuno abolisce l’oggetto. Facendosi soggetto, esponendosi alla predestinazione, ognuno abolisce l’oggetto, abolisce la causa. La vuole controllare, giudicare, espellere, espellendo l’arcobaleno della giustizia che è il modo con cui l’oggetto interviene. Ognuno, così, si fa vittima della giustizia penale o penitenziaria e si definisce, si degrada, si deprime, si euforizza, si fa padrone e artefice del proprio destino. Così recita il famoso detto della soggettività, l’esaltazione della soggettività: ognuno è artefice del proprio destino, sceglie il suo destino. Certo, abolendo la parola!
Confiscandosi la parola ognuno accetta il suo destino predestinato. E si chiama ora fortunato ora sfortunato. Ognuno si fa reo confesso, o penitente, o entrambi. E si ammala per giustificare la predestinazione, che non sa da dove arrivi, ma che non può non accettare, perché altrimenti non potrebbe situarsi socialmente. Non potrebbe sopportare la solitudine se si vota alla socialità, al principio unitario, al principio algoritmico. Ognuno, allora, preferisce farsi malato mentale, esponente della malattia mentale. Ogni malattia è malattia mentale su questi presupposti. Ognuno confessa i segni e i sintomi che sarebbero indicativi e indicatori della malattia. Ognuno deve pur giustificare il negativo in cui crede. E i sintomi lo aiutano, così si fa malato e si inscrive nella socialità, nella società, nella comunità, nella sua origine. Entra nel giro della morte, è contento, non avrà più pensieri, se non quelli per cui definirsi.
Come definirsi? In modo positivo o in modo negativo? Pensieri di bene, pensieri di male, pensieri di fine. I pensieri di bene e di male sono pensieri di fine. Ognuno si dà malato, malato per non fare e malato per fare, per fare quello che può, per non fare quello che deve, per fare quello che sa, per non fare quello che non sa, per fare senza rischiare, per non fare ciò che lo esporrebbe al rischio. E così si penitenzializza. Ognuno si fa penitente, si fustiga col suo cilicio, rispettando il regime penitenziario delle visite fiscali. Ognuno elegge il suo custode, il suo controllore in nome della socialità: chi deve firmare il lasciapassare, chi deve vidimare il lasciapassare. E sul modello della visita fiscale che può sempre arrivare, ognuno si limita, si ausculta, si valuta, si assolve o si condanna, si trova pronto o più facilmente non pronto, non idoneo, non fatto, non formato. Il giudizio di conformità non è ancora sicuro. Deve aspettare, espiare e purificarsi ancora. La purezza è l’idea per garantire la conformità a livello dell’idealità.
E così, ognuno cede all’algoritmo, alla volontà dell’Altro nascosto, alla volontà di bene, quindi, non alla volontà di chiunque, ma alla volontà di bene dell’Altro nascosto, in attesa che divenga l’Altro rivelato. E si giustifica rispetto alle valutazioni, all’idea di sé, chiedendosi, con mente algoritmica, se è conforme alla volontà dell’Altro nascosto. E così ognuno cede alla volontà dell’Altro nascosto. Cede alla volontà comune, alla volontà algoritmica. Cede all’idea normativa o purgativa per entrare nella accettabilità del pensiero dell’Altro o del pensiero altrui, per entrare nella conformità, per conseguire il sigillo di conformità sociale.
E così, per questa via facile-facile, semplice-semplice, banale-banale, conforme-conforme, ognuno per definirsi accetta la terminologia assurda del pregiudizio psichiatrico. Ognuno parla di sé, parla dell’Altro, parla delle cose con la lingua del pregiudizio psichiatrico, negando la questione intellettuale, negando le virtù e l’esperienza della parola e attenendosi al pregiudizio psichiatrico come indicativo del pregiudizio di sé, del pregiudizio su di sé, del pregiudizio dell’Altro, del pregiudizio sull’Altro.
Qual è la massima aspirazione di chi aderisce al pregiudizio psichiatrico? È l’etichetta. È la depressione come etichetta del male dell’Altro che giustifica ogni cedimento. L’etichetta di depressione assolve a ogni cedimento. Il soggetto incapace, debole e malato è assolto da ogni cedimento perché è sempre depresso. È soggetto senza la parola, è soggetto algoritmico governato dalla volontà dell’Altro nascosto. È il soggetto posseduto dall’Altro che aspira a essere posseduto dal bene. Soggetto posseduto dall’idea di bene e dall’idea di male. È posseduto. Nulla può fare. È il soggetto pensante, posseduto dall’idea, posseduto dai pensieri resi azione. Pensieri che diventano sapere su di sé. Ogni idea è idea agente, è la verità su di sé e sulle cose.
L’analisi deve ancora entrare nella socialità. Il principio sociale è espunzione dell’analisi. Il principio comunitario è principio di espunzione dell’analisi, del rigetto, del rifiuto dell’analisi. È accettazione del criterio algoritmico. La depressione è il passaporto per annoverarsi fra gli abitanti dell’epoca, per stare a proprio agio tra gli abitanti dell’epoca, tra i veri figli dell’epoca, figli del daimon, figli segnati dall’epoca.
Ogni figlio, ogni vero figlio, ogni bravo figlio porta il segno della vittima. Così agisce la modalità algoritmica, la modalità delle cose condivise e condivisibili, le cose medie, la medietà, la mediocrità diffusa indice della volontà dell’Altro nascosto, la volontà media. Sono queste le caratteristiche della società algoritmica, governata dal giudizio dell’Altro, da ciò che è ritenuto l’Altro, la volontà dell’Altro, l’Altro inteso come macchina telepatica.
Questa è la psicotizzazione sociale. È la società dei social, la civiltà sociale, del giudizio sociale, della lingua sociale senza la parola, senza la parola intellettuale che è la questione della parola, dove la qualità è l’alimento di ciascuno e non dove l’alimentazione deve essere di qualità ma, bensì, dove la qualità è l’alimento! Il modello sociale è il modello animale dove vige la macchina telepatica senza lingua e senza parola, dove il pensiero realizza la cosa comune, dove l’idea è già comunicazione, l’idea di sé è già comunicazione, è già statuto di sé perché la macchina telepatica sostituisce il dispositivo.
L’algoritmo sociale è l’algoritmo del cedimento. Di quale cedimento ognuno può e deve cedere? Questa è la questione. Qual è la malattia più diffusa? Di quale malattia ognuno deve fregiarsi? Di quale malattia deve segnarsi? Di quale malattia deve farsi segno? Così la statistica modula la salute ideale come salute dell’algoritmo. Ma questo abolita la parola! Abolita la salute! E, abolito ciò, si tratta di stare bene: volontà di bene e finalità di bene fino all’eutanasia! Occorre che anche la morte si conformi alla finalità di bene e sia, dunque, eutanasia. Questo giro della morte occorre che non sia disturbato dalla parola, dalla domanda, dal processo intellettuale che è disturbo rispetto alla mantica, alla previsione di bene e di salvezza cui ognuno si sottopone.
La domanda non è tollerata dal soggetto che mira alla stabilità. La domanda è destabilizzante: produce idee! Nulla di peggio delle idee che contrastano l’idea di sé acquisita, che contrastano l’idea dell’Altro stabilita. Per carità! Idee che necessitano di cifratura? Assurdo! Rischio della dissipazione del soggetto. Rischio della dissipazione dell’idea di sé. Rischio di verità. Rischio di un altro statuto. Assurdo! Espulsione dal sociale! Statuto intellettuale: il rischio è l’espulsione sociale, dal comunitario, dal comune.
Che qualcosa non vada da sé, che qualcosa non funzioni, anziché essere inteso come indice del funzionamento, come indice della vitalità della domanda, viene inteso come problema, come disturbo, destabilizzazione. Vitalità: turbamento della predestinazione, della categoria sociale, psichiatrica in cui ci si è inscritti! Il frutto artistico e il frutto culturale sono respinti, e il modello intellettuale vigente è il modello mentale, dove le idee e i pensieri sono disturbi che devono essere sedati e controllati psicofarmacologicamente. Dunque, abolizione del pensiero come anomalia.
A questo punto è chiaro che il modo analitico è il modo della civiltà della parola. Mentre il modo algoritmico è il modo della socialità comune, è il modo della tomba della parola. Tra queste due cose, tra queste due eventualità, tra questi due modi, tra queste due civiltà è impossibile scegliere. Non c’è scelta!
La lingua civile
Ruggero Chinaglia Chi tende a minimizzare quel che si dice, asserendo che si tratta solamente di un modo di dire, per esempio quando può intervenire un lapsus, una svista, uno sbaglio, un errore, ebbene, può ricredersi sulla portata dei modi di dire. Nella procedura della parola quel che si dice si fa, e quello che non entra nella procedura del dire e nel processo di qualificazione non giunge al fare. È impossibile saltare la procedura e la sua integrazione. Chi ritiene che può prescindere da quello che si dice resta in attesa della volontà del daimon, perché le cose possano accadere in dipendenza di questa volontà; e resta in attesa.
Quando l’esperienza è sorta, il mito dell’intellettuale nella civiltà della parola, nell’esperienza della parola, era lo psicanalista come posizione di sembiante, come provocazione, provocazione intellettuale alla novità, al rischio, all’impresa, al dibattito, alla scrittura, alla parola. Lo psicanalista anche come profezia, come promotore intellettuale del progetto, della domanda, del programma di chi vi si imbatteva, fino alla redazione della domanda in direzione della scrittura, della pubblicazione, dell’editoria, dell’edizione, in direzione della qualità. Questo mito, oggi, è come se non avesse valore anche per chi si accosta all’esperienza della parola, come se l’esperienza della parola fosse svincolata dalla questione intellettuale, dalla posizione del sembiante, dal sembiante stesso, intendendo l’esperienza della parola come viatico all’attuazione di un lavoro, oppure come cosa inutile.
La questione intellettuale, oggi, è vanificata dalla modalità canonica del sapere e dall’intervento di un canone automaticistico e algoritmico, dove si tratta, in ogni caso, dello standard, del giungere a uno standard, di applicare e di aderire a uno standard. Quest’applicazione dello standard vige nei vari strati sociali, dall’imprenditoria al professionismo, dall’insegnamento alle varie istituzioni, e questa prescrizione allo standard trae con sé la prescrizione che la lingua deve essere comune e approssimativa, per potere significare in modo indistinto le cose, per rendere possibile una comprensione di massa, di quella che una volta era chiamata massa e oggi si chiama genere. Non più la lingua della parola ma la lingua del genere, la lingua dei soggetti, la lingua comune.
Questa rarefazione linguistica caratterizza ciò che si costituisce nell’epoca come il succedaneo dell’esperienza della parola, quel succedaneo chiamato psicoterapia e che mira a inglobare, in questa concezione delle cose senza parola, anche la psicanalisi, intesa non già come esperienza di parola, ma come modalità di applicazione di schemi comportamentali, a loro volta conformati a schemi di giudizio morale e comportamentale. Il successo della psicoterapia nei confronti della psicanalisi, sta nel fatto che rilascia la patente di attante sociale, di professionista e nel fatto che garantisce, a chi vi si rivolge, un lavoro sociale non già caratterizzato dalla ricerca e dall’impresa intellettuale, ma dall’etichetta di professionista del controllo sociale e dell’applicazione del canone sociale. Cioè, il successo della psicoterapia sta nel fatto che toglie il rischio della parola a favore dell’applicazione di uno schema, di un fine. La psicoterapia è finalizzata al recupero sociale, e anche per questa via è propugnata dall’epoca la comprensione, la comprensione di genere che, una volta abolita la parola con la sua esperienza, su cosa si fonda? Sulla struttura encefalica.
La comprensione di genere è una conseguenza della struttura encefalica che procede, per esempio, dall’empatia e dalla comunanza di messaggio, di genere, di lingua. Questa struttura non necessita più della comunicazione, della parola, del messaggio, della qualificazione di ciascuna cosa, ma unicamente dell’empatia. Una volta che si struttura l’empatia, non c’è più la necessità di parola, perché con l’empatia si attua l’omogeneizzazione del pensiero, l’impossessamento dei desideri e dei bisogni dell’Altro, che non necessitano più di traduzione, ma di spiegazione. Come spiegare all’Altro ciò che desidera, ciò di cui ha bisogno per il suo bene: ecco l’empatia nella sua applicazione! Questo, allora, diventa il cavallo di battaglia delle istituzioni preposte all’incultura e, come fondamento dell’empatia e della metodica empatica che non necessita più della parola e della sua esperienza, ma dell’omogeneità di pensiero e di azione, ecco quella che viene pubblicizzata come la scoperta del secolo, ma che in realtà è, invece, questa volta sì, un’invenzione, l’invenzione dei neuroni a specchio.
Di cosa si tratta in questa che viene pubblicizzata come scoperta? Scoperta che indicherebbe che questi neuroni ci sono sempre stati, ma noi non ce n’eravamo accorti e finalmente li abbiamo scoperti, ma che invece sono stati inventati? Ecco, questa invenzione ha lo scopo di promuovere non già la comunicazione e l’interlocuzione, ma l’imitazione come modello della cura! Si tratta di imitare il modello, il canone, si tratta dell’imitazione dell’Altro canonico; l’imitazione così sarà indice della comprensione e sostituto della comunicazione. Si tratta di diventare imitatori del modello comune di riferimento. La morte cerebrale è così assicurata, si tratta solo, di volta in volta, di certificarla per farne il funerale.
Eppure, questa idea funebre della questione intellettuale, questa idea funebre dell’idea senza parola, ha molti epigoni, seguaci, fautori e non solo fra quanti si dichiarano nemici della parola, ma anche fra chi e quanti sostengono di propugnare la parola, di aspirare alla questione e alla formazione intellettuale, a condizione, ovviamente, che la questione intellettuale non risulti così ostica, così impraticabile, dato che non è imparabile ma esige l’esperienza, la sua attuazione, la sua scrittura, la solitudine, l’impossibile compagnia, l’insieme non come compagnia ma come sembiante, l’insieme che è impossibile condividere.
La questione intellettuale non è questione astratta, ideale, ma è la questione della parola, della sua qualificazione e della sua qualità, dunque della qualità della vita non come qualità ideale, ma qualità che esige la trasformazione rispetto al modo comune di considerare, di pensare, di credere alle categorie, a quelle categorie che istituiscono il pensiero, la lingua e la filosofia comune, la comunanza, la possibile condivisione. La possibile condivisione è il riferimento a categorie comuni; se togliamo le categorie comuni, come potere invocare la condivisione di qualcosa? Dunque, l’appello alla condivisione è l’appello al mantenimento di un postulato, di un fondamento comune cui ognuno si deve rivolgere per mantenere un riferimento che possa fare gruppo, insieme sociale, casta, genere, appartenenza.
Credere che l’itinerario intellettuale si scriva senza l’altra lingua e la lingua altra, quindi si scriva nella lingua comune, nella lingua della condivisione, del gergo, delle categorie del sapere canonico, universitario, del sapere cui ognuno ritiene di potere fare riferimento in quanto è sapere della storia, del passato, dello scibile, ecco, credere questo è già abolire l’itinerario per farne una questione nominalistica e non di esperienza autentica, per farne esperienza formale, da propaganda. Così, attribuirsi o attribuire alle cose, agli avvenimenti, a quello che accade, le categorie del discorso filosofico o psicologico, con l’uso delle modalità anziché l’uso di ciò che si qualifica, è una negazione della questione intellettuale e della ricerca, è la negazione dell’impresa della parola e dello statuto del ricercatore.
Il cifratore è il ricercatore in quanto non parla la lingua altrui, ma si imbatte, parlando, nel balbettio che non è la balbuzie, si imbatte nella lingua con ciò che comporta. Riferirsi, invece, alla lingua dei luoghi comuni, alla lingua delle categorie, vuole dire somministrare a sé, agli altri, alle cose, il pregiudizio psichiatrico, abolendo la notizia, la novità e quello che si produce dalla ricerca, dalla qualificazione e dalla scrittura.
Quale scrittura civile può sorgere se vige il pregiudizio di essere sostanza, una sostanza imperfetta, finita? Quale scrittura civile se alla parola è anteposto il pregiudizio sostanziale, se l’accoglimento della varietà e della differenza, della sfumatura, è negato a favore della lingua comune? In questo caso non c’è parola perché è negata, perciò non si instaura e non si scrive. Non c’è parola e non c’è memoria, non c’è dispositivo perché il dispositivo è negato dal pregiudizio di chi si crede di essere mancante, carente, imperfetto, insufficiente, affetto da qualche male e, quindi, condannato alla timidezza, alla paura, alla ritrosia, all’attendismo.
Negando la parola, negando il dispositivo, è negata l’esperienza, l’efficacia, la formazione e l’insegnamento, perché ognuno preferisce rimanere e essere ciò che si crede, evitando il rischio, continuando a zoppicare, procedendo nell’alternativa, praticando una parte del dispositivo e non la gamma del dispositivo, perché ciò sarebbe eccessivo, sarebbe troppo, troppo impegno, troppo dispendio, troppo investimento. Troppo, meglio limitarsi per potere continuare a lamentarsi rispetto all’ideale che non è mai raggiunto, e che deve rimanere ideale per evitare lo statuto nuovo, lo statuto intellettuale, con lo spalancamento che questo può comportare rispetto a quella che ognuno ritiene essere la via da percorrere. Lo statuto intellettuale è seguace della parola, non della via da percorrere, non della via prescritta, non di ciò che ognuno ritiene essere la sua predestinazione.
La circospezione non è una proprietà della ricerca ma una riserva rispetto alla ricerca. Eppure, quanta circospezione! La circospezione, cioè l’indice della paura e del sospetto verso la ricerca e verso l’impresa della parola; paura, riserva e rimando verso l’avvenire. E ognuno si lamenta che l’avvenire non avviene mai. Ma, quale avvenire? L’avvenire ideale, rappresentato, idealizzato, agognato ma che non può avvenire, proprio in quanto ne è la rappresentazione e non l’instaurazione del gerundio. L’avvenire sta nel gerundio, non in un tempo posto in un domani come domani migliore.
Ognuno ha paura di tradire l’origine, di dimenticarsi dell’origine, altrimenti, come potrebbe mantenere l’etichetta cui si ispira? Questa è la questione: in che modo ognuno che si lamenta si applica un’etichetta che non analizza, ma da cui si fa rappresentare! L’ombra dell’origine grava sul terreno dell’Altro, l’ombra della fine grava sul terreno dell’Altro e il terreno dell’Altro è tolto, l’humanitas è tolta, le virtù intellettuali sono tolte, il rischio di parola è tolto. È perseguita la soggettività, l’idea di sé, l’idea che il pregiudizio psichiatrico rilascia di sé, perché la cosa più difficile da dissipare è il pregiudizio psichiatrico, che è il vero collante sociale, ciò con cui ognuno si fa compagnia. Abolire l’Altro impedisce la questione intellettuale e l’Altro è abolito quando interviene la prevenzione, un pregiudizio, una credenza, una convinzione, l’idea di sé, l’idea di sapere cosa è meglio fare per il proprio bene.
Con la circospezione ognuno va piano e pensa di andare lontano e sano. Come diceva una volta un proverbio? “Piano piano si va sano e si va lontano”. Sì, lontano, ma lontano dalla parola, lontano dal rischio. E dove? Spazialmente! Ma così non si instaura l’altro tempo, l’altro modo, non si instaura l’Altro, l’arte, l’invenzione. E ognuno resta quello che si crede perché applica il criterio del male minore, il piccolo, minimo, male necessario e attribuisce all’Altro quel pregiudizio psichiatrico che fa sì che venga evitata la ricerca, l’esperienza, il rischio di parola.
E quanti modi di applicazione del pregiudizio psichiatrico! Un modo è quello di credere che prima occorre diventare perfetti e poi si potrà cominciare a fare qualcosa d’importante; prima e poi. Prima e poi è il rimando! Invece, il soggetto ritiene che “prima e poi” sia una dimostrazione della padronanza, del criterio, della ragionevolezza: “Ah, che persona a modo!”. Prima completa la sua formazione, il suo essere, il suo sapere, prima ne sa abbastanza, poi, può avventurarsi a parlare e a fare, come i bambini che prima devono crescere, poi, quando saranno cresciuti, ecco che possono. E così ognuno si tiene per mano, tiene per mano il bambino che crede di essere, in attesa che cresca, perché crescerà quel bambino, basta aspettare e crescerà, mangerà tanta buona sostanza e crescerà, e allora, poi, potrà fare, perché saprà fare quello che dovrà fare, perfettamente inscritto nella sua predestinazione, nella predestinazione sociale. Sarà questo l’intellettuale civile? No, sarà un essere umano, un soggetto, un nemico della parola, sarà un morto vivente che ha applicato a sé il giro della morte.
La questione, per chi si avventura nella vivenza, non è il giro della morte, ma è la questione intellettuale, è l’itinerario intellettuale, e ciò che importa dell’itinerario non è la sua fine nella costituzione di un soggetto pieno di sé e pieno di sapere. Ciò che importa dell’itinerario di ciascuno sono i cifremi, i cifremi dell’itinerario, che indicano la qualificazione di ciò che si dice e si fa, nell’attuale dell’itinerario, non l’applicazione di una gergalità, ma la testimonianza che l’itinerario è in corso procedendo dall’analisi e dalla qualificazione delle cose. Non si tratta del grado di perfezione ideale da raggiungere, dell’essere ideale da assumere, della prestanza ideale da acquisire e da dimostrare, ma è l’autenticità del cifrema, l’esperienza, la sua singolarità, la sua particolarità, la sua specificità, il balbettio con cui si enuncia e che indica che l’itinerario è in atto, non la sicumera di chi ha imparato il copione delle cose da ripetere. No, il balbettio di chi trova, tra le tante cose, quante si dicono qualificandosi, quindi parlando. Ciò indica che l’itinerario è in atto nella conversazione, nella narrazione, nel racconto, nella scrittura, nella testimonianza, nel dibattito, e non con la corrispondenza di quello che ognuno ritiene di dovere dire con la canonica letteraria, vera o presunta tale. Nessun adeguamento al canone per via dello statuto intellettuale, ma il rischio di parola, l’accoglimento del rischio di parola.
Nel dispositivo intellettuale avviene la cifratura delle cose che si dicono, la cifratura del discorso cui ognuno ritiene di appartenere, per la sua dissipazione, non per il mantenimento di questo vincolo ideale alla lingua familiare, di genere, di gruppo, di origine, per la dissipazione del presunto discorso di appartenenza e, quindi, del legame e delle pastoie che fungono da gabbia. La questione è quella dell’accesso alla parola, non l’uso. L’uso segue l’accesso; accesso alla parola, alla sua logica, alla sua struttura, con il dispositivo. Allora può intervenire l’usura, ma senza l’accesso non c’è da credere o sperare che le cose vadano comunque in direzione della qualità, che le cose si qualifichino comunque senza che vi sia lo sforzo della qualificazione, che le cose si scrivano comunque, che approdino comunque, per potere lamentarsi che tutto ciò che è ritenuto automaticistico non è avvenuto e non avviene. Negando la domanda, lo sforzo e il dispositivo, si nega la parola e i suoi effetti, che non ci sono comunque, come testimonia l’epoca con i suoi vincoli, con le sue ideologie, con le sue metodologie, con le sue prescrizioni.
L’itinerario esige le prove, prove di realtà e di verità, che non sono esami da superare o da non superare, sono indicatori. Le prove di realtà e di verità sono indicatori che l’annunciazione è in atto, che il dispositivo è in atto, che l’analisi è in atto, per cui non c’è più la pretesa, l’idea, il miraggio della soluzione. “Ma questa cosa si risolverà? Si risolveranno queste cose? Questo problema si risolverà? C’è soluzione?”. Certo, perbacco! “Ma, me lo assicura? Può garantirmelo? Ci sarà soluzione a questo pregiudizio psichiatrico?”. C’è analisi, non c’è soluzione! O il pregiudizio psichiatrico si dissipa perché c’è analisi, oppure non c’è soluzione al pregiudizio psichiatrico, neanche a quello. Ribadisco che l’analisi è la teorematica, la teorematica dell’oggetto nella sua tripartizione e, quindi, è teorematica dello specchio, causa di godimento, teorematica dello sguardo, causa di desiderio, teorematica della voce, causa di verità, che diviene teorematica del sintomo, teorematica dell’impasse, teorematica del punto di oblio.
Non c’è magia, non c’è ipnosi, non c’è soluzione, “non c’è più soluzione”. C’è teorematica! Questa è l’analisi. Quindi, c’è l’audacia di tenere conto della logica particolare della parola, che non è la mia logica particolare, che ognuno ritiene di avere applicandosi il pregiudizio psichiatrico. “Eh, ma io ho la mia logica!”. Bravo, tienitela, bravissimo! “Ho la mia logica io e devo tenerne conto, se no potrei correre il pericolo di diventare un altro, invece no, devo essere me stesso e mantenere la mia logica”. La mia logica! E allora, di cosa stiamo a parlare? Di rimanere quello che si è, anzi, di rimanere quello che ognuno crede di essere. Che c’entra questo con l’analisi? Per questo basta praticare l’autoempatia, la condiscendenza verso le proprie idee, verso i propri presunti limiti, verso le proprie presunte possibilità o capacità e, insomma, verso la sostanzialità soggettiva che si crede di dovere rappresentare. Ma che c’entra questo con l’analisi? Con la questione intellettuale? Con l’esperienza di parola? Con l’itinerario intellettuale? Che c’entra il criterio della sufficienza con questo? Sufficienza dell’investimento: abolizione dell’Altro; l’Altro nella sembianza è investimento. La misurazione dell’investimento è abolizione dell’Altro, abolizione della sembianza e dell’immagine, è mantenimento della sostanzialità di sé, è come mantenersi tali. “Io ho dei problemi”. Eh, chissà perché! “Eppure mi muovo con circospezione, sto attento a quello che faccio, a quello che dico, a non eccedere, misuro anche i miei pensieri, non capisco… Mi controllo quanto più possibile… Non so…”. Tutto ciò è l’idea di sé, l’idea dell’Altro, l’idea del nulla. Come nullificarsi nell’attendismo? Attendendo il demone salvatore, o la redenzione, o che il male si converta nel bene. Attendendo, l’unico modo per il soggetto di praticare il gerundio! Attendendo. Non parlando, facendo e attuando i modi della parola. No, attendendo! E il soggetto non capisce perché, praticando questo gerundio, non coglie i frutti che il gerundio dovrebbe dispensare. “Io sono qui che attendo a braccia aperte”!
L’attesa può essere dissipata solamente con l’analisi, cioè con la teorematica dell’attesa, non con ciò che la conferma, non applicandosi i giudizi, le condanne, le colpe, le rivendicazioni o le recriminazioni contro il daimon che non ha fatto abbastanza, che non fa abbastanza: “È lui che si limita nei miei confronti. Non mi fa abbastanza bene, non mi dà abbastanza salvezza, non mi toglie il male”. Il daimon come forma dell’Altro e dell’oggetto, come pretesto della rivendicazione e del mantenimento dell’attendismo. Prima, poi, un dì, forse…
Se la ricerca esige la prova di verità, l’impresa esige il contingente: la prova di verità e di riso, la prova pragmatica. La prova pragmatica accade facendo, non pensando di fare, non facendo mentalmente la prova di quello che potrebbe accadere facendo, “se facessi”, evitando così la prova. Evitando la prova, nulla accade. Il contingente esige la prova pragmatica e non già il metalinguaggio, cioè il parlare sulle cose senza l’attuazione, senza l’intervento del gerundio, sperando che tra il dire e il fare possa misurarsi il prima e il poi: “Prima dico le cose e poi le faccio”. Ma, nessuno dice le cose e nessuno le fa, perché “quel che si dice si fa”; nessuno dice le cose e nessuno le fa.
Chi si trascina come soggetto non accede al fare, impedisce l’instaurazione del gerundio e si lamenta che accadano ogni sorta di inghippi, inciampi, rallentamenti, ritardi: “Sono sempre in ritardo, non so perché. Eppure, ero lì, sul punto di fare, sul punto di partire, sul punto di arrivare. Eh, era già tardi! Non so come mai, non so come questo possa accadere proprio a me, che sono così attento a misurare il tempo, a stabilire il prima e il poi”. Tra il prima e il poi non c’è passaggio, il tempo non interviene tra il prima e il poi! È curioso, ma il ritardo è uno stigma del soggetto, perché si barcamena tra il prima e il poi, nell’attesa che quello che prima era difficile o sembrava difficile, pericoloso, evitabile, poi possa diventare facile, senza rischio, senza sforzo, automatico. Attesa, attendismo, rimando, ritardo, misurazione dello sforzo, del denaro, dei soldi e del tempo, ebbene, tutto ciò non sta nella parola, ma sta nell’idealità pura e radicale di sé e degli altri, di sé e dell’Altro, di sé e della vita ideale, della vita pura, della vita radicale.
Parlando si precisa la via pragmatica, perché quel che si dice si fa, tende al fare, non a aspettare che il soggetto sia pronto, “pronto da mangiare”. Il soggetto cannibale si mangia le sue paure; è la sua anoressia. Anoressia e bulimia: come mangiarsi le proprie paure, le proprie idealità, le proprie circospezioni sperando nella liberazione, misurando il tempo, applicandolo come taglio sostanziale.
La questione è l’itinerario, la questione è intellettuale e sta nella scrittura, nella lettura, nella restituzione, nei modi della restituzione. La riuscita avviene con la restituzione in qualità, non con la circospezione, con l’attendismo, con la perfezione da raggiungere un domani. Quanto più c’è complicità con il rimando, con il rinvio, con la misurazione, con il risparmio, tanto meno possono avvenire la restituzione in qualità e la riuscita, che stanno nella restituzione in qualità, non nel diventare quel che si crede di dovere diventare. Questa è mitologia psichiatrica, filosofica, psicologica e sociologica. Sono categorie dell’essere che non hanno nulla a che vedere con la parola, né con la questione intellettuale, con l’itinerario.
Ciò che si è avuto esige la restituzione in qualità, questo è il ringraziamento! E senza ringraziamento, ognuno sta nel suo gruppo, nella sua origine, nel suo essere. Della cifratura occorre la restituzione in qualità, sta qui il contributo alla civiltà! E il contributo è di ciascuno, non è misurabile, non è quantificabile; la civiltà si instaura per questo contributo di ciascuno in qualità, contributo cifrematico per via di cifremi, non per via di sostanza, ma di cifremi, incredibili, impensabili, nuovi, indicativi di un tragitto unico per un contributo alla vita altra. E se ciascuno offre il suo contributo l’epoca non c’è più, non c’è più l’epoca da combattere, da sanare, da contrastare, da convertire; non c’è più da fare la guerra all’epoca se ciascuno dà il suo contributo in qualità. Non c’è più l’epoca ideale che fa da gabbia, da contenimento alla domanda, non c’è più il sé ideale, non c’è più l’Altro ideale, o la società ideale, o l’avvenire ideale, non c’è più il male dell’Altro o il male di sé da cui ognuno si crede affetto. “Ma chi te lo fa fare, ma tu questo itinerario, chi te lo fa fare?”. La gabbia sta già nell’idea di fare per sé o di fare per l’Altro, sta nell’idea di dovere giustificare quello che si dice e quello che si fa. Due modi, questi, di rispettare la dedica di ciò che si fa, per giustificare, moralizzare, per indicare la finalità di bene. “Ma chi te lo fa fare? Lo fai a finalità di bene? Ma ne hai vantaggio? E qual è il vantaggio? Ne trai qualcosa di buono? Ma lo fai per te o lo fai per l’Altro?”. Fare per sé o fare per l’Altro sono due modi per evitare il narcisismo della domanda, il narcisismo della cosa che indirizza la domanda alla qualità e non al bene inteso come bene comune.
La formazione, l’insegnamento, la memoria sono narrativi, sono linguistici, non sono ideali, sostanziali, reali. Sono narrativi e non sono da situare alla fine del viaggio. Ciò che conta, per l’interlocutore che si imbatte nel testimone della qualità della parola, ciò che vale e trae all’interesse, all’emulazione, all’ascolto, è constatare che il viaggio di chi dà testimonianza è in atto, è in corso, non finisce, non sta nell’etichetta che ognuno può affibbiarsi o affibbiare all’Altro, non sta nel nulla da trovare, ma in ciò che testimonia la ricerca come ricerca della qualità.
Bene, ci sono alcuni minuti per chi volesse osare fare qualche domanda o proporre qualche aggiunta.
Daniela Sturaro Ha detto che non è la “mia” logica particolare, ma io non ho capito quale sia la logica particolare. Non è la mia, ma qual è la logica particolare?
R.C. Ah, ecco, lei era tra coloro che credevano che fosse la propria?
D.S. Non lo so, talvolta uno pensa…
R.C. E allora che differenza ci può essere tra avere la propria logica e avere i propri pregiudizi?
D.S. Questo è un altro discorso.
R.C. No. È lo stesso. Come un altro discorso? Cioè, lei pensa di avere la logica scritta nel suo codice genetico? Nel suo imprinting?
D.S. Ma no. Faccio qualcosa e seguo un ordine secondo quella che penso potrebbe essere una logica, ma non è che l’attribuisco a una cosa personale.
R.C. E allora cosa la sorprende?
D.S. Non ho capito quale sia la logica particolare, visto che lei ha detto che non è la mia logica, e questo non vuole dire che io sia tra quelli che sostengono di avere la propria logica. Non è la mia, ma qual è? Anche se non è la mia, anche non deve essere per forza la mia.
R.C. Può essere quale? Quella di chi?
D.S. Non lo so.
R.C. Quella di un altro?
D.S. Non voglio dire che ho la mia logica e che quindi sono a posto. Non è questo il punto.
R.C. Questo non lo vuole dire. E cosa dice?
D.S. Non voglio dire così. Il mio problema non è di dire che ho la mia logica e chiedere che lei mi dica qual è, invece, la logica particolare. Sapendo e comprendendo che la logica non è mia, questa logica particolare qual è? Possiamo fare a meno di parlare di me che mi farebbe un piacere?
R.C. Non stiamo parlando di lei. Lei vorrebbe, ma non stiamo parlando di lei!
D.S. Io non voglio che parli di me, infatti non è il problema della mia logica. Se proprio devo dirlo, io mi sento illogica. Per la maggior parte dei casi, nella mia vita sono stata illogica. Sto adesso incominciando a avvertire la logica che non ho mai pensato fosse mia, perché la logica non è personale. Volevo dire qualcosa in più su questa logica particolare, che mi pare di capire non sia attribuibile né a chi ha fatto il corso di logica aristotelica, né a chi è esperto in matematica, ma è qualcosa che va oltre sia alla filosofia, sia alla matematica. E, pertanto, la logica particolare sarà quella della parola? Logica che non appartiene a nessuno e che, però, si produce parlando. Se io prendo la parola, forse posso, nelle cose che si fanno, reperire la logica vivendo al di fuori del pregiudizio psichiatrico, del soggetto e della sostanza, facendo un percorso per vivere l’esperienza della parola. Farlo non è una conquista, come se uno conquistasse la cima dell’Everest e poi è finito tutto, ma è una cosa che si mette alla prova ogni giorno, una prova pragmatica che si svolge nell’istante, in qualsiasi istante della vita, sempre. Deve essere la logica particolare della parola, questa. Lo chiedo. Potrebbe?
R.C. Sì.
D.S. Logica che non risponde ai criteri della logica formale o di altri criteri, e ne sono stati formulati tantissimi per la logica, ma nessuno di questi forse può rientrare nell’esperienza della parola, dal momento che sono diventati un codice.
R.C. Cosa?
D.S. I criteri di applicazione della logica.
R.C. Sì, chiaro, esatto. Pare preciso quello che dice. E, quindi, è impossibile adeguare la logica a sé. Questo adeguamento è impossibile, perché la logica non è già nota, c’è uno scarto. Se lei volesse sapere la logica per sapere se è il caso di dire o di fare quella cosa, lei avrebbe trovato la ragione del ritardo.
D.S. Introdurrei la necessità del ritardo?
R.C. Esatto, la necessità del ritardo. È preciso.
D.S. E la logica dell’inconscio?
R.C. Questa è! Il soggetto presente a se stesso, il soggetto padrone, costantemente presente in quello che pensa, che dice e che fa, presente in quanto sa quello che dice e che fa, perché lo dice e perché lo fa, si trova nella costanza del ritardo, perché, rispetto all’atto è sempre in ritardo, in quanto l’atto è ritenuto irrilevante e pericoloso, perché prima deve sapere giudicare l’atto, valutarlo, pensarlo, pesarlo, bilanciarlo, correggerlo, stimarlo, aggiustarlo, situarlo, localizzarlo, spazializzarlo e intanto…
D.S. E intanto l’atto non c’è più, è svanito.
R.C. Resta presente, ma l’attuale se n’è andato. È presente, ma il gerundio non c’è più. Questa presenza annulla, nullifica il gerundio.
Molti pensieri! Ce ne dica qualcuno.
Barbara Sanavia Tra le ultime cose che ha detto: il ritardo giustifica…
R.C. No, non giustifica niente. Il ritardo è ingiustificato e ingiustificabile! Solo il soggetto pensa di potere giustificare il ritardo con tutte le sue buone intenzioni, le argomentazioni, le giustificazioni, le spiegazioni, la sua buona volontà, anche attribuendosi le colpe. Però, intanto, evita l’attuale.
B.S. È un evitamento di quello che…
R.C. Certo, è un evitamento del tempo e dell’atto.
B.S. Si può capire perché si vuole evitare?
R.C. Sì certo, si può capire.
B.S. Non è che si può capire, si capisce.
R.C. Sì, dopo si capisce. Si può capire solo dopo.
B.S. Se si ripete…
R.C. Se si ripete vuole dire che si sono perse due occasioni, non una sola.
B.S. C’è una costante.
R.C. C’è chi può credere ci sia il tempo necessario per capire, il tempo della ragionevole cautela, il tempo della circospezione, ma quello è, in realtà, il procedimento di spreco delle occasioni, perché è il tempo della padronanza, l’applicazione della padronanza all’atto.
Stefano Fior Ha parlato della logica particolare. Non ho inteso precisamente se questa logica riguarda univocamente ciascuna persona.
R.C. Ecco, appunto, non riguarda univocamente nessuna persona!
S.F. In quanto è istantanea?
R.C. No, perché non è personale. Non è la logica di qualcuno, non è la logica di una persona o di quella persona, non è personale.
S.F. In quanto è istantanea, cioè riguarda ciascun attimo?
R.C. Riguarda l’atto nella sua combinazione e combinatoria, nella sua integrazione e procedura, l’atto nella sua impadroneggiabilità, nella sua effettualità, anche l’atto nella sua istantaneità, certo. Padroneggiare l’atto vuole dire impedirne gli effetti. C’è chi cincischia e misura quanto tempo, quante parole, quanto impegno: “Ma che poco che abbiamo parlato oggi. A me piace quando le cose tirano più per le lunghe”. Tutto ciò è evitamento dell’atto, della sua effettualità, della scrittura dell’atto, della strutturazione dell’atto, della memoria a salvaguardia della soggettività: “Ma, io non ho finito di dire quello che volevo dire! E se non ho finito di dire… Stavo parlando e mi ha interrotto…”. Padronanza, soggettività, evitamento del tempo, evitamento della divisione, della scissura e della produzione scientifica, non statistica ma scientifica. Chi misura il tempo lo abolisce. È evidente.
La lingua dell’esperienza della parola
Ruggero Chinaglia L’esperienza della parola originaria è esperienza civile e si rivolge, con la sua cifratica, alla civiltà. Con l’esperienza della parola, con l’esperienza di ciascuno, con l’esperienza dello statuto intellettuale in atto si instaura la civiltà della parola, di granello in granello, di contributo in contributo. Non per volontà, speranza, finalità o intenzione di bene, ma pragmaticamente; è il contributo di ciascuno, restituendo in qualità ciò che ha ricevuto, che fa sì che la civiltà si instauri, prosegua, non costituisca un’utopia, o un miraggio, o qualcosa per cui si instauri il lamento constatando che non corrisponde all’idealità.
La civiltà della parola non è ideale, segue a ciò che avviene, per ciascuno, nel dispositivo della parola, nel dispositivo dell’esperienza, dispositivo civile. L’esperienza non è qualcosa di intimo, di intimista, di segreto, di personale, di spirituale, di religioso; non ha finalità di bene, né finalità sociale, né finalità di redenzione. L’esperienza, per ciascuno, non si rivolge all’inserimento o al reinserimento sociale, presumendo di essere usciti dall’apparato sociale, né ha come fine l’adeguamento sociale per la condivisione di norme, regole, motivi che debbano costituire il modello di comportamento sociale.
Norme, regole, motivi sono esche per l’instaurazione del dispositivo della parola. Norme, regole, motivi che tengono conto della domanda e non già di un’idealità, di un fine, di un’utopia, di un modello comune, collettivo, generale cui conformarsi. Norme, regole, motivi per l’instaurazione di dispositivi, perché qualcosa avvenga in direzione della qualità, qualcosa che si scriva perché entri nella memoria scrivendosi, non per rimanere confinato in un’idea di avvenire migliore.
Come vedere l’avvenire? L’avvenire è invisibile, inimmaginabile e non può essere né migliore né peggiore, se non diventando una fantasia conseguente alla fiaba che ognuno si racconta di sé. Ecco l’avvenire migliore: partendo dalla fiaba che ognuno si racconta di sé, la speranza è di un avvenire migliore rispetto alla fiaba, che trae materia dall’idea di origine, di destino prescritto, dall’idea di Ananke! Importa, dunque, il dispositivo per la ricerca, per l’impresa perché qualcosa si scriva della ricerca e dell’impresa, non per il bene, o per la redenzione, o per la salvezza, idealità che presumono la conversione, la catarsi dal male al bene.
Ogni idea catartica, di redenzione, di espiazione è idea che parte dal postulato del negativo che deve essere convertito, trasformato in fine positivo. Questo è il viaggio iniziatico che dal male giungerà al bene. Non è il viaggio intellettuale, non è la questione dell’esperienza della parola in cui conta come la domanda si rivolge alla cifra, come la domanda si qualifica e si rivolge alla qualità, come con la domanda procede il progetto di vita e instaura il programma di vita.
Ognuno può pensare che la sua missione impossibile è vivere bene per morire bene. Ognuno può pensarlo e si dispone a vivere bene, comodamente, evitando le scomodità, le difficoltà, evitando il male e tutto ciò che si rappresenta come negativo. Ognuno ritiene che vivere bene sia vivere evitando i pericoli, tutto ciò che non è conforme all’idea vigente, corrente, comune e generale, non tenendo conto che la rotta procede dal progetto di vita. Il timone sta lì, la rotta si rivolge al compimento del programma, alla qualità, alla restituzione in qualità di ciò che si incontra nel programma, non all’accumulo di ciò che si può capitalizzare.
Il capitale non è accumulabile. Questa è la questione del viaggio e della restituzione. Il capitale, come capitale intellettuale, come qualità, non si accumula, non fa cumulo, non si capitalizza: “Questo me lo tengo per l’avvenire, questo lo capitalizzo, lo metto da parte, me ne avvalgo per sempre”. Ma, il capitale non è sostanziale, non è qualcosa di cui fare tesoro. Nulla accade senza dispositivo, nulla avviene e diviene senza il dispositivo.
Il progetto e il programma non sono stabiliti una volta per tutte, il viaggio non è rettilineo, non è né una linea geometrica né un segmento. Non è il viaggio spaziale di cui misurare la lunghezza e la distanza. Lo specifico del viaggio di cui si fa l’esperienza civile, l’esperienza della parola è che non va dall’inizio alla fine, dalla partenza al traguardo, non è finito, non è un viaggio che finisce, che finirà, che è finito o che si tratta di stabilire quando e come finirà. Ciò è l’idea comune di mortalità che, applicata al viaggio, comporterà vari incagliamenti, varie geometrizzazioni, varie segmentazioni, per cui è un viaggio con il singhiozzo in cui bisogna partire e arrivare, ripartire e riarrivare, un viaggio contrassegnato dall’incidenza della partenza e dell’arrivo, senza lo svolgimento, senza il percorso, dove conta solo partire e arrivare. Partire e arrivare senza lo svolgimento. Questo è l’andamento geometrico del viaggio: partire e arrivare. “Ma quanto è lungo? Quanto dura? Quando finisce?”. È l’applicazione dell’idea di mortalità alla parola. Quindi, la dissipazione dell’idea di fine, dell’idea di mortalità è essenziale all’esperienza civile.
Nessuna esperienza civile può fondarsi sull’idea di mortalità, né d’immortalità che ne è il corollario. Il transumanesimo è un esempio dell’applicazione del fantasma di morte e di mortalità alla tecnologia e all’idea di avvenire, ossia, nessun contributo dal transumanesimo all’instaurazione dell’esperienza civile, della civiltà della parola, all’instaurazione di un altro modo di fare, di vivere, d’intervenire, perché è il mantenimento del modo comune con il proposito di andare oltre il limite rappresentato dalla morte; la lotta contro la morte, la vittoria sulla morte. Non è questo il fine del viaggio intellettuale, non è vincere la morte, sgominare, sconfiggere la morte, ma è dissipare il fantasma di morte, quel fantasma che, se applicato in ciascun istante alle cose che si fanno, impedisce di farle. La questione non è porre l’oltre alla mortalità, la finalità di giungere un giorno a sconfiggere la mortalità. No, la questione è, ciascun giorno, vivere senza l’oppressione, la cappa, l’incidenza dell’idea di mortalità che opprime, che impedisce l’audacia e il rischio, la riuscita delle cose che si intraprendono. Addirittura, impedisce persino d’intraprenderle, perché risultano già finite, negate, precluse, già impedite. La rassegnazione all’idea di mortalità è la rassegnazione alla vita mediocre, a considerarsi finiti, negati, ammalati, esseri da catalogare nella gerarchia di serie a, b, c, z, nella gerarchia tra il bene e il male, esseri senza audacia, rischio e eccellenza, senza la sfida e la scommessa.
La questione del dispositivo introduce nella domanda la sfida, l’azzardo, la scommessa, l’audacia in direzione delle cose da fare, senza la necessità dell’adeguamento al canone, al canonico, al possibile o al probabile, quel canone iniziatico che dovrebbe rassicurare sull’itinerario protocollandolo, attribuendogli un protocollo per garantire sull’arrivo adottando determinati accorgimenti: iniziazione e protocollo. È il viaggio algoritmico, viaggio che, così, potrebbe risultare facilitato, garantito se uniformato alla prevedibilità degli avvenimenti. Perché rischiare cose nuove quando il canone prescrive un certo protocollo per essere sicuri di arrivare lì, al traguardo? Ma, quale traguardo? Al traguardo conforme al protocollo!
Arte e cultura della parola possono avvenire nell’ambito di un protocollo? La scienza della parola può avvenire nell’ambito di un protocollo? L’accadimento di un lapsus, di una svista, di una cantonata può essere prevedibile? Può essere prevista? Può rientrare tra ciò che costituisce un elemento di variazione, un elemento imprevisto e dare un contributo imprevisto?
Quindi, nessun protocollo, nessuna probabilità e nessuna possibilità rispetto all’itinerario e al suo rischio, a ciò che può avvenire, al contributo che giunge da ciascuna cosa se non è respinta, per pregiudizio, per il pregiudizio dell’importanza del valore pregiudiziale di una cosa rispetto a un’altra: questa cosa è importante, questa no; questa vale il caso di farla e questa no; questa so che mi piace e questa no e, allora, questa la faccio e questa no. Questo è il viaggio sulla rappresentazione di sé, sulla rappresentazione del piacere di sé senza l’incognita degli effetti, viaggio senza la tentazione intellettuale, senza la sfida, la scommessa.
La tentazione, la sfida, la scommessa sono proprietà dell’annunciazione: le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. Il modo è da trovare, non è già dato, è da inventare, esige l’articolazione, lo svolgimento. Nulla avviene per inerzia, per consequenzialità diretta o indiretta, nulla avviene senza dispositivo e senza domanda. Questo si può presumere negando la domanda, ritenendo che le cose avvengano per via dell’Ananke, per una necessità del destino, per il fato e la sua necessità scritta negli astri. Ma non è così. Nulla avviene senza sforzo, comodamente, per predestinazione, nulla avviene per inerzia. Ciascun atto esige lo sforzo, la forza, la domanda, la tensione. Astenersi rispetto allo sforzo è astenersi rispetto alla domanda. Minimizzare lo sforzo, minimizzare l’investimento sono modi dell’astensionismo. Il soggetto che segue i principi termodinamici mira a contenere lo sforzo e mira all’astensionismo economico. Il soggetto mira “a evitare”, per raggiungere il migliore risultato possibile con il minimo sforzo, con il minimo investimento, con il minimo. La regolazione è sul minimo, la normalizzazione è sul minimo, sulla rappresentazione del minimo; minimo bene, minimo male. Come accontentarsi? Bisogna pure accontentarsi! Questo è il precetto. Chi si accontenta, cosa fa?
Daniela Sturaro Gode.
R.C. Ah, ecco, lei è informata! Questo dice la fiaba. Nessuna fiaba, però, va in direzione dell’accontentarsi. Anzi, la fiaba indica che non c’è modo di accontentarsi. La domanda non si accontenta, va oltre il contenimento e ogni tentativo di contenimento sfocia in contropiedi, contrappassi e contraccolpi, cioè in quelli che genericamente si chiamano problemi di varia natura, problemi di salute per lo più.
Da cosa astenersi? L’astensionismo è rispetto all’analisi, alla qualificazione, alla novità. Ognuno si accontenta di ciò che sa di sé e dell’Altro e si astiene rispetto alla produzione di novità che non si sa dove può portare. Dove può portare? Ecco le varie forme di astensionismo rispetto all’approdo, al piacere, al nuovo, rispetto alla constatazione che procede dalla teorematica e dall’assiomatica dell’atto, del tempo, del dettaglio, del caso. Astenersi è astenersi dall’assoluzione, dall’assoluto per rimanere vincolati al canone, in relazione a sé o all’Altro, per mantenersi vincolati all’idealità di una relazione possibile con il simile, con il diverso, con l’Altro, con sé: la “relazione con”.
Nessuna relazione con le cose, con sé, con l’Altro, con chissà chi. La relazione è originaria, è il due. Il due è la relazione e il suo modo è l’apertura. Impossibile relazionarsi, che vorrebbe dire togliere la relazione e istituire accoppiamenti, coppie. Questo è il modo canonico di pensare il sociale, la socialità, la comunità anziché il civile. È l’abolizione dell’assoluto per mantenere il relativismo, la relazione con se stessi, con gli altri, con il modello, con l’idea, per stabilire come stare in relazione con le proprie idee, cioè come fare in modo che il viaggio divenga circolare.
Nella circolarità ogni evitamento diviene possibile e, sull’accettazione del principio dell’Ananke, lo sforzo è contabilizzato. Lo sforzo dell’impresa, della ricerca, è contabilizzato, risparmiato, conteggiato per verificare se è maggiore o minore di quello di un altro. “Ah, ma io mi sforzo di più. Io ho fatto di più. Io ho fatto di meno”. Di più, di meno. Ma lo sforzo è inquantificabile e la qualità non è misurabile, e ciò è la dissipazione dei criteri di misurazione e di conteggio. Non è nel risparmio né nella quantità del dispendio che si fonda il valore del viaggio. Ogni tentativo di fare la contabilità del tempo sfocia nella fine del tempo, impedendo gli effetti temporali. L’idea del “troppo” indica che c’è una contabilità di quello che avviene, di come avviene, di quanto avviene rispetto all’idealità, quindi rispetto al limite.
Il principio del sociale è anche il principio dell’espunzione della lingua, il principio delle cose come sono, come stanno e, dunque, l’astensionismo in questa direzione è astensionismo linguistico, astensionismo dalla lingua, dalla narrazione, dal racconto. È astensionismo dalla cifratura, dalla particolarità e dalla specificità. Astensionismo linguistico per non incorrere nell’incomprensione dell’Altro che potrebbe non capire, non comprendere. L’Altro, che non comprende, si fa nemico. Ecco l’Altro oscillante fra amico e nemico, l’Altro negato. Ma l’Altro non è né amico né nemico, non è preso nell’alternativa, è Altro rispetto a ogni possibile rappresentazione. La rappresentazione dell’Altro indica che l’Altro è negato e che il passo, come passo del tempo, è sbarrato dalla rappresentazione dell’alternativa.
L’idea della comprensione, così come dell’incomprensione, è idea di pena. L’incomprensione sarebbe la pena che contravviene alla prescrizione di dovere comprendersi facilmente. L’esperienza della parola è incomprensibile, non è spiegabile. Gli effetti della parola che si incontrano, che si riscontrano nell’esperienza, non sono spiegabili, percepibili, non rientrano nella percezione, nella coscienza, ma si scrivono e attuano la trasformazione. I risultati non si spiegano, non sono spiegabili, non stanno dove sono attesi. Certo, negandoli a ogni piè sospinto non stanno da nessuna parte, volendo a ogni costo negare l’audacia, il rischio, la sfida, la scommessa, il movimento, il processo, il fare, negando e continuando a negare, quali risultati? Risultati di che? Quali effetti se il tempo è negato, se prevale la paura come indice della padronanza e della soggettività?
Nella parola, nulla è spiegabile. Nemmeno il sogno e la dimenticanza. Nemmeno i sogni possono essere spiegati. Perciò è sorta la simbologia, per spiegare l’inspiegabile, per evitare lo sforzo della cifratura. Nulla si spiega. Ciascuna cosa esige la cifratura. La combinatoria è cifratica, non inerziale, non è frutto del destino, frutto dell’inerzia per cui basterebbe attendere perché cada dall’albero bello maturo. No, il frutto esige lo sforzo, il dispositivo, l’attuazione. Esige la cifratura. L’arte, l’invenzione stanno nel processo di cifratura, nel funzionamento secondo cui, con lo sforzo, avviene la cifratura.
La lingua non è esplicativa, non è innata! Non è una dotazione encefalica, non è natìa, non è materna. La lingua è lingua della parola, non è la lingua del vocabolario, non è la lingua canonica, parlata. La lingua della parola è lingua mai parlata, che si inaugura ciascuna volta in ciascun atto, lingua inventiva, lingua per la scrittura, per la lettura. È lingua che non si spiega, è lingua enigmatica. La lingua rilascia l’enigma per ciascuna cosa, non la definizione.
La simbologia è sorta per togliere l’enigma sessuale, della sessualità, della combinatoria, l’enigma politico, della politica del tempo. Togliete l’enigma e avrete il canone, la lingua comune, il discorso comune, il vocabolario comune, il luogo comune. Il bello della lingua sta qui, nella sua novità, nella produzione linguistica e poetica. Contro l’enigma linguistico, ogni sistema, ogni sistematica prescrive la spiegabilità, prescrive a ognuno di spiegarsi bene: “Ma spiegati bene. Perché non ti spieghi bene? Spiega bene cosa vuoi dire. Spiega bene le tue intenzioni. Spiega bene la tua essenza”. Perché, è ritenuto troppo scomodo dovere cogliere le sfumature, ascoltando. “Spiegati bene!”, così non ci sarà bisogno di ascoltare. Così dire e detto coincideranno! “Spiegati bene, spiega le tue intenzioni, sii normale, sii chiaro, sii semplice, sii facile, sii comprensibile. Lascia stare la lingua”. E con la spiegabilità sorge la normalità, la ripartizione fra normale e anormale fondata sulla statistica dei detti e dei fatti, la statistica che misura l’idealità dell’uguaglianza, dell’atto nella sua ripetibilità, nella sua ripetitività, identità, nella sua uguaglianza. Allora, potremo stabilire la percentuale degli uguali.
Qual è la percentuale degli uguali? Qual è la percentuale degli atti uguali? Qual è la percentuale in cui, nella pluralità dell’uno, non si verificano variazioni? Così, misuriamo la percentuale delle anomalie per sancire la percentuale delle omologie che saranno normali, mentre le altre saranno anormali. Misuriamo con la statistica l’identità e la stessità dell’uno per sancire la sua immutabilità. Sul principio della statistica si regge la prescrizione all’unità, all’unificazione, all’economia dell’uno identico a sé. Non già differente da sé, non produttore del sapere, di effetti di sapere nella sua divisione da sé. No, produttore di detti comuni. Unicità dell’uno. La statistica, pertanto, è possibile solo postulando l’identità dei soggetti, l’identità degli uni. L’identità.
Abolito il tempo, si instaura la statistica e si contabilizza, si valuta, si enumera l’identità delle intenzioni, degli appetiti, dei bisogni, dei consumi, dei mali e dei beni, si stabiliscono le percentuali e si distribuiscono i beni e i mali secondo la statistica della salute, la statistica delle morti. La statistica si avvale dell’abolizione e della fine del tempo.
Può definirsi scienza ciò che si avvale dell’apparato di contenimento, d’immobilità? È scientifico ciò che si ripete? È scientifico ciò che è statisticamente rilevabile? Questo è il punto: può la parola ingabbiarsi nell’apparato contabile e statistico? Può la psicanalisi, come esperienza della parola, seguire il canone statistico, adeguarsi al canone statistico che vuole dire canone psicopatologico, diagnostico, definitorio? Può la parola aderire e rimanere ingabbiata in questo? La questione intellettuale può ridursi a questione statistica? Qual è la necessità della base statistica per definire scienza ciò che è statisticamente più probabile? Da quando il probabile coincide con la scienza? Da quando il probabile è scientifico? Da quando?
Probabile, più probabile, possibile, più possibile, maggioritario, minoritario. Quello che è più probabile e maggioritario è scientifico, è scientificamente provato. È scientificamente provato? No, è statisticamente provato! Che c’entra la scienza? Che qualcosa si ripeta può essere statisticamente provato, chi lo nega? Ma, perché ciò dovrebbe essere scientifico? Questa è la scienza fondata sulla democrazia statistica. Chi ha detto che la scienza deve essere democratica? È scienza ciò che è della maggioranza? No. Chi l’ha detto? L’invenzione della penicillina non è avvenuta per statistica, ma per l’unicità inventiva la volta che si è prodotta quella combinazione.
La statistica è contro il caso, contro la specificità e l’unicità del caso, che deve essere evitato. Deve essere evitata la specificità e deve essere evitato il caso in nome dell’evitamento, dell’abuso inteso come possibile, il pericolo di abuso. Questa idea di pericolo è per limitare la scienza, per contenerla, delimitarla, perché non sia imprevista e imprevedibile. Per gli assertori della statistica, invece, ha da essere prevista, conclamata, approvata, ripetuta, codificata, protocollata.
Il rischio della scienza non si può evitare. La scienza è scienza della parola, scienza temporale, produzione di novità che interviene per via della divisione temporale che non si può evitare, trattenere, contenere. La scienza è scienza temporale, non è scienza statistica. La cura è scientifica, cioè è cura temporale, non statistica. La statistica della cura è la cura protocollare, cioè è la cura generica, senza che sia tenuto conto dello specifico del caso, della particolarità, della specificità, dell’unicità del caso.
Su cosa si basa l’applicazione statistica della cura? Sull’efficacia? No, quella non si può sapere prima. Sui buoni risultati? Quelli non si possono sapere prima. L’efficacia statistica della cura si basa sulla contabilità delle morti. È buona la cura che non fa morire, non che sia efficace, ma che non è mortale in base alla contabilità delle morti: se non è mortale è efficace. Questo è il criterio dell’efficacia della cura: la contabilità delle morti. Fa guarire? Beh, nessuno può guarire, però non muore. Da ciò la garanzia protocollare che la cura non sia mortale, per cui si può fare.
È il principio medico fondato sul giuramento d’Ippocrate. Qual è la prima regola? Per prima cosa, occorre che la cura non sia nociva, e perché non lo sia non deve essere mortale. Principio ispirato al criterio di mortalità che deve guidare la mano, senza rischio. Per evitare il rischio, qual è il principio valido? Il principio statistico. Ecco la conversione da scienza a statistica, mantenendo però la dicitura scientifico, nell’equivoco di ciò che è valido statisticamente.
Perché la necessità di confondere scienza e statistica? Si può dire che ci si avvale del principio statistico. Chi potrebbe dire che ciò non va bene? Ma, perché dire che il principio statistico è scientifico? Perché è adottato dalla maggioranza, quindi è principio democratico. Bene, è statistico e democratico, ma perché dire che è scientifico? Questo resta da chiarire. Perché questa sovrapposizione tra scienza e statistica? Perché è abolita la lingua: una parola vale un’altra! Il senso deve essere comune, perché l’importante è essere comprensibili, essere compresi, che non ci siano equivoci.
La medicina abolisce ciò che l’ha istituita, cioè la parola. Mezzi e strumenti della parola: questa è la medicina. Non statistica dell’operazione o di quant’altro, ma mezzi e strumenti della parola. Il rischio è rischio di parola, rischio di verità. La verità, come la scienza, non si può prescrivere, non si può sapere prima, non si può prevedere, non si può stabilire. La verità non è democratica, non è sociale. La verità si effettua dalla cifra, la verità è, piuttosto, processuale, è cifratica, procede dall’esperienza, dalla cifra dell’esperienza e non è condivisibile. Sulla verità non può sorgere nessuna comunità se non quella religiosa, ideologica, alinguistica, cioè senza la lingua e senza la parola, che sorga su postulati; una comunità che nega la ricerca e il tempo.
L’epoca persegue l’utopia di fare a meno del tempo e della parola, per inseguire la verità unica, stabile, condivisa, la verità canonica, per condividere il principio della colpa e della penitenza. Constatiamo che l’epoca è il luogo comune, è l’idea di uno spazio comune, dell’utopia comune, del credo comune, della vita comune, di idee comuni cui partecipare tutti insieme all’insegna della normatività e della normalità, senza la follia, l’arte, l’invenzione, senza la cultura, all’insegna della spazialità, della sostanzialità, della stabilità, dell’essenza, della soggettività. Ma, l’epoca non è la fine del tempo, non la caratterizza, non riesce a abolire il tempo. Ne è la fantasia, questo sì! È la fantasia che il tempo possa finire, che il tempo sia finito, che “le cose stanno così”. Ma ciò è una fantasia, è la fantasia che si regge sul principio economico dell’instaurazione di un sistema, per consentire la calcolabilità e la ripetitività degli atti.
È proprio qui che incomincia la missione civile, la missione della parola, la questione della civiltà, la questione intellettuale, della lingua civile, della scrittura civile. La missione civile è non credere al fantasma materno della fine del tempo, dell’origine comune e della fine del tempo grazie cui sarebbe possibile la padronanza sugli atti e sul tempo. È fantasma dilagante, diffuso, ma non è perenne, non è inattaccabile dalla parola. Perché ciò avvenga, occorre l’attuazione, l’instaurazione, l’invenzione di dispositivi civili in cui qualcosa possa dirsi e possa essere ascoltato. Udito e ascoltato. Questa è la missione civile. E, certamente, occorre ci sia chi non la trascuri. Anzi, chi si faccia promotore della missione civile. Missione di civiltà, missione di parola.
Se ci sono domande, prego.
Maria Antonietta Viero Qualcosa che riguarda la garanzia protocollare. Mi è venuto in mente come questa può sussistere, per esempio, nelle aziende, nelle imprese e come vi sono aziende che, basandosi sull’idea della statistica dell’esperienza, vanno verso il fallimento perché non tengono conto della specificità. L’esperienza dei genitori, del padre, dei nonni diventa la base su cui creare l’eredità, il proseguimento dei figli, anziché ciascun figlio inseguire l’idea per cui è sorto il proprio progetto inventivo, il proseguimento proprio. Una consegna ai figli di un patrimonio che è statistico e statico.
R.C. La consegna non è ai figli, altrimenti è un processo genealogico fondato sul fantasma materno. La consegna sta nella tradizione e nell’invenzione.
M.A.V. Certo, la consegna è nella tradizione, però, se interviene il fantasma materno, la consegna della tradizione non permette l’invenzione. Penso alle aziende nel campo dell’abbigliamento. Assisto alla terza generazione come modo di proseguire questo lavoro. La maggior parte è entrata “in crisi” proprio perché c’è stato questo modo in cui i primi, i vecchi, hanno consegnato ai così detti figli, il lavoro in cui loro si sono costituiti, non lasciando, però, al processo inventivo il patrimonio della tradizione. Hanno mantenuto la tradizione senza invenzione; come dire, una consegna senza tempo. Sono pochi i casi in cui si assiste, invece, al proseguimento, che è diventato la reinvenzione dello stesso lavoro dove i genitori hanno consentito questo.
R.C. Questo infatti è un problema dell’industria italiana, dell’artigianato e dell’industria.
Altre domande, questioni?
Fabrizio Moda Lei ha concluso la relazione dicendo che il fantasma materno è modificabile nella parola con il dispositivo opportuno.
R.C. Modificabile? Non modificabile, ma dissipabile.
F.M. Mi pare di avere letto in una rivista del “Secondo Rinascimento”, una interlocuzione trascritta in cui si pone la questione di cosa fare, invece, quando il fantasma non è più dissipabile. Non mi ricordo il numero del volume, però, è una cosa che mi ha sorpreso.
R.C. Eh, allora non era dissipabile ma, adesso, con le moderne acquisizioni, questo limite invalicabile non c’è più. Occorre non porsi limitazioni e non approfittare di pretesti per avallare limitazioni possibili. Anche il fantasma materno procede dalla sfida, lancia la sua sfida e, quindi, non resta che accoglierla, rilanciando. Il fantasma materno chiede il rilancio.
F.M. È enunciato proprio perché cerca un rilancio.
R.C. Sì, è chiaro.
F.M. Non perché qualcuno lo mette in questione.
R.C. Per verificare se ci sia un rilancio.
F.M. Per verificare se si cede.
R.C. Certamente, il rilancio non sta nell’epoca, non sta negli apparati che condividono lo stesso fantasma. Il rilancio può avvenire grazie a dispositivi che non condividono lo stesso fantasma. Allora può instaurarsi il lancio, il rilancio, la scommessa, l’altro modo. Ma, condividendo lo stesso fantasma, già statisticamente è un fantasma fondato, in quanto siamo in due a condividerlo e quindi trova una sua ragione statistica. Se, poi, troviamo un terzo, allora siamo già un bel gruppo e attorno a questo fantasma possiamo fare campagna elettorale. Tres faciunt collegium dicevano i latini. Se siamo in tre già possiamo fare qualcosa insieme in modo da raccogliere altri “condivisori” dello stesso fantasma.
E, allora, ecco l’epoca che si attesta, dilaga, conferma lo stesso fantasma, la stessa complicità. Allora le cose sono spiegate benissimo, ci fondiamo su questo fantasma perché è bello, buono, brutto, è verità, è realtà. Senza scommessa, senza lancio e rilancio, senza funzionamento e processo linguistico abbiamo l’idea concreta, sistemica, sistematica. Se il fantasma materno non è processato nell’esperienza, se non trova il processo intellettuale, se non trova l’analisi, il processo di qualificazione, il dispositivo che metta in questione ciò che propone, certamente resta così. E non c’è da stupirsi. L’epoca si avvale di questo. L’epoca è questo, è l’affermarsi di vari apparati che condividono lo stesso fantasma, che poi diventa maggioranza, diventa comunità scientifica, sociale, politica, comunità di varia natura, comunità umana. Non c’è da sorprendersi. Lei si sorprende?
F.M. No.
R.C. Bravo.
M.A.V. Il fatto si basa sul principio di verità?
R.C. Certo, una verità postulata.
M.A.V. Come non accorgersi poi, che occorre che si dica? Cioè, non c’è il fatto se non si dice.
R.C. Se si dice non c’è più il fatto! Non è che il fatto esige di dirsi, ma è che, dicendosi, non c’è più il fatto.
M.A.V. Certo, infatti ho detto “sul principio di verità, il fatto”. Poi, occorre che si dica, e, dicendosi, il fatto mette in questione che la verità non c’è.
R.C. Il fatto si istituisce sul principio del segreto, delle cose da non dire, sull’omertà, sul principio del dicibile e dell’ineffabile.
M.A.V. Per questo c’è bisogno di testimoni, altrimenti non ci sarebbe la testimonianza in atto nel racconto. C’è bisogno di testimoni, testimoni come “ulteriore fatto”.
R.C. Certo. Altri?
Marcello Toncelli Non ho capito perché la relazione sociale abolisce la relazione originaria. Cos’ha a che vedere l’ossimoro, l’ambiguo, con la relazione sociale fra due individui? Perché una cosa dovrebbe negare l’altra? La relazione sociale dovrebbe negare l’ambiguo?
R.C. La relazione sociale è fatta per quello.
M.T. Per negare l’ambiguo?
R.C. Per negare l’apertura, l’ambiguità, per negare il due. La relazione sociale si istituisce sul principio di unità, sul principio dell’uno fondante che deve costituire il processo di unificazione.
M.T. Cioè, la coppia si istituisce e ha come fine l’uno.
R.C. Certo, non c’è il due, il due è negato.
M.T. Il due è negato?
R.C. Negato. Non c’è compromesso possibile su questo. La relazione sociale si istituisce sul due negato, sulla negazione del due.
M.T. Perché, adesso, va di moda la relazione aperta…
R.C. Beh, non è da adesso. È una “conquista” degli anni sessanta, settanta, ottanta.
M.T. Non c’ero.
R.C. Aperta o chiusa è sempre sulla negazione del due. Aperta o chiusa è nell’alternanza fra l’aperto e il chiuso. Così la relazione è aperta, in un altro caso è chiusa. Non c’è l’apertura con il suo ossimoro, non c’è l’apertura che non si può chiudere. È l’apertura che può oscillare tra apertura e chiusura, ma questa è la negazione dell’apertura, è apertura ipotetica sotto minaccia di chiusura. E, allora, bisogna seguire il canone e il protocollo o la moda perché non si chiuda, o perché non si apra, a seconda che vogliamo ispirarci alla chiusura o all’apertura, ma questa è modellistica dell’apparato, non è la relazione originaria, è relazione sociale che si fonda sul principio di unità.
M.T. Quindi, se vi è il due, non può esservi né esclusività né possesso.
R.C. Questo è chiaro. Non c’è relazione “con”. Perché in quel caso ci sarebbe relazione “con” e in tutti gli altri casi cosa c’è?
M.T. Un’altra relazione.
R.C. E quante relazioni abbiamo?
M.T. Tante.
R.C. No!
M.A.V. Sarebbe la famiglia aperta.
R.C. La relazione è originaria, non è che ci sono tante relazioni.
Lucio Panizzo Sarebbe una comune?
M.T. La relazione amicale, amorosa, familiare.
R.C. Quello è il modello sociologico, sempre fondato sulla negazione del due. Allora, occorre qualificare l’amicizia, l’amore, la sessualità, il matrimonio. Occorre qualificare e non attenersi alle etichette psicologiche o sociologiche fornite per giustificare il principio di unità cui si deve ispirare la socialità. La questione è quella della parola, della sua logica, delle sue proprietà e delle sue virtù.
M.T. Ma, com’è constatabile il due? Non capisco. Dall’incomprensione?
R.C. Occorre uno sforzo ulteriore. La questione che lei pone è essenziale. Occorre fare l’esperienza del due, non può essere spiegata. Non può essere spiegato il due, esemplificato. Però, le proposte che lei faceva, già andavano in quella direzione, quindi, qualcosa è già colto. Occorre cogliere ancora qualcosa.
M.A.V. C’era la questione che riguarda la così detta invidia sociale. Parte dall’idea di mancanza che abbisogna del processo di unificazione o dall’idea di unificazione di ciò che manca? Perché uno pensa che l’invidia sociale sia l’invidia di un posto, di ciò che è pensato sociale, ma l’invidia sociale è mettere un pezzo di ciò che è mancante nel processo di unificazione. Non è neanche più un processo, è, come dire, unificazione tout court.
R.C. Esatto, parte dall’idea di vendetta.
M.A.V. Sì, ma l’idea di vendetta ha come principio l’idea di mancanza?
R.C. Ha come principio l’idea di uguale sociale. Uguaglianza e identità sociale. A partire da questo, l’invidia sociale.
M.A.V. Diventa un miraggio l’uguaglianza sociale.
R.C. Siccome l’identità e l’uguaglianza sono fantasmatici, allora la vendetta è applicata realmente.
M.A.V. Ecco.
R.C. È l’idea che agisce.
M.A.V. Il tribunale si istituisce in questo modo.
R.C. Anche, certo. Poi, c’è un altro tribunale, il tribunale sociale, appunto, che è ancora più vendicativo. Non prende neanche a pretesto le leggi, ma ogni fantasia d’identità, di uguaglianza di sé all’Altro, di sé a sé, dell’Altro a sé, eccetera. Varie specularità, parità, pariteticità.
L.P. Le questioni che ho ascoltato questa sera mi hanno fatto riflettere su due testi di lettura che sto leggendo in questo periodo. Una è Operazione guru e, leggendo questo testo, ho ripreso anche Processo alla parola, che è uscito un po’ di anni fa. Qui c’è una cosa che ritengo estremamente importante da parte della testimonianza di Verdiglione, intorno a come le cose si rivolgono alla cifra. Ciascun termine dell’apparato, per esempio, “tribunale” o “guardia di finanza”, che interviene, è elaborato e ripreso in altri termini che non sono i termini del canone, i termini statistici o così detti scientifici, ma qui si intende bene proprio la questione dello scientifico, cioè che la parola è scientifica, ma non nell’accezione comune di scientifico.
R.C. Non la statistica.
L.P. Questi testi ritengo che siano essenziali anche per capire l’esperienza cifrematica.
R.C. Certo, ma l’esperienza cifrematica non si può capire.
L.P. Sì, giusto anche questo. È inspiegabile. È da fare.
R.C. Facendola, ciascuno può testimoniare qualcosa e restituire qualcos’altro. Non è che si possa spiegare, etichettare. Spiegare per dire che cosa? Che è buona e fa bene? Non è mica una sostanza!
L.P. Non è un farmaco.
R.C. Non è un farmaco e non è una sostanza. I frutti possono essere indicati solo testimoniando. E ciascuna testimonianza è differente. Questa è la questione che riguarda la libertà, l’unicità, la leggerezza, l’anoressia, il disagio e le varie proprietà e virtù. Come queste virtù e proprietà sono incontrate e come entrano nella valorizzazione della vita? Questo non si può mica prescrivere a nessuno. Non è che si possa insegnare. Anzi, l’insegnamento viene dal racconto, dalla testimonianza, dalla scrittura.
F.M. Prima ha parlato di norme, regole, motivi. Mentre nel luogo comune regole e norme fanno riferimento allo stato e i motivi a motivazioni psicologiche, nella parola a cosa fanno riferimento regole, norme, motivi?
R.C. A regole, norme e motivi del dispositivo. Come sorge un dispositivo? Con norme, regole, motivi.
F.M. Ma, la distinzione tra norma, regola e motivo?
R.C. Faccia lei qualche proposta per vedere se individua, scorge, qualifica la distinzione fra norma, regola, motivo. Non si è mai interrogato su questo?
F.M. Non ho trovato scritti.
R.C. Ma non tutto si trova nei libri! L’esperienza non sta nei libri, non è libresca l’esperienza. La stessa psicanalisi non si fa nei libri. Non basta leggere Freud per dire di avere fatto l’analisi o di farla. Freud dice delle cose. Non basta ripetere Freud per potere asserire di avere analizzato il materiale da cui Freud è partito, per dire ciò che dice o per scrivere ciò che ha scritto. Da cosa è partito? Non te lo dice mica! Qual è stato il processo, il materiale che analizzato è giunto a scrittura in quel modo? Quello non è scritto nel libro, ma è ciò che, effettivamente, è stato importante per Freud per scrivere quelle cose, e così per altri, e così nella scrittura. Certo, chi non si azzarda mai a aprire bocca, chi sta con la bocca cucita, con la penna chiusa, con il foglio di carta riposto nel cassetto, di questo processo e dell’andare e venire delle cose, magari non se ne accorge neanche.
M.A.V. E c’è un’acquisizione? L’acquisizione esige la testimonianza e la sua scrittura. Voglio dire, è difficile contenere un’acquisizione, perché apre.
R.C. È difficile, però, talvolta, la paura dell’epoca prevale sulla difficoltà a trattenersi, che è un indice pulsionale. Ma, occorre dire che ci sono anche i casi in cui la contenzione riesce. Poi ci sono tante sofferenze, tanti lamenti. Quanti lamenti! Quanta sofferenza! Però, accade che qualcuno tenga duro, pur soffrendo. Parodiando Dante, possiamo dire, fatti non foste per soffrire, ma per seguir virtute e canoscenza, cioè l’istanza scientifica.
F.M. La canoscenza è la distanza scientifica?
R.C. Sì.
F.M. L’istanza scientifica in che termini?
R.C. La produzione di sapere.
F.M. La produzione di sapere intesa come?
R.C. Curiosità.
F.M. Per quello che riguarda ciascuno.
R.C. Certo, la curiosità da cui la ricerca procede.
F.M. Perché dire che la canoscenza in Dante…
R.C. La curiosità, per cui si fa l’esperienza di retro al ciel, del mondo sanza gente, cioè oltre le colonne d’Ercole. Così era il mito, oltre le colonne d’Ercole.
M.A.V. È il rischio assoluto, c’è l’azzardo, la scommessa.
M.T. Quindi, le colonne d’Ercole rappresenterebbero l’oltre?
R.C. Il limite oltre il quale non bisognava andare, il limite del mondo conosciuto, del mondo popolato.
F.M. Il limite della conoscenza.
D.S. [Audio non comprensibile].
R.C. Lei si ricorda la dicitura esatta di quel verso?
D.S. No. Riguardava Ulisse che era andato oltre le colonne d’Ercole?
R.C. No, riguarda ciascuno.
M.A.V. È dove debutta il ciascuno che c’è la specificità, l’unicum, l’occasione dell’acquisizione, la testimonianza.
R.C. Bene, terminiamo qui.
Il capitalismo nuovo e la sua lingua
Ruggero Chinaglia C’è chi dice e sostiene che, oggi, la scuola nella provincia Italia assolve il compito di ammortizzatore sociale contro il lavoro, contro la formazione, contro l’autorità, contro l’abbondanza, contro la disciplina, contro l’impresa, contro la civiltà. Sostiene che la scuola si è istituita come area di parcheggio e si attende una legge del parlamento che autorizzi gli opportuni cambiamenti e correttivi sociali. Ciò che vale e si dice per la scuola vale e si dice anche per altri strati e apparati sociali: la sanità e l’ospedale, la giustizia con la magistratura e il tribunale, la politica, l’economia, la finanza, la scienza, l’impresa.
Intanto che queste cose si dicono, si sussurrano, si mormorano, si divulgano dov’è il dibattito? Dove si pone la questione? Con quale lingua, con quali mezzi, con quali strumenti, in quale direzione e chi si prende la briga di porre la questione d’instaurare il dibattito, di non avallare questa negazione della civiltà?
È chiaro che la questione non è solamente la scuola, l’ospedale, il tribunale, l’impresa ognuno preso isolatamente, ma la questione è la parola, è la questione intellettuale, è la questione civile che si pone a proposito del dispositivo civile, della civiltà non come apparato burocratico o apparato ammortizzatore, non come apparato algoritmico, fatalistico, di uniformazione, di quiescenza. Ciò che si pone è l’accettazione dell’epoca con l’accettazione della negazione della parola, con la conseguente instaurazione della società dell’attesa, dell’uniformazione, della conformazione, della conformità, del conformismo.
Chi vive comodamente nel suo conformismo, cioè chi vive nell’epoca, nella sua spazialità, nel suo pregiudizio psichiatrico, nella sua economia, nel suo economicismo, nelle sue ristrettezze, come può accorgersi che si sta esentando dalla parola? Se nessuno parla a chi si è accomodato nell’epoca e sull’epoca, in che modo può accorgersi di qualcosa di nuovo, se non si instaurano i dispositivi di parola, i “dove” della parola cioè l’oggetto, il punto, il contrappunto, la causa, la provocazione, l’assenza di sostanza, l’analisi, la qualificazione, il dispositivo di valore, l’approdo al valore, il capitalismo intellettuale? In che modo chi sta nel fantasma di padronanza può accorgersi della parola, può udire che oltre la sua spazialità, oltre la sua idea di fine, oltre la sua idea di origine, c’è Altro, c’è parola, se nessuno parla, se nessuno gli parla, se nessuno rivolge un gesto, un appello, una proposta, un’offerta, un’indicazione? In che modo se ognuno aspetta che sia il Parlamento a emanare, promulgare una legge che metta le cose a posto conformemente ai desideri di tutti, perché tutti vivano bene, contenti, senza disagio, conformemente? In che modo, se nessuno testimonia che c’è parola, che non ci sono solo gli apparati di contenzione, non ci sono solo i muri, che non ci sono solo le ideologie, le fantasie di fine e di origine? In che modo se ognuno attende e nessuno corre il rischio di provocare la curiosità, la domanda, proponendo dispositivi nuovi, differenti, altri? Non già per convincere o convertire, ma perché, intanto, ci sia l’udire e non la sordità dovuta al rumore della lingua comune, perché ci sia chi oda la parola nel suo atto, nella sua logica, nella sua struttura, nel suo accadere, nel suo avvenire, nel suo divenire e non nel suo detto e nel suo fatto. La parola nella sua apertura, nel suo spalancamento, nella sua scommessa di qualificazione e non nella promessa di un avvenire migliore per tutti. Non c’è da attendere!
L’atto di parola si rivolge alla cifra, non alla finalità, allo scopo, al raggiungimento dell’intenzione, al fine di bene; l’atto è ineconomico e inefficiente, non va dove qualcuno presume di dirigerlo e di comandarlo, non vale a risparmiare forza o tempo. L’utilità dell’atto è linguistica, non ergonomica. La paura di parlare, così diffusa, così in voga, così condivisa, così invocata come giustificazione, si rivolge al postulato dell’utilità sociale, l’utilità sociale del detto: in che modo il mio detto può risultare utile o inutile?
Ecco l’economia del detto, l’economia della parola, l’economia dell’utilità, l’economia che poggia sulla paura dello spreco della parola. Il detto può risultare utile, inutile, approvato, criticato, condiviso, respinto? Ognuno si sovrappone al detto, si fa significare dal detto, vuole evitare che il suo detto possa risultare contraddetto, criticato, non approvato, respinto. Ognuno è il suo detto, quindi meglio non parlare, meglio tacere.
Il sapere, la perfezione, la completezza del sapere sono alibi per giustificare la paura dell’anomalia di ciò che si dice fuori controllo, fuori padronanza, fuori conoscenza. Non saperne abbastanza, non essere sicuri di dire bene ciò che si vuole dire, non avere la garanzia preliminare dell’utilità sociale di ciò che si è detto, sono le giustificazioni addotte per sostenere la delega all’intervento intellettuale.
Allora, ognuno aspetta, attende che ci sia l’intervento dell’Altro, l’intervento salvifico, l’intervento di padronanza, l’intervento che autorizzi a ripetere, a condividere, a compiacere, “I like”, condivido! “I like”, condivido, mi piace, mi compiaccio, mi compiace, ma comincia tu, vai avanti tu, io poi condivido. Condivido il condivisibile, che non esponga alla critica sociale, che non esponga all’isolamento sociale. Così, il dispositivo, il dispositivo intellettuale, il dispositivo civile può attendere. Intanto badiamo agli apparati, alla burocrazia, badiamo bene di non sollevare questioni, di non suscitare domande, di non esporci alla domanda curiosa, alla domanda spinosa, alla domanda pericolosa, alla domanda sconveniente, irrispettosa, irriguardosa. Atteniamoci all’epoca, al suo confinamento, evitiamo ogni intervento civile.
Ma, di cosa si tratta nell’intervento civile? Si tratta del dispositivo di parola, si tratta dell’intervento che va in direzione della civiltà della parola, con norme, regole, motivi che attengono alla domanda e non norme casuali, convenzionali, stabilite, prestabilite. Norme che attengono alla domanda, quindi dispositivi non conformisti, non già detti, non già fatti, dispositivi nuovi dove si tratta del rischio di parola, dispositivi che esigono la scommessa, che traggono all’acustico, all’ascolto, all’intendimento e non alla condivisione di un sapere che si tramanda e che deve essere tramandato per non suscitare problemi di difformità.
La questione è l’intervento intellettuale che non risponde all’utilità sociale, ma all’istanza oggettuale, alla causa di godimento, di sapere, di verità, all’istanza di qualità, a quanto non è già previsto e conosciuto. E esige qualcosa di nuovo, d’imprevedibile, perché si instaura per il pleonasmo che c’è nella domanda, per cui la domanda non si chiude.
Il dispositivo non ha finalità di accordo o di chiusura, è dispositivo intellettuale, dispositivo temporale, non dispositivo a termine, a fine, a esaurimento. Si tratta del servizio intellettuale, si tratta del brainworking. Il brainworking è il servizio intellettuale, è il servizio senza l’idea di salvezza, di malattia, di psichismo, senza l’idea di mente o mentalità. Non è materia medica, sanitaria, psicologica, sociale, sociologica: è materia intellettuale. Non è vincolata a una o all’altra categoria sociale, confessionale, professionale di qualsivoglia genere, ma è materia della parola che diviene cifra, materia scientifica, materia della scienza nuova, della scienza della parola.
Sta qui l’intervento cifrematico, che è servizio intellettuale, intervento e servizio non conformista, non di adeguamento, o conformazione, o conformismo, non intervento di riconduzione al canone, rieducativo, punitivo, premiale, ma intervento direttivo, indicativo, clinico, analitico, cifrale; non materno, non pedagogico, non spirituale. La questione intellettuale si gioca qui.
Avere timore e astenersi dall’intervento indica la sua idealizzazione, indica la soggiacenza all’idea salvifica, all’idea di bene, all’idea redentiva, di espiazione, di soluzione, di partecipazione, all’idea di miglioramento. Ogni idea di miglioramento indica l’ipotesi di evoluzione e il principio evolutivo a cui si ispira indica la possibile transizione dal male al bene, il principio catartico, il principio penitenziale che segue a quello punitivo.
Ogni appello all’empatia si regge sul principio della consustanziazione, l’idea di potere condividere la sostanza. Il principio empatico è la consustanziazione, e l’empatia risponde all’ideale di farsi sostanza, di essere della stessa sostanza dell’Altro. Tolto l’Altro, tolta la parola, resta l’empatia, la consustanzialità con l’Altro, l’idea di farsi Altro dell’Altro, l’Altro puro, purezza della sostanza, vestire l’abito puro dell’Altro. Empaticamente, “siamo tutti della stessa sostanza”, così non c’è pericolo di parola, di equivoco, di menzogna o rischio di malinteso. Siamo tutti della stessa sostanza, vestiamo gli stessi panni, siamo tutti empatici. Parliamo? Non parliamo! Pensiamo? Non pensiamo! Siamo! E che bisogno c’è di parlare se siamo, se siamo tutti? Siamo tutti consustanziali. L’ideale della sostanza è l’ideale della completezza.
La parola ha come sua virtù l’incompletezza. Il tempo non finisce e il soggetto completo è l’idea della fine del tempo, il fantasma della fine del tempo, il fantasma della possibile padronanza sul tempo, l’idea di potere essere completi, di potere conseguire la completezza e la conoscenza, di essere senza falla, ossia la falloforia, l’euforia; o la depressione nel caso in cui una piccola falla si manifesti.
L’esperienza di parola è l’esperienza della dissipazione della sostanza e dell’idea di sostanza, idee di sostanza che erigono presunti impedimenti alla domanda, al suo corso, al suo svolgimento, al dire, al fare, alla scrittura, alla direzione, all’articolazione della domanda, all’attuazione, all’invenzione, alle opere d’ingegno che occorrono per il viaggio.
Ma, il viaggio procede per forza, non per inerzia né per volontà; non si alimenta di sostanza, cioè, il viaggio procede senza cedimento al pregiudizio psichiatrico con le sue tentazioni sostanzialiste: l’alibi del male, del negativo, della mancanza, della perdita, dell’impossibilità, dell’incapacità, della debolezza, l’alibi della stanchezza. Il viaggio procede senza cedimenti e senza la giustificazione della malattia mentale. Nulla deve il viaggio alla malattia mentale e ogni riferimento alla malattia mentale produce l’inceppamento, il cedimento, il rallentamento, la lentezza, l’attesa, la riserva, la remora, il rimando, l’imbecillità. Imbecille è chi presume di dovere ricevere l’autorizzazione a vivere e aspetta che dio, lo stato, il padrone, il daimon gli accordi questo permesso.
Chi coltiva il pregiudizio psichiatrico si preclude il viaggio, perché non c’è possibilità di compromesso, non c’è la possibilità di stare a vedere come va, di pensarci su: “Intanto vedo”! L’esperienza non è per migliorarsi, per guarire, per salvarsi. È per dare un contributo alla civiltà, per dare un contributo alla qualità della vita, è per fare qualcosa d’inaudito. Vivere è qualcosa d’inaudito, vivacchiare è già la morte. Vivacchiare è l’ombra della morte sulla vivenza, cioè, non c’è più la vivenza. “Vivacchiamo” è eutanasia assistita, custodita e amorevolmente consigliata. La ragazzina olandese vivacchiava, no? Vivacchiava fino a chiedere l’eutanasia, amorevolmente accordata, assistita dai familiari, in particolare dalla mamma che la comprendeva. E, serenamente, è spirata. I familiari hanno ringraziato chi ha assistito al trapasso.
Civiltà della sostanza, civiltà eutanasica, civiltà mortifera, civiltà sociale. L’Olanda è un paese evoluto, progressista, all’apice del progresso. Chi non ambisce a andare a vivere in Olanda? C’è chi ambisce a andare a vivere in Olanda o nei paesi della nordic area, e chi ambisce a divenire intellettuale, scienziato, brainworker. Ambisce, ossia gioca la scommessa del dispositivo intellettuale che fornisce le indicazioni sul come fare, come divenire intellettuale, scienziato, brainworker.
Parricidio e sessualità sono le due facce dell’annunciazione, le due facce con cui si avvia il dispositivo del viaggio. Il parricidio non è la messa a morte del padre, ma il funzionamento del nome nella parola. All’instaurazione del parricidio segue il varco tra la rappresentazione sostanziale del padre nel papà o della madre nella mamma, cioè segue il varco tra il personaggio familiare e gli indici della parola nella famiglia. La castrazione si situa in questo varco che impedisce che il papà e il padre siano sovrapponibili, che la mamma e la madre siano sovrapponibili, che l’idea di sé e lo statuto intellettuale siano sovrapponibili, che il detto e il dire siano sovrapponibili.
La sessualità non è la conquista del partner con tutte le paturnie fra etero e omoerotismo, fra etero e omosessualità, tra conformismo e mimetismo. La sessualità è la politica del tempo in atto e si instaura per ciascuno nel dispositivo di parola con l’organizzazione, con l’economia, con la finanza, con l’attuazione del progetto e del programma di vita, senza nessuna accettazione di compromesso che induca all’evitamento di qualcosa. Nessuna sessualità con l’evitamento. E con la sessualità nessuno è da solo, nessuno è abbandonato, nessuno corre il pericolo di fine, perché si instaura il dispositivo della solidarietà, della tolleranza, del sorriso, dell’approdo al valore. È il dispositivo del capitalismo intellettuale, è il nostro dispositivo.
Marcello Toncelli Non ho capito da dove venga la paura di parlare, la paura di creare una discordanza, una reazione negativa rispetto all’Altro. Si è detto che la paura di parlare si rivolge al postulato dell’utilità sociale, quindi vi è un’economia della parola, dell’utilità. Ognuno si identifica col suo detto e, quindi, piuttosto che dire…
R.C. Questo non l’ho detto.
M.T. “Ognuno ha il suo detto”.
R.C. Ognuno “è” il suo detto, non che si identifica con il suo detto!
M.T. È diverso? Ognuno ha il suo detto, quindi è meglio che taccia, piuttosto di contraddire l’Altro.
R.C. Piuttosto che contraddire il proprio detto, meglio tacere, no?
M.T. Cioè? Come fa a contraddire il detto se ancora lo deve dire?
R.C. No, il detto è già detto.
M.T. È già detto… Piuttosto che contraddire ciò che ha detto precedentemente?
R.C. Il proprio detto, l’assunto su cui si fonda l’idea di sé. Piuttosto che tradire il proprio conformismo meglio tacere, aspettare.
M.T. Non capisco da dove venga la paura di contraddire l’Altro, di creare una reazione discordante. Forse è sempre legato all’idea di unità, di genere?
R.C. Sì, è chiaro, all’idea di sé, quindi all’idea di condivisione.
M.T. Quindi tanti uni frazionati che devono unirsi.
R.C. Stare uniti. Ogni intervento incrinerebbe l’unità o l’unificazione, in quanto discordante. L’idea d’incompletezza, d’incompletezza propria, di presunta incompletezza, che è la giustificazione addotta per mantenere l’omertà, se assunta, è già qualcosa che indica che la parola non è governabile. Che cosa può costituire un freno alla parola? Non riuscire a governarla, non riuscire a dire quello che si vuole dire! Questo inadeguamento, quest’incontrollabilità, questa mancata padronanza, si volge nell’idea di incompletezza di sé, della propria incompletezza, nell’idea di non avere ancora raggiunto la completezza.
M.T. E quindi ognuno si migliora.
R.C. No, ognuno si astiene, in attesa di completarsi.
M.T. Tenta anche di migliorarsi, no?
R.C. No, tenta di migliorare la padronanza sulla parola.
M.T. Sì, l’autostima.
R.C. Ecco, con l’ipotesi dell’autostima viene assecondata l’idea d’incompletezza, nonché l’ipotesi che questa incompletezza possa cessare, possa essere colmata dal completamento, cioè che la parola possa essere definitivamente tolta! Curioso, no? Fioriscono corsi di addestramento per aumentare l’autostima, cioè l’idea che si riuscirà un domani a raggiungere questo completamento di sé. Chiaro che per questo occorre rafforzare quella che viene chiamata l’autostima. Ma, rafforzando l’idea di sé, l’incompletezza aumenta, perché la parola non può essere negata né tolta. Però resta l’ipotesi negativa della parola, cioè la parola come pericolo e l’Altro diventa l’esponente del giudizio negativo sull’incompletezza assunta. È il circolo così detto vizioso: la circolarità di sé, il circolo della paura.
Sabrina Resoli La paura di parlare è la paura dell’anomalia di ciò che si dice, ma l’anomalia è ciò per cui è impossibile la condivisione, l’anomalia è ciò che rende la parola insociale, ineconomica e quant’altro, ma è anche ciò che espone alla constatazione che non si può sapere prima qualcosa sulla parola. Sta anche qui l’anomalia che fa paura, cioè che espone…
R.C. No, qui l’anomalia è già stigmatizzata! Nel momento in cui si attesta l’idea che, come dice lei, non si sa e che bisogna sapere, l’anomalia è già espulsa, è già manomessa.
S.R. Sì, ma cercavo di capire cosa fa paura dell’anomalia. Cosa muove la paura?
R.C. L’anomalia! L’irripetibilità dell’anomalia, cioè la particolarità, l’incontrollabilità sull’anomalia, la non sovrapponibilità fra quel che si dice e quello che si voleva dire, l’incomprensibilità di quel che si dice. Parlando, qualcosa risulta incomprensibile perché interviene l’anomalia, interviene l’utilità sintattica, frastica e pragmatica, quindi interviene l’usura, interviene la condensazione e lo spostamento, interviene la metafora, la metonimia e la catacresi. Tutto ciò è simultaneo, e sconcerta!
S.R. Ma questo sconcerto sta nell’esperienza di parola…
R.C. Sta prima. Prima. È quello sconcerto che impedisce l’esperienza.
S.R. Sì, se viene rappresentato come sconcerto, ma l’esperienza di parola è anche l’esperienza dell’anomalia, di questa imprendibilità, di questa…
R.C. Lei dice “questa” come se fosse possibile dire che è “questa”, che la conosciamo.
S.R. Sì, infatti, forse è qui che io avverto uno scarto fra quello che penso di avere capito e quello che avverto, a cui si allude…
R.C. Perché lei vuole essere sicura di avere capito bene, no?
S.R. Esatto.
R.C. Mai potrebbe correre il rischio di avventurarsi in un equivoco, sulle cose che non ha capito bene.
S.R. È questo, sì.
R.C. La padronanza è subdola.
S.R. Sì, stavo pensando proprio a questa cosa, che la padronanza interviene in modo subdolo e, parlando, ci si espone alla constatazione che c’è un’idea di padronanza che opera.
R.C. Che agisce. Agisce come impedimento, impedendo con l’astensione, tacendo.
S.R. Facendo?
R.C. No, tacendo. Un bel tacer non fu mai scritto, no? Il fantasma di padronanza non si scrive, né scrive, ma agisce, impedisce.
Lei voleva dire qualcosa?
Barbara Sanavia Varie cose mi sono venute in mente. Questo detto lo diceva spesso mio nonno, un proverbio che ripeteva spesso. Tacendo, non si scrive niente, però lui l’intendeva in un altro modo.
R.C. Beh, certo.
B.S. Stavo seguendo due ragionamenti diversi. Comunque, per stare su questo, la padronanza sulla parola con il silenzio, per evitare… Perché lei spesso dice che nessuno sa quel che dice, e questa sera ha anche detto che per evitare che quel che si dice non corrisponda a quello che si pensa, si evita di parlare. Però, può anche esserci l’insoddisfazione, cioè può essere che vengano a mancare i termini per esprimere quello che si pensa, ma nemmeno in un modo tanto compiuto, cioè, c’è una sensazione su qualcosa che, parlando, non riesci a rendere.
R.C. Questo lo sapremo dopo. L’insoddisfazione preventiva è una censura preventiva.
B.S. Può capitare che ti rendi conto che non vieni intesa. Magari ti escono parole perché comunemente sei abituata a usarle in un certo modo, che però non rendono quello che pensi, e agli altri non arriva perché non si riesce, in quel momento, a trovare le parole giuste per quello che vorresti dire. Sì, solo parlando puoi verificare, poi. Però, pur parlando, succede questo.
R.C. Questo indica che c’è l’esigenza di un supplemento di qualificazione.
B.S. Si evita di parlare per non avere a che fare con questa insoddisfazione.
R.C. Per non avere a che fare con questi riscontri! Riscontri dell’usura, della necessità linguistica. Qual è la necessità linguistica? Non è la necessità che si presume, non è la necessità legata alla finalità di bene, all’idea di lingua comune. L’esperienza della parola è anche questo: è la disdicenza, la castrazione. Non c’è la lingua completa, non c’è la parola completa, non c’è la completezza linguistica, impossibile togliere il pleonasmo, impossibile abolire la mancanza, il supplemento, l’equivoco, l’istinto, il desiderio. E tutto ciò…
B.S. Tutto ciò conviene non evitarlo.
R.C. Non è tanto una convenienza…
B.S. È un’economia.
R.C. Brava, è un’economia dell’ipotesi di qualità, perché l’insoddisfazione preventiva, come diceva lei, indicherebbe che il fine del parlare è il piacere, cioè il compiacimento, no?
B.S. No.
R.C. Eh, sì. L’insoddisfazione preventiva!
B.S. No, è l’essere compresi; però è impossibile.
R.C. Perché si attribuisce alla parola una finalità. Allora, questo poi diventa un problema. Una finalità comunicativa, comprensiva, partecipativa, dell’unità, una finalità della totalità. Tutte queste finalità, o alcune e altre ancora, sono addotte per gestire la parola, la comunicazione, la scrittura e quant’altro, cioè fantasma di padronanza.
B.S. Un modo d’incomprensione.
R.C. Ma è una chance che ci sia incomprensione!
B.S. È inevitabile, per questo ce n’è il mito.
R.C. È una chance che è opportuno non togliere.
B.S. Va bene. Non capivo tanto, invece, cosa c’è di male nell’utilità sociale.
R.C. È utopistica, è un’utopia semplicemente.
B.S. Perché? Per esempio, le conferenze di cifrematica sono un servizio intellettuale. Non hanno un’utilità sociale?
R.C. Non sono fatte per questo.
B.S. Sono fatte per stimolare l’intellettualità, ma quale utilità c’è nello stimolare l’intellettualità?
R.C. Quale utilità ha? Non lo sappiamo mica!
B.S. Non c’è un’utilità sociale?
R.C. No, perché l’utilità sociale che lei invoca, sarebbe la conoscenza degli effetti, cioè sarebbe la finalità, la conoscenza del fine da raggiungere.
B.S. Senza fine da raggiungere, però…
R.C. Vede, già dice “però”.
B.S. Utilità nel senso che, se non c’è intellettualità, c’è animalità.
R.C. Dire utilità sociale vuole dire utilità per tutti.
B.S. Per chi intraprende un’esperienza cifrematica, per questa persona, non è utile?
R.C. Può darsi. Che ne sappiamo? Ce lo dirà.
B.S. Come può non essergli utile? Perché viene proseguita, se non gli è utile?
R.C. Se prosegue, ci sarà.
B.S. Non “ci sarà” in futuro, ma anche nel corso. Poi, anche nel proporla c’è utilità sociale per un discorso di civiltà.
R.C. Non combaciano le due cose. Per lei combaciano, ma in realtà non combaciano. Civiltà e società non combaciano.
B.S. No, nel senso che l’esperienza cifrematica promuove la civiltà e, allora, non c’è un’utilità sociale in questo? Siccome noi viviamo in una società, non siamo dei singoli e, in questo promuovere la civiltà, non c’è utilità sociale? Penso di sì.
R.C. Può darsi.
B.S. Non c’è niente di male.
R.C. Chi ha detto che c’è qualcosa di male? Ho detto che le due cose non combaciano.
B.S. Per me sì, cioè non riesco a capire perché no. Però, in questo momento, non riesco a capire perché non c’è utilità sociale. Avendo utilità per la vita di ciascuno, se migliora la qualità della vita di ciascuno, di conseguenza…
R.C. Di conseguenza non è una finalità prevedibile né prescrivibile, perché passa “per ciascuno”, non “per il sociale”.
B.S. Mi viene quasi automatico pensare che se migliora la qualità per ciascuno, non può che essere utile anche alla società.
R.C. Perché no? Lei dice che non basta il ciascuno? Che ci vuole il sociale a tutti i costi?
B.S. No, è una conseguenza, perché non viviamo da soli, viviamo in società.
R.C. Quindi, che ci preoccupiamo a fare? Intanto occorre che ci sia l’instaurazione del ciascuno, perché se non c’è quella, non c’è neanche l’utilità sociale.
B.S. Sì, prima di tutto occorre questo.
R.C. Ecco, questo è il punto, mentre se lei mira all’utilità sociale e trascura il ciascuno, rimane delusa, insegue un’utopia, un’idealità. Questo è il punto importante, se non c’è l’instaurazione dello statuto intellettuale, non c’è nemmeno l’utilità sociale. Occorre però cogliere di cosa si tratta nell’utilità.
B.S. La qualità.
R.C. Utilità e qualità non sono la stessa cosa. Lei capisce che c’è una qualificazione da fare.
B.S. Non immagino che possa nuocere alla società.
R.C. Perché dovrebbe nuocere? E perché lei deve immaginarselo? Qual è la necessità d’immaginare l’utilità sociale?
B.S. Perché io ci trovo soddisfazione, per esempio.
R.C. Ma se non sa quale sia, se non è ancora avvenuta, come può lei già provare soddisfazione? È una soddisfazione ipotetica, ideale.
B.S. Non si può essere in uno stato continuo di soddisfazione, ma ci sono momenti per cui ciascuno dà.
R.C. Lei ipotizza un’utopia.
B.S. Adesso io sto pensando al concreto, perché se penso astrattamente…
R.C. Esatto, il concreto è l’utopia.
B.S. Pensando a delle esperienze concrete…
R.C. Cioè a un’utopia…
B.S. Esperienze vissute.
R.C. Vissute, e quindi è un’altra cosa…
B.S. C’è stata utilità anche per altri. Per me è stato un momento di qualità, che però…
R.C. Questo per ciò che è già stato, e per ciò che sarà?
B.S. Non lo so, ma per ciò che è, a volte ci sono questi momenti…
R.C. Allora per ciò che sarà, è impossibile stabilire il fine di utilità sociale come movente.
B.S. Sì, è un effetto che può avvenire a seconda…
R.C. Altrimenti si stabilisce l’alternativa.
B.S. Sì, non preventivarlo, perché allora non c’è più il ciascuno.
R.C. Esatto, questa è una cosa importante, anzi importantissima.
Bene, lei?
Daniela Sturaro Non per discordanza, ma anche forse per discordanza, non lo trovo così diffuso questo “bel silenzio”.
R.C. Chi ha parlato del silenzio?
D.S. Questo bel silenzio di cui parlava prima.
R.C. Si parlava del tacere.
D.S. Ecco, questo bel tacere. È raro un bel tacere, tutti parlano! Parlano per aggrapparsi alla vita. Sì, perché quello che tace è sempre guardato con sospetto, ci si chiede cosa pensi. Quello che tace viene escluso e, invece, chi parla, chi parla a modo suo, con la lingua comune, con quella che ha o con quella che non ha…
R.C. E allora siamo nel bla bla bla, che non è materia nostra. Noi stiamo parlando a proposito della lingua della parola, non della “lingua sua”. Con la lingua comune siamo fuori dal dispositivo e dall’intervento intellettuale, siamo fuori dal brainworking, siamo nella piazza, nel mercato.
D.S. Può anche darsi che siamo nel mercato.
R.C. Siamo nella lingua morta, nella lingua del detto, del detto comune, nella lingua della comprensione. Ma che c’entra? Che c’entriamo noi con questo?
D.S. Dovevo aggiungere qualcosa.
R.C. Ah, ecco.
D.S. Che in questa lingua morta ogni tanto c’è una lingua viva. Non si sa perché, non si sa da parte di chi, però, di tanto in tanto, quando c’è quel momento di lingua viva, tutti se ne accorgono. Ha effetti questa lingua viva che compare inspiegabilmente.
R.C. E non lo abbiamo detto che non si tratta di credere all’epoca, ma di parlare? Perché altri si accorge che nel rumore è intervenuto qualcosa di acustico.
D.S. E poi c’è la questione della padronanza. Stiamo facendo gli scrutini e, per quanto riguarda il profitto e le competenze, la padronanza è il termine fondamentale, quello più ricorrente. Fa veramente impressione pensare che un bambino abbia la padronanza del linguaggio della matematica. Neanche Einstein aveva la padronanza della fisica! Come fa un bambino a avere la padronanza di produrre il testo con un senso, eccetera, cioè, quella lingua sì che è morta, la lingua della pedagogia.
R.C. Certo. Allora concludiamo qui.
La lingua della cura
Ruggero Chinaglia Questa sera sono annunciate alcune testimonianze. Cominciamo con Giampietro Vezza. Prego.
Giampietro Vezza Quale lingua? Si nota come intorno alla lingua ci sia un apparato ideologico di appartenenza e di finalità, che sottopone la lingua al principio di economia, di controllabilità e di comprensibilità, al criterio di lingua strumentale, vincolando la lingua all’idealità, all’unità e creando così l’unilingua: la lingua di ognuno e chiunque, la lingua della distinzione tra padrone e schiavo, la lingua priva di arbitrarietà, del discorso come causa, lingua assunta come lingua rituale, celebrativa, usata dalle istituzioni, dai discorsi e dalle discipline. In ospedale, in tribunale o a scuola, la lingua è l’impalcatura dell’allestimento del teatro sociale. Diviene lingua della casta, lingua burocratica, istituzionale, già disegnata e da ripetersi identica a sé.
Allora, la questione è chiedersi quale esperienza di parola sia quella che viene assunta dall’ideologia, che tramuta il disturbo di parola in disturbo linguistico, lo categorizza come disturbo organico, cioè la lingua come organismo, in quanto possa essere assunta dall’organismo ideale, comune a tutti. In questo contesto, quando qualcosa varia, il catalogo delle anomalie si arricchisce. Non è questo il principio della malattia mentale?
È da reinventare la linguistica della vita, la linguistica scientifica che tenga conto dell’anomalia non come incidente di percorso patologico o deficitario, ma come aspetto di una struttura in cui gli abusi linguistici – metafora, metonimia, catacresi – risultino le sole utilità.
Un conto è parlare, un conto è la lingua. Le parole non sono le cose, in quanto le cose si dicono e al dire non è possibile togliere l’atto. Non è possibile il dire sul dire, il metalinguaggio, che è il fantasma di padronanza sulla parola, messo, però, in discussione da un qualsiasi banale lapsus o svista che possa intervenire.
Armando Verdiglione scrive che l’alingua impedisce la socializzazione dell’atto, la trasformazione della parola in un campo di rapporti di forza, l’adesione alla comune misura, il sequestro del fare da parte di un minimo comune come di una visione partecipata del mondo. L’alingua allora è inappartenenza, insignificanza, ciò che mai potrà prestarsi alla codificazione o alla significazione. Nessuna genealogia della lingua. Nessun luogo comune, nulla di comune né di universale nell’atto di parola. Il luogo comune non si confronta con nulla, non ha interlocutore, esclude qualsiasi ipotesi di lettura e chi non sta alla convenzione del gioco comune viene eliminato. Lo sciocchezzaio si riflette identico a sé e la stupidità è spacciata per scienza. Il luogo comune teme la libertà della parola, perché qualsiasi parola o frase o persino un fonema, avvierebbe l’itinerario intellettuale, quello che, scontatamente, è dato per escluso a favore di una vita sociale presunta naturale. E la non conformità al luogo comune viene avvertita come assenza o mancanza di una giusta e comune educazione. Così, l’assenza di pensiero prova e riprova a insegnare quei luoghi comuni che tanto mancherebbero all’Altro per farlo identico a tutti quanti. Così che nulla sia intellettuale e non rimanga che il “tutto organico”, ossia l’uomo come animale.
La cifra è la qualità della parola, non il segno di qualcosa e neppure il punto di arrivo o di finalizzazione. La cifra è l’approdo alla qualità della parola, alla qualità della vita cui può giungere l’itinerario di ciascuno, dove non si tratta di imparare una lingua. Qualità e approdo restano in ciascun caso insignificabili e incondivisibili.
Una possibile risposta a “cos’è la cifrematica?”: esperienza che riguarda la lingua (logica, procedura e scienza della parola originaria), nei cui enunciati non si trova più nessun riferimento alla significazione, al soggetto, alla sostanza.
R.C. Bene, grazie. Patrizia Ercolani.
Patrizia Ercolani La castrazione impedisce che il padre non coincide con papà. “Non”. Impossibile avere o essere padre.
R.C. Come? Può rileggere?
P.E. La castrazione impedisce che il padre non coincide con papà.
R.C. Padre e papà devono coincidere!
P.E. Nella rappresentazione potrebbe sembrare di sì.
R.C. Quindi se c’è la castrazione, lei dice, questa coincidenza è garantita!
P.E. No. Se c’è castrazione c’è l’impossibile per cui… Per via di sensazione qualcosa fa intendere o intuire che il padre…
R.C. “La castrazione impedisce che non coincida”. Quindi coincide! Così ha letto.
P.E. Sì. Era un’altra parola.
R.C. Prosegua.
P.E. Impossibile avere o essere padre. Sensazione, impressione. Nessuna identità e rappresentazione. Nessun realismo o idealismo. Padre resta significante irrappresentabile. A cosa allude se non significa? Se i due termini coincidono l’uno vale l’altro. Il padre si rappresenta nel personaggio, recita, dice, fa secondo un copione, un canone, un mito o una ideologia di cui rimane il nome del padre. Nome che non funziona se diventa riferimento. E quindi totem e tabù. Non si può dire il nome. Non uno, zero. La castrazione è l’impossibile. Non è questo, non è lui, non è il nome. Non c’è riferimento, fondamento, fondo. La scena è mobile e il corpo insostanziale.
Lutto, rimozione, lavoro del nome, equivoco. Non c’è soggetto. Parlando dicevo, o forse chiedevo, ma nessuna risposta. La voce non rimanda nessuna eco se l’Altro si personifica. Pianto e riso, sensazione insostanziale e immentale, non vale un sentimento, non localizzabile né significabile per cui la perdita non è attribuibile.
R.C. Quindi c’è. Non è attribuibile, ma c’è!
P.E. Sì. Solo che, dicendo, non è attribuibile, intendevo dire che non è rispetto a qualcosa, a qualcuno.
R.C. Però c’è.
P.E. Però c’è, sì.
R.C. C’è il perduto.
P.E. No. Il perduto sarebbe qualcosa. La perdita c’è.
R.C. Come va che c’è la perdita senza perduto? Se la perdita c’è, c’è anche il perduto.
P.E. Non c’è una perdita dove non ci sia un perduto? Una cosa perduta, un senso un significato?
R.C. Quindi è da qualificare di quale perdita si tratta.
P.E. Sì. Intendevo sottolineare l’irrappresentabilità. Se poi il termine non è esatto, non so. Però, sono partita dalla perdita, nel senso che…
R.C. Ecco, è proprio partita da lì!
P.E. Partita. Pensavo a termini tipo castrazione, padre, madre e a tanti altri termini che nella vulgata si rappresentano sempre nella cosa, nelle cose, oppure in qualche persona. Se, invece, non c’è rappresentazione di qualcosa o qualcuno rispetto a un nome, è significante. E allora mi è venuta in mente la perdita. Se c’è perdita irrappresentabile nel senso che…
R.C. Può fare un esempio di perdita?
P.E. Non so. Dire “Non è questo”, per esempio, per dire che qualcosa non è pienamente identificabile. Forse “si perde”. Mi venivano in mente questi modi dire: “Si perde in niente”, “Perdersi in niente”, “Si perde in qualcosa di piccolo, di sciocco”, “Perdersi in un bicchiere d’acqua”, per dire che…
R.C. Non c’è padronanza. Quindi la perdita sarebbe la perdita del controllo, della padronanza, della possessione.
P.E. Sì, anche, se il controllo doveva essere o funzionare per bloccare qualcosa o funzionare rispetto alla perdita localizzando l’oggetto andato perduto, o il senso di cosa che sia andato perso, presupponendo che ci fosse, fosse già dato.
R.C. Quindi è una fantasia. È un’idea.
P.E. Certo che è un’idea. Sì, è una fantasia. Se è una perdita, una fantasia di perdita.
R.C. Proprio così. La perdita sarebbe una fantasia di perdita.
P.E. E allora se è una fantasia, resta… Di questa fantasia di perdita, intendo dire, cosa resta? Tolta la fantasia, resta?
R.C. Cosa resta, dice.
P.E. Come dire, qual è il punto, la questione per cui si costruisce tale fantasia intorno a qualcosa che non tiene, nel senso che non è sostanza, non è senso pieno, non è un significato completo, totale, definito.
R.C. Bene, grazie. Ci sono altre testimonianze? Fabrizio Moda.
Fabrizio Moda Hemingway, Van Gogh, Schumann, Nietzsche, Holderlin, Baudelaire, Artaud, Virginia Woolf, Camille Claudel, Emily Dickinson, Anne Sexton, Sylvia Plath, Mariella Mehr, Alda Merini, Dino “Edison” Campana, Edgard Allan Poe, Francis Bacon, John Nash, Chaine Soutine, Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Jack Kerouac, Rainer Maria Rilke, William Blake, William Yeats, Jalal ad Din Rumi, David Foster Wallace, Guy de Maupassant, Ezra Pound. E milioni e milioni di altre persone. Non solo un’opera, una poesia, un romanzo, un dipinto, un brano musicale, un ballo. Anche un gesto, la conformazione del viso o del cranio, una razza, un genere, un’età, una malattia. Anche un’eccessiva salute. È sospetta una salute eccessiva!
Un’occhiata di traverso, una credenza non comune o la non partecipazione a una credenza comune, laica o religiosa, e si spalancano le porte di quell’asilo il cui verso è solo in entrata.
Harringhton, Ampère, Comte, Tasso, Cardano, Newton, Rousseau, Lenau, Széckenyi, Farini, Brougham, Southey, Gounod, Govone, Ricci, Gutzkow, Monze, Fourcroy, Lamb, Loyd, Cooper, Lessmann, Collins, Nerval, Techner, Von der West, Gallo, Spedalieri, Bellingeri, Salieri, Rossini, Mozart, Haller, Dalì, Monet, Manzoni, Leopardi, Picasso. E milioni e milioni di altre persone. Depressi. O bipolari. O schizofrenici. O paranoici. O agitati. Insomma, strani.
Secondo il neuroscienziato olandese Michel Ferrari, all’origine dei quadri cubisti di Picasso ci sarebbe stata l’emicrania! Opinione condivisa da milioni e milioni di normali. Da ogni normale.
Kurt Cobain, Jimmy Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Edith Piaf, Diane Arbus, Edvard Munch, Séraphine Louis, Josef Grebing, Aloïse Corbaz, Adolf Wölfli, Josef Förster, Martin Ramirez, Louis Wain, William Kurelek, Cardano, Byron, Tasso, Swift, Rousseau. Cesare Pavese. E milioni e milioni di altre persone. Milioni d’internati nell’Unione sovietica, fino a quasi 100.000 in Italia. Non in totale, nello stesso periodo. Mussolini fece internare per tutta la vita la prima moglie, Ida Dalser. E un assaggio lo ebbe anche il figlio di entrambi, Benito Albino Dalser. Nel caso Braimbanti, lui finì in galera. Il suo compagno venne sottoposto a oltre cento choc insulinici. Galera o manicomio: l’alternativa umana. In attesa! Qualcuno disturba? Galera o manicomio. Solo che per la galera occorrono giudici, GIP, udienze… insomma, una cosa lunga. Per il manicomio, un certificato medico. Per il suo bene. Con Anna Politkovskaja e con Boris Nemtsov, c’era fretta. E se ne sono educati mille. Kruscev: “Contro il comunismo non può agire che un pazzo”. Brežnev: “In Unione Sovietica non ci sono mai stati detenuti politici, poiché nella società socialista non esistono conflitti sociali. E, i pochi insoddisfatti, non possono che essere che dei malati mentali”.
Olga Iofe, Vladimir Bukovskij, Mihail Kukobaka, Viktor Rafalskij, Aleksandr Esenin-Volpin, Iosif Brodskij, Viktor Fajnberg, Vladimir Borisov, Natalâ Gorbanebskaâ, Tatiana Guseva, Alexandr Ginzburg, Alexandr Podrabinek, Andrei Sacharov, Evgeni Belov, Leonid Plyushch, Pyotr Grigorenko, Sergei Pisarev, Valeriya Novodvorskaya, Viktor Fainberg, Viktor Nekipelov, Viktor Rafalsky, Yuli Daniel, Zhores Medvedev, Larisa Arap. E milioni e milioni di altre persone.
- “Affetto da una grave forma di schizofrenia”. E l’imprenditore Albert Imendayev non poté candidarsi alle regionali in una piccola repubblica sul Volga. L’uomo fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico e quando venne rilasciato, nove giorni dopo, le liste erano già chiuse. In sé, uno scherzo. Da prete. Rosso. La Reale Accademia delle Scienze di Svezia, insignì il dott. Moniz del Premio Nobel per la medicina nel 1949, per la lobotomia. Che praticava anche ambulatorialmente con il suo calesse. All’età di 23 anni, Rosemary Kennedy, sorella di John Fitzgerald, venne lobotomizzata. Come altre 100.000 persone. Per lo più, per renderle docili. Anche molti bambini con l’argento vivo addosso.
- L’American psychiatric association classifica quasi 1.000 malattie mentali. Decisione democraticamente condivisa dai 15.000 membri. Malattie mentali, neurologiche escluse. Mentali, senza segni neurologici. Detta associazione, dopo l’introduzione dei primissimi psicofarmaci, considera la lobotomia una barbarie. D’altronde, gli effetti del trattamento sono gli stessi, ma con minori decessi. Il progresso del bene. L’evidenza del progresso. E del bene. Lo psicofarmaco è la categoria farmacologica maggiormente venduta al mondo. Non la si nega a nessuno! Nemmeno ai bambini con l’argento vivo addosso. Soprattutto a loro. Per renderli docili. Basta un certificato medico. D’altronde, ciò è richiesto esplicitamente da mamme e maestre! Per ancora maggiore celerità, rivolgersi a zio Vladimir. I bambini, i minorenni sono considerati incapaci di intendere e volere per legge. Gli anziani generalmente non sono certificati tali (basterebbe, appunto, un certificato medico), solo perché i parenti non vogliono che si sentano offesi. Ma giusto per questo: per non mettere a repentaglio l’eredità. Comunque, gli anziani stessi si imbottiscono di psicofarmaci, perché, dicono, vogliono stare calmi. Hanno il diritto, dicono, dopo una vita di lavoro, alla calma. E sempre reclamano l’ultimo ritrovato, quello certificato dalla Reale Accademia delle Scienze di Svezia, quello che usano i più ricchi, i Reali, meglio se inglesi, i presidenti degli Stati Uniti d’America, meglio se in carica. Abbiamo detto dei bambini e degli anziani. E con le donne?
Beh, con le donne, si sa, bisogna portare pazienza. Loro stesse dicono che è colpa delle mestruazioni e reclamano lo stato di malattia in quei giorni! Genetica è! E gli uomini? Finalmente dei normali! Ogni uomo è indignato a essere l’unico che capisce qualcosa al mondo. Mario Tozzi dice che siamo tutti scimmie. I 700 astanti che lo ascoltano a Villa Obizzi, si spellano le mani negli applausi. Tutti indignati, per il tale grossolano parlamentare che aveva dato della scimmia a una collega; tutti festanti se il grossolano di turno dà della scimmia a tutti. Potenza del comune sentimento democratico. E scientista.
Perché l’Altro non la pensa come me? Perché l’Altro è diverso da me? Perché l’Altro vuole essere diverso? Perché l’Altro non parla come me? Perché l’Altro non fa le cose che fanno tutti? Perché l’Altro non si uniforma al pensiero comune? Perché l’Altro non fa il bene comune, uguale per tutti, standard? Perché l’Altro non è normale? Perché l’Altro non si uniforma? Perché l’Altro non si uniforma sempre più? Sempre più? Sempre più? Il pregiudizio psichiatrico – pregiudizio psichiatrico o demonismo – negli umani è radicale: ognuno che si faccia piccolo, debole, incapace, predeterminato, sfigato, malaticcio pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Ognuno che rinvia, rimanda, aspetta, ritarda, pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Ognuno che delega ciò che occorre fare, pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Ognuno che crede anziché capire, pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Ognuno che si trastulli nella vita, che vivacchi, pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Ognuno che aspetti l’autorizzazione a fare, a vivere pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Ognuno che fa ciò che vuole pone il pregiudizio psichiatrico su se stesso. Oppure pone il demonismo su se stesso, sul supposto se stesso.
Alla discussione del piano di budget, il primario psichiatra è indignato. Gli è stato chiesto una riduzione dei costi di reparto. “Ma come? Ma, se l’unico denaro speso, stipendi a parte, è per lo psicofarmaco? Cosa devo mai usare per risparmiare? I bagni ghiacciati?”. Lo humor psichiatrico indica il progresso psichiatrico: oggi il ghiaccio sarebbe più costoso! Per non parlare degli infermieri in tenuta da sommozzatore (per le opportune garanzie sindacali contro le malattie professionali), che dovrebbero contenere, legare il “paziente” e tenerlo sotto la doccia fredda, oppure gettare nella vasca ghiacciata senza farlo annegare. Costosissimi, oggi, gli shock insulinici: dovrebbero essere eseguiti sotto lo sguardo vigile di un intensivista. Così l’elettroshock. Pure la camicia di forza risulta più costosa di uno psicofarmaco. Per “non parlare” dell’impegno di una sala operatoria per una lobotomia. Evidentemente, bisogna essere matti per non convenire con il primario psichiatra. Ma, ecco, in effetti, si tratta del non parlare, della negazione della parola, in quanto la parola è proprio ineconomica. Sfora il budget! E in quale consesso umano non sorge il dubbio della malattia mentale? Quale soggetto non pensa o invoca per l’Altro (e a volte pure per se stesso), l’intervento salvifico di “uno bravo”? Per la cura intesa come normalizzazione? Se va bene, cioè in caso di malattia acquisita, tolto il male, c’è il ripristino all’agognata normalità di tutti i giorni nel proprio girone sociale. Altrimenti, se congenita, c’è il declassamento in un girone inferiore. Come si conviene. Per “non parlare”!
Perché perdere tempo a parlare con i matti, infatti? O perché i normali dovrebbero perdere tempo a parlare con i “grandi”, i bambini con gli adulti, gli allievi con i maestri, i pazienti con i dottori? O viceversa. Matto! Diverso! Non degno di parola! Chissà, forse anche senza! Di sicuro, dice il geologo-etnologo, delle “tre scimmie importanti”, l’uomo comunica in misura minore delle altre due. Normalmente, il soggetto toglie la parola a chi ritiene gli abbia recato affronto. Anzi, gli toglie il chiacchiericcio, in quanto la normalità è quando è tolta la parola. Ma, come togliere la parola? Come togliere ciò che è inconfiscabile senza il contributo del soggetto? Il pregiudizio psichiatrico è l’economia della parola, è l’ideologia della sostanza, del substrato comune, dell’uomo in quanto tale, dell’ontogenesi ricapitolata dalla filogenesi, delle cose in quanto tali. È l’ideologia dell’essere.
R.C. Bene. Grazie. Ci sono altri?
La testimonianza è pericolosa. E come pericolo è da evitare. Quando, poi, si tratta della testimonianza intorno all’esperienza di parola, è ancora più pericolosa. Perché già fare l’esperienza della parola è pericoloso: espone alla blasfemia. Darne testimonianza è ancora più pericoloso, perché fare pubblicità alla blasfemia certamente pone a delle conseguenze. E occorre guardarsi dalle conseguenze. Conseguenze che possono imbattersi in un portatore del pregiudizio psichiatrico. Non sia mai! Preme, quindi, stare protetti, ripararsi, cautelarsi, avere un basso profilo. D’altronde, se anche Pietro fu giustificato per avere avuto paura, non una, ma almeno tre volte, come non giustificare la paura degli umani ancora lontani dalla santità?
La santità assicura l’assenza di paura, l’assenza di male, di peccato e di pena. E se non c’è colpa e non c’è pena, di cosa avere paura? Ma, a questa domanda gli umani non possono rispondere, in quanto, nel loro statuto, la colpa e la pena regnano sovrane. E ognuno ambisce a essere un degno rappresentante del genere umano. Altrimenti, che ci sta a fare nella società? La società è la società degli esseri umani e ognuno deve dimostrare di appartenere a questo genere. E per fare questa dimostrazione, quanto meno parla, tanto più appartiene al genere. Quanto meno instaura dispositivi di parola, tanto più appartiene al genere. Quanto più condivide il sistema della colpa e della pena, tanto più appartiene al genere. Quanto più partecipa alla paura, tanto più appartiene al genere. Quanto più sta riparato, cautelato, nascosto, tanto più appartiene al genere. Ognuno si cura di questo: di appartenere al genere, di stare nascosto, riparato, di cautelarsi, di essere conforme per non destare sospetto di blasfemia. Di avere pensieri conformi, uniformi, pacifici, controllabili, meglio se pochi; per non incontrare qualsiasi forma di disagio, agitazione, domanda, curiosità rispetto a ciò che non è già dato e conosciuto nel novero delle cose comuni, condivise, note.
Ognuno si cura, si cura di sé e si cura dell’Altro. Si cura dell’Altro che non intervenga nella sua vita. E, curandosi di sé e curandosi dell’Altro, ognuno evita la cura della parola, che non è la cura di sé e non è la cura dell’Altro. Non equivale a curarsi, a curarsi di sé, a curarsi da sé o a farsi curare. La cura non è guarire dal male, dal male di sé, dal male oscuro, dal male dell’Altro, da ciò che possa costituire indizio di differenza, dell’altra cosa, di anomalia. Di ciò che possa costituire spregio secondo le normali categorie dell’umana convenienza o dell’umana somiglianza.
La cura della parola è scevra dal pregiudizio psichiatrico, scevra dall’idea di male, di malattia mentale, di critica, di classificazione, di definizione. Comincia con la dissipazione del pregiudizio psichiatrico. E non è compito della cura dissipare il pregiudizio psichiatrico, vorrebbe dire attribuire alla cura il compito della salvezza e della guarigione dall’idea assurda. La cura non guarisce dall’idea assurda. L’idea assurda impedisce la cura, fa sì che la cura sia evitata per preservarsi dall’eventualità che possa risultare inefficace. L’efficacia della cura non sta nella somministrazione della salvezza o della presunta guarigione dal male. La cura è intransitiva. Non è la rappresentazione della liberazione dal male, dalla malattia, dalle idee strane per giungere al conformismo, alla conformazione, all’uniformità. Non è la rappresentazione della sottomissione, o della ribellione, o del fatalismo del bene o del male. La cura non assume l’ideale di salvazione né di perdizione. Tutto ciò sta nel pregiudizio psichiatrico. Tutto ciò sta nell’idealità di bene rispetto cui ogni umano si rappresenta come carente. Se questo paragone vige, non c’è cura. Se questo paragone è ritenuto valido, non c’è cura, se non la cura assicurata dal pregiudizio psichiatrico.
La cura procede dalla dissipazione del pregiudizio psichiatrico, non dal mantenimento dell’alternativa fra il bene e il male, e dell’alternanza del bene e del male per misurarli e per garantirsi il minimo male necessario alla sopravvivenza. Questa è la cura psichiatrica. Questo è il mantenimento del pregiudizio psichiatrico. Una volta accettato il pregiudizio psichiatrico, non c’è analisi possibile. La cura non è venire a patti con il pregiudizio e cercare di sconfiggerlo. No! La cura si instaura una volta dissipato il pregiudizio, cioè senza nessuna possibile convivenza con il pregiudizio psichiatrico, senza compromesso con il pregiudizio psichiatrico, cioè, con l’alternanza fra il bene e il male, con l’alternativa fra il bene e il male, con la posologia del bene e del male e con la possibile liberazione del bene dal male, grazie alla somministrazione della sostanza canonica, la sostanza salvifica.
Dunque, la cura non si instaura per volontà né per decisione, ma per l’accoglienza della parola, per l’accettazione intellettuale della parola, dei suoi principi, delle sue virtù. Si instaura con i cifremi del viaggio che indicano l’attività teorematica e cifratica: analisi e qualificazione di ciascuna cosa. Non è la cura volontaria, fatalistica, della salvezza, la cura con la speranza nella salvezza. Con la cura, nella cura, nessuna inerzia, nessuna predestinazione, nessun fatalismo. Nessuna volontà! Nessuna volontà di curarsi, di cura, di bene, di guarire, di migliorare; tutto ciò indica il rapporto di sé a sé. E il rapporto speculare alla propria soggettività, resa sostanza, è impedimento alla parola. La pervicacia del soggetto, la sua furbizia, sta nell’elusione della cura come cura del tempo, come cura della parola, opponendovi l’idealità del percorso di iniziazione, percorso terapeutico che dovrebbe consentire di perdere o migliorare il proprio pregiudizio su di sé e sull’Altro. È l’ideale di riscatto, un riscatto graduale dall’origine, dal male, dall’idea di sé e dall’idea dell’Altro, dall’idea delle proprie carenze, dei propri mali.
Ma, se non interviene la dissipazione e l’assoluzione della colpa e della pena, cioè mantenendo la credenza nella colpa e nella pena, nessun riscatto è possibile. Sta qui l’impaniamento del soggetto che si lamenta di non vedere i risultati. Per forza, il soggetto in quanto tale, che risultati può avere? Non può vedere i risultati del suo riscatto perché l’idea di riscatto è l’altra faccia del ricatto, cioè indica l’adesione al sistema della colpa e della pena. E il lamento del soggetto ruota intorno all’idealità della cura e della sua conseguente delusione. Cura ideale, cura delusa. Evitamento, rimando, dimissione, abdicazione sono modalità perché non ci sia cura. E il soggetto nella sua furbizia si assume la colpa, si critica, si colpevolizza, si giustifica, si lamenta, si dispera. E persevera. Perché proprietà del soggetto è la pervicacia, che impedisce l’instaurazione del dispositivo della parola, del dispositivo della cura. Ognuno tiene alle proprie idee, alle proprie convinzioni, alle proprie possibilità, ai propri attributi. Ognuno si giudica con gli attributi della linguistica del soggetto, cioè della lingua comune, della lingua parlata, del sistema della colpa e della pena.
Quale parola può instaurarsi con lo sbarramento attuato dal sistema della colpa e della pena? Dal sistema della vendetta? Dal sistema delle categorie sociali? Dal sistema delle categorie personali e soggettive? Quale parola può instaurarsi con lo sbarramento operato dal sistema che nega la lingua? E, infatti, il nemico è l’Altro. Altro mai lo stesso, mai conforme, mai riconoscibile, mai rappresentabile. La cura non è somministrata né somministrabile, né ricevibile né ricevuta. Mai ricevuta la cura. Chi si aspetta la cura come somministrazione della salvezza, vive peccando, ossia vive con il male davanti a sé per assicurarsi l’ultima salvezza. E, perciò, deve stare sul filo del cedimento costante, nell’alternativa e nell’alternanza fra il bene e il suo contrario.
Della cura ognuno ha la sua rappresentazione, la sua fantasmagoria che trova la sua base nel pregiudizio psichiatrico, nell’idea di essere carente di qualcosa, incapace, debole, malato, inadeguato rispetto all’idea di sé e dell’Altro, al rapporto di sé a sé e di sé all’Altro e dell’Altro a sé, nella fantasmagoria dei rapporti sociali. Tutto ciò nulla ha a che vedere con la cura del tempo, la cura della parola. Ognuno pensa che la cura sia un percorso terapeutico lungo cui perdere il male e acquisire il bene, per diventare finalmente un buon soggetto, ciò che vuole essere. E lungo questa rappresentazione del viaggio, finalizzato a diventare ciò che si vuole essere, l’evitamento della cura è garantito. La cura non è propria all’essere. La cura non è un percorso redentivo né espiativo, né di purificazione, catartico. La cura è il dispositivo e l’attuazione della parola. Procede dall’anoressia intellettuale, cioè dall’assenza di sostanza della parola. Non dalla verifica se c’è o non c’è, perché è a partire dall’anoressia che la teorematica può avvenire. L’idea di sostanza impedisce la teorematica. L’idea di essere impedisce la teorematica. Può consentire un dubbio, ma si oppone al teorema della sostanza. Per ciò occorre il dispositivo della parola e della particolarità, il dispositivo della procedura della parola e della tensione al valore, il dispositivo dove avviene il processo dell’oralità, della qualificazione e di valorizzazione, e non il processo catartico, o di purificazione, o di guarigione.
Con l’idea di essere malati la parola è tolta. Con l’avallo del pregiudizio psichiatrico la parola è tolta. Con l’avallo dell’idea di negativo la parola è tolta. La cura è il processo dell’oralità, della narrazione, del racconto. È il processo linguistico, non il processo di guarigione del male di sé o del male dell’Altro. Curarsi, guarirsi, dove sta il valore? La questione è come ciascuna cosa si valorizza. E come gli effetti del processo di valorizzazione istituiscano la salute. L’istanza di qualità è l’istanza di salute.
Ma se la qualità è abolita si attua un processo di ravvedimento delle proprie idee per il reinserimento nel sistema della colpa e della pena. Tutto ciò vanifica la parola perché la cura non è iniziatica e non è salvifica. Non ristabilisce la presunta purezza perduta. Ognuno rimpiange l’età dell’oro in cui tutto andava bene, le cose erano celestiali e non c’erano difficoltà. E ognuno vuole ritornare all’età dell’oro. Ecco, l’idea di ritorno all’età dell’oro è già pregiudizio psichiatrico. È già idea di ritorno all’origine, è già idea di mortalità, di fine, di circolarità. È l’ideale della cura per tornare alla normalità. La purezza della cura!
La cura non risponde alle intenzioni, o alle prescrizioni, o alle speranze soggettive. Non è funzionale a diventare ciò che ognuno vorrebbe essere. Tutto ciò è armamentario psicoterapico, è pregiudizio psichiatrico. Tutto ciò è umanità dolente e nulla ha a che vedere con la parola. Occorre capire la portata della blasfemia della parola, perché mettere in discussione il pregiudizio psichiatrico è blasfemia. Ma, o interviene la blasfemia oppure non c’è la parola, bensì il discorso psichiatrico. C’è l’appartenenza al pregiudizio e al compromesso tra il bene e il male, per gestirlo, per misurarlo, per sopportarlo. La cura non è automatica. Mantenendo la soggettività non c’è cura.
Volere fare, volere diventare, essere, pensare di potere o non potere fare, di sapere o non sapere fare, tutto ciò indica l’invischiamento, l’adesività, l’attaccamento all’ideale soggettivo che nulla ha a che fare con la parola. La parola è senza sistema di riferimento e i suoi effetti sono assoluti, imprevedibili, istantanei. Cercare di rimediarli, di contenerli è il contenimento della cura: “Non so se posso. Ci penso. Valuto. Riesco, non riesco. Potrei riuscire, non potrei riuscire. Ce la faccio, non ce la faccio”. Ebbene, tutto ciò contrasta la cura. Tutto ciò è indizio di soggettività contro la cura per mantenere il primato del sistema di riferimento, il sistema della colpa e della pena.
Senza la generosità, senza l’audacia, senza il rischio non c’è cura. La cura esige l’assoluto, non il relativismo delle intenzioni e della volontà: “Sì, voglio anch’io questa cosa. Però, non subito, non adesso. Un domani”. Relativismo algebrico e geometrico, relativismo della forza, relativismo del possibile e del probabile. Contro la cura il soggetto propone la determinazione della pena e della penitenza. Quanto espiare? “Dove?” indica il ritornello, “Dove ho sbagliato? Dove hai sbagliato? Di sicuro qualcuno ha sbagliato. Ho sbagliato io? Hai sbagliato tu? Abbiamo sbagliato insieme?”. La ricerca della colpa, dello sbaglio, la ricerca dell’errore come errore morale, come sbaglio morale, della colpa è per potere somministrare la pena.
La cura breve. È preferibile che le cure siano brevi, altrimenti si tratterebbe di accanimento terapeutico. Contro l’accanimento terapeutico, la cura breve. Ma, perché la cura dovrebbe finire? Se la cura è il dispositivo della parola, cioè dispositivo di vita, di qualità, perché la cura dovrebbe finire? Per soddisfare la propria superstizione sulla fine della vita. Se qualcos’altro finisce, allora la mia vita prosegue per la legge della probabilità, dei grandi numeri, per legge statistica, insomma, per superstizione.
La cura non è algoritmica, non è canonica e non ha finalità di bene. Questa la cura blasfema: la cura che non si prefigge e non promette il bene dell’Altro! E come potrebbe? La direzione della cura è la direzione della domanda, non già l’inserimento sociale, o la normalizzazione, o la redenzione, o la purificazione, o la spiritualizzazione per assecondare l’unione con l’ente supremo. Non è questo il fine della cura. Ogni cura che si prefigge il bene dell’Altro è la cura che ha come fine la riunificazione con il bene perduto e poi ritrovato: la cura circolare. Ogni connotazione, ogni attribuzione alla cura di finalità morali, sociali, pedagogiche, sanitarie è assurda. Totalmente assurda! Tutto ciò è nella concezione di umanità come carne da macello che deve giungere alla frollatura, è la cura che garantisce la frollatura per il corretto cannibalismo.
La cura è libera. Gli effetti sono liberi. I risultati sono liberi. Non è sistemica, non è sistematica. Non propone la padronanza, il controllo, la capacità di gestire il tempo e le cose, né il ripristino della presunta padronanza e controllo perduti per via di male. Non è la cura che deve instaurare il dominus o il principio dell’impero, con il controllo, con la padronanza, con la gestione per instaurare il pensiero puro o il pensiero radicale. Non deve soddisfare la concezione ideale di vita, né risponde alla concezione ideale della vita. Non instaura la vita ideale da contrapporre alla vita reale insoddisfacente, dura, difficile. Ogni paragone con il reale porta alla coincidenza con l’ideale e abolisce la cura. E per fortuna che la vita ideale non è mai raggiunta, perché sarebbe la morte! La vita ideale è la vita dell’aldilà, in vista della quale ognuno si assegna una penitenza. Penitenza che è preziosa per il conseguimento della vita ideale. L’idea stessa della vita ideale si oppone alla cura.
Pensare, pensarsi, credere, credere di essere, volere diventare, volge all’adesione al pregiudizio. Adeguamento, conformazione, uniformazione sono modi per accettare la pena e la penitenza. L’osservanza delle prescrizioni, rispetto all’adeguamento e alla conformazione, mira a risolvere l’impossibile gerarchia dell’alto e del basso: “Sto su o sto giù? Sono su o sono giù? Sto in alto o sto in basso? Sono dentro o sono fuori? È meglio chi è più dentro o chi è più fuori? Chi è più forte o chi è più debole? Quale gerarchia adottare?”. L’osservanza risolve l’oscillazione fra dominante e dominato. L’idea di miglioramento è idea farmacologica. Perché si somministra il farmaco? Perché fa bene, perché dà dei miglioramenti, per stare meglio. Per stare meglio ci vuole la sostanza, l’idea sostanziale.
Ma la cura sta nell’instaurazione del dispositivo di parola dove, a parlare, è la dissidenza della parola. Parlando, non si tratta di confermare nessuna parentela o appartenenza, nessun canone, nessuna affinità, congenericità o diversità. Non c’è d’appartenere o non appartenere. Parlando, la parola è libera. Con quali effetti? Con quali contributi? Con quali indicazioni? E quale lingua occorre perché si instauri il gerundio nel parlare? Quale lingua? La lingua solita? La lingua conosciuta? Il dialetto?
C’è chi, per evitare l’estraneità dell’alingua, tenta il dialetto come lingua materna perché non siano messe in questione le solite categorie sociali, l’attribuzione al soggetto dei suoi attributi. Ognuno che parla la sua lingua, nega la parola con le migliori intenzioni. Eppure parliamo, stiamo parlando, dialoghiamo, ma non è questo il parlare. Che ne è della parola se la sua particolarità è negata? E la particolarità sta nel suo numero: numero singolare triale e numero duale. Se ognuno parla come mangia e pensa che la relazione sia relazione sociale, di “essere in relazione con”, e difende la modalità relazionale animale, di che cosa stiamo parlando? Se ognuno pensa che la sessualità sia l’erotismo, omo o etero, da definire e da chiarire per timore che possa essere confuso l’uno con l’altro, di cosa stiamo parlando? Del compromesso!
Tolta la lingua, tolta la parola, tolta la cura, e usando le categorie e le fantasie della soggettività, della padronanza, del controllo, della possessione, del contatto, della rivalità, della gelosia, dell’invidia, della gerarchia, della prestanza, a quale qualità si approda? A quale valore? Presumere che esistano queste categorie, che la lingua sia la solita, lingua di vocabolario, che la parola sia parlabile, ebbene, tutto ciò è fantasmagoria, è psicologia, è pregiudizio psichiatrico, è credere nella propria personalità, nella propria soggettività, nell’implicazione della propria origine. Tutto ciò è mitologia, è fantasticare un mondo migliore anziché dissipare l’idea di mondo e ciò che trae con sé. È negazione della cura. È coltivare l’idea dell’aldilà. È fantasia purista. La parola procede dal ringraziamento e dal sorriso, dall’ironia, dall’apertura, non dal mondo. Il mondo è senza parola. Come diceva Ionesco, il mondo è invivibile. Il correlato dell’idea di mondo è l’idea di organismo.
Ci sono domande?
Sabrina Resoli L’organismo come mondo, finito, definito e quant’altro.
R.C. Organismo, organico, sistemico, sistematico.
F.M. Psichiatrico.
R.C. Anche. Il pregiudizio psichiatrico si affida all’idea di organico, all’organismo. Altrimenti non sussisterebbe. E il mondo è il suo correlato sociale. Il mondo è l’organismo reso sociale. Mentre l’organismo è il mondo reso personale.
Stefano Fior In uno degli incontri scorsi ha parlato di colpa e di pena come se, a fronte di una colpa, venga assegnata una pena in modo tale che ci sia la redenzione.
R.C. Non è una novità. Per lei è una novità questa?
S.F. No.
R.C. Il mondo si regge su questo.
S.F. Sì, questa logica è abbastanza evidente in ambito giudiziario.
R.C. C’è un ambito giudiziario, ma poi c’è l’applicazione della modalità giudiziaria a tutto il resto. Il modo giudiziario non vige solamente nell’ambito giudiziario, ma è applicato in ogni apparato mondano. La stessa sanità si ispira al sistema giudiziario. Quale malattia non è intesa come punizione? Premio-punizione.
S.F. Sì. Per esempio, c’è qualcuno che commette un reato fisico come l’omicidio, piuttosto che un delinquente generico come chi ruba il portafoglio o fa una truffa; in quale altra maniera si può affrontare il caso? Nel senso che da una parte il discorso della colpa è sistematicamente…
R.C. Non bisogna confondere l’ordinamento con la mitologia. L’ordinamento giuridico è codificato da codici…
S.F. Non è che l’ordinamento è basato sulla mitologia?
R.C. Sì, ma la questione è che se c’è x che si ammala oppure riceve quello che ritiene uno sgarbo, la prima domanda che risulta è: “Che ho fatto di male per ammalarmi? Che cosa ho fatto di male che mi tratti così? Cosa ho fatto di male?”. C’è il male davanti, c’è l’idea di colpa e di pena. E la mentalità inquisitoria è questa: la ricerca del male per giustificare quello che avviene. Ciò che avviene non sta avvenendo per una combinatoria, ma perché io, tu, lui abbiamo fatto qualcosa di male. “Cosa abbiamo fatto di male?”, così uno cerca il male fatto. Deve cercare il male fatto! E se non lo cerca è un sovversivo che non si riconosce nel sistema della colpa e della pena. Dunque, non appartiene allo stesso genere di pensiero, di idealità, di socialità, di società, di controllo. Non è controllabile. Chi non crede al sistema della colpa e della pena, non si sottomette, e non può essere oppresso perché non crede alla materia dell’oppressione. E questo è grave, molto grave!
Barbara Sanavia Però…
R.C. Ecco, ci dica lei come dovrebbe essere.
B.S. Facendo un esempio: un ladro ruba.
R.C. “Un ladro ruba” è tautologia. Se un ladro non ruba non è ladro.
B.S. Ok. La sua colpa…
R.C. E chi lo dice che x ruba? Già lei dice che è ladro e, poi, dice che ruba!
B.S. Se ha rubato…
R.C. Eh no! Non ha rubato, ruba. Lei dice “un ladro ruba”, no! X ruba. Se poi è trovato che ha rubato, sarà ladro, ma non viceversa.
B.S. Un ladro perché, magari, ha ripetuto più volte la cosa.
R.C. Quindi un ladro abituale.
B.S. Ecco, sì, per cui la sua colpa è l’atto di rubare.
R.C. Non è una colpa, è un reato! Da quando in qua un reato diventa una colpa? Nell’ordinamento giuridico commette un reato.
B.S. E verrà punito.
R.C. Questo non lo sappiamo. È un reato.
B.S. Il sistema giudiziario prevede la punizione per questo reato, una pena, una sanzione pecuniaria. Ora, il ladro sconta la pena, ma poi, però, non ha altre prospettive. E magari, non avendo alternative, ritorna a rubare.
R.C. Lei parte da una visione del mondo, si accorge?
B.S. No, no. Voglio andare con il ragionamento. Trovare l’alternativa a questo sistema.
R.C. Ecco. Non c’è alternativa!
B.S. Della colpa e della pena. E allora, come si fa in questo caso?
R.C. Non c’è alternativa nel sistema. Per chi ci crede non c’è alternativa nel sistema, cioè, al realismo non c’è alternativa.
B.S. No, volevo dire un’altra cosa. Il sistema giudiziario prevede…
R.C. Il problema non è nel dispositivo giudiziario, il problema è la mentalità: l’accettazione del sistema della colpa e della pena. C’è uno scarto. Lei non è che debba abolire l’ordinamento giudiziario. Proprio per nulla. È da elaborare la mentalità inquisitoria, non il dispositivo giudiziario, l’apparato giudiziario, l’ordinamento giudiziario. Quello c’è. Non è quello il problema. Il problema è nella mentalità inquisitoria che, a prescindere, applica la colpa e la pena alla blasfemia e non al reato! Anche quando il reato non c’è, l’applicazione è ugualmente nella mitologia della colpa e della pena con la condanna preventiva. È qui che la questione non verte più sull’ordinamento giudiziario, ma su quello culturale.
G.V. Potrebbe essere fuori dall’ordinamento giudiziario?
R.C. È sicuro! Non c’è bisogno del reato! La questione è la volontà di bene, e nel momento in cui il bene non è condiviso, scatta la vendetta. Questo è il problema. Che c’entra l’ordinamento giudiziario?
B.S. No, perché pensavo che fosse messo in discussione questo sistema. Pensavo che oltre il discorso della mentalità…
R.C. Non si tratta di partire dall’idea di mondo, ma dalla parola. Partendo dal mondo non si riesce nemmeno a capire cosa sia la parola. Se noi partiamo dall’idea di mondo migliore, allora torniamo a Brežnev, a Krusciov: impossibile ci sia chi si lamenta nella società dove è garantito il bene di tutti. Quindi, se si lamenta o è pazzo, o è criminale, o è sovversivo. Ha sentito prima?
B.S. Sì.
R.C. Ecco. Quello fa scalpore perché era Brežnev, esponente di un regime che, adesso, tutti sono concordi a definire tale e a esecrare. Adesso! Senza tenere conto che il regime non c’è più perché la sua ideologia si è talmente diffusa, che non è più necessario sia contenuta in un regime. Chiaro questo? Non ancora, però si potrà chiarire.
Altri?
Fabrizio Moda Una notazione. Un paio di anni fa ho incontrato una ragazza iscritta a giurisprudenza. Mi disse che voleva fare il giudice per mettere in galera i delinquenti!
R.C. Ecco. Ora, chi avesse la ventura di arrivare in tribunale davanti a questo giudice è già delinquente! Altrimenti non arriverebbe neanche in tribunale! Avere questa missione sociale: mettere dentro i delinquenti! Questa è la missione culturale come missione di vendetta. Qual è il tuo compito? La vendetta: la purificazione sociale!
S.R. Mi è venuto in mente che una volta ho ascoltato il racconto di una persona condannata all’ergastolo. Raccontava le sue vicende, nonostante anni e anni di carcere, come fosse prima dell’ergastolo. Per lui il carcere ha sempre costituito qualcosa per cui, scontata la pena e uscito dal carcere, avrebbe di nuovo commesso crimini meglio di prima. Poi, è intervenuta nella vita di questa persona una trasformazione quando si è trovata in un dispositivo. C’è stato un incontro nel contesto in cui il sistema della colpa e della pena non vigeva più. E questo ha, in qualche modo, operato una trasformazione, qualcosa ha provocato, ha indicato un varco rispetto all’idea della colpa e della pena che era vigente fino allora. E questo senza nessuna rieducazione, nessuna riabilitazione, nessun trattamento, ma solo con la sospensione, diciamo così, di questa mentalità.
R.C. Ecco. La questione va oltre il così detto caso limite, perché l’accettazione del caso limite è per affermare il principio di realismo rispetto all’astrazione, per impedire l’astrazione. Allora, la questione volgiamola nella “prescrizione alla guarigione”, rispetto a chi riferisce un problema: una persona non dorme e si rivolge allo psichiatra. Lo psichiatra ritiene che deve guarirla. E per guarirla ritiene che deve farla dormire, per cui somministra psicofarmaci! Così, ha assolto il suo compito di guarire dal male! Questa è la mentalità giudiziaria, non c’è bisogno di rubare!
Particolarità, proprietà, virtù della parola non sono personali
Ruggero Chinaglia Con la parola si annuncia la particolarità e la tensione alla qualità. Il motto che l’esperienza della parola ha contribuito a formulare è: “A ciascuno la sua logica, a ciascuno la sua industria, a ciascuno la sua impresa, a ciascuno la sua riuscita”. Il motto indica l’occorrenza pragmatica dello statuto intellettuale che si instaura secondo la particolarità con l’industria della parola, nell’industria della parola, nell’impresa della parola, con i mezzi e gli strumenti della parola. Le proprietà indicano l’itinerario, la vita, la vivenza che procedono dalla parola con lo statuto intellettuale. Non a prescindere dallo statuto e dalla questione intellettuale. Non per un automaticismo magico che, nominando la parola, dovrebbe istituire “per tutti” la riuscita, la logica, l’impresa, la ricerca, la qualità a prescindere dalla domanda e dallo sforzo, a prescindere dalla costanza della domanda e dello sforzo. Nemmeno attraverso la modalità a singhiozzo, saltuaria, per sentito dire. Con la costanza della domanda, dello sforzo, dell’itinerario in atto, con la costanza dello statuto intellettuale si instaura la parola e il “ciascuno”. Allora, ciascuno a suo modo, a ciascuno la sua lingua, non è l’istigazione a parlare come può piacere o secondo la facilità di comprensione reciproca. “A ciascuno” non è il motto, la versione popolare, comune, della proprietà distributiva dell’omologazione. A ciascuno non indica a tutti. Ciascuno non è il quantificatore universale, non è il chiunque, non è l’ognuno. A ciascuno non celebra i tutti e i quanti, non è l’elogio del libero arbitrio e non è un modo di dire che caratterizzerebbe il gergo psico qualcosa contrapposto al gergo comune.
Quando interviene il gergo, l’idea stessa di gergalità, la lingua è tolta e siamo già nella presunta lingua comune, siamo già fra i tutti. Così la parola è espunta, il criterio intellettuale è espunto, la questione intellettuale è negata. “Ah sì, diciamo a ciascuno perché ognuno non si deve dire. Il vostro gergo sarebbe questo”. Ecco la negazione della questione intellettuale e l’esaltazione dell’idiozia e della soggettività, l’esaltazione dell’omologazione e del libero arbitrio.
Il tanto celebrato libero arbitrio non è altro che l’esaltazione della presunta volontà soggettiva di potere fare ciò che si vuole, ciò che ognuno vuole in ossequio alla sua presunta volontà che deve essere sovrana. La volontà è sovrana, la volontà come indice di libertà, dove la libertà è il modo d’intendere la liberazione dalla schiavitù, dalla volontà superiore che dovrebbe indicare come agire.
Già questa è una fantasia di possessione, fantasia di essere posseduti dal nume, dal daimon, dall’ente, dalla volontà superiore da cui affrancarsi. Questo sarebbe il percorso del soggetto: affrancarsi dalla volontà superiore per affermare la propria volontà. L’affrancamento è l’altro nome della schiavitù, nulla ha a che vedere con la questione intellettuale, con la questione della lingua. La volontà soggettiva, la volontà che dovrebbe finalmente manifestarsi e prevalere sulle volontà subite, non è originaria.
Non c’è volontà originaria se non come resistenza dell’uno, come divisione da sé dell’uno. Nessuna soggettività in ciò, nessuna padronanza di ciò, nessun controllo, nessun esercizio sulla divisione da sé dell’uno, l’unica voluntas originaria. Ciò risulta incomprensibile ai fautori del soggetto come soggetto padrone, come soggetto che esercita il suo controllo sulla parola e sulla sua materia. La volontà soggettiva è l’emergenza della genealogia; l’idea, la credenza di potere fare quello che si vuole è l’emergenza della genealogia, è l’ossequio alla genealogia travestita da libertà di volere.
Volere che cosa? Il proprio bene, volere fare quello che si vuole per il proprio bene, bene non più imposto dall’Altro, ma imposto da sé. Il bene imposto, prima era imposto dall’Altro, ora è imposto da sé. Finalmente la padronanza dell’esercizio e del controllo, ossia nessuna trasformazione ma rovesciamento che mantiene il soggetto nella sua soggettività, nella sua genealogia, nella sua negazione della parola, nel suo presunto affrancamento, cioè nei suoi vincoli.
“A ciascuno la sua logica” non indica che ognuno ha la sua logica, la sua particolarità in ossequio al principio del libero arbitrio. “Eh, si sa, noi siamo tutti differenti uno dall’altro e ognuno ha la sua piccola differenza e la chiamiamo particolarità. Ognuno ha la sua logica e, quindi, pensa come vuole, fa quello che vuole”. Evviva! Questa è la negazione della parola e non ha nulla a che vedere con l’instaurazione di ciascuno come statuto intellettuale, secondo la particolarità per l’industria della parola, nell’impresa della parola. Non “a ognuno la sua impresa, a ognuno le sue cose, a ognuno le sue idee”. Ognuno: il quantificatore universale, l’esponente dei tutti, il parificatore. Ognuno è come gli altri, sarebbe “a ognuno le sue idee”. Ognuno, ogni uno, la pluralità dell’uno, l’omologazione dell’uno, la parità, l’identità soggettiva: a ognuno la stessa natura di uno. Ognuno che si crede soggetto libero è, in realtà, soggetto che si è liberato, cioè soggetto affrancato, soggetto!
La logica propria al ciascuno è la logica dell’atto, non è la logica di qualcuno, è la particolarità della parola, dell’atto. Allora, lo statuto intellettuale è lo statuto intellettuale dell’atto, non di qualcuno, non il mio, il tuo, il suo, il nostro, il vostro statuto. Sul principio dell’ognuno sorge la comunità, non il dispositivo intellettuale, ma la comunità degli uni, dei soggetti, degli affrancati, la comunità dei liberti, dei liberi, i liberi pensatori, i liberi appartenenti alla stessa comunità, la cui finalità deve essere il bene, il bene proprio e il bene comune.
A ciascuno la sua logica, la sua lingua, la sua impresa. A ciascuno! Non è una formula facile, sbrigativa, non è formula per differenziarsi, gergale. A ciascuno è la formula che indica la questione intellettuale. Il pettegolezzo ne ha tratto la versione riduzionistica, dove ognuno avrebbe la sua fettina di particolarità, di differenza, per cui ognuno ha la sua piccola differenza, il suo stemma, il suo vessillo da esibire: “Ah, ma io sono differente! Noi siamo differenti!”. Ognuno ha la sua differenza e la esibisce per dire che è la sua particolarità nell’ambito della più ampia comunità dei tutti uguali. Sono gli scherzi della furbizia. La questione intellettuale, la questione della parola è altra cosa, la questione di ciascuno è altra cosa, incomprensibile per chi non intraprende l’esperienza della parola e l’attraversa, per chi se l’accolla come indice di una gergalità che renderebbe diversi.
Nessuno ha la sua logica. Nessuno è, nessuno ha, se non il soggetto che presume di essere e presume di avere; avere, di solito, una marea di problemi, una marea di possibilità e di probabilità che, però, non si realizzano mai per congiunture astrali sfavorevoli! L’idea che ognuno abbia la sua logica, “la sua logica”, una qualunque, e che questa lo legittimerebbe a fare quello che vuole, come gli pare, quello che sa, quello che crede, a fare quello che sceglie, è la formula stessa della pazzia.
Il pazzo fa quello che vuole, il pazzo sceglie se fare o non fare, sceglie se gli piace o non gli piace, sceglie di fare ciò che gli piace, se gli piace. Il pazzo mette il piacere dinanzi, l’idea del piacere, piacere ante litteram, piacere per conoscenza indiretta, per sentito dire: il piacere stabilito dalla scienza, dalla conoscenza, dalla comunità, dall’appartenenza, dalla genealogia, il piacere che sarebbe possibile conoscere e stabilire prima dell’atto e, in base alla conoscenza, potere decidere, stabilire e scegliere se correre il rischio dell’atto.
L’idea di padronanza, di soggettività è questa: eludere, evitare l’atto, cioè padroneggiarlo. Questa è la padronanza, l’elusione e l’evitamento dell’atto, negandolo. Anziché l’accoglimento, la negazione in nome della padronanza, per gestire l’atto, per gestirne gli effetti, le proprietà, le virtù, le particolarità. Anche l’idea di “avere la logica” e di essere conformi alla logica non ha nulla a che vedere con la logica della parola. È rappresentazione di sé e dell’Altro, della genealogia, del conformismo, rappresentazione che procede dall’idea dell’alternanza amico e nemico, dell’alternativa fra il bene e il male, logica del bene e logica del male, morale del bene e morale del male. “Io ho la mia particolarità. Io ho la mia idea di questo e di quello” sarebbe la particolarità assunta e negata.
La particolarità della parola non è la facoltà di scelta tra il bene e il male, ma è la logica diadica e la logica singolare triale: la particolarità della parola. Allora, sfido chiunque a attribuirsi il due e il tre, la logica diadica e la logica singolare triale come attributo personale, facoltà personale, caratteristica personale per potere dire “Io ho la mia logica, logica diadica e logica singolare triale”. Mia, tua, sua, nostra? Rappresentabile come? Rappresentabile in che cosa?
Ciascuno non è l’altro nome dell’ognuno e del chiunque. Nessuno può insediarsi nel ciascuno, attribuirsi il ciascuno e dire “Ecco, io sono ciascuno”. Sì, come dire “Io sono Napoleone, io sono Schreber, io sono pazzo”. Certo, ognuno lo può dire. E quanti non lo dicono? Con convinzione, attribuendosi l’attributo, cioè la padronanza, il toglimento della parola, attribuendosi l’attributo della volgarità, della appartenenza al volgo, al popolo e a quanto c’è di comune. È la volgarità, l’appartenenza allo standard, a quanto c’è di comune, di idiota, di aspecifico, di generico.
L’idea di essere “un ciascuno” è l’idea di instaurare, attraverso l’uso comune di un lessema specifico, il nuovo canone, il nuovo gergo senza la briga di attraversare il gergo, di analizzarlo, di analizzare la lingua, di cogliere quale sia la questione della lingua. Presumere che la cifratura, che approda alla proprietà del viaggio, sia uno scherzo, vuole dire scherzare con la vita, con la qualità, con la vivenza, vuole dire condannarsi alla mediocrità, al nulla e all’infernale per potere lamentarsi giorno e notte nella rappresentazione della mediocrità di sé e dell’Altro.
Ciascuno, oltre che statuto intellettuale, è dispositivo di riuscita, in quanto statuto intellettuale che si scrive, non che “è”, per cui sarebbe raggiunto e mantenuto in pianta stabile. Nessuna stabilità, grazie al tempo. Lo statuto intellettuale è statuto temporale, non statuto umano, non statuto dell’essere umano, dell’essere parlante, non come “chiunque”, non come esponente della comunità, del genere. Ciascuno si instaura avendo dissipato la genealogia, l’idea di origine, di fine, di mortalità, di animalità, di contabilità del tempo, l’idea di cronologia, di essere, di essere fatto o fatta in un certo modo e, pertanto, di dovere rispettare la confezione o la defezione che, in termini realistici, potrebbe precludere o facilitare una cosa o l’altra.
Con lo statuto intellettuale, il caso di cifra. In assenza, abbiamo il caso pietoso, penoso, patologico, psicologico, il caso sociale, compassionevole, il caso negativo, il caso positivo, l’alternanza tra il caso positivo e il caso negativo, e la speranza che l’espiazione della negatività porti a meritare il premio. Dalla pena al premio, ognuno si crogiola nel lamento della pena e nella speranza del premio. Ecco la predestinazione negativa e positiva in cui si barcamena il soggetto che espunge la parola, che evita l’itinerario, la domanda, la costanza, che si crogiola nell’idea di sé e nell’idea dell’Altro.
Il caso di cifra. Anche qui, il pettegolezzo, cos’ha capito? Che è il corrispettivo dell’ascesi, cioè che, dopo tanto sacrificio, tanta pena, tanta penitenza, ognuno giunge a diventare caso di cifra. È il premio. Dopo una vita di stenti, ecco la cifra! La cifra, finalmente! La cifra, il paradiso. Dall’inferno al paradiso, dall’origine alla fine, la fine paradisiaca. La cifra come eutanasia, la buona fine. Ah, che bello! Però andiamoci piano perché, dato che la cifra è l’ultima cifra, ce la somministriamo piano piano, ci arriviamo alla lunga, centelliniamo. Poi, dato che la verità è effetto della cifra, il piacere è effetto della cifra, e la cifra è l’ultima cifra, l’ultimo piacere, ce lo somministriamo proprio per potere, poi, assaporare in pieno il premio finale. Ah, che bello!
La soggettività ha volto la questione della qualità estrema, della qualità assoluta della parola, del caso di cifra, nell’ultimo caso. Dopo di che, la fine. No! La questione è temporale, esige l’occorrenza. Nessuno è caso di cifra. Ciascuno ha da testimoniare del caso di cifra in cui si imbatte volta per volta. Nessuno è caso di cifra. Nessuno è la significazione dell’intersezione tra simbolo e lettera, nessuno è significazione della combinatoria e della combinazione necessarie a che la cifra si istituisca all’intersezione tra simbolo e lettera.
Caso di cifra come caso linguistico, non come caso disperato, sperato, fortunato, caso umano, patologico. Caso di parola, linguistico, di attuazione, caso sintattico, frastico, pragmatico. Caso di cifra, non caso ontologico. L’ontologia è opposta alla parola, è l’invenzione che è stata fatta per opporsi alla parola.
Come potere pensare che la cifra sia ontologica, che la qualità sia ontologica, sia una volta per tutte e significhi la fine del viaggio? È la costruzione degna del migliore pregiudizio psichiatrico, psicologico, sociologico, del migliore pregiudizio disciplinare che, del tutto dedito alla negazione della parola, non può nemmeno lontanamente ammettere che qualcosa sia effetto del tempo, avendolo negato e negandolo costantemente, avendo istituito la cronologia, la contabilità del tempo, la negativa del tempo.
Se tutto ciò non è analizzato, non è indagato, è ben lungi dal potere essere inteso. Inteso? Mai. Capito? Poco. Appena appena avvertito. Allucinato forse, in quanto ognuno è occupato dal mantenimento della “sua” logica, delle “sue” idee, della “sua” vita, dei suoi pregiudizi, delle sue riserve, delle sue remore, dei suoi rimandi quanto alla domanda, alla tensione. E, occupato dal mantenimento di tutto questo bagaglio, ognuno bada alle convenzioni comuni, sociali, ordinarie, alle convenzioni canoniche cui si attiene con scrupolo, perché è ognuno, esponente di genere.
Questo è il soggetto, con le sue convenzioni e convinzioni personali e sociali, rispettoso e dedito all’idea che ha di sé e all’idea che ha dell’Altro, all’idea che crede di dovere avere degli altri, del proprio destino, della propria fine, della propria origine e di ciò che è “suo”. Questo è il soggetto: creatura fantastica dedita a mantenere la sua possessione, rispetto cui giustificazioni e argomentazioni non mancano, non difettano, per mantenere e alimentare ciò che contrasta l’attuazione delle istanze della domanda.
E, allora, ecco l’ottativo, il condizionale, i modi preferiti del soggetto: “Speriamo, mi piacerebbe, vorrei tanto. Vorrei, potrei, farei, se non fossi soggetto”. Perché è priorità per il soggetto mantenere il proprio personalismo, cioè il mimetismo soggettivo che si affianca al familiarismo, al cameratismo, al corporativismo, al comunitarismo che è funzionale alla giustificazione della paura. Il personalismo è l’indice della paura presa per la coda, che quindi è mantenuta come tale, come compromesso soggettivo tra sé e sé, e tra sé e l’Altro, negando la domanda, negando la parola e cercando di venire a patti, a conti, a calcoli con la parola, con la domanda, con l’incalzare delle cose.
Il compito della domanda è l’instaurazione dello statuto intellettuale. Contro questo compito si leva il personalismo, cioè l’idea del possesso di sé, del possesso della maschera di sé, della rappresentazione di sé, della genealogia di sé. Seguendo il principio dell’alternanza e dell’alternativa, ognuno, in quanto uomo, donna, figlio, personaggio, in quanto ruolo sociale e in quanto soggetto all’essere, all’avere, alla volontà, alla volontà di bene, ognuno cerca le soluzioni. E così anche ogni azienda che si lasci rappresentare dall’ognuno nei suoi apparati convenzionali e conformisti.
Ognuno cerca le soluzioni se partecipa ai luoghi comuni della vita, all’algebra e alla geometria della vita, all’algebra e alla geometria del tempo, agli algoritmi della vita e del tempo. Algoritmi intesi come algoritmi delle soluzioni, perché ognuno cerca le soluzioni se non addirittura la soluzione definitiva, la soluzione al male, al disagio, alla sofferenza, all’indigenza, la soluzione alla domanda e alla tensione, all’ansia e alla fatica, la soluzione al sonno e all’insonnia. La soluzione! Ognuno cerca la soluzione mentre la parola, le cose, procedono dal due e si rivolgono alla qualità.
Oh, differenza di caso! Le cose procedono dal due e si rivolgono alla qualità. Ognuno procede dalla sua origine e si rivolge alla soluzione! Non c’è proprio possibile commistione, nessuna possibilità di compromesso. Infatti, nel caso della parola si tratta della vivenza e nel caso di ognuno si tratta dei casi patologici, psichiatrici, dei casi che dimostrano la validità, l’ineluttabilità dell’alternanza e dell’alternativa come principio.
È in nome di questo principio dell’alternanza e dell’alternativa che sorge la curiosa fantasia del possibile miglioramento dell’atto. Ci sono degli atti che non vengono bene, che non riescono bene e che occorre, quindi, migliorare. È la teoria del miglioramento dell’atto, curiosa teoria che ha la sua base nell’alternativa fra il bene e il male. È chiaro che l’atto non viene bene se c’è una componente negativa di qualche natura e di una certa quantità. Bisogna toglierla, bisogna togliere il negativo dall’atto per migliorarlo. Come si chiama questo procedimento di miglioramento degli atti? Si chiama altruismo, che ha la sua massima espressione nella psicoterapia.
La psicoterapia è il procedimento di miglioramento degli atti attraverso l’attuazione della caccia al male. Si tratta di intraprendere la caccia al male per toglierlo di mezzo e, allora, finalmente, avremo il bene, il meglio. Addirittura, in alcuni casi, l’ottimo, il caso ottimo.
L’invenzione moderna della psicoterapia, in particolare cognitivista e comportamentista, con quale strumento conta di riuscire nella caccia e nell’espulsione del male? Con il rafforzamento della capacità di reazione del soggetto, rafforzando la reattività del soggetto e la reazione del soggetto al suo fantasma. Ma, il soggetto è già reazione, è reazione alla parola, alla sua galassia, alle sue costellazioni. Quale terapia del rafforzamento della reazione alla parola per l’entità che è già reazione? Geniale, un processo veramente geniale la psicoterapia: si tratta di togliere il male dalla psiche, dall’atto, per l’apoteosi del bene! È il processo mistico, religioso, spirituale, sacerdotale, misterico. Il rafforzamento dovrebbe privilegiare il criterio del possibile e del probabile, il miglioramento dell’atto attraverso l’applicazione del possibilismo e del probabilismo come criteri di espunzione del rischio di parola. Complimenti, è stato ben trovato!
C’è da chiedersi su che basi è stata congetturata, e poi attuata, questa modalità affermata sia nella psicologia, sia nella medicologia, sia nella sociologia come in altre discipline, che sono sorte sulla conferma e sulla conservazione del sapere acquisito, stabile, del sapere che non deve essere messo in discussione, sapere da tramandare senza sforzo, senza equivoco, senza malinteso e senza cifratura.
Ecco la questione: questa modalità è stata cercata, e poi trovata, sulla base e sul compromesso di espunzione della lingua. La psicoterapia è il modo con cui la lingua è abolita, e con essa l’afasia, cioè la lingua originaria. Il comportamento è la traduzione in fatti una volta tolta la parola e la lingua dall’atto.
La questione che si è posta e si pone con le discipline è quella dell’uniformazione, dell’uniformità delle categorie, degli attributi per mantenere e definire ogni cosa in assenza di linguistica. Come mantenere le categorie? Come mantenere i concetti? Come mantenere le attribuzioni? Negando e togliendo la lingua, negando e togliendo l’afasia, negando e togliendo l’altra lingua e la lingua altra, negando e togliendo la parola e eleggendo il soggetto come ente detentore delle attribuzioni e delle categorizzazioni, cioè, introducendo l’ontologia nel caso umano e facendolo diventare caso patologico.
La patologia è l’espunzione del tempo e della lingua dall’atto, in assenza di cifratura e di qualificazione. Ecco da dove viene la malattia mentale: dal negativo applicato all’essere, dal male applicato all’essere, dall’ontologia negativa applicata al soggetto! Occorre abolire l’effettualità linguistica, il processo di qualificazione, il processo di valorizzazione, il processo intellettuale, l’articolazione e la combinatoria linguistica; occorre abolire la cifratura. La cifratura, ciò per cui ciascuna cosa acquisisce lo statuto intellettuale, non già ontologico. Intellettuale!
Ecco perché l’apparato disciplinare sostiene e pubblicizza la lingua cibernetica, perché favorisce l’esecuzione dei comandi delle macchine e dei soggetti resi macchina, con l’interpretazione univoca dei messaggi, di ciò che entra apparentemente nella comunicazione. L’abolizione della lingua, l’abolizione della parola, trae al facile, al facoltativo, al comune, al generico, al generale che sono prerogative del personalismo. L’atto non è migliorabile. L’atto di parola segue la procedura, è secondo la logica, entra nel processo intellettuale se è in atto il dispositivo intellettuale. L’atto è assoluto.
Se il principio penale e il principio penitenziario non sono applicabili, allora cessa il ricatto del così detto senso di colpa dell’ideale. Che ne è del soggetto senza il senso di colpa? Che ne è?
Bene, allora sentiamo se ci sono domande.
Marcello Toncelli Io non riesco a capire perché il soggetto sia così legato al senso di colpa, quasi come se la colpa fosse uno dei fondamenti del soggetto.
R.C. Infatti lo è! La colpa e la pena, due fondamenti del soggetto.
M.T. Ma, la colpa è quella originaria o può riguardare anche altri?
R.C. Quale sarebbe la colpa originaria?
M.T. Non so.
R.C. Lei ha detto colpa originaria.
M.T. Sì, colpa originaria.
R.C. Quale sarebbe?
M.T. La colpa di appartenere a un’origine e quindi di avere dei limiti, delle caratteristiche.
R.C. Tutto ciò è fantasmatico.
M.T. Sì, un senso di colpa pervasivo, ma non vedo come si instauri, perché il senso di colpa è comune e molte scelte, molte paure, si basano sul senso di colpa. Capire da dove venga questo senso di colpa è qualcosa d’importante.
R.C. Certamente, chiaro.
M.T. Magari è anche legato a un’idea di dualità, di bene e male?
R.C. Principio di alternativa e principio di alternanza.
M.T. Sì, la colpa deriverebbe da un male subito o commesso, quindi, magari anche il senso di colpa deriva da un’idea di alternativa e di alternanza.
R.C. Certamente.
M.T. “Ho fatto bene, ho fatto male”. Magari uno pensa di avere fatto male e ne deriva un senso di colpa.
R.C. Sì, certo, una necessità espiatoria. Se poi c’è chi conferma la colpa e che bisogna purificarla, e non viene attuato il modo dell’analisi con la dissipazione di ciò che è ritenuta la sostanza della colpa, allora questa si mantiene e, come lei notava, diviene pervasiva.
M.T. E poi l’espiazione è anche legata a un’idea di fine, a un’idea di giudizio finale.
R.C. Di purificazione finale, nell’ottica di castigo, di premio.
M.T. Di giudizio finale.
R.C. Certo.
M.T. In nome della colpa, dopo si arriva al giudizio finale e più chance si hanno di ricevere un premio.
R.C. Sì, è la vita nell’attesa del premio finale o della punizione finale, cioè, è la vita condotta nell’economia del bene e del male, anziché volta nella direzione delle istanze della domanda, che sono spazzate via. Certo. Ancora non le è chiaro il perché?
M.T. No, è chiaro.
R.C. Si è un po’ chiarito.
M.T. Sì. Poi mi chiedevo anche, parlando della costanza, come questa si coniuga con l’ideologia comune di fine settimana e di ferie, perché solitamente il fine settimana serve per staccare la spina. Ci si rilassa, si prende una pausa e questo, in termini di costanza, è qualcosa di impedente relativamente alla domanda.
R.C. Certo, questo è il mantenimento dell’idea di soggetto termodinamico, cioè il soggetto con la pila di voltiana memoria.
M.T. Il soggetto penoso, anche, perché c’è la pena della settimana, il lavoro.
R.C. Esatto, è l’alternanza fra sacrificio e premio, ma lì più che di premio si tratta di una pausa nel sacrificio, che già sembra chissà che, perché, come dice il gergo corrente, si ricaricano le batterie e il soggetto, con rinnovata lena, si rivolge al sacrificio quotidiano. Altrimenti potrebbe incrinarsi la credenza nella carica-scarica. Questo è il modo più comune che indica l’accettazione del principio dell’alternanza e dell’alternativa, l’accettazione della negazione del dispositivo intellettuale, del dispositivo pulsionale. Ognuno si rappresenta come macchina dotata di spina, da attaccare e staccare. Questa formula dà esattamente l’indice di qual è la situazione con cui abbiamo a che fare. Gergo apparentemente innocente, comune, privo d’importanza, ma rappresentativo della soggettività, quindi del luogo comune, dello standard, dell’assenza di lingua, dell’assenza di parola. Volgarità.
Altri?
Barbara Sanavia Sì, varie cose. Pensavo se l’idea del riposo cadenzato, la domenica, il weekend, le ferie, ha origine da lì o se nasce già da prima, o da altre culture, da altre religioni. Anche Dio si è riposato il settimo giorno, e mi pare ci sia nei dieci comandamenti “ricordati di santificare le feste”.
R.C. Che questa santificazione debba avere le stimmate dell’astensione, questo è da indagare. È così per i tre monoteismi. Gli ebrei celebrano il sabato, gli islamici il venerdì, i cristiani la domenica.
B.S. Altre religioni non hanno quest’obbligo?
R.C. C’è in altro modo.
B.S. Sembra un obbligo di astensione non solo dal lavoro.
R.C. Un giorno deve essere dedicato all’adorazione, alla celebrazione delle divinità, perché dio deve sentirsi amato, deve essere ringraziato, adorato, celebrato, altrimenti non si sente amato e se dio non si sente amato, s’incazza. Dio è buono, è infinita bontà, eccetera, però ha mandato il diluvio, le sette piaghe, ha distrutto Sodoma e Gomorra.
B.S. Poi, con Cristo ha fatto pace. Si è riappacificato con l’umanità, ha dato quest’occasione.
R.C. Ha prescritto la redenzione, la necessità redentiva, cioè ha sancito che c’era una colpa! Quella rimane.
B.S. Cristo ci ha liberati.
R.C. Eh sì, liberi tutti! Però, liberi tutti fino a un certo punto, perché ci vuole il battesimo, si sono istituiti i sacramenti. C’è tutta una genealogia che è mantenuta in nome della salvezza da ottenere. La salvezza è propria ai monoteismi, ma non solo, anche alle religioni precedenti, perché sempre di salvezza si tratta, che è sancita con l’unione, con la riunificazione e quant’altro. Quindi, principio di unità, principio del ritorno, eccetera.
B.S. Sì, un modo di regolamentare il comportamento.
R.C. Esatto, il comportamento, per cui si tratta dei soggetti. L’altro nome dei soggetti è sudditi e l’altro nome dei sudditi è fedeli. L’altro nome può essere fratelli, camerati, compagni, amici. Amici meno, anzi, amici no, solo nel caso della comunità familiaristica. Questo è ciò che occorre indagare per non mantenere questi pregiudizi, queste barriere, questi presunti destini assegnati.
Amici era nel caso dei partiti, c’erano i compagni, i camerati e gli amici.
B.S. Sì, una comunanza, una comunanza di idee.
R.C. Un nome che deve indicare l’appartenenza, il sistema di riferimento.
B.S. Invece, non capivo questa cosa che, volere fare quello che si vuole, è l’ossequio alla genealogia, perché casomai penserei a una trasgressione alla genealogia e, invece, lei dice che volere fare quello che si vuole è l’ossequio alla genealogia. Intendeva come ribellione?
R.C. Non solo, c’è l’ossequio e c’è la ribellione.
B.S. È ossequio se coincide all’educazione ricevuta? Se si è convinti di volere fare quella cosa?
R.C. Sì, perfetto.
B.S. Poi ci sarebbero altre cose.
R.C. Prima sentiamo se ci sono altre domande, sennò ne poniamo qualcun’altra.
M.T. Volevo chiedere se simbolo e lettera sono nome e significante.
R.C. No, x non può essere y, quindi, simbolo non può essere nome, lettera non può essere significante.
M.T. Zero e uno sono nome e significante.
R.C. Sì, diciamo che sono termini che indicano il funzionamento dello zero e dell’uno. Lungo il funzionamento, per lo zero giungiamo al simbolo, per l’uno giungiamo alla lettera. È proprietà del funzionamento. Ciò detto in brevità, ma riprenderemo quest’aspetto, perché la questione della lingua è questione essenziale, è questione negata.
La questione della lingua è la questione del suo modo, del funzionamento, delle proprietà linguistiche; è la questione dell’ascolto, della testimonianza che è testimonianza dell’instaurazione della lingua con cui viene dissipata la soggettività. Non puoi più dire “Io sono”, “Io sono così”. Non ha più senso il riferimento a sé e all’essere. “Io sono”, “Io ho”, “Io voglio”, “Io devo”. Tutto ciò è sostanza contrapposta alla materia della parola, è negazione della materia della parola. Quante volte si sente la formula “Nel mio caso”? “Nel mio caso, io questo non posso farlo”. Chi può dire “Nel mio caso”? Chi si conosce! Solamente conoscendosi uno può dire “Il mio caso”. Ma, chi si conosce?
M.T. Chi vive con se stesso tutti i giorni.
R.C. E chi vive con se stesso? L’eremita! L’eremita vive ogni giorno con se stesso. L’eremita, cioè una rappresentazione dell’isolamento. Il soggetto isolato può dire di conoscersi? Il soggetto conosce se stesso? Sì, in quanto soggetto finito. Il soggetto finito, in assenza di formazione, di trasformazione, d’insegnamento, di poesia, può dire “Il mio caso”, “Io”, “Io sono io”!
Questa è la geometria perfetta. La perfetta geometria: io sono io! Il tempo è tolto e io coincide con io, “Io sono io”. Identità dell’io, abolizione della divisione dell’uno e della divisione temporale. Siamo nella scena immobile, nella geometria del tempo dove la fissità è totale. Io sono io! Già “Io sono Napoleone” introduce Napoleone, ma “Io sono io”! È l’ideale contemplativo che si realizza. Lei vuole sostenere questa posizione?
M.T. No. Volevo chiedere se la divisione dell’uno è temporale.
R.C. No, è funzionale, non è temporale.
M.T. Non è temporale?
R.C. No, è funzionale. È differente dalla divisione temporale che è la divisione per cui si istituisce la piega.
M.T. La divisione dell’uno non è una piega?
R.C. No, è non identità dell’uno rispetto a se stesso, quindi è differenza: la differenza dell’uno da sé, la voluntas.
M.T. La resistenza rispetto a sé?
R.C. Sì. La voluntas dell’uno, alla faccia di ogni credenza nella gestione di sé.
M.T. Pensavo che il tempo dividesse l’uno.
R.C. No.
M.T. Cosa divide il tempo?
R.C. È divisione, non divide. È divisione, non è proprietà transitiva. Il tempo come divisione instaura la differenza. Non è una lama che divide.
M.T. Non è una lama.
R.C. No, non è come il rasoio di Occam.
M.T. Chi è Occam?
R.C. Chi è Occam? Lei ignora chi è Occam? Questo esige una ricerca. Se ne parlerà la prossima volta.
Non c’è più da aspettare
Ruggero Chinaglia In riferimento all’esperienza di Freud e ai contributi alla civiltà forniti dal suo testo, il lessema psicanalisi è entrato nel dizionario cifrematico per indicare l’esperienza della parola originaria, l’esperienza della parola che diviene cifra. È stato un modo di valorizzare l’esperienza e l’invenzione di Freud, il suo contributo alla scienza della parola, anche se è con la cifrematica che questo contributo ha, effettivamente, assunto il suo valore, ben oltre le riconduzioni ideologiche, psicologiche cui è stato fatto oggetto già sin dalla traduzione. Ma è constatabile che la valorizzazione che l’esperienza cifrematica ha dato al lessema psicanalisi, non ha superato la barriera omologante, ideologica e pregiudiziale che ha fatto sì che il testo di Freud, in particolare in Italia, ma non solo, sia stato mantenuto segregato, se non segreto.
Questa barriera omologante è constatabile con il fatto che, nel contesto sociale dell’epoca, psicanalisi designa più che l’esperienza di parola, un luogo comune becero e conformista, dove si tratterebbe della commutazione in significazioni generali e aspecifiche di quanto si dice e si fa. È oggi chiamata psicanalisi una sorta di cabala napoletana che dai sogni si estende a ogni formulazione. Si tratta di un apparato di traduzione universale in una presunta lingua comune di quanto si dice e si fa, senza tenere conto che ciò che si dice e ciò che si fa è atto linguistico.
Nella significazione che questo lessema ha assunto, l’atto è negato, l’ascolto è negato e vale, invece, una traduzione già codificata. “Questo vuole dire che…”, è la formula utilizzata come una applicazione tecnologica, come un traduttore universale per potere stabilire “quel che si è” e “quel che si vuole”. È l’applicazione di un algoritmo alle cose che si dicono per convertirle in significazioni di quello che si vuole, di quello che si vuole fare, di ciò che si vuole essere, di ciò che si è detto, per convertire la parola libera in una lingua generale, in una lingua comune e condivisa.
È così che è avvenuta e avviene la conversione della psicanalisi in psicoterapia, cioè in una metodologia conformante, omologante, per il ripristino di un assetto soggettivo che si presume essere andato perduto, con la finalità di un reintegro sociale dei soggetti. Come avverrebbe questo reintegro? Attraverso la somministrazione del canone inteso come trattamento. Il soggetto da reintegrare viene trattato con la somministrazione di un canone di comportamento, canone di pensiero, canone ideologico, canone disciplinare, canone mimetico.
La riconduzione deve essere all’origine e al ritratto umano. Tutto ciò avrebbe il fine di recuperare; l’esperienza della parola sarebbe un recupero, la psicanalisi sarebbe un recupero, la terapia sarebbe nel recupero. Recupero degli aspetti emotivi e cognitivi delle esperienze precedenti che sarebbero andate perdute, per potere ripercorrerle e rielaborarle da differenti punti di vista, in armonia e non in contraddizione, con il resto della propria storia di vita. Ecco il fine psicoterapico: il recupero, il reintegro, il ripercorrimento, la rielaborazione di esperienze precedenti in armonia e non in contraddizione con il resto della propria storia.
Di questo si tratta nella psicoterapia, dell’applicazione del principio di non contraddizione per il mantenimento del principio di alternanza e di alternativa. Il processo di adattamento, di adeguamento, di conformazione deve essere sulla base dell’esclusione della dissidenza della parola. Si tratta non già di fare un percorso ma di ripercorrere, non già di fare un attraversamento ma una rimemorazione, una rielaborazione, una ripetizione, niente di più di una ripetizione, una mera ripetizione guidata in direzione del bene. Non un andamento libero, un itinerario libero, bensì guidati in direzione del bene, il bene proprio come emanazione del bene comune. E la riuscita sarebbe nell’adeguamento al canone.
Cosa abbia questo a che vedere con la psicanalisi come esperienza della parola che diviene cifra è del tutto evidente: non ha nulla a che vedere! Però, il lessema psicanalisi è stato convertito nella sua traduzione in psicoterapia, formula che nega propriamente le caratteristiche, le virtù, le proprietà della psicanalisi come itinerario in direzione della qualità. E allora occorre non avere paura di riconoscere che, oggi, l’esperienza della parola libera è l’esperienza cifrematica e che, rispetto alla traduzione volgare, il termine psicanalisi è in una distanza estrema. Non c’è da contare su una possibile interpretazione che dia alla psicanalisi il suo valore di esperienza. Oggi, dire psicanalisi equivale a dire psicoterapia, vale a dire esperienza di adeguamento e di conformazione al canone. E siccome il processo di questa modalità psicoterapica non è analitico ma è anamnestico, non vale il caso di arrischiare un apparentamento.
L’analisi è la teorematica che indica la dissipazione delle credenze, delle fantasmatiche di appartenenza e di legame con l’origine e la predestinazione. Per via di anamnesi si stabilisce proprio l’appartenenza al ghenos, all’origine, a un’origine di appartenenza che deve essere riconosciuta e mantenuta. È qualcosa di antitetico all’analisi. La metodica psicoterapica è un processo di ripristino platonico dell’identità. Anziché il paradosso dell’identità, si tratta qui dell’identità come prescrizione e della sua attuazione come fine. Del mantenimento e acquisizione dell’identità soggettiva rispetto all’origine. Così è stato inteso il riferimento freudiano all’archeologia come ripristino, come scoperta del proprio vero essere, dell’origine a cui appartenere, la consacrazione del mimetismo anziché la sua dissipazione!
Occorre rilevare questa assoluta distanza e differenza tra l’esperienza della parola, l’esperienza della qualificazione della parola, l’esperienza che va in direzione della qualità e della qualificazione delle cose rispetto a ogni altra forma di psicoterapia, senza nascondere questa differenza e senza nascondersi. Non c’è da avere paura della parola, non c’è da vergognarsi della parola, né c’è da avere paura della lingua, non c’è da vergognarsi della lingua e nemmeno di quell’esperienza che, grazie alla parola e alla lingua, consente di dirigersi verso la qualità delle cose.
La lingua procede dall’afasia, cioè dall’impossibile localizzazione della parola e della sua origine. La lingua non è un apparato codificato, un apparato di segni per la significazione delle cose, ma consta della trialità del segno. La parola, in quanto segno, si tripartisce parlando. Trifunzionalità e tripartizione sono proprietà della parola e del suo processo di qualificazione. Tripartizione del segno. Cosa indica? Indica la tripartizione nello zero, nell’uno e nell’Altro. Tripartizione di significante, nome e Altro. La parola non è identica a sé. Tre funzioni, tre strutture. Funzione di rimozione, funzione di resistenza, funzione di Altro. Struttura della Sintassi, struttura della Frase, struttura del Pragma. Logica e struttura. Altro che l’attribuzione dell’identità al soggetto per il suo reintegro, per la sua ricostituzione, per la sua ricomposizione.
È il processo linguistico che importa, gli effetti della parola, i frutti della lingua. Se togliamo la parola, se togliamo la lingua, diventano possibili la gestione di sé, dell’Altro, delle cose e del tempo, ossia lo studium, senza funzionamento e senza strutturazione. Lo studium delle cose nella loro staticità, nella loro ontologia. Ecco la cura come cura di sé e cura dell’Altro, gestione di sé e gestione dell’Altro, cioè, la cura negata diventa adeguamento al fondamento, alla prescrizione ontologica di come si deve essere. Ecco il rispetto della soggettività, secondo il principio dell’alternanza e dell’alternativa che impedisce l’instaurazione del tre. Negato il due e negato il tre abbiamo le cose “come sono, come stanno e come stavano”. E, allora, per ovviare a quello che viene definito il malessere, occorre ripristinare le cose come stavano nell’era del benessere, quando tutto andava bene, in cerca della causa che ha determinato il rovesciamento del benessere nel malessere!
La cura anamnestica, lo scavo, l’indagine a ritroso, l’indagine diagnostica. Non importano la qualificazione, la narrazione, il racconto per instaurare un altro panorama, lo statuto delle cose, un altro valore. Il valore! In questa negazione della parola vige l’ontologia, cioè vige la negazione dell’aritmetica della parola a favore dell’algebra e della geometria. E il soggetto si attorciglia sull’origine, sulla ricerca intorno all’origine, sul perché dell’origine, sulla necessità di sapere i vizi dell’origine, perché dai vizi dell’origine, ovviamente, dipenderanno i vizi del destino, in una circolarità che chiude la ricerca. L’adesione al principio algebrico e geometrico che devono giungere al ripristino, negano la ricerca e la qualità del viaggio.
L’idea della scoperta del male e del suo perché, impedisce di cogliere i frutti del funzionamento della parola e dell’intervento del tempo della parola, impedisce l’instaurazione del dispositivo della parola, il dispositivo della valorizzazione, il dispositivo del brainworking. A impedire di cogliere i frutti è anche l’idea di soluzione che comprime la ricerca, la orienta in direzione della fine. La soluzione, cioè la fine, ossia la sostanza. La soluzione, ossia l’assenza di analisi. La soluzione, ossia la negazione dell’enigma.
L’analisi non è l’analisi dell’origine o del passato, ma è analisi del sembiante, analisi dell’oggetto, analisi dell’intervento dell’oggetto. Analisi come teorematica che indica che non c’è più sostanza, non c’è più la rappresentazione sostanziale delle cose, ma il lancio e il rilancio in direzione della cifra. E così che si pone la questione della cura. La cura come cura del tempo, la cura del taglio non algebrico, la cura pragmatica e non come attesa del ripristino della salute, dell’attesa come ritorno allo stato primitivo e, quindi, una volta saputa la verità delle cose, potere finalmente fare quel che è opportuno. Questa modalità nega la cura, la ricerca e l’impresa, e conferma la soggettività come immobilismo, come necessità dell’immobilismo e necessità di dovere aspettare di sapere. E ognuno si attribuisce una malattia da cui deve essere guarito. L’attribuzione di malattia è una forma di afflizione soggettiva.
La cura è dispositivo immunitario e clinico, esige la scommessa in direzione della qualità, esige l’azzardo, non l’attesa, non la speranza che il daimon, intervenendo, possa mettere le cose a posto, possa togliere il male per dispensare il bene. Nella cura non c’è una priorità del sapere rispetto al fare. La cura è pragmatica, esige l’instaurazione del gerundio. Cercando e facendo la cura approda alla riuscita. La cura non ha da confermare il soggetto né la sua ontologia. La chance è che nella cura ci sia la dissipazione del soggetto, ossia della fantasmatica che lo mantiene. Cioè, la cura non è un caso particolare del viaggio. La cura è il viaggio, è l’itinerario e non una finalità particolare che orienta il viaggio verso il bene e fa l’economia del viaggio.
La cura sta nel viaggio e la direzione del viaggio non è regolata dalla diagnosi, non è assicurata dalla diagnosi. La conoscenza vera o presunta del male o del bene, di sé o dell’Altro – e quindi si tratta sempre di conoscenza presunta, conoscenza ideale – pregiudica il viaggio, comporta gli evitamenti che inficiano e paralizzano il viaggio. La conoscenza preclude al viaggio le svolte, i giri, i raggiri, le sviste, le cantonate, gli sbagli, gli errori, presumendo l’esistenza di un viaggio ideale che possa procedere nell’economia del tempo, del cammino, del percorso e del dispendio, tirando dritto. Ma, è impossibile abolire la ricerca, è impossibile abolire la Sintassi e la Frase così come è impossibile abolire l’impresa, cioè la struttura del Pragma.
Che cosa comporta tentare di abolire o limitare la ricerca e l’impresa? Vuole dire instaurare il terrore, lo spavento e il panico che sono le modalità che indicano l’instaurazione di un sistema che nega il tempo, nega l’avvenire, nega il viaggio. Terrore, panico e spavento; ogni sistema ha questi indicatori che non sono indici di malattia mentale, ma sono indicatori di sistema, indicatori del toglimento dell’aria, del respiro, della domanda, dell’avvenire.
Come può darsi il caso che l’instaurazione di un sistema che toglie l’infinito, la domanda, la libertà della parola, possa instaurare la gioia, la felicità, la serenità, l’approdo, l’armonia? In nome dell’armonia cosmica, cioè in nome della negazione del due, sorge la necessità della psicoterapia, cioè della somministrazione del canone per il ripristino. Questo è il progetto psicoterapico: abolire la dissidenza della parola a favore del mantenimento del sistema, quel sistema che assicura la necessità psicoterapica. È un circolo ben congegnato!
Nella parola non c’è sistema e, instaurando la parola, non c’è più terrore, non c’è più spavento, non c’è più panico. Questi indici non necessitano di alcun trattamento o di alcuna somministrazione, ma necessitano solamente dell’instaurazione della parola nel suo dispositivo. L’esperienza della parola non è un’esperienza intima, riservata, da mantenere segreta o nascosta, perché esige la restituzione in qualità, esige di dare un contributo alla civiltà e non di accumulare il tesoro per sé. Sarebbe ripristinare ancora una volta il sistema, cioè qualcosa di chiuso, qualcosa di personale abolendo lo scambio. La questione linguistica è la questione dello scambio, lo scambio libero in direzione della qualità, scambio di cui si ignora talvolta di cosa si tratta. Scambio!
E dallo scambio procede il servizio intellettuale. Il contributo alla civiltà è anche il servizio intellettuale. Dove, come e quando attuare il servizio intellettuale? Di cosa si tratta? Si tratta del brainworking, ossia il dispositivo della parola in direzione della qualità, il dispositivo della scrittura della ricerca e dell’impresa in direzione della qualità. Brainworking, cioè dispositivo di direzione e di valore; ma non per sé, non tra sé e sé, è per ciascuno. La questione è quella del ciascuno, cioè dello statuto di valore che il dispositivo instaura.
A chi sta, oggi, indicare la direzione del valore a fronte del monopolio professionale, confessionale, ideologico, sociale, che tenta di convertire il servizio in soggettività, somministrazione della soggettività? Di chi è il compito di indicare la direzione al valore? Ecco, chi ha assunto la scommessa come scommessa intellettuale può proporsi questo compito come programma di vita. Senza più aspettare!
Ci sono domande? Se c’è chi non ha orrore, terrore, panico, spavento, può formulare qualche notazione; se invece è tutto chiaro e non c’è bisogno di discutere nulla, allora possiamo andare!
Sabrina Resoli Sì, una domanda rispetto a quanto diceva all’inizio. Il lessema psicanalisi non si presta a descrivere, non è preciso come riferimento all’esperienza della parola originaria?
R.C. Certo che è preciso, per chi lo ha elaborato. Ma, al di fuori del contesto di questa elaborazione, lei dice psicanalisi e il suo interlocutore capisce psicoterapia, lei dice parola libera e il suo interlocutore capisce somministrazione del canone di comportamento, lei dice qualificazione delle cose e il suo interlocutore capisce malattia da cui bisogna guarire. Allora, lei vuole passare tutta la conversazione, l’interlocuzione a spiegare “No, ha capito male”? Vuole passare il suo tempo a convincere?
Occorre introdurre la novità nel suo estremismo. Non si tratta di chiarire che c’è una rappresentazione della psicanalisi sbagliata e invece questa è quella giusta. Nessuno può essere convinto, può solo prodursi uno squarcio per cui qualcosa di nuovo rompe il muro del sistema, il muro della conoscenza, il muro del pregiudizio psichiatrico e questa novità non può passare attraverso questo lessema, perché ormai è abusato, logorato, reso conosciuto, presunto conosciuto come indicativo di un codice che non è dato dall’esperienza psicanalitica, ma dalle conoscenze psicologiche.
Allora, perché insistere a volere fare la lotta delle piccole differenze per evitare equivoci, menzogne e malintesi e porre la versione corretta? Occorre, invece, che si instaurino equivoci, menzogne e malintesi rispetto a qualcosa che non è conosciuto, e che non può essere recuperato nel codice del sistema delle cose conosciute. È evidente. D’altronde, non c’è alcuna necessità di fare la battaglia sulle proprietà di questo lessema. Sul lessema cifrematica non c’è nessun diritto di proprietà da stabilire, perché non si è stabilito attorno a questo lessema nessuna conoscenza di natura disciplinare e, quindi, può veicolare un’attenzione e un interesse verso qualcosa che giunge nuovo, mentre il pregiudizio soggettivo comporta tutto ciò che giunge conosciuto in toto o in parte.
La questione è quella dell’esperienza della parola, è quella del servizio intellettuale, questa è la proposta, la questione della scommessa intorno al servizio intellettuale. Questo servizio si chiama brainworking, e comporta l’instaurazione di altri dispositivi, non l’attesa che venga conosciuto; l’attuazione di dispositivi che indicano il servizio in atto. Allora, chi ha l’ambizione, l’audacia di dire che la sua vita è esperienza, non può esimersi, perché esimersi è negare lo specifico dell’esperienza stessa, che non è quella di stare raccolta in se stessa e svolgersi nell’intimità tra sé e sé, o di sé all’Altro, ma esige il pubblico, esige la testimonianza, esige il servizio intellettuale, esige il contributo alla civiltà. Questa è la questione intellettuale che esclude la conventicola, esclude l’applicazione a una disciplina, o a un ordine, o al ghenos e pone, invece, l’istanza pragmatica. Senza l’istanza pragmatica si tratta ancora di psicoterapia. Ognuno pensa di ambire alla qualità, invece ambisce alla soluzione delle sue questioni personali, cioè è soggetto. Allora, tanto vale che questo soggetto sappia che sta coltivando una intimità di sé in sé.
Daniela Sturaro Il margine di confusione maggiore viene dal termine psiche più che da analisi, cioè in queste due parole combinate psiche più analisi, quello che svia e porta verso il sistema è come viene pensata la psiche.
R.C. Esatto, ma certo, proprio così! Questo termine, che non è la combinatoria o la fusione di due parole, ma è “psicanalisi”, è appunto stato scomposto in più parole: analisi della psiche, analisi dell’anima, analisi della mente, analisi come interpretazione e come assimilazione. E siccome della psiche c’è una rappresentazione misterica accreditata, tutto il resto segue. Non può essere analisi della psiche se la psiche sappiamo tutti cos’è, com’è fatta e come deve essere, per cui non può non esserci che conformazione e adeguamento. Anche perché, attorno a questi capisaldi disciplinari non è stata svolta, da decenni, nessuna elaborazione, se non quella di presumere che siano le basi dell’innatismo. Questa non solo non è elaborazione, ma è la negazione di ogni elaborazione: è istigazione alla soggettività, all’identità, all’ontologia! Sono millenni che questa è la versione religiosa, filosofica, confessionale, tecnologica, però, tacere, vuole dire avvallare il sistema della soggettività, il sistema della negazione della parola con tutto quello che comporta di intellettuale, di politico, di vitale.
Non ci si può lamentare degli acciacchi, dei problemi relativi alle questioni personali se si vive con i piedi sui due bordi della scissura per mantenere un compromesso armonico-disarmonico. La questione intellettuale non è mediabile, non ce n’è un pezzettino o un po’ di più: o c’è o non c’è. Negarla ha delle conseguenze, fingere di negarla, assecondandola, ha altre conseguenze ancora, si hanno dei contraccolpi, dei contrappassi, dei contropiedi. Noi siamo arrivati a individuarne alcuni: infarto, ictus, cancro, AIDS. Però, magari, quello che una volta si chiamava demenza e oggi si chiama Alzheimer si candida per venire esplorato.
D.S. Come contrappasso o come contropiede? O è da vedere?
R.C. È da elaborare, è in corso di elaborazione. Per non parlare di quella che viene chiamata depressione. In che modo la compressione costante di determinate istanze non dovrebbe avere nessuna conseguenza nel corso degli anni? In che modo vivere secondo la modalità della compressione, dell’astensione, della dimissione, dell’abdicazione, del nascondimento, del compromesso costante, non dovrebbe avere nessuna conseguenza, nessuna implicazione? Perché non dovrebbe? Perché dovrebbe bastare una tisana per mettere le cose a posto? O i fiori di Bach? Perché? Tant’è vero che il commercio di prodotti che comportino l’inebetimento precoce delle istanze pulsionali va a mille. E questi prodotti sono sempre più raffinati per ottundere, ma solo quel po’ che basta. L’ottundimento senza intervenire sulla questione del ritmo delle cose. Ecco, allora, le cardiopatie. Una volta c’era solo l’infarto, adesso ci sono le aritmie e i relativi interventi terapeutici.
D.S. Per regolarizzare il ritmo con farmaci di vario tipo.
R.C. Farmaci e non solo. A mali estremi, estremi rimedi. Chi tiene conto che il cuore è un organo pulsante? Chi tiene conto?
D.S. Gli esperti dicono che sia una pompa.
R.C. Non è solo una pompa, ma una pompa che funziona a ritmo variabile.
D.S. Volevo aggiungere un’altra cosa, se posso. D’altra parte, però, riconoscendo l’importanza della parola analisi, gli apparati hanno provveduto alla sua conversione in analisi mediche.
R.C. Se lei con pompa dice che il cuore è un cervello, allora questo potrebbe essere interessante. Se, invece, dice che il cuore è un dispositivo idraulico…
D.S. Mi riferivo ai testi di divulgazione scientifica che riportano questa definizione di cuore.
R.C. Che libri legge lei?
D.S. Per esempio libri di anatomia semplificata a uso didattico. Ma volevo aggiungere che l’analisi, come elemento importante per la salute, viene convertita in analisi medica. Quindi, se qualcuno vuole sapere cosa c’è che non va, non fa “l’analisi”, nel senso che dovrebbe avere questa parola, che diventa analisi del sangue e delle urine, per dire le più comuni, perché la richiesta di analisi si è talmente diversificata da interessare qualsiasi parte del corpo. Qualcuno dice: “C’è qualcosa che non va in me”, e il medico di base risponde: “Fa queste analisi, così sapremo qual è il problema”! Nessuno pensa a fare l’analisi nel senso di capire perché c’è quel problema.
R.C. Ecco, ma se lei propone la teorematica, nessuno la manderà a farsi l’analisi del sangue! Perché un conto è partecipare al vocabolario volgare e un conto è introdurre la lingua nuova. Ma se la lingua nuova è osteggiata in particolare da chi vorrebbe partecipare alla ricerca e all’impresa di questa lingua, del suo glossario e del suo dizionario, allora lei capisce che c’è un problema.
D.S. Non mi pare di stare dicendo che condivido la lingua volgare per l’analisi medica. Il punto è che l’analisi come teorematica, per l’apparato sanitario, è diventata analisi medica.
R.C. Allora, occorre usare un altro lessema.
D.S. Infatti, occorre rivoluzionare questa tendenza.
R.C. L’analisi è teorematica. Quindi, si tratta di instaurare la teorematica.
D.S. Non aderisco a questo sistema dell’analisi medica, è da tutt’altra parte che si deve puntare.
R.C. Occorre instaurare la procedura di assoluzione. La mandano in tribunale? No, non credo.
D.S. Perché mai?
R.C. Assoluzione. Non la mandano in tribunale, sa? Se per l’analisi medica la mandano in laboratorio, con la procedura di assoluzione non la mandano in tribunale!
Allora, come si promuove la curiosità, con la lingua volgare o con la lingua nuova? Con la lingua comune, con la lingua condivisa, con la lingua parlata da tutti o con la lingua della ricerca, dell’impresa e dell’invenzione, con la lingua della scrittura e della qualità, con il glossario e con il dizionario che procedono dalla ricerca, dall’impresa e dall’esperienza stessa? La questione è che occorre indagare sul pudore, sulla vergogna e su ciò che è ritenuto scabroso. Indagare. L’indagine fa parte del servizio intellettuale.
D.S. C’è da indagare sul pudore e sulla vergogna?
R.C. Pudore e vergogna sono attributi soggettivi che ognuno si dà per mantenersi un chiunque, un appartenente, un essere, un soggetto. Se va dal medico lei è un soggetto, se va da uno psicologo lei è un soggetto, se va da un insegnante a parlare lei è un soggetto, gli scolari sono soggetti. Il soggetto presenta queste caratteristiche. Ci sono gli apparati della soggettività. Dove stanno?
D.S. Ovunque.
R.C. Diffusamente qua e là. Allora, c’è il compito e la missione di contribuire alla civiltà, oppure la facoltà di contribuire agli apparati della soggettività Che si fa? Lei che farebbe?
D.S. Io vorrei dare un contributo alla civiltà.
R.C. Vorrebbe…
D.S. Se dico voglio sarebbe piuttosto soggettivo.
R.C. Invece vorrebbe è meno soggettivo! Quindi lei vorrebbe. Lei vuole? Lei cosa fa? Vorrebbe o vuole?
D.S. Bisognerebbe che il condizionale diventasse imperativo.
R.C. Terribile questa! Imperativo, prescrittivo!
D.S. Cioè, come pulsione. Non l’imperativo categorico di Kant, ma come pulsione.
R.C. Ci sono i termini per decidere. Poi, ognuno può avere le sue questioni personali che si antepongono, che mitigano l’esigenza, l’urgenza, l’istanza, il compito, la missione. Il destino del pianeta si gioca qui! Può sembrare strano, però è così.
Sì, chi ancora? Ho risposto alla sua domanda?
S.R. Sì.
R.C. In modo esauriente?
S.R. No.
R.C. Ah, ecco! Quindi?
S.R. È la novità nel suo estremismo che resta da qualificare.
R.C. Lei dice che cercherà un metodo…
S.R. Di capire.
R.C. Un metodo mitigante. Capire, perché lei vuole prima avere capito, poi avere saputo, per poi potere dire?
S.R. Era una battuta.
R.C. Dire di potere fare, di volere fare, di sapere fare?
S.R. No, no.
R.C. Queste sono le trappole! Sono queste le trappole!
I termini della scommessa
Ruggero Chinaglia Avevamo indicato questa sera come termine per presentare le proposte, e i contributi per la redazione del manifesto e del materiale informativo da utilizzare per la promozione, l’informazione e la diffusione inerenti le prossime attività. Allora, chi ha da consegnare questo contributo?
Fabrizio Moda Io ho preparato questa dispensa.
R.C. Un dossier!
F.M. No, sono delle proposte di interviste con alcune considerazioni.
R.C. Interviste che riprendono proposte precedenti.
F.M. Sì.
R.C. Non proposte nuove.
F.M. Beh, ce n’erano molte decine e tre di queste, che mi sembravano le più rilevanti, le ho riscritte nel modo nuovo in cui si era detto di fare, quindi non di cinque minuti, ma qualcosa di più ampio.
R.C. Va bene, le leggerò. Vediamo se sono proprio secondo rinascimentali, perché è chiaro che le proposte non sono esenti dal potere avere questa caratteristica. Questo è da parte di Moda, che non firma. È una proposta anonima… Poi, chi? Nessun altro? È stato preso come uno scherzo, uno scherzetto, ma non siamo ancora alla fine di ottobre dove c’è questa possibile alternativa fra dolcetto e scherzetto. Qui, invece, noi siamo senza alternativa, mentre altrove c’è chi è nell’alternativa, e questa non è una bella cosa. Nessuno ha accolto questa proposta, neanche Ercolani?
Patrizia Ercolani Non credo che siano proposte, ho scritto delle cose che non mi sembrano precise.
R.C. Ha scritto delle cose?
P.E. Sì, ma non riguardano una proposta.
R.C. E cosa riguardano?
P.E. Appunti, pensieri, riflessioni molto semplici, forse anche molto generiche, non mi sembrano una proposta.
R.C. Forse lo possono diventare. Però, alcune cose lei le ha preparate. Altri invece hanno tempo e alternativa davanti. Bravi! Si tratta di capire se, per costoro, vige l’idea del boicottaggio di sé o dell’Altro. Starà poi a ognuno, a ognuno di questi, verificare. Allora, venga a dirci queste note, vediamo se possono dare un contributo.
P.E. Ecco, questo non lo so, magari no.
R.C. Chi lo sa, se non leggiamo non lo sapremo mai. Allora, prego.
P.E. Brainworking, ossia lavorando con il cervello. Non si riferisce meramente e riduttivamente all’encefalo. Il cervello non è rappresentato nell’organo, nella sostanza a cui delegare, per esempio, la direzione, la responsabilità, la capacità, la riuscita per via del bilanciamento di sostanze…
R.C. Quest’idea di lavorare con il cervello forse andrebbe esplorata.
P.E. Sì, sì.
R.C. Sarebbe, quindi, un utensile il cervello?
P.E. No, non proprio.
R.C. Perché lei dice “lavorando con il cervello”, e, per esempio, la dottoressa eminentissima Fernanda potrebbe pensare che si possa lavorare anche senza; c’è chi lavora con il cervello e chi senza. La nota curiosa, a questo punto, diventa non tanto come si fa a lavorare con il cervello, ma come si fa a lavorare senza! Infatti, l’eminentissima dottoressa su questo stava formulando ipotesi, no? Perché lavorare con il cervello va bene, ma senza… Allora, qual è la novità di lavorare con il cervello?
P.E. D’intendere che il cervello non è l’encefalo, nel senso di un organo specifico, sostanziale, nel senso che forse indica qualcosa d’altro, non è riducibile solamente a un organo di cui funzionando bene si hanno certe…
R.C. Ci sarebbe la possibile alternanza tra organo e non organo?
P.E. Sì, per cui se c’è e funziona bene, allora è capace, è responsabile; se invece non funziona bene, è incapace, non ci riesce.
R.C. Proseguiamo allora con la lettura.
P.E. La riuscita per via del bilanciamento di sostanze mancanti o sovrabbondanti. Insomma, per via del buono o cattivo funzionamento dell’organo.
Il cervello indica un dispositivo di parola in cui istanze di vita, progetti, curiosità, domanda, trovino accoglimento, svolgimento, conclusione fino alla qualità. Dispositivo di parola, quindi, questione di lingua. Il discorso comune insegna a parlare la lingua comune, che concerne “i tutti” in modo generale e aspecifico, per cui ognuno è uguale a se stesso, postulando un modello grammaticale, lessicale, logico, linguistico uguale per tutti.
La cifrematica, invece, indica e propone un’altra lingua, altri statuti, un altro processo e procedura delle cose…
R.C. In che senso “invece”?
P.E. Nel senso che non è il discorso comune.
R.C. E perché dobbiamo porre questa alternativa?
P.E. Io volevo sottolineare la questione della cifrematica, però, evidentemente, la contrappongo al discorso comune.
R.C. È curiosa come modalità. Prima di tutto c’è il discorso comune, il luogo comune, tutti i pettegolezzi comuni, poi, dopo questi, la cifrematica.
P.E. C’è una questione. Pensavo a come proporre qualcosa della cifrematica o qualcosa di Altro, perché avevo un’immagine di parlare, magari, con qualcuno che niente sa su che cosa propone la cifrematica, che cosa dice, senza, in prima battuta, entrare in dettaglio con linguaggi specifici.
R.C. Perché così potrebbe sembrare che lei intenda Altro come alternativo. Absit iniuria verbis, ma potrebbe sembrare così.
P.E. Ragionandoci non posso negare che sia così, magari mi sfugge…
R.C. Per cui noi saremmo gli alternativi, la cifrematica sarebbe l’alternativa a qualcosa. Forse anche la dottoressa condivide quest’idea? No, non condivide.
P.E. E qua è un’altra questione, nel senso che l’Altro, allora… Se non è alternativo, se non pone l’alternativa, allora?
R.C. E, allora, chi è, da dove viene, dove sta? L’Altro non è l’alieno, non è il diverso, non è l’alternativo.
P.E. Forse non ho inteso l’altra cosa, quando leggo la trasformazione.
R.C. L’altra cosa non è la cosa alternativa a questa.
P.E. È chiaro, dicendo così.
R.C. Perché altrimenti è chiaro che c’è un problema di gerarchia. Poi lo chiariamo. Andiamo avanti.
P.E. [Audio non comprensibile] … altri dispositivi, un’altra logica, un’altra esperienza di vita, originaria e autentica.
R.C. Dire “un’altra logica” sarebbe la logica alternativa? In che senso sarebbe un’altra logica? Altra rispetto a quale? Quante logiche possono esserci rispetto a cui noi ne proponiamo un’altra, quante logiche sono vigenti?
P.E. Manca l’assoluto, mi pare di capire, proponendola così.
R.C. È da capire. Un’altra logica, un’altra, cioè, ancora un’altra?
P.E. Forse differente.
R.C. Differente da quale?
P.E. Da quella comune.
R.C. Ancora un tributo al discorso comune da cui si tratterebbe di differenziarsi? Sarebbe una procedura per differenziazione, una raccolta differenziata, insomma. La cifrematica è una raccolta differenziata di altre logiche. Sono tutti aspetti, chiaramente, da elaborare ulteriormente. Andiamo avanti; sono cose importanti da capire.
P.E. Importa lo statuto di ciascuno che, facendo, procede secondo la particolarità fino allo specifico, qualificandosi come caso di parola, unico, irripetibile e senza confronti, assoluto. Importa parlare, fare, scrivere, lavorare. Importa l’atto. Lavorando e facendo nel dispositivo, si rilevano questioni che diventano intellettuali se si instaura la discussione, la ricerca e l’impresa, la domanda per la riuscita e la soddisfazione. Altrimenti restano i problemi in cerca di soluzioni.
R.C. Problemi di base, problemi della base, problemi di chi? Di chi sono questi problemi?
P.E. Problemi, sì.
R.C. I propri?
P.E. Sì, i propri problemi, i problemi del soggetto.
R.C. La base di partenza sono i problemi, si parte dai problemi, per sbarazzarcene.
P.E. Se si trova la soluzione, chiaro che il problema…
R.C. Cioè, il brainworking sarebbe il modo di sbarazzarsi dei problemi?
P.E. No, intendevo che restano problemi se non si instaurano dispositivi di parola, se i problemi non si…
R.C. Veda che è il contrario. Legga, “restano problemi se…”?
P.E. Restano problemi se non si instaura il dispositivo di parola, di ricerca, d’impresa.
R.C. Ecco, non è così. Se non si instaurano dispositivi di parola, allora sorgono i problemi! Non è che restano, sorgono, capisce? Non è chiaro?
Barbara Sanavia Magari c’erano anche prima i problemi.
R.C. No, questo è il punto, non c’erano anche prima! Questa è propaganda di un certo tipo.
B.S. Ma questa…
R.C. Lei ha preparato qualcosa? Non ha preparato niente e vuole parlare! Non ha titolo per intervenire a questo proposito. Bene, ha terminato? C’è ancora qualcosa?
P.E. Ma sono generiche.
R.C. Eh, generiche… Concluda.
P.E. La vita e le cose non sono facili, non seguono la propria idea di sé o dell’Altro, idea che non si realizza mai, anzi, incontrano Altro, incontrano variazione e differenza; si aggiungono altre cose, giungono altre idee, altri ragionamenti per cui le cose si dispongono e si combinano in altri modi imprevisti e non pensati, sorprendenti. Importa valorizzare ciascuna cosa, ciascun atto per apprezzare ciò che si va facendo, dicendo, scrivendo.
R.C. Da come legge sembra che questo apprezzamento sia ancora da conseguire. Si spera che arrivi. Un giorno forse apprezzeremo, lei dice, per il momento…
P.E. Qualcosa sì, qualcosa no. Apprezzare nello specifico le cose non mi sembra…
R.C. Cosa buona e giusta.
P.E. No, non mi sembra semplice, visto che c’è una complessità che va attraversata, altrimenti diventa una morale, un’esortazione.
R.C. Esatto, certo. Poi?
P.E. Parlare, ascoltare. Importa anche l’ascolto che richiede umiltà, generosità, indulgenza, tolleranza affinché ciò che si dice non si perda nel vento o non venga ascoltato.
R.C. Beh, il vento non è una brutta cosa. Bene. Allora, Moda, venga a leggere la sua proposta. Sabrina Resoli aveva preparato qualcosa? Aveva cercato di arrivare in ritardo per non…
F.M. Io non l’avevo inteso come uno scritto da leggere, ho scritto qualcosa, una proposta diciamo.
R.C. Sì, esatto.
F.M. In riferimento al titolo della prossima conferenza Il brainworking, i servizi e i dispositivi di valorizzazione della vita, ho preparato la seguente proposta di comunicato.
Nell’epoca “della scienza e della tecnica”, si assiste invece all’apoteosi della statistica, del probabilismo e del tecnicismo, in funzione di un’efficienza che punti al risparmio soggettivo delle forze, dell’impegno e dell’ingegno, per ottenere la calma personale e la quiete sociale.
R.C. E qui ha fatto praticamente pubblicità al nemico, no?
F.M. In questa ideologia, che ne è della parola e della sua particolarità? Della sua forza e delle sue virtù…
R.C. Ah, era una captatio benevolentiae, come dire poverina la parola che è così bistrattata, ma adesso ci pensiamo noi…
F.M. … con le quali solo si possono ottenere quegli effetti di senso, di sapere e di verità che portano alla soddisfazione di ciascuno e che offrono un contributo alla civiltà. Quali sono le “vitamine” per l’instaurazione del cervello artificiale?
R.C. Sembra più biologico che artificiale questo cervello, che ha bisogno di vitamine.
F.M. Beh, questo è un comunicato…
R.C. Appunto, è nientemeno che un comunicato in cui lei fa pubblicità alle vitamine come costitutive del cervello artificiale!
F.M. Sì, ma sono tra virgolette.
R.C. Sempre vitamine restano. Propongono un’idea di sostanza, buona, non dico di no, buona, ma sempre idea di sostanza.
F.M. Come instaurare e avvalersi dei servizi e dei dispositivi intellettuali se la vita non è data a priori, non è vita animale ma è vita che abbisogna del processo incessante di valorizzazione? Come giungere all’efficacia nel proprio progetto e programma di vita?
R.C. Quindi, è da qui che incomincia il comunicato.
F.M. Ne teniamo conto senz’altro.
R.C. Tutto ciò è per riscaldamento. Il comunicato incomincia da qui. Però, dice, come giungere all’efficacia e poi segue, no?
F.M. Poi ci sono tre punti: quali servizi, quale messaggio e quale proposta.
R.C. Che fanno parte sempre del comunicato?
F.M. Quando ne abbiamo parlato lunedì, non l’avevo inteso in questo modo.
R.C. Però, in realtà, magari, forse, chi lo sa? Leggiamo.
F.M. Quali servizi? Servizio per l’instaurazione della salute. Servizio per l’oltrepassamento delle difficoltà. Servizio per non cedere alle proprie fantasie di origine, di morte, di predestinazione, di male, d’incapacità, di genealogia, di fine, di sfortuna, d’incesto. Servizio per la precisazione del proprio progetto di vita e di strutturazione del programma opportuno a ciò. Servizio per capire ciò di cui si tratta, senza dovere accontentarsi di credere.
R.C. Quindi vari servizi. Lei dove lavora?
F.M. In un servizio ospedaliero.
R.C. Ah, ecco, in un servizio, appunto.
F.M. È detto così.
R.C. Quindi, all’ospedale. All’ospedale c’è il servizio ambulatoriale, il servizio biochimico, servizio per il funzionamento dei reni, servizio per il funzionamento dello stomaco, vari ambulatori, e lei si è attenuto a questo schema; vari servizi finalizzati a qualcosa.
F.M. C’è certamente del finalismo.
R.C. Perché, in realtà, è sempre lo stesso servizio. Come si può disgiungere il servizio per l’instaurazione della salute rispetto al servizio che riguarda il programma e il progetto di vita? E, peraltro, come può instaurarsi il servizio per l’instaurazione della salute se vigono, per così dire, fantasie mortifere, negative, alternative e quant’altro? Diciamo che si tratta di formulare differentemente dalla visione ospedaliera, che qui forse è stata prevalente.
F.M. Non è mica escluso.
R.C. Bene, poi?
F.M. Quale messaggio? Importa solo l’avvenire. Come tirare i remi in barca nella vita? Come accontentarsi? Dalla vita non si va in pensione!
R.C. In che senso sarebbe “solo” l’avvenire? Cosa resta escluso?
F.M. I ricordi.
R.C. Quindi, escludendo i ricordi resta solo l’avvenire; poverino, resta da solo! Se togliamo i ricordi, l’avvenire resta solo.
F.M. Nel senso che resta non da solo.
R.C. “Resta solo l’avvenire”, è restrittivo, viene tolta parecchia roba.
F.M. Qui era inteso che viene tolta la pesantezza del ricordo.
R.C. Sì, ma lei dice non che importa l’avvenire, ma “solo” l’avvenire, quindi c’è tanto altro che togliamo per carità di patria.
F.M. Come tirare i remi in barca nella vita?
R.C. A questo è rivolto il messaggio? Istruire a come tirare i remi in barca e a accontentarsi?
F.M. In una certa lettura!
R.C. Beh, certo, chiaro. Però questo è scritto! Qual è il messaggio? Come tirare i remi in barca, come accontentarsi limitandosi all’avvenire. Poi?
F.M. Dalla vita non si va in pensione! Come instaurare la battaglia di vita ciascun giorno?
R.C. Ecco, la prima parte nulla aggiunge a questo, no? Forse toglie qualcosa.
F.M. Sì, diciamo che c’è una scrittura di senso, anziché di precisione.
Importa la sfida intellettuale, importa non arrendersi di fronte alle rappresentazioni soggettive delle difficoltà come se fossero il male cui non c’è rimedio. Importa capire lo specifico di ciascuna questione in cui nella vita ci si imbatte, senza delega ai supposti esperti, ma semmai avvalendosi anche di loro, per giungere alla decisione intellettuale, non probabilistica e non statistica. Intellettuale! Per l’efficacia dell’intervento. Importa che né il bene, né tanto meno il male, siano posti davanti nella vita, ma che, nel processo d’integrazione si districhino i nodi…
R.C. Perché lei è così accanito contro il male? Dice “il bene no. Tanto meno il male”. Cosa le ha fatto il male per essere vituperato, mentre il bene va solo escluso?
F.M. Qui credo sia stato una specie di… Per evitare fraintendimenti comuni a una lettura, diciamo così…
R.C. Sul male, lei era sicuro del consenso.
F.M. Sì. Importa che né il bene, né il male siano posti davanti nella vita, ma che nel processo d’integrazione si districhino i nodi che bloccano il percorso verso il valore, l’arte, l’ingegno, la scrittura, l’intrapresa della propria vita.
R.C. E mette il valore per primo e poi tutto il resto. Va beh, poi? Arriviamo alla proposta.
F.M. Quale proposta? Occorre portare a compimento, non da gregari, i dispositivi di parola che ora procedono a rilento, o non procedono affatto.
R.C. Non da gregari e cioè come?
F.M. Da protagonisti.
R.C. Ah, ecco, però teniamo presente i gregari, i gregari prima di tutto!
F.M. Esatto!
R.C. Protagonista sarebbe innominabile, indicibile.
F.M. Esagerato insomma.
Occorre interloquire, invitare alle conferenze gli esponenti della città che danno, nei loro campi, un contributo di valore alla civiltà. Occorre offrire la propria collaborazione di consulenza intellettuale a aziende e istituti. Le difficoltà a cui l’università non prepara, come i fantasmi genealogici, di origine, di fine, di morte, d’incesto, bloccano il fare e l’intrapresa come e più delle motivazioni tecniche (crisi, concorrenza cinese, burocrazia…). Anzi, i motivi tecnici della difficoltà, spesso, sono fantasmi non elaborati. Occorre che la parola, come esempio di ciascuno, abbia da trarre gli interlocutori nel percorso associativo, non come supposto effetto di convincimento su un soggetto succubo.
R.C. Ah, ecco, queste sono proposte rivolte all’associazione, non solo nell’ambito di questa attività, ma più ampio.
F.M. Sì, certo.
R.C. Lei dice che, in merito a questo, la proposta era già assolta e qui era in un ambito più ampio.
F.M. Mi sembrava che il titolo portasse a questo.
R.C. Sì, certamente, però restano ancora tante cose per giungere all’attuazione. Bene, è chiaro che le istanze ci sono e occorre elaborarle ulteriormente, anche linguisticamente. Le trappole fantasmatiche abbiamo visto che hanno ancora una certa operatività. È una prima bozza. Anche Resoli aveva qualcosa. Lei ha preso seriamente la faccenda, questa volta.
Sabrina Resoli Nel 1926 Freud scrive Il problema dell’analisi condotta da non medici, testo in cui argomenta la non necessità, per lo psicanalista, della formazione medica che, anzi, potrebbe anche risultare controproducente. Cito: “I medici, nei quali non è stato risvegliato alcun interesse per gli elementi psichici della vita, sono indotti a disprezzarli e a riderne come di cose non scientifiche”. Quindi, a conclusione dello scritto indica una traiettoria di applicazione della formazione psicanalitica non riconducibile alle sole implicazioni terapeutiche. Cito: “Essa [la formazione psicanalitica] può divenire indispensabile per tutte le scienze che studiano la storia delle origini della civiltà umana e delle sue grandi istituzioni come l’arte, la religione, l’organizzazione sociale. Penso che abbia già offerto a queste scienze un aiuto considerevole per la risoluzione dei loro problemi, ma si tratta solo di contributi minimi in confronto a quelli che si potranno ottenere quando gli storici, gli psicologi delle religioni, i glottologi, ecc. saranno messi in condizione di servirsi essi stessi del nuovo strumento di ricerca posto a loro disposizione”. Ancora: “Vi è un altro campo di applicazione della psicanalisi, mi riferisco alle applicazioni pedagogiche”, sto proseguendo con le citazioni, e qui indica l’importanza di disporre di quelli che Freud definisce “analisti pedagoghi o educatori psicanalisti”. Leggo: “Quando un bambino comincia a mostrare i segni di uno spiacevole sviluppo e diventa svogliato, testardo e distratto, il pediatra e anche il medico scolastico non sanno cosa fare di lui e così pure se il bambino presenta chiare manifestazioni nevrotiche come stati ansiosi, anoressia, vomiti e insonnia; questi sintomi nevrotici e questi incipienti deviazioni del carattere possono essere eliminati da un trattamento che unifichi l’influenzamento analitico e l’azione educatrice e che sia condotto da persone che non disdegnino di occuparsi delle condizioni dell’ambiente del bambino e che sappiano aprirsi la via conducente alla sua vita interiore”. E appunto dice: “Attività di questi analisti pedagoghi o educatori psicanalisti”. Infine, traccia l’ipotesi di formazione di quella che definisce “armata della salute”, sempre citando: “Per offrire un correttivo alla pressione, quasi insopportabile, esercitata dalla nostra civiltà”. Armata della salute ossia costituita dai social workers ai quali sia stata offerta l’opportunità di essere educati analiticamente”.
Ora, per il brainworking, ipotizzo queste direzioni di intervento: un contributo culturale a diverse discipline come l’arte, la sociologia, eccetera, e un contributo educativo, il brainworking nell’educazione o l’educatore brainworker e l’armata della salute; ossia il brainworker è chi disponendo di una formazione analitica, cifrematica, offre un contributo civile, culturale e un servizio intellettuale che indica uno squarcio rispetto alla morsa della mentalità basata sul pregiudizio psichiatrico.
L’armata della salute mi pareva un’espressione efficace, che si approssima all’idea del brainworking come servizio intellettuale.
R.C. Certo, resta da precisare come, no?
S.R. Sì, però se ci sono già delle traiettorie, degli ambiti rispetto a cui offrire questi servizi, magari si precisa il come.
R.C. Freud ha scritto questo nel 1926, ora siamo a 94 anni di distanza…
S.R. Sì, non è che il testo di riferimento è Freud, è solo che è stato il primo accostamento.
R.C. Beh, certo, questo è un saggio molto importante.
S.R. E anche attuale, leggendolo oggi.
R.C. Forse non sono questi i brani principali, ma il saggio è importante. In questi brani serpeggia un certo ecumenismo, che Freud magari agognava, anche se non è che ci credesse più di tanto.
S.R. C’era, più che altro, la motivazione da cui sorgeva questo scritto, che lo portava a spingersi in questa direzione, però, effettivamente, le cose che dice hanno una portata, e non è il solo testo in cui…
R.C. C’è il rischio, no?
S.R. Dell’ecumenismo?
R.C. Perseguendo questo aspetto ecumenico c’è il rischio di coltivare un’illusione che non è coltivabile, però proseguendo e precisando…
S.R. Forse di questa illusione ce ne accorgiamo.
R.C. Perché c’erano questi educatori pedagoghi.
S.R. Questa è proprio datata come formulazione.
R.C. Però, è, in parte, ciò che è avvenuto in realtà! Questa speranza di Freud è quella che si è attuata a scapito della parte rilevante del suo saggio. Questa commistione tra pedagogia, psicologia, filosofia, sanità, è proprio quello che si è attuato e a scapito di che cosa? Proprio di ciò che doveva essere il messaggio del testo, cioè la formazione specifica. E questo bisogna capirlo.
S.R. Sì, lui prima non cita la pedagogia, però dice qualcosa di molto preciso…
R.C. Psicologia, educazione, questo e quello, la società, a costituire l’armata…
S.R. Però posso leggere quello che dice solo poco prima: “Noi non desideriamo affatto che la psicanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca con il trovare posto nei trattati di psichiatria al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti come la suggestione ipnotica, l’auto suggestione, la persuasione che, nati dalla nostra ignoranza, debbono la loro effimera efficacia soltanto all’inerzia e alla debolezza delle masse umane”. Qui potremmo aggiungere la psicologia, la pedagogia…
R.C. “Noi non desideriamo”, però è proprio ciò che è avvenuto; come dire che non ignorava che potesse accadere proprio questo e, peraltro, forse, in qualche modo, l’ha anche favorito. Comunque, la questione è proprio questa. Bisogna non sottovalutare, non perdere di vista questo aspetto: è impossibile che possa esservi convergenza di pedagogia, psicologia, pregiudizio psichiatrico e il brainworker. Questa è la questione, che è questione intellettuale. Ora si tratta di proseguire da queste prime indicazioni, da queste prime avvisaglie di ciò di cui si tratta.
Il brainworking è indicativo del gerundio. Il brainworking si instaura essendosi instaurato il gerundio, cioè, il cervello non è il mezzo del lavoro o lo strumento del lavoro, ma il cervello è il dispositivo del lavoro, dispositivo di attuazione di ciò che occorre fare gerundivamente. Non è una questione di possibilità o di volontà, ma di occorrenza e, pertanto, del modo di formulare la proposta senza fare la parodia delle finalità sociali o sanitarie dell’intervento. Il servizio intellettuale sta anche nel modo dell’intervento, ma non finalizzato a questo o a quel problema, a questo o a quel male, a questa o a quella difformità. La questione è quella dell’intero, la questione è quella della direzione intellettuale; questo è ciò cui attiene il brainworking. E perché si instauri occorre quanto meno avere attraversato e dissipato il debito presunto, verso l’origine, verso la famiglia presunta di origine, verso la sostanza dell’origine con la conseguente idealità di fine, con la conseguente finalità di bene, con la “conseguente finalità”. A che scopo? A che fine? A fine di bene! La questione essenziale è la dissipazione dell’idea di sostanza in ogni rappresentazione e dell’idea di soluzione di un problema, che è conseguenza dell’idea di sostanza, rendendo sostanza sia sé sia l’Altro.
La parola è originaria, in principio è la parola, non in principio c’è la società, la famiglia, l’idea di sostanza, di bene, di male, di alternativa, di alternanza, le magagne, i problemi e poi, una volta raggiunto il benessere, ci si può rivolgere a questa o a quella intrapresa, a questa o a quella finalità di bene. In principio è la parola; quindi, in principio non è la malattia, in principio non è il male, in principio non è il problema, in principio non è il discorso occidentale, in principio non stanno i servizi sociali, in principio non è l’ospedale.
In principio è la parola con la sua particolarità, con la sua struttura, con i suoi modi. Non è che alla parola si arriva per metempsicosi, per migrazione delle anime, per ascesi, per espiazione. No! Non si arriverà mai alla parola per via di meditazione, di idealizzazione, è assurdo e vano credere che si possa arrivare alla parola attraverso la pratica di riti misterici, religiosi, espiatori, penitenziali o penali. Tutto ciò impedisce che vi sia parola, tutto ciò è volto a un ideale ecumenico di sofferenza che si chiama socialità, ma nulla ha a che vedere con la parola.
In principio è la parola e per cogliere l’essenzialità di questo occorre praticare l’assoluzione, non la soluzione, ma l’assoluzione, l’absolutio, che non è l’assoluzione da un peccato o da una colpa che fonda un principio ordinatore, o che restituisce la purezza che era stata tolta. Non è nemmeno la restituzione della verginità con l’espiazione, con la purificazione, con le abluzioni, con la pratica della sofferenza; la verginità è una proprietà del tempo, non personale, nonostante una certa propaganda chirurgica.
L’assoluzione è la formulazione del teorema che assolve, e indica che non c’è mai stato il peccato o la colpa che si presume debbano essere puniti o espiati. L’assoluzione indica che nessuna ombra del peccato o della colpa può gravare sulla domanda, sul cammino, sul percorso, sull’itinerario della domanda dall’apertura alla sua cifra. L’ombra è l’indice dell’inconciliabile del due, dell’inconciliabile dell’apertura, non è il segno dell’alternanza tra la luce e l’ombra, è l’indice dell’inconciliabile, cioè dell’impossibile alternanza fra la luce e la tenebra. Ponendo l’ombra come l’alternanza o l’alternativa tra la luce e la tenebra, allora diventa peso, negatività, pericolo dovendo rispettare il segno dell’alternanza o dell’alternativa fra la luce e la tenebra, dovendo, per così dire, rispettare la funzione di uguale, dovendo bilanciare l’idea di appartenenza, dovendo mediare la funzione sociale. A questo giunge l’ombra se viene significata dall’alternanza e dall’alternativa, cioè se è considerata secondaria alla luce, secondaria alla tenebra, all’alternanza e all’alternativa fra la luce e la tenebra. L’ombra è originaria, è l’indice dell’inconciliabile di luce e tenebra.
Pertanto, nessuna possibile mimesi della colpa e del peccato, nessun mimetismo per ribadire l’appartenenza, la consanguineità, la consustanzialità, la parentela, la comunanza dell’origine. Dissipare la soggiacenza all’idea di colpa e di peccato, di penitenza e di pena, è essenziale per l’instaurazione dello statuto intellettuale. Fino a che permane la credenza di dovere mediare, bilanciare, dosare, mimetizzare l’origine, la colpa, il peccato, di dovere giustificarsi rispetto a questo, farne l’economia, mantenendone una certa quantità accettabile, cercando di eliminarne l’eccedenza, quindi mantenendo la fantasmatica relativa a questo, ebbene, tutto ciò impedisce l’instaurazione della parola e impedisce l’instaurazione della questione intellettuale.
L’analisi con l’assoluzione non è mediazione fra la credenza e la verità, non è l’accettazione della verità rivelata, della verità dell’Altro, non è la scoperta della corretta versione dei fatti, la scoperta della natura o della realtà, di come sono veramente andate le cose, o di come si sono svolti i fatti! L’analisi non è ripristino, non è, né favorisce la coscienza di sé, non è la coscienza di una visione del mondo, non è, né ha da consentire, la consapevolezza di sé o dell’Altro, la consapevolezza del bene o del male, la consapevolezza della finalità della vita, del senso della vita. L’assoluzione né instaura, né ha da favorire un principio identitario o egualitario.
L’analisi procede dall’anoressia intellettuale, dalla accettazione della parola originaria. Pensare che possa attuarsi una conversione alla parola, per salvazione, per guarigione, per convinzione, per soluzione, è assurdo, è una forma di pregiudizio psichiatrico. Credere questo è pregiudizio psichiatrico, ossia è credere nella liberazione, nella salvazione, nella salvezza. La psicoterapia, invece, tenta il riordino del passato per consentire un’altra ipoteca sull’avvenire rispetto a quella che si credeva di avere.
L’analisi è la teorematica, la formulazione del teorema che indica che la credenza nel negativo, nel male, nella malattia, nella soggettività, nell’origine, nella mortalità non c’è più. La teorematica dissipa il vittimismo nei confronti del così detto traumatico, che è ciò con cui ogni purismo e ogni radicalismo istituiscono il soggetto come debole, ammalabile, quindi da proteggere, da difendere, da curare, da educare, da guarire perché sia salvato e non si perda. Come dice la preghiera? “Perché la sua anima non vada perduta”. Cosa dicono gli psichiatri? “Perché il paziente non si perda, non si perda di vista”. È la stessa ideologia della salvezza.
La parola è originaria, con la sua ricerca e la sua impresa, e la ricerca non è per stabilire quale sia il principio primo o iniziale, ossia il principio ordinatore del sistema. Non c’è sistema. L’ipotetica scelta tra il principio primo e il principio iniziale è pensata per dirimere ogni dubbio, per abolire il dubbio, per abolire il modo del due e credere di potere seguire un metodo ordinatore certo, che faccia da guida nelle scelte. È l’instaurazione del daimon come principio primo o iniziale, principio algebrico o geometrico, principio dell’immanenza o della trascendenza. Questa idea di un principio ordinatore è per potere abolire la parola e il tempo, e decidere in autonomia e in automaticismo, senza il cervello. L’ipotesi di un principio ordinatore, del principio primo o iniziale è l’ipotesi di un principio ideale che istituisca l’alternanza e l’alternativa: l’alternanza fra il bene e il male, l’alternativa fra l’amico e il nemico; alternanza e alternativa, abolendo il due, istituendo la contrapposizione fra alternanza e alternativa, abolendo il tre, favorendo l’alternativa tra amico e nemico, fra la colpa e il premio, fra il castigo e il premio, tra la colpa e il peccato.
Tutto ciò non è attribuibile né alla società, né alla fatalità, né all’origine, né al destino, né alla fortuna, né alla sfortuna. È questione intellettuale. La questione è in che modo l’attuazione della parola entra nel progetto e nel programma di vita, quanto alla domanda e al suo destino. In che modo la logica della nominazione, la particolarità della parola, interviene nel ragionamento senza più concessioni al pettegolezzo, alla logica dell’alternanza e dell’alternativa, senza più la linguistica della colpa e della pena, senza più l’alternativa fra penitenza e pena, senza più la sistematica psicologica o pedagogica, senza la metodica religiosa, ideologica o medicologica? Senza tutto ciò s’instaura il brainworking, il dispositivo intellettuale con i suoi servizi, servizi intellettuali.
La parola non è misterica, né misteriosa e ogni indugio rispetto al pettegolezzo, al discorso di padronanza, indugio addotto o giustificato da un’ipotetica difficoltà, incomprensibilità, ignoranza della parola, del due, del tre, dello zero, dell’uno, dell’Altro, tutto ciò è adesione al discorso comune. Ogni indugio è adesione al discorso comune, ogni indugio è complicità con il discorso comune, adesione e complicità ai principi dell’alternanza e dell’alternativa, ai principi che sono regolati dall’accettazione dell’idea di colpa, di peccato, di penitenza, di pena, di redenzione e di salvezza come fondamenti della vita.
La questione è: quale posizione nella vita? Qual è la posizione intellettuale? Da dove viene la provocazione nella parola? Viene dall’oggetto e la provocazione nella domanda viene dalla posizione dell’oggetto. Non si tratta di essere la provocazione per qualcuno, ma di cogliere la questione della provocazione rispetto all’instaurazione della domanda e di non delegare questo al destino o agli apparati.
Il brainworking non è ideale, né è misterico o misterioso, non è frutto di conoscenza, ma è l’attuazione del servizio intellettuale, l’attuazione del servizio che procede nel dispositivo della parola. Brainworking: servizi e dispositivi, non accettazione fatalistica di quello che accade nel mondo, ma accettazione della parola, accoglimento della parola. L’anoressia intellettuale è l’accettazione della parola, non il respingimento della parola a favore di questo o quel personalismo, ma accettazione della parola.
Nel brainworking non si tratta tanto del servizio di consulenza, termine che nulla ha a che vedere con le proprietà della parola, ma che piuttosto evoca l’applicazione di schemi psicologici, di metodi statistici, comportamentali, di algoritmi fondati sulla probabilità, sulla possibilità, sulla conoscenza dei bisogni veri, reali, presunti, sulla media e tante altre frivolezze del genere. Il brainworking indica la direzione, propone dispositivi, attua dispositivi. In ciascuna circostanza, con ciascun interlocutore, si tratta della direzione alla qualità della vita, direzione dell’impresa, direzione della ricerca, direzione della domanda, pone in risalto la domanda e che ciascuna cosa non procede fatalisticamente per chissà quale probabilità, possibilità o fatalità. Si tratta, quindi, della direzione della vita, dell’impresa, dell’azienda, del dispositivo e questo esige l’esperienza della parola, non già la formazione medica, psicologica, sociologica o chissà che. Esige l’esperienza della parola, l’esperienza delle particolarità della parola, del numero della parola. Provocare la domanda è la questione essenziale perché vi sia scambio, interlocuzione, perché vi sia teorematica di ciò che sembra scontato, banale, sostanziale.
Brainworking: provocazione alla direzione della domanda, provocazione al servizio intellettuale della parola, provocazione ai dispositivi di parola, provocazione per la direzione alla qualità, quindi alla salute, alla ricerca, all’impresa, alle proprietà e alle virtù della parola; alla riuscita non per illuminazione, non per magia, non per ipnosi, ma per brainworking.
Sono questi i termini, oggi, della scommessa sulla parola, con la parola, per la parola, la scommessa intellettuale, la scommessa di vita per ciascuno, per la soddisfazione, per la riuscita, per la qualità, per la salute. Questa è l’esigenza dello statuto intellettuale, questa è la cosa seria; l’unica cosa seria è questa. Questa è la partita da giocare e solamente giocando la partita si vince, chi si astiene può contare su un premio di consolazione, e come premio di consolazione avrà la sua espiazione, la sua pena, la sua penitenza. Qui si tratta della chance della parola, la chance di ciascuno, la nostra chance. Senza riferimento a precedenti, predecessori o a quant’altro. Il riferimento è l’oggetto della domanda per ciascuno; occorre dare prova che sia in atto la domanda.
È come dire che c’è da fare. C’è da fare! Non è come dice qualcuno: “Non abbiamo niente da fare”, qui c’è da fare e quindi facciamo! Questa è l’occasione, senza rimandi, senza rinvii, nello specifico della parola, nel dispositivo di parola, nella linguistica della parola. Questa è la partita. E, come notava qualcuno, il brainworking non è una questione teorica, ma è la pragmatica della questione intellettuale, la pragmatica del servizio intellettuale. Non è una questione teorica o da imparare, non è una questione di conoscenza, o universale, o universitaria. È chiaro questo?
La parola non ha luogo, né un luogo puro, né un luogo radicale, né un luogo giusto, né un luogo convenzionale, né un luogo congruo: è senza luogo. Pertanto, non c’è da avere paura, impossibile avvicinarsi alla parola ideale, al luogo ideale, al modo ideale, al principio ideale, all’essere ideale. Sono chiare le implicazioni di questo? È del tutto vano coltivare un’immagine ideale di sé o dell’Altro, aspettare di raggiungere l’immagine ideale di sé, il luogo ideale di sé, la capacità ideale di sé. È chiaro questo? Se non è chiaro, urge il chiarimento! Per chi coltiva e giustifica l’attendismo a favore di un’idealità da raggiungere, tutto è perduto. Tutto quello che pensava di potere perdere è perduto, è già perduto. Quindi, che aspettare? Aspettare cosa? Esitare perché?
R.C. Certo. Allora concludiamo qui.
“Sì, però…”, l’ipotiposi. E non c’è più litigio
Ruggero Chinaglia L’appello all’evidenza dei fatti, alle proprie ragioni, alle proprie convinzioni, alla “natura” delle cose, l’appello a quello che si vede, a quello che è, costituisce la copertura di ogni cosa, tolto l’acustico. La visione è visione del mondo, non della cosa. Le cose si odono e poi, forse, si ascoltano, ma non senza l’analisi, non senza la qualificazione, non senza il dispositivo della parola. Che le cose si odano, e che quindi si ascoltino, esige la dimensione della parola con la sua logica singolare triale e esige l’apertura con la sua logica diadica. Sta qui l’ipotiposi che è, con l’ossimoro, modo dell’apertura. Bene-male è ossimoro. Il male è ipotiposi, l’inferno è ipotiposi della vita standard!
L’ipotiposi lascia indeterminata la cosa pure nella sua descrizione, nel suo disegno, nella sua cartografia; non giunge alla determinazione, all’essenza, alla definizione, all’univocità della cosa. L’idea di situarsi, di prendere posizione, di avere il pensiero, di avere e difendere le proprie idee, le proprie credenze, i propri principi, i propri valori, quest’idea istituisce la visione del posto fermo, il mondo come posto fermo e fisso, con la sua mitologia lavorativa: ambire al posto fisso per tutta la vita, per la sicurezza di sé e della vita.
La visione del mondo è visione di un mondo fisso, è visione di un posto fisso, è l’idea del posto fisso. Il mondo esiste solo nella sua fissità. L’idea del miglioramento e del cambiamento del mondo è la riaffermazione che non è abbastanza fisso e fermo e, quindi, può migliorare raggiungendo la fissità assoluta! E questa visione, con il suo andamento programmato, con il posto fermo e fisso che ognuno deve occupare per la sua sicurezza, istituisce l’alternativa al destino precario, l’ipotiposi del destino.
Ognuno reagisce al destino prestabilito, o presunto tale, sia che lo accetti sia che non l’accetti, e reagisce ipotizzando e ipostatizzando la contrapposizione come obbligo di opporsi e di contrapporsi per determinarsi. Ma anche la reazione, la contrapposizione e l’ipotesi della determinazione sono modi dell’ipotiposi contro cui nessuna spiegazione, o convincimento, può sostituire la procedura: le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. L’ipotiposi è nella procedura che esige anche l’integrazione. Dunque, nessuna destinazione prestabilita, nessuna destinazione per inerzia. La verità non è già scritta e non è già data, ma è effetto della cifra, per cui la verità per instaurarsi esige la cifratura. Nessuna verità senza la cifratura, se non quella verità ontologica che prescinde dalla domanda e dalla parola.
Contro l’ipotiposi è tentato il principio della trasparenza, che vorrebbe rendere visibile la sostanza vera, la sostanza intima, l’origine certa, il principio formativo e formatore da cui le cose verrebbero e, soprattutto, il principio uniformante e uniformatore. Come stabilire l’indice statistico? Abolendo l’ossimoro e l’ipotiposi. L’ipotiposi è essenziale per avviare il processo di qualificazione. Se le cose procedessero dall’uno, che esigenza ci sarebbe di qualificarle? Se le cose dovessero tornare all’uno, che esigenza ci sarebbe di qualificarle? Le cose esisterebbero in quanto tali. Nessun viaggio delle cose se le cose esistessero. Il processo di qualificazione non è un processo di determinazione o esistenziale, di fissazione o di ontologizzazione, non è un processo per giungere a stabilire e a sapere come sono le cose, come stanno le cose e dove stanno le cose. Le cose si rivolgono alla qualità, dunque non sono e non stanno.
La rivoluzione è il rivolgimento, le cose si rivolgono alla cifra. La rivoluzione esige la qualificazione, esige il dispositivo di cifratura che non è dispositivo di determinazione; non si tratta di andare dall’indeterminato al determinato. La domanda esige di qualificarsi perché non è già qualificata, né è tale da garantirsi la sua destinazione, tale da avere già un suo destino, una sua destinazione per inerzia o per fatalità. E il processo di qualificazione non è l’ultimo viaggio, l’ultimo atto, dopo di che ci sarebbe la fine. Giunti alla determinazione, che altro? Che altro dire? Che altro fare? Sarebbe l’instaurazione dell’essere della cosa, l’essere dell’oggetto, l’essere dell’Altro, l’essere se stessi, l’essere come ricongiunzione, come fine del processo, fine della vita, fine del tempo. L’approdo alla cifra non è la fine dell’accesso alla parola.
Il concetto è un miraggio. Ogni concettualizzazione è contro l’ipotiposi e l’ossimoro, che sono originari. Ogni concettualizzazione è contro la procedura che è istituita dal due: le cose procedono dal due. Ogni concettualità tenta di chiudere l’apertura e il due, negandoli. Questo è il modo con cui è tentato il processo di unificazione, e concettualità vuole dire istituire il processo di unificazione. L’istituzione del concetto è l’istituzione del processo di unificazione, di sillogismo, per giungere alla formula stabile, come la formula degli elementi con la sua tabella, la tavola degli elementi con la loro successione. È quanto ha tentato Mendeleev con la tabella della successione degli elementi in chimica. È il miraggio di ogni cultore della disciplina della parola anziché della parola libera, della disciplinarizzazione della parola, anziché della parola libera: istituire la tabella degli elementi grazie a cui la parola avrebbe una successione gestibile, guidabile verso il suo essere, verso la sua essenza, verso la modalità con cui la parola sarebbe gestibile, ordinabile, determinabile, padroneggiabile, dominabile. Controllo e padronanza della parola.
“Sì, però…”. L’obiezione non è alternativa alla verità, non è discorsiva, ma è indicativa del sembiante, è indicativa di un’occasione, di un’altra occasione non prevista, non prevedibile. Non è obiezione discorsiva che necessita della replica; l’obiezione non vale a instaurare la polemica. La piega è proprietà dell’Altro, con la molteplicità. Mentre la polemica tende a rivolgere la molteplicità della piega nell’univocità, a togliere l’Altro, attribuendo l’Altro all’oggetto. La piega non è univoca perché non è una proprietà della voce, ma è molteplice in quanto proprietà dell’Altro. Dunque, l’obiezione non è obiezione contro l’Altro, non è polemica e non esige la polemica. Chi assume l’obiezione per replicare all’obiezione con la corretta visione, toglie sia l’oggetto sia l’Altro, nega la parola, istituisce l’unilingua e tenta di affermare la propria visione del mondo. L’obiezione non instaura il duello.
Il lutto, il dolore e il trauma non sono obiezioni alla salute, anche se a volte sono usate a questo scopo per giustificare, o significare, un problema o una patologia. Capita, talvolta, di ascoltare qualcuno che racconta di un problema o di una presunta patologia, attribuendo questo all’avere subito dei traumi, all’avere avuto dei dolori, all’avere subito dei lutti. Tutto ciò nulla ha a che vedere con il lutto, il dolore, il trauma, che sono significazioni che tendono a fare di qualcosa il segno dell’origine, o del tempo, o del destino. Indicano l’assenza di analisi e l’assunzione di una sostanzialità delle cose per significarsi e per significare la vita, cioè indicano la vita come soggettività.
Ma la soggettività ha la chance di dileguarsi nell’ipotiposi con l’analisi. Con l’analisi, ossia con la teorematica, che non instaura la sostanza vera a fronte della sostanza presunta, ma dissipa l’idea stessa di sostanza, della sostanza di sé, delle cose, della parola, dell’origine, della fine. Con l’analisi, l’idea di sostanza si dilegua nell’ipotiposi. L’analisi non indica che a un’idea di sostanza se ne contrappone un’altra, ma il teorema è che non c’è più sostanza, né indica che una sostanza è migliore di un’altra. Questa è, eventualmente, la posizione di chi assume il pregiudizio psichiatrico, cioè che vi sia una versione corretta e definitiva del discorso, una versione corretta che faccia privilegiare, o che porti a scegliere, una visione del mondo piuttosto che un’altra, mantenendo l’idealità del mondo e l’idealità della visione.
Il pregiudizio psichiatrico, che altro non è se non il discorso comune, corrente, il discorso senza la parola, senza l’analisi, senza la qualificazione, non tiene conto di ciò che si dice, ma punta alla conferma di ciò che è detto, di ciò che è stato, del detto comune, del fatto comune, di ciò che è presunto essere così. Vale “ciò che è” per il discorso comune. Per il pregiudizio psichiatrico vale la sostanza delle cose perché “di cose se ne dicono tante ma, poi, qual è la sostanza?”. Questo è il pregiudizio psichiatrico: quel che si dice non conta, quel che si dice non si rivolge alla cifra, non entra nel processo di qualificazione.
L’idea che le cose esistano, l’idea di esistere, l’idea di essere, di potere essere, è indicativa dell’appartenenza al pregiudizio psichiatrico che punta alla soluzione; non all’analisi, ma alla soluzione. Punta alla sostanza ultima, definitiva, vera, pura, alla sostanza radicale. Punta alla soluzione, cioè l’idea dell’ultimo tempo in cui le cose diventano. L’appello all’esistente, all’esistenza, è la prova ultima. Per questa via è possibile proporre la gestione delle cose, del tempo, del destino, del sintomo, della cura, del valore, perché il valore è dato come sostanza ultima che deve giungere alla condivisione nella riunificazione.
Gestione, rimando, controllo, remora, riserva, abolizione del dubbio, prendere tempo. Prendere tempo per abolire il dubbio, prendere tempo per abolire la riserva o per abolire la remora. Ma, prendere tempo è già la riserva, è già la remora, è già il rimando. “Ci devo pensare bene, perché questa cosa…”. “Bisogna che ci pensi bene per non sbagliare, per non prendere una cantonata, per non pentirmi, perché se sbagliassi, potrei pentirmi”. Ciò è già la riserva, la remora, il rimando; è già il soggetto. Questa è la soggettività che nega la parola, il suo accadere, il suo avvenire, il suo divenire, la sua effettualità e oppone alla parola l’esistenza soggettiva, la tetragonicità soggettiva.
L’idea di controllare e gestire la riuscita è la negazione della riuscita. Il controllo sulla riuscita nega la riuscita. La riuscita non sta dove la si pone, la riuscita non è rimandabile, non è una proprietà dell’essere, non è una proprietà della gestione, della riserva, del rimando e della remora. La riuscita non è una facoltà, non è l’essere che riesce. La riuscita non è il successo, né il conseguimento del successo. La riuscita non è il conseguimento della padronanza o il raggiungimento del bene, non è l’abolizione del male, né la conferma del fantasma materno, né il raggiungimento della fine del tempo. La riuscita è imperscrutabile, non sta lì dove è pensata. Pensare alla riuscita è negare la riuscita, cioè fare della riuscita un’apologia di sé come soggetto. Quindi, nessuna riuscita può essere accolta, e nemmeno pensata, se vige il pregiudizio geometrico che sottomette la riuscita al principio del bene, all’idea di bene, all’idea della benevolenza dell’Altro, che deve essere messo alla prova della macchia, la macchia dell’impuro, la macchia del misfatto.
Il principio geometrico toglie l’ipotiposi e afferma il principio dell’alternanza e dell’alternativa; alternanza fra il bene e il male, alternativa fra amico e nemico. Quale riuscita in questa geometria che ipostatizza e vede il mondo nell’alternanza fra il bene e il male e nell’alternativa fra amico e nemico? Il pregiudizio geometrico stabilisce che se oggi sono bene, domani dovrò essere male; e c’è da aspettarsi ogni rappresentazione di quest’alternanza. Pregiudizio che si premura di dimostrare la svista e la cantonata dell’Altro se intervenisse un giudizio ritenuto positivo, una valutazione ritenuta positiva sul proprio essere. Il pregiudizio geometrico volge l’io, che è una proprietà dello sguardo, nell’io soggetto, soggetto visto o guardato e quindi giudicato. Ogni riuscita è così negata, in quanto confusa con il benessere, l’essere bene, con un’idea ontologica di sé, tanto ideale quanto irreale.
Chi chiede la sostanza, nega la parola o la obietta? O lancia la sfida all’alternanza fra il bene e il male, fra il dentro e il fuori, fra il sopra e il sotto, o all’alternativa fra amico e nemico come modi canonici della via del sonno? La vita come via del sonno, il sonno funzionale alla vita, il sonno come scopo della vita. Come vivere per morire! Perché, senza dormire, che vita sarebbe? Vivere per dormire. Chi non vive per dormire? È canonico che la vita degli umani è ripartita almeno in tre parti: una per mangiare, una per lavorare e fare altre cose e una per dormire. È canonico, è stabilito, è dovuto a garanzia e tutela dell’alternativa e dell’alternanza, del regime di alternativa e di alternanza. La questione del sonno è veramente da esplorare. E, dunque, la domanda di sostanza è un modo per lanciare la sfida tra l’ultima spiaggia e l’ultimo tentativo? Tra l’ultima volta e la prossima volta? Chi osa lanciare l’ipotesi della prossima volta, a fronte di chi sostiene che è l’ultima volta?
La fiaba procede dall’ossimoro e dall’ipotiposi anche quando sembra appellarsi all’origine come fatto negativo e incontrovertibile che significa e dimostra la negatività del presente. L’idea di essere nati per sbaglio o per errore, anche quando è avallata dalla mamma o dal papà, non basta a fare della vita un sacrificio, pure talvolta tentandolo. E come, dove e quando trova l’incrinatura il luogo comune che dice che la vita si nutre di sostanza? Come, dove e quando questo luogo comune trova il suo varco, la sua incrinatura, il lancio e il rilancio verso la parola? Per quale provocazione, per quale promozione, per quale intervento, per l’intervento di chi? Chi sarà delegato a non rispondere con la sostanza alla domanda di sostanza? Chi? Chi è delegato a ciò? Di chi è questo compito, a chi è riservato questo compito?
Prego, sentiamo le risposte. C’è chi dà un contributo e comincia a rispondere?
Daniela Sturaro Per me potrebbe essere lo psicanalista in quanto guida della ricerca, perché la sostanza è qualcosa che rifugge la ricerca; infatti: “Trovi me e hai trovato tutto, io ti do quello che ti serve, la forza”. E quello che nella vita senti che ti manca, la sostanza te lo dà; nelle difficoltà della vita, la cosa più facile da fare, è fare ricorso alla sostanza. Invece, attraverso l’analisi, c’è un altro percorso da fare, che non è quello di assumere qualcosa per far sì che divento qualcun altro, più forte, più bello, più interessante.
R.C. E chi è questo psicanalista? Dove sta? Dov’è? Chi è?
D.S. Un cifrematico.
R.C. Uno, uno solo?
D.S. La cifrematica.
R.C. La cifrematica. Mamma cifrematica. Cos’è la cifrematica?
D.S. Un cifrante.
R.C. Un cifrante. Uno, uno solo.
D.S. Il cifrante.
R.C. Il cifrante. E dove sta? Chi è? Dov’è? Chi è cifrante? Chi è psicanalista? Chi è che accoglie la domanda quand’anche formulata nella richiesta di sostanza? Chi è? Dov’è? Come fa? Chi si accorge che la richiesta di sostanza procede dall’ipotiposi?
E allora signori, mi pare che la questione sia piuttosto chiara. A chi delegate questo compito? A chi assegnate questa penitenza? A chi? Ai servizi sociali, ai servizi sanitari, ai servizi psichiatrici? Agli psicologi, agli psicoterapeuti, agli avvocati, ai medici, agli infermieri, ai giudici, ai commercialisti, ai bancari, agli insegnanti, ai commercianti? A chi? Ai bambini, agli anziani, ai nonni? A chi voi lasciate il compito di accogliere la domanda di sostanza che ogni giorno si leva da più parti, nella direzione di una risposta che indica il modo? Ebbene? Chi voi eleggete come deputato a sbrigare la pratica? Sentiamo. Chi è il vostro candidato, il vostro delegato? Chi è? Sentiamo! Tutti zitti. Che bravi! Eppure la domanda è precisa. Non è precisa?
D.S. Sì, è precisa. Chi è delegato a rispondere alla domanda di sostanza con qualcos’altro. Può essere questa la domanda?
R.C. Per voi è possibile che chi formula una domanda abbia già chiaro come formularla, in che termini, cosa chiedere, cosa sapere, cosa volere? Deve formularla correttamente?
Maria Antonietta Viero Se c’è domanda di sostanza, già sostanza non è più, nel senso che…
R.C. Chi va dal medico chiede un farmaco per lo più, questa è domanda di sostanza, apparentemente. Quindi, chi è delegato, deputato a accogliere, a rilanciare la domanda dilagante di sostanza? A chi voi lasciato questo compito e perché? Sentiamo.
M.A.V. Chi occupa una posizione di sembiante.
R.C. Chi occupa cosa?
M.A.V. Non c’entra. Ecco.
Barbara Sanavia A ciascuno, in teoria, però, in pratica, a ciascuno che se ne renda conto.
R.C. Ah, deve rendersi conto. Ci deve essere un processo iniziatico per la resa dei conti. Ognuno si deve rendere conto perché si compia il processo dal soggetto incapace, dal soggetto che non si rende conto, al soggetto che si rende conto. Un processo di?
M.A.V. Di consapevolezza.
R.C. Ah! Di presa di coscienza! Il processo di presa di coscienza della domanda altrui, che possa essere correttamente intesa e correttamente restituita!
M.A.V. È da sottolineare il “chi”. È il chi che, come dire, sottolinea l’invito al professionista della sostanza.
R.C. A chi voi lasciate questo compito?
D.S. Dovremmo essere noi. Chi fa l’esperienza della cifrematica. Quando c’è parola con qualcuno, tu che fai quest’esperienza puoi riuscire a trasformare il suo bisogno, o a cambiare, o a fare passare di livello il bisogno di sostanza, facendolo diventare, con la parola, domanda che non abbia una risposta di sostanza, di soluzione.
R.C. E lei lo fa?
D.S. Talvolta. Sì, tante volte.
R.C. Poche volte. Quasi mai!
D.S. Quasi mai è esagerato. Perché quando c’è la libertà di parlare…
R.C. Ah, ecco, quando c’è la libertà…
D.S. Nel senso che…
R.C. E quando c’è la libertà? La libertà accordata da chi?
D.S. Dal momento, nel momento in cui si può parlare. Quando c’è lo scambio.
R.C. Ecco, solo allora.
D.S. Non è solo allora, può essere in tantissimi momenti, anche quando c’è una semplice battuta, un semplice scambio senza precedenti, diciamo così.
R.C. Sì, se capita. Se capita la fortunata circostanza.
D.S. Capita, capita spesso, basta avere voglia di parlare. Tanta gente non ce l’ha.
R.C. Allora? Abbiamo ascoltato un’ipotesi. Nessun altro ha niente da dire?
M.A.V. Dissolvere la sostanza è trovarsi in un processo verso il teorema, nel viaggio della parola verso il teorema perché possa giungere a dissolvere l’idea di sostanza. Quindi, questa sottolineatura del “chi” è l’intervento dell’Altro?
R.C. Bene. Poi? Chi ancora osa? Sì, allora?
Fabrizio Moda Beh, è attenersi alla logica della parola.
R.C. Eh? Come?
F.M. Sta nell’attenersi alla logica della parola.
R.C. Chi?
F.M. Il parlante.
R.C. Chi? E chi è? Lei conosce parlanti?
F.M. Ciascuno che parla.
R.C. Ciascuno che parla. E chi è? Dove stanno? Chi sono? Chi è costui?
F.M. Colui che si attiene alla logica della parola anziché della padronanza.
R.C. E chi è? Dove sono? Dove stanno? A chi si riferisce, di chi stiamo parlando? Lei, in particolare, di chi sta parlando?
F.M. Non si può dire nome e cognome, perché come si fa a stabilire chi si situa in una logica o in un’altra?
R.C. Come “come si fa?”. In quale logica? La domanda non è vana. Chi accoglie, chi si pone nella posizione di accogliere la domanda? Chi? Lei lo fa, per esempio?
F.M. Mah, mi sembra di non riuscirci.
R.C. Ecco, ha delle riserve, delle remore.
F.M. Sì, non remore, ma mi sembra di non riuscirci, se non per spunti qua e là, insomma.
R.C. Ecco. Quindi ci vuole chi invece?
F.M. No, però, se in qualche interlocuzione mi sembra che ci sia un effetto di valore in me e nell’interlocutore, non sempre è così. E non è che questa difficoltà la posso attribuire solo all’interlocutore. Chiaro che manca ancora non so cosa.
R.C. Ecco, c’è qualcosa che manca. Lei dice che quando questo qualcosa non mancherà più, allora… Fino a che manca, bisogna aspettare.
F.M. No, io non aspetto, ma…
R.C. Ma è cosciente, consapevole, che manca qualcosa.
F.M. Ho l’impressione che ancora in molte interlocuzioni questo accoglimento della domanda non si instaura. Non lo percepisco.
R.C. Quindi, non può. Manca qualcosa e non può. Un domani, se questo qualcosa non mancherà più, allora potrà. Non le sembra che questo sia il principio dell’attesa?
F.M. Sì, e anche tante altre cose.
R.C. Bene. Altri?
B.S. Se riesco a dire quello che penso.
R.C. Ah, lei vuole dire quello che pensa!
B.S. Sì, quello che penso di avere in mente. Poi, magari, dicendolo, non lo so cosa diventa. Comunque, mi sembra di avere capito, la domanda era: “A chi delegate la risposta di chi fa richiesta di sostanza?”. Giusto? Per cui io avevo risposto: “A ciascuno”. In primis a uno psicanalista, ma è una delega. Lo psicanalista magari ha più strumenti per rispondere a questa domanda.
R.C. Chi è “uno psicanalista”?
B.S. Mentre credo che la sua provocazione era: “Voi, a chi delegate questa risposta?”. Per cui la consapevolezza era che chi fa la richiesta della sostanza crede nella sostanza.
R.C. E allora?
B.S. Chi invece ha consapevolezza che la sostanza non è la soluzione, cioè non crede che debba trovare la soluzione, ma crede che la sostanza non risolve niente…
R.C. Ebbene?
B.S. Ha il compito d’indicare, quando si imbatte in qualcuno… A me non la viene a chiedere nessuno, io non ho la possibilità di dispensare sostanza, però, incontrando persone con le quali, parlando, cogli che fanno questa richiesta, si può indicargli un’altra via, cioè un’alternativa, mettergli il dubbio che non c’è nessuna risposta nella sostanza, che è un chiudere la domanda.
R.C. Quindi, chi? Chi può fare questa opera?
B.S. Chi ha consapevolezza che la sostanza non…
R.C. Chi ha questa consapevolezza. E chi ha questa consapevolezza?
B.C. Chi ha una formazione o chi è giunto a cogliere…
R.C. E chi è giunto a questa formazione? Chi è?
B.S. A esempio noi.
R.C. Noi chi? Chi? Lei è giunta a questa consapevolezza?
B.S. Sì, da tanto.
R.C. E cosa fa nel merito?
B.S. Collaboro con l’associazione cifrematica.
R.C. Ma, rispetto a chi chiede sostanza, lei come interviene, cosa fa?
B.S. Ho cercato di proporre, però…
R.C. Ha cercato.
B.S. Non è che conosco proprio…
R.C. Ma, è lei che deve cercare questi, oppure sono questi che casomai devono cercare lei? O come deve avvenire questo processo d’incontro?
B.S. Con le persone che conosco, che incontro o con le persone che mi stanno più vicino, soprattutto con quelli.
R.C. Ah, quindi nel cerchietto. Con un’orda sterminata di quanti chiedono sostanza, lei si rifugia nel suo circoletto?
B.S. Si fa la promozione con l’orda sterminata.
R.C. Promozione di che?
B.S. Promozione degli incontri di cifrematica.
R.C. E questo le pacifica la coscienza.
B.S. Con quelli più vicini si può parlare; con l’orda si promuove, si fa una proposta per un incontro. Con l’orda, cioè con persone sconosciute o comunque magari con persone che stanno in un ambito d’interesse per cui…
R.C. E chi non ha l’ambito d’interesse, ma chiede? Lei sa che i ragazzi nelle scuole, le persone che lavorano, le persone che non lavorano, le persone che vanno in giro, che fanno mille cose o una cosa, magari hanno quest’idea di avere bisogno di qualcosa, perché gli manca qualcosa e hanno bisogno di una sostanza perché quella mancanza sia colmata? E chi parla con costoro? Chi può parlare? Chi?
B.S. Chi? Chi non crede nell’uso della sostanza, cioè noi.
R.C. Ah, siamo sempre qui. Lei può fare solo nel circoletto! Perché può fare solo nel circoletto?
B.S. No, ho detto che nel circoletto è più facile, c’è più occasione di parlare. Nell’orda di tutti questi che ha nominato si fa promozione.
R.C. Promozione. Ma se lei non parla con nessuno, che promozione fa?
B.S. Quando è capitato ho parlato, quando è capitato di fare promozione ho parlato. Con le persone che mi stanno più vicino ho parlato e qualcosa è avvenuto, qualcosa no.
R.C. Ha parlato, e di cosa ha parlato? Lei ha tentato di convincerli, vuole dire. Ma se c’è chi ha un’esigenza, con chi parla? E come assolve quest’esigenza? Da chi deve andare, a chi deve rivolgersi?
B.S. Si spera per lui che abbia l’occasione di sentire un’idea diversa.
R.C. Ah, speriamo bene, ecco. Speriamo che incontri la persona giusta!
B.S. No, che incontri in qualche modo la cifrematica. Per esempio, con questi strumenti informatici, qualcosa magari nel web…
R.C. Speriamo che accada questo. Ma perché questo accada, lei che contributo dà? In che modo lei si pone come dispositivo d’ascolto, di accoglienza della domanda anche se di sostanza?
B.S. Per esempio, con quello che stiamo facendo, pensando e attuando, vari modi che non sono solo pensati, sono stati attuati, e questo è un modo.
R.C. Ma come può fare una persona che crede di avere un’esigenza di sostanza, un’esigenza sostanziale, a capire che con lei potrebbe parlare? Come fa?
B.S. Per esempio, vedendo che…
R.C. Vedendo cosa? La televisione?
B.S. No, sapendo che m’interesso di questo.
R.C. E come fa a saperlo? Come viene a saperlo? Per Internet, dalla televisione, dai giornali?
B.S. Dal web o per conoscenza, restando nella “cerchia”. O mi conosce o vede quello che pubblico, quello che condivido. Siccome non è una cosa ogni tanto, ma una cosa che si ripete, vuole dire che…
R.C. Per conoscenza. Deve essere proprio un cugino, alla più lontana un cugino. La prendiamo molto alla lontana. Molto alla lontana!
B.S. Però in questo modo, leggendo qualcosa, potrebbe farmi delle domande.
R.C. Ah, ecco, dovrebbe interrogarla.
B.S. Chi mi conosce.
R.C. Ecco, chi la conosce.
B.S. Chi non mi conosce potrebbe anche contattarmi via web, per esempio.
R.C. Potrebbe. Nel qual caso lei cosa fa?
B.S. Lo inviterei a partecipare alle conferenze e gli indicherei qualcosa che può leggere. Anzi, l’ho fatto, cercando di condividere delle conferenze o degli scritti. Non era partita proprio dalla persona, però nel discorso ho colto l’occasione.
R.C. Quindi lei si schiva, si scansa?
B.S. No. Mi sembra di no, però non è il mio unico pensiero.
R.C. Ecco, non è il suo unico pensiero. Quindi, il contributo alla civiltà lo lasciamo a altri.
B.S. Perché, quello che è stato fatto finora non è un contributo di promozione?
R.C. Cioè, lei ha pensato di accontentarsi molto.
B.S. No, dico che si può molto migliorare, però…
R.C. Diciamo che si accontenta, si limita.
B.S. No, aspiro a qualcosa di meglio.
R.C. Aspira! Ecco, un domani o in un’altra vita?
B.S. Andando avanti, proseguendo.
R.C. Ecco. Bene. Lei, Sturaro, ha già parlato. Ha qualcosa di decisivo da dire?
D.S. Non lo so se è decisivo, però dico che dovrebbe creare interesse o attrazione come vivi tu. Cioè, gli altri dovrebbero accorgersi che nella tua vita c’è qualcosa che sfugge, che non sta nello standard e, quindi, vedendoti per come lavori, per come fai, per come vivi, dovrebbero chiedersi come mai riesci a fare queste cose, a vivere così. Fare sorgere la curiosità per come si vive.
R.C. E se, magari, si vive in maniera riservata?
D.S. Non è possibile vivere in modo riservato, sa? No, no, no.
R.C. Lei vive in maniera pubblica?
D.S. Abbastanza, non riesco a essere riservata.
R.C. E, quindi, com’è che lei, pure non vivendo in maniera riservata, tuttavia non costituisce questo punto di provocazione?
D.S. Questo mulino che macina la farina.
R.C. Come mai?
D.S. Forse perché non sono ancora… Io, per esempio, sono molto antipatica, con chi lavora con me non riesco a essere…
R.C. Oh, Signore! Quindi c’è un vizio personale e deve aspettare la catarsi, la purificazione, dopo di che ne parleremo.
D.S. No, non sto aspettando la catarsi, però non riesco a stare zitta, capisce? Questo è il problema.
R.C. Certo, capisco. Io capisco.
D.S. E questo non sempre viene inteso come qualcosa…
M.A.V. Ci dica chi è questo “chi”. Chi è “chi”?
R.C. Vezza, lei è così cogitabondo?
Giampietro Vezza La domanda è “chi sarebbe delegato a non rispondere?”.
R.C. No, a rispondere!
G.V. A non rispondere con la sostanza.
R.C. Ah, “a non rispondere alla domanda di sostanza”! No, non era questa la domanda, bensì a accogliere la domanda di sostanza perché trovi incrinatura il luogo comune che la vita si nutra di sostanza!
G.V. La quale sostanza non è solo pane e vino, non è solo farmaco, non è solo droga, ma anche la convinzione, l’idea di sé, l’idea dell’Altro. La sostanza non è solo sostanziale.
R.C. Ecco, quindi?
G.V. Ma questo Altro che si possa accorgere che ci sia qualcosa di differente nei modi di proporre, nell’interlocuzione… Non so, a volte capita di vedere qualcosa che sfugge in qualche modo a quella che potrebbe essere una richiesta di accoglimento, di ascolto, e la difficoltà sta lì, nella prosecuzione, quasi a giustificare che ci sia un accomodamento nello stare nel luogo comune.
R.C. E quindi?
G.V. Quindi non saprei rispondere precisamente. Questo “chi” non è sicuramente un qualcosa di transitivo o un qualcosa di personale. È qualcosa che si instaura.
R.C. Si instaura dove? Che cos’è? Un ente metafisico? Si instaura dove? Che cos’è? Uno spirito? È un’entità soprannaturale? Sotto naturale? Non è soprannaturale, è sotto naturale. È un virus, un ente astratto, un robot, un alieno? Viene da un altro pianeta e capita per caso lì! È questo? Chi è, dunque? Chi può essere? Chi può essere questo interlocutore? Chi è?
G.V. Ciascuno che accolga la domanda.
R.C. Ciascuno cosa? Ciascuno quando? Cos’è questa storia del ciascuno? Qui dite ciascuno per dire tutti, “tutti quelli che”. Ciascuno non è “tutti quelli che”. Ciascuno, detto così, è un’idealità, è un ente ideale.
M.A.V. Ce lo dica, non possiamo andare via senza saperlo, ce lo dica! È lo psicanalista?
R.C. Lo psicanalista?
M.A.V. Neanche. Chi ascolta, rilancia, provoca al dire.
R.C. È un’idealizzazione. Per voi non esiste, è da prendere atto che per voi è “chissà chi”. Per voi va bene…
B.S. Che sia qualcun altro.
R.C. Che sia qualcun altro. Esatto! Preciso!
B.S. Ma io prima avevo detto noi.
R.C. Noi, per dire loro. Noi chi?
M.A.V. Stanotte non dormiremo e torneremo…
D.S. Con una risposta.
R.C. Bell’esempio di delega all’ennesima potenza. Cioè, se ne deve occupare qualcun altro! Almeno lei lo dice apertamente. Qui tutti lo pensano e nessuno lo dice.
B.S. Ho cercato di interpretare quello che stava dicendo lei, ma io non lo condivido.
R.C. Non lo condivide, però lo fa, lascia che sia qualcun altro.
B.S. A lei sembra così, però, non mi sembra proprio. Ripeto che si può migliorare di molto, ma…
R.C. A meno che non si accontenti del minimo, cosa che può accadere, no? C’è molta titubanza, quasi paura. Cosa dice lei, Ercolani?
Patrizia Ercolani Pensavo all’io, con nome e cognome: Patrizia Ercolani.
R.C. Io? Lei!
P.E. Sì, lei.
R.C. Però, lei lo fa? Fa questo lei?
P.E. No. Penso di no, perché non trovo effetti.
R.C. Non trova effetti; e lei dove vorrebbe trovare gli effetti?
P.E. Se non ho riscontro, come faccio a sapere se c’è stato accoglimento della domanda, oppure no?
R.C. Non ha riscontro. Come mai non ha riscontro?
P.E. Perché penso di non esserci riuscita o di non averci neanche provato, oppure non ho ascoltato, non ho dato modo di articolare.
R.C. Quindi, siamo lungi da porre in atto questo statuto.
P.E. Sicuro.
R.C. Siamo lungi, lungi! Ognuno coltiva un ideale, un ideale irreale grazie a cui può astenersi. Chi così facesse, chiaro, ovviamente esclusi i presenti, non terrebbe conto dell’ipotiposi, quanto, per esempio, all’idea di sé, un sé ideale, un sé pieno, un sé consapevole, un sé potente, capace.
B.S. O incapace.
R.C. Appunto. Beh, mi pare che ci sia da fare.
D.S. Io avevo una domanda da fare. La questione del tempo. Quando uno dice: “Ci devo pensare, lasciami un po’ di tempo”. Però il tempo non è quello che deve intervenire, non lo possiamo scacciare il tempo. Infatti, io sono una che non riuscirei mai a lasciare il tempo, vorrei “subito, subito!”. Invece mi sono accorta che lasciando il tempo, permettendo al tempo d’intervenire, e quindi lasciando che ci sia del respiro tra il momento in cui si chiede qualcosa e il momento in cui questa cosa si fa, è differente dal “subito, subito”. Cioè, la questione del “subito” è una questione di sofferenza.
R.C. Decisiva!
La lingua della vita
Ruggero Chinaglia La vita è originaria, è secondo la particolarità e attua il progetto e il programma di vita con il loro dispositivo. Nulla di naturalistico, di naturale, di scontato, di predestinato. Impossibile abituarsi alla vita. Pensare di abituarsi alla vita è abituarsi alla morte lenta, indica ritenere la vita un percorso verso l’estinzione. La vita, nell’accezione indicata, non è la vita biologica, che è intesa per lo più come durata, come fine, presa e misurata per la sua fine e che consente di pensare alla vita come a un’abitudine, come se fosse possibile abituarsi alla vita, di potere stabilire se viverla o non viverla, di pensare come viverla, in una sorta di sufficienza e di padronanza rispetto a un’idealità che viene chiamata vita.
La vita ricorre spesso nelle fantasie degli umani come abitudine, come la ripetizione del solito, e accade spesso di sentire parlare delle “solite cose”, dei “soliti pensieri”, del solito tran tran, della vita come monotonia. Tutto ciò è un’idealità della vita senza la parola, senza l’originario, è la vita come qualcosa che sarebbe possibile pensare, immaginare, conoscere, di cui sarebbe possibile sapere già l’andamento. È la vita senza l’ipotesi di qualità, la vita senza la memoria, senza il disturbo, senza la parola, senza la scrittura.
Nella parola la vita è impensabile, e questo perché è impossibile togliere il sembiante, togliere la provocazione singolare e triale, togliere l’operazione singolare e triale perché le cose si dicano e si facciano per la riuscita. È impossibile togliere la dimensione singolare e triale per la semovenza, l’alterità, l’acustica, l’intendimento. È impossibile togliere la funzione singolare e triale e la relazione diadica con l’apertura. È impossibile togliere il tempo. Tutto ciò indica l’impossibilità di padroneggiare la vita, di sapere cosa la vita sia, indica l’impossibilità di ridurre la vita a una cosa, di cosificare la vita, l’impossibilità stessa di nominarla, di etichettarla, di parlarne. Per quanto possa sembrare assurdo, è impossibile parlare sulla vita e della vita. Sarebbe a dire che è già vissuta, già saputa, già conosciuta, che è già finita. È impossibile la padronanza sulla vita, che non può essere ridotta a una fantasia soggettiva, a una rappresentazione dell’umano.
La vita è la parola, con la sua tolleranza, le sue virtù, le sue proprietà, le sue particolarità, la sua struttura, il suo gerundio. Avvenendo, in quanto non già avvenuta e in quanto non può ripetersi nell’identico, la vita è irrappresentabile. Come averne paura? La vita procede dalla provocazione del sembiante, provocazione all’impresa, alla ricerca e si avvale delle proprietà e delle virtù della parola. Si avvale dell’amicizia e della generosità. La generosità è una proprietà dell’intervento non rivolto al bene, ma che indica la strada della qualificazione. La provocazione è una proprietà del sembiante. Chi osa occuparne la posizione nel dispositivo di parola?
Dall’amicizia procedono tanto l’ammissione quanto il messaggio, che sono negati, per esempio, dal motto “Ognuno per sé e dio per tutti”, motto ecumenico, motto che sembrerebbe sancire l’amicizia con dio, l’amicizia con il daimon, ma in realtà è il motto che tenta di applicare il principio unificante, è il motto del menefreghismo e dell’esaltazione del principio di unità, che propugna il soggetto nel suo isolamento e la sua esaltazione nella soggettività sociale.
Come rappresentarsi come soggetto nell’idea di sé e nella rappresentazione sociale dell’Altro? Nell’idea ritenuta comune e plurale? L’idea di comune e di plurale sono una forma di negazione dell’Altro e di assimilazione alla realtà così detta sociale. È la forma più eminente e comune di abolizione dell’Altro, quando il principio di padronanza e di possessione rendono apparentemente possibile dire che “ognuno ha la sua logica”, “ognuno ha la sua vita”, “ognuno ha la sua priorità”, “ognuno ha le sue intenzioni”, “ognuno ha le sue capacità”, “ognuno ha le sue possibilità, le sue capacità, le sue opinioni, le sue pulsioni”.
L’idea di ognuno procede dal principio di unità e dal principio unificante e rende possibile l’idea di uguale e, ognuno, avvalendosi del principio di unità e del principio di uguale, rivendica la sua possibilità, le sue modalità, le sue intenzioni, le sue idee, i suoi modi, la sua logica, come un titolo di merito, rivendicando cioè un’identità. Credere nella propria logica è credere nella propria identità, un modo semplice, per quanto paradossale, di abolire la particolarità della parola.
L’idea di attribuirsi la particolarità, le proprietà, le virtù della parola è un modo di farne la caricatura, è un modo di espungerla, di propugnare la soggettività come merito e di perseguire un ideale di vita soggettivo, senza provocazione, senza la ricerca e senza l’impresa, una vita governata dal principio della padronanza, dal principio della gnosi. Ognuno sa bene come gestire la propria vita secondo la gnosi, secondo la padronanza, secondo l’idea di sufficienza che toglie il rischio, la generosità, l’amicizia, il messaggio, toglie l’azzardo a favore di un ideale di comodità, un ideale di calma, di padronanza.
Ma, la padronanza, l’idea di padronanza, di controllo, di gestione, di autonomia, è un modo per togliere la questione intellettuale e, autonomamente, ognuno sa quando e come fare, se fare o non fare, come vivere, come adattarsi, come adeguarsi perseguendo il canone del buon soggetto e, soprattutto, espungendo dalla vita la questione intellettuale. Espungere la questione intellettuale vuole dire togliere la questione ebraica come questione del nome, la questione cattolica come questione dell’intero e dell’integrazione, la questione donna come questione dell’anonimato del nome e della parola, la questione giapponese come questione del rinascimento della parola e dell’assenza di sistema.
La vita ridotta all’osso è la vita senza le questioni, senza il questionamento, senza la questione intellettuale. Una vita tranquilla, senza scosse, senza rischi, senza pericoli, senza il pericolo di fare il passo più lungo della gamba, senza il rischio di brutte figure, senza il rischio di non sapere cosa dire, senza il rischio di non sapere cosa fare. È la vita che segue il canone, che segue le indicazioni dello standard. È la vita zoologica. E, allora, tolta la questione intellettuale, tolta la questione ebraica, tolta la questione cattolica, tolta la questione donna, tolta la questione giapponese, è chiaro che ognuno accampa e introduce le proprie questioni, che giustificano e argomentano la propria soggettività. Argomentazioni e giustificazioni che esaltano i problemi personali.
Ognuno che ha le proprie questioni, ha spesso molti problemi personali, problemi che si inscrivono in una o più patologie. La patologia è quello che resta una volta tolta la parola. Il personale, la questione personale, il modo personale, l’idea personale, l’idea di sé, l’ideale personale è la negazione della questione intellettuale, ne prende il posto e propone, invece della parola, l’identità di sé a sé, la propria identità basata sull’idea di origine, sull’idea di destino, sull’idea di gruppo e sull’idea di appartenenza.
Tutto ciò segue applicando alla parola l’idea di colpa e l’idea di pena e, posta questa alternativa e alternanza tra la colpa e la pena, sorgono le cose che non si possono dire e non si possono fare, o che non si possono nemmeno pensare, in quanto contraddicono la morale sociale vigente, la morale personale vigente, la morale familiare vigente, cioè il canone perbenista e benpensante. Chi si trova ingabbiato in queste formule, in queste fantasie che sono fantasie di alternativa rispetto alla domanda, all’istanza, è legato alle prescrizioni canoniche e crede di dovere compiacere il presunto desiderio dell’Altro, di dovere favorire il presunto godimento dell’Altro, e vive nella presa e nella reciprocità presunta con gli altri. È tolto lo scambio e l’apertura, e resta il convenevole, resta la perenne contabilità della bilancia tra quel che si dà e quel che si riceve.
I problemi personali, con cui ognuno si giustifica e mantiene le riserve, le remore, i rimandi rispetto all’urgenza, sono i resti non analizzati della genealogia. I problemi personali sono il mimetismo che segue a questi resti non analizzati, mimetismo che segue alla negazione dell’integrità e dell’intero, negazione della procedura per integrazione, da cui l’adesione all’origine, alla così detta familiarità, all’appartenenza. I problemi personali risultano dalla negazione della sessualità come politica del tempo e dalla negazione del pubblico, per cui ognuno si rappresenta isolato e, si rapporta a quello standard che dovrebbe rappresentare l’appartenenza all’origine, l’appartenenza all’ambiente, al clan, alla cerchia, al gruppo di provenienza, di appartenenza, di origine. Tutto ciò nega la sessualità.
Parricidio e sessualità costituiscono il rinascimento della parola. In assenza di analisi e di rinascimento della parola, vige il realismo soggettivo e sociale e, allora, ognuno si affida al commento di sé e al commento degli altri, all’opinione che ha di sé, all’opinione che ha degli altri e all’opinione che gli altri possono avere di sé. E il rinascimento è tolto, l’industria è tolta, la struttura della parola è tolta; resta l’idea di sé come idea soggettiva, come rappresentazione soggettiva. Al posto della narrazione e del racconto vige il commento e l’etichetta, vige la preoccupazione su cosa diranno gli altri di sé. “Cosa dirà di me la gente?”, “Cosa diranno di me gli altri?”, “Cosa penseranno di me?”. Questo è l’alibi rispetto all’azzardo e al rischio, rispetto all’istanza dell’occorrenza.
Il sorgere e l’affermarsi di questa preoccupazione è indicativo della soggettività, dell’omertà, dell’incagliamento analitico. Se la preoccupazione della propria presunta immagine sociale prevarica sulla questione intellettuale, cioè se prevale il conformismo e l’adattamento al canone, se prevale il pregiudizio rispetto a ciò che si dice parlando, a ciò che si fa parlando, allora la vita diventa zoologica e ognuno sta nella sua gabbia, allo zoo, nella gabbia che lo espone al commento altrui e al commento proprio; all’idea di sé e all’idea dell’Altro senza assoluzione, auspicando invece che la soluzione possa comportare l’uscita dalla gabbia. Perché questa sarebbe la soluzione: l’uscita dalla gabbia! Senza tenere conto che la gabbia è la gabbia del pregiudizio, della soggettività, della negazione della parola, del conformismo. Vivere in gabbia, ossia vivere di pregiudizi.
E allora la questione, la domanda che può sorgere è: perché avere paura di dissipare l’ombra del conformismo, l’ombra del pregiudizio, l’ombra del canone? Perché? Per quale idea di gruppo, di aggregazione, di appartenenza, di gregarismo, di autonomia, di isolamento? A prescrivere l’intruppamento nel canone come destino è l’idea di origine e di fine, è l’idea di genealogia che chiude la domanda e rende sordi rispetto alla domanda, praticamente toglie la domanda e instaura la paura, la paura della fine, dell’apertura, del tempo e della particolarità.
La paura nega il capitale della vita, nega la qualificazione della vita, nega la chance della vita. Come può accadere che accogliere l’arte e la cultura nel dispositivo della vita possa essere considerato un pericolo o una minaccia? Questa è la presa del materiale genealogico non analizzato, che costituisce il fantasma materno come fantasma di fine e fantasma di appartenenza all’origine, che istituisce una sorta di prescrizione e di vincolo al mantenimento dell’appartenenza.
Fantasma materno, fantasma di genealogia. Come analizzare il fantasma di genealogia? Tenendo conto che non tutto il fantasmatico che concerne la famiglia volta in genealogia riguarda quel teatrino psicologistico descritto da Freud e subito entusiasticamente condiviso da psicologi, psicopompi, incestagoghi che si rappresentano la famiglia come sede della mitologia dell’incesto. La questione dell’incesto non riguarda solamente la famiglia, ma l’applicazione della genealogia alle cose che si dicono e si fanno. Tutto ciò riguarda l’applicazione del fantasma a ogni attività considerata riproduttiva, cioè a ogni attività considerata abolire l’originario. È questa la questione dell’incesto, che è stato banalizzato e semplificato in una questione di possesso e di reciprocità nell’ambito della famiglia. Dunque, che cosa è usurpato e che cosa è legittimo? Come conciliare usurpazione e legittimità? Questa è la questione in cui si dibatte il fantasma materno. Come può accadere che la lingua della vita possa essere tolta, negata, abolita, a favore della lingua comune, della lingua condivisa? La lingua della comunità è ideale, non procede dalla ricerca e l’impresa, ma le nega, mentre il gergo, la così detta lingua facile e condivisa, si presta per favorire l’idealità di appartenenza e di gruppo, l’idealità di origine comune.
A cosa appartenere se le cose si dicono e si fanno nel gerundio? Con la parola, è impossibile appartenere alla specie umana. Nel gerundio è assurda ogni idea d’iniziazione, ogni idea di graduazione, di gradualità, di padronanza del tempo per garantirsi un viaggio tranquillo, calmo, gestito senza inconvenienti, senza disturbo, un viaggio programmato, organizzato. Appartenenza e origine sono fantasie che sfociano nella funzione di uguale, funzione da cui è stato tolto il “non”, il non dell’avere e il non dell’essere, che così si biforca nell’essere e nell’avere ideali. Tolto il non dell’avere, cioè lo zero funzionale, e il non dell’essere, cioè l’uno funzionale, avere e essere diventano rappresentabili, contabili, diventano attributi soggettivi, sociali, psicologici, economici, diventano imperativi legali e morali: “devi avere”, “devi essere”, “devi avere per essere”, “devi essere per avere”, secondo algoritmi sistemici.
Ecco la programmazione della vita zoologica, ecco com’è favorita l’incultura e la povertà intellettuale, ecco come sempre più numerosa è l’adesione allo spiritualismo che dovrebbe consolare, vicariare la povertà intellettuale e che ha come contraltare il realismo. Ognuno, secondo la funzione dell’uguale, oscilla tra spiritualismo e realismo inseguendo una vita normale come vita ideale, una normalità ideale, canonica. E la normalità diventa la forma del bilanciamento tra legalità e illegalità, legittimità e illegittimità, moralità e immoralità, approvazione e riprovazione. In questo modo, ognuno misura lo sforzo sull’elogio, sull’idea di contentezza, di pienezza, di riconoscimento e si assegna l’imperativo e il giudizio, e lo rimemora: “Sii bravo”, “Sono bravo?”. “Sii brava”, “Sono brava?”, e ognuno si adegua a questa idealità del riconoscimento, dell’approvazione, del giudizio dell’Altro secondo il canone e non già secondo la riuscita, secondo il canone del riconoscimento sociale e non secondo la riuscita della domanda.
La domanda tende alla cifra, non al riconoscimento, non al canone. Esige il dispositivo cifratico, e la testimonianza avviene nel dispositivo cifratico come testimonianza di cifra, che non riguarda le lodi delle buone intenzioni, o la realizzazione dell’ottativo soggettivo, nonché del condizionale soggettivo. Ognuno si distingue nella soggettività, per sperare che le sue intenzioni si realizzino, sperando in modo condizionale, non già tenendo conto della condizione che è data dal sembiante, della provocazione, ma avvalendosi del condizionale soggettivo: vorrei, potrei, farei, riuscirei se. Se potessi, se sapessi, se avessi, se fossi. Modalità soggettive, di compromesso con la domanda, con l’occorrenza e con la tensione.
L’approdo non è la fine del viaggio e la qualità non è mai ultima. La vivenza si alimenta di qualità, la vivenza è nella vita e gli statuti della vita non sono mai quelli canonici, non sono mai quelli pensati. Gli statuti della vita sono statuti nuovi, sempre nuovi e impensabili come i modi della vivenza e della vita. Impossibile mantenere uno statuto intellettuale, si tratta di acquisirlo man mano e di acquisirne sempre di nuovi. È impossibile il mantenimento della vivenza, è impossibile fare il catalogo degli statuti, e non c’è conformazione a nessun statuto della vita. Lo statuto intellettuale è statuto che esige l’invenzione perenne, la trasformazione perenne, la tensione perenne, non il mantenimento dello status quo ante.
Vivendo, ciascuno è statuto nella parola: parlando, facendo, scrivendo, vivendo. Non una volta per tutte, ma ciascuna volta, in ciascun atto. Questa è la chance che la vita offre, ma per questo occorre inventare la lingua della vita e, dunque, per ciascuno lo statuto va dalla lingua della parola alla lingua della vita.
Ci sono domande?
Barbara Sanavia Dunque, la lingua della vita è la lingua della domanda o secondo la domanda.
R.C. È chiaro che nella lingua della vita c’è la domanda. Non è secondo la domanda, ma è la domanda che è secondo la parola, secondo la particolarità e la lingua della vita esige la domanda, altrimenti sarebbe lingua di che?
B.S. La vita esige la domanda, ma la domanda c’è. È che magari non viene ascoltata.
R.C. Facile dire che la domanda c’è.
B.S. Se la parola tende alla qualità, è per via della domanda, che non è così automatico.
R.C. Non c’è nulla di automatico.
B.S. Ossia, la domanda non viene ascoltata, non viene perseguita per aderire al canone, per la padronanza, ma la domanda è originaria, c’è, c’è sempre. C’è, solo che non viene ascoltata.
R.C. Se viene negata, è negata.
B.S. C’è, ma viene negata. C’è, per cui il disturbo…
R.C. Se è negata viene sottoposta al fantasma materno, all’idea di sé, al canone sociale, al canone dell’invidia, al principio di unità e con tutti questi pregiudizi, il dispositivo non si instaura. Non c’è comunque. La vita esige il dispositivo.
B.S. Intendevo un “c’è” diverso dal “c’è” che sta dicendo lei, nel senso che in ciascuno c’è la domanda, solo che non viene…
R.C. Ciascuno segue la domanda, ciascuno è statuto intellettuale e questo statuto intellettuale si instaura se la domanda ha il suo corso. Se la domanda non ha corso, non si instaura, resta la soggettività, resta…
B.S. Soffocata. Secondo me c’è, ma…
R.C. Resta l’appartenenza sociale, il soggetto che tende alla normalità.
B.S. Cioè, volevo dire che, se c’è un disturbo, è perché la domanda è soffocata, non viene ascoltata, non viene…
R.C. Lei sta usando un’accezione di disturbo come disturbo negativo.
B.S. No.
R.C. Lei dice che se la domanda è soffocata allora c’è il disturbo!
B.S. Il disturbo rivela…, deriva da questo trattenimento della domanda, negazione della domanda, no? Però, adesso mi viene in mente che molto spesso lei dice che il disturbo è originario e è impossibile vivere senza disturbo.
R.C. No, non è originario, è strutturale; e non è la stessa cosa. Il disturbo è strutturale, cioè è indice della strutturazione quindi…
B.S. È un segnale.
R.C. Non proprio un segnale, è…
B.S. È la domanda che preme.
R.C. È un frutto.
B.S. E contrastandola si avverte un disturbo, cioè il disturbo è il contrastare la domanda.
R.C. No! Lei sta usando una nozione di disturbo che è di natura medico-psichiatrica.
B.S. Perché?
R.C. Perché ne dà un’accezione negativa.
B.S. No.
R.C. Sì! Dice che, se la domanda è impedita, allora c’è il disturbo. No, non è così.
B.S. Avverti…
R.C. Non è così. Perché insiste? Se le dico che non è così, perché insiste? È pervicace.
B.S. Perché il disturbo è rivelatore.
R.C. Lei sta usando l’accezione di disturbo propria al discorso medico, psichiatrico, cioè come accezione negativa.
B.S. No, perché quello è da eliminare, invece secondo me no, è da capire e da segnalare.
R.C. Ecco, non è solo così, non è un segnale di un qualcosa che non va, che è impedito.
B.S. Non che non va, che è negato, che non assecondi, per cui…
R.C. Ecco, non è così. Se, però, lei vuole continuare a credere così, va bene, se lei preferisce continuare a credere così, va bene!
B.S. No, stavo continuando il ragionamento. “Non è solo così” dice, quindi è anche così?
R.C. Lei pensa di sapere quale sia il disturbo.
B.S. No, parlavo, non stavo pensando a…
R.C. Pensa di riconoscerlo, e quindi ritiene di potere imparare la segnaletica, per poi riconoscere il disturbo.
B.S. Magari non tutti, non sempre ci si rende conto, ma in alcuni casi sì, non di tutti i disturbi, ma magari se ne avvertono alcuni, di altri non ci se ne rende conto.
R.C. Il disturbo non si avverte!
B.S. Non si percepisce?
R.C. Non si avverte né si percepisce. Ha capito adesso?
B.S. No.
R.C. Né si avverte né si percepisce.
B.S. E allora?
R.C. E allora sta a lei, non vorrà che ci pensiamo sempre noi, occorre che una parte del lavoro la faccia anche lei.
B.S. Sì, non mi tiro mai indietro.
R.C. Esatto.
Stefano Fior Prima ha menzionato il sembiante. La questione sembiante, io l’ho intesa che, per quanto possa essere una cosa, qualsiasi genere di cosa che ci circonda in qualsiasi istante della vita, sia essa vivente o meno, è qualcosa che di per sé, presa a sé stante, è inerte; cioè, il sembiante – voglio intendere se ho colto il punto, perché denoto che interviene molto spesso, però faccio fatica a identificarlo, per avere maggiore chiarezza – è la rappresentazione un po’ di quella cosa.
R.C. Eh, no. Proprio no. Il sembiante è senza rappresentazione.
S.F. È immagine però.
R.C. Cioè?
S.F. È immagine. Rappresentazione è un termine che non è corretto.
R.C. Non è nemmeno immagine.
S.F. Non è immagine?
R.C. È inimmaginabile.
S.F. Sì, però è una particolare lettura, io la chiamo immagine, è una lettura che naturalmente ciascuno fa.
R.C. È condizione della lettura. Il sembiante è condizione della lettura se vogliamo considerare questo aspetto. Non c’è la lettura del sembiante, ma il sembiante è condizione della lettura.
S.F. Sì, ma non è qualcosa come l’intellettualità, il fatto di togliere il pregiudizio? Mi sollecitava il fatto della gabbia dei pregiudizi, ma il sembiante è qualcosa che ciascuno ha in qualsiasi momento della propria vita.
R.C. Nessuno ce l’ha.
S.F. Come? Però interviene.
R.C. Nessuno ce l’ha, non è una dotazione.
S.F. Il sembiante interviene nella lettura…
R.C. È condizione della lettura.
S.F. È condizione? Non è qualcosa d’innato?
R.C. No, assolutamente no! Nulla a che fare con l’innatismo. Né con il realismo.
Ne riparleremo.
Con la conferenza di questa sera concludiamo la serie Una lingua nuova. La lingua della parola e proseguiamo prossimamente, con una serie nuova.