- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LUIGI PIRANDELLO
L’AMORE E L’ODIO
- Il modo dell’amore
- L’amore libero (L’esclusa Romanzo di Luigi Pirandello)
- In materia d’amore (Gli amici del Bar Margherita Film per la regia di Pupi Avati)
- L’amore nell’educazione
- L’amore senza genealogia (L’innesto Romanzo di Luigi Pirandello)
- L’amore più ne ha, più ne dà (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
- Il figlio, la memoria, il dolore (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
- Come e perché la lettura dissipa i personaggi della fiaba e instaura il caso clinico e il caso di cifra (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
- La lettura e l’ascolto
- Il vittimismo e il fantasma di assassinio (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
- Bullismo e vittimismo (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
- L’abbandono (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
- La famiglia senza più edipismo (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
- L’ascolto
- La famiglia come traccia e la clinica (Sei personaggi in cerca d’autore Dramma di Luigi Pirandello)
Il modo dell’amore
Ruggero Chinaglia Non c’è serata migliore di questa sera di luna piena per inaugurare il laboratorio. Avendo anche la luna come ospite, cominciamo segnalando alcune pubblicazioni. È in libreria il bellissimo romanzo di Marek Halter La regina di Saba, un romanzo d’amore, d’avventura, di guerra, edito da Spirali. Un romanzo molto bello che riprende alcuni aspetti della mitica regina di Saba che incontrò re Salomone, ma che adesso non vi racconto, lasciando a ciascuno il piacere di leggere il libro.
Chi avesse già letto altri libri di Marek Halter si sarà accorto che è uno scrittore molto interessante, sia come saggista – ha scritto libri intorno alla questione ebraica, alla pace tra ebrei e palestinesi che più volte ha cercato di favorire – sia come romanziere, sia come narratore. Per esempio, Abraham è un romanzo che ha avuto successo negli anni scorsi e che narra la storia del popolo ebraico. Questo libro, La regina di Saba, è una novità editoriale.
Invece, il secondo numero della collana “La cifrematica”, intitolato L’intellettualità e il piacere, richiede una lettura un po’ più impegnativa. Verrà presentato in dettaglio giovedì prossimo, alla Sala Polivalente di Via Valeri, qui a Padova, con il dibattito intitolato, appunto, L’intellettualità e il piacere, con la partecipazione di due scrittori, Domenico Lavermicocca, giurista oltre che scrittore, e Michele Marin che è anche medico. Quindi, due angolature differenti, due contributi differenti per testimoniare la combinazione tra intellettualità e piacere.
“La cifrematica” è una collana nuova, giunta al suo sesto volume, che contiene articoli molto interessanti nel merito di queste questioni. Sono anche, ma non solo, testimonianze intorno all’esperienza della cifrematica, cioè all’esperienza della parola originaria, che è esperienza di ricerca scientifica, di clinica, di scrittura. Questo per avere ciascun giorno qualcosa da leggere, che è la cosa migliore.
Questa sera cominciamo il laboratorio della modernità. Perché laboratorio della modernità? Qualcuno se lo sarà chiesto. Perché la modernità è assolutamente essenziale. Come affrontare ciascuna cosa se non in termini di modernità? Il che non vuole dire nei termini dell’ultimo momento, dell’ultima moda, dell’ultima epoca, dell’epoca contemporanea, secondo il criterio dell’ultimo tempo, vigente nel discorso comune. Non è questa la modernità.
Chiamiamo modernità il modo che segue l’intervento del tempo, quindi il modo opportuno perché ciascuna cosa si qualifichi, per cui ciascuna cosa non è data per scontata ma interviene nella ricerca, nella scrittura, nel dispositivo in cui si tratta di cogliere qual è il modo opportuno. Questa è la modernità, che non è un’epoca contrapposta a un’altra con il criterio storicistico, per cui il moderno sarebbe contrapposto all’antico, oppure l’ultimo contrapposto al primo. Questo è il modo più comune d’intendere la modernità, cioè come l’ultimo, l’ultima epoca, l’ultima cosa, l’ultima versione dei fatti.
L’uomo moderno sarebbe l’ultimo uomo, infatti nel discorso comune, nel discorso storicistico che segue il criterio cronologico, per indicare la punta della cronologia è sorto il post-moderno. Finita la storia, finita la filosofia, finita l’arte, finita la musica, finita la pittura, finito tutto e però niente è finito, allora ecco il post-moderno. E poi cosa seguirà? Il post post-moderno, sempre all’inseguimento di quella fine che possa significare ciò che è avvenuto prima.
Noi puntiamo a un altro criterio, che non è il criterio dell’ultimo, dell’ultima cosa, il criterio della fine, ma è il criterio temporale, il criterio secondo l’occorrenza; non secondo questa o quella convenzione, secondo questa o quella morale, secondo questa o quella ideologia, ma secondo l’occorrenza. Solo così ciascuno può affrontare ciò che occorre in modo opportuno, senza seguire un’idea di fine nella sua doppia accezione, sia teleologica, secondo un fine sia secondo una fine. Perché è questo che ha regolato una certa impostazione pseudo scientifica, pseudo artistica, pseudo culturale da secoli a questa parte: l’idea di un fine prestabilito, comunemente un fine di bene, che deve presiedere e fare da timone al modo.
Però, il fine di bene è un fine immaginario. Chi può stabilire quale sia il bene? Se il criterio è religioso, allora una certa religione può stabilire che il bene è “questo”; cioè, una certa morale può stabilire il suo criterio di bene. Ma si tratta di convenzioni morali, religiose, ideologiche, superstiziose, dove il criterio non è più secondo l’occorrenza ma secondo la convenzione, secondo la prescrizione, secondo un luogo comune, secondo una credenza. Ecco, questo laboratorio si prefigge non tanto di seguire credenze, religioni, convenzioni, ideologie, superstizioni, ma di esplorare di volta in volta qual è il modo e in questo caso il modo dell’amore: l’amore e il suo modo.
Si tratta di soddisfare le esigenze e l’istanza di qualità. La curiosità è ciò che si rivolge alla qualità di ciascuna cosa, quindi esige la qualifica. La qualità non può soddisfare uno standard di genere, di modo o una sostanzialità. La curiosità è qualcosa di essenziale per ciascuno; senza la curiosità ognuno gira in tondo, resta, per così dire, al palo della tortura. Questa è la nostra offerta all’istanza di qualità di ciascuno e, nel titolo, accanto all’amore abbiamo posto la crisi. L’amore e la crisi, in una combinazione che può essere letta in tanti modi e che proviamo a precisare. Non si tratta della crisi dell’amore, ma della crisi; non l’amore e la sua crisi, ma l’amore e la crisi, l’amore e l’odio.
Il termine crisi in questo periodo è assolutamente in voga: crisi economica, crisi finanziaria, crisi dei mercati. Prima c’era la crisi dei valori, la crisi dei giovani, l’unità di crisi. Già l’unità di crisi, però, ha un’altra accezione. L’unità di crisi non è l’unità in crisi, è l’unità che viene attivata dalla crisi, cioè da qualcosa che interviene rispetto alla consuetudine e richiede un intervento straordinario per affrontarla. Quindi, l’unità di crisi è qualcosa che si avvicina all’accezione di crisi che indica, propriamente, il giudizio.
Crisis, il giudizio, la critica, quindi la valutazione, la variazione, la trasformazione. Crisi e il suo modo, crisi è ciò che è determinato dall’intervento del tempo.
Il modo più comune di utilizzare questo lessema è per indicare la crisi del sistema. C’è un sistema, qualcosa varia e il sistema va in crisi e ciò sarebbe il massimo guaio. Questa è la superstizione, perché il sistema non esiste: impossibile per la vita istituirsi in un sistema. La stessa legge della termodinamica lo asserisce. La seconda legge della termodinamica, o legge della degradazione dell’energia, dice che un sistema tende all’equilibrio, e quando l’equilibrio è raggiunto è la fine, il sistema muore; a entropia zero, sviluppo zero. Quindi, l’idea che un sistema possa istituirsi senza crisi è in realtà un’idea di morte, è un fantasma di morte.
La questione vitale sta nella crisi, la vita esige la crisi, esige cioè che ciascun atto sia attraversato dal tempo, per cui la stessa lettura, la stessa interpretazione, la valutazione di come fare di volta in volta è un atto critico, è un atto di crisi. Non necessariamente l’atto di crisi deve “mettere in crisi” nell’accezione negativa del termine, come se fosse un guaio, come se fosse qualcosa di negativo, perché la crisi è originaria. La crisi è costitutiva di ciascun atto. E siccome “atto” altro non è che la traduzione che Cicerone ha operato di ciò che Aristotele chiamava ἐνέργεια, enérgheia, allora voi capite che la stessa idea di crisi energetica è quanto meno curiosa.
La fine dell’energia è stato il fantasma che ha attraversato ogni epoca: la fine del combustibile, la fine dell’energia, la fine. È il fantasma che più frequentemente agisce per contenere gli umani in quella che viene ritenuta la loro prigione. Il mondo come prigione c’è solamente a condizione di credere nella fine, nella crisi come fine, nell’evitamento della crisi, nell’evitamento dello sforzo intellettuale che è necessario per affrontare ciascuna cosa, ciascuna occorrenza. Quindi, l’amore e la crisi.
Il cammino che ci accingiamo a fare è l’esplorazione di ciò che comunemente è chiamato amore e che ognuno crede di sapere cosa sia. Però non è proprio così, per cui si tratta d’indagare, di capire cosa sia o, meglio, come sia il suo modo. Perché chiedere cosa sia è già farne una sostanza, è già volgere l’indagine in termini filosofici. Il modo canonico dell’indagine filosofica risponde alla domanda ti estì? Che cos’è? Che cos’è questo? Questo è quello. Allora si crea una sostantificazione, una banalizzazione, una generalizzazione.
L’indagine analitica, clinica, intellettuale prova che è impossibile rispondere alla domanda ti estì? se non in modo filosofico, religioso, superstizioso, perché la questione della scienza, contrariamente a quanto è asserito disciplinarmente, non è quella di sapere le cose, ma quella del conto e del calcolo. Di cogliere il “come”, quindi di ragionare.
La scienza consente e esige il ragionamento, esige di capire come fare; anche cosa fare, ma sopra tutto come fare, non già di sapere. Chi presume di sapere sbaglia sicuramente. Non che sia un male sbagliare, anzi, non si può che sbagliare, ma c’è sbaglio e sbaglio. Affidarsi al sapere evita di considerare lo specifico che sta dinanzi. Capendo e cogliendo la sfumatura, la particolarità del caso, allora può seguire il dispositivo che è indispensabile al caso stesso e che non è già previsto dal sapere che si presume di avere.
È importante non affidarsi al sapere, che è sempre un ricordo del passato, un abbaglio, invece è importante capire. E capire esige l’analisi, non la sintesi. Capire è senza la sintesi. E anche per indagare sulla questione dell’amore importa il modo scientifico, che non è il metodo scientifico sperimentale, è il modo scientifico, il modo che procede dalla schisi, cioè il modo del tempo.
Dicevo prima dell’istanza di qualità. Soddisfarla non è la cosa più facile, apparentemente non è nemmeno comune, ma occorre dire che si tratta di cogliere l’istanza anche dove può sembrare che non ci sia. L’epoca, per esempio l’epoca televisiva, l’epoca mediatica, l’epoca delle risposte per tutti, contrasta con l’istanza di qualità. Ogni generalizzazione contravviene a questa istanza. Quando noi sentiamo dire “questa cosa è per tutti, tutti devono fare così”, attenzione: tutti chi? Tutti gli uomini? Tutte le donne? “Questa è un’esigenza di tutti”. È facile dire “tutti”, ma tutti nega propriamente il ciascuno, la singolarità e la specificità. E si tratta di andare proprio nella direzione della singolarità e della specificità; cosa non facile dato il prevalere della tendenza di andare verso la magia e l’ipnosi e il loro dilagare. La magia, ovvero la credenza di potere controllare e padroneggiare l’oggetto; l’ipnosi, ovvero la credenza di potere padroneggiare il cervello, abolita la parola. Senza più la parola tutti pensano la stessa cosa. Ma, “tutti” chi?
Oggi mi trovavo negli studi di una televisione e, mentre aspettavo che la giornalista si liberasse da un impegno, mi hanno fatto accomodare in un salottino dove c’era un televisore acceso che stava trasmettendo quello che era in onda in quel momento: si trattava di un cartomante, il quale riceveva delle telefonate e rispondeva, mescolava le carte e rispondeva. Stante ogni considerazione sulle domande e sulle risposte che questo cartomante dava a chi lo interpellava, la questione che mi si è posta era che cosa chiedesse ognuno che telefonava a questa persona. C’era chi chiedeva se avrebbe avuto la pensione, se il tizio che stava corteggiando sarebbe poi capitolato. E costui rispondeva “che bisognava avere pazienza, che non è così facile, però, vedrà, che poi sicuramente…”. Però, non si può fare un torto così smaccato all’intelligenza, se pure di tutti e non di ciascuno, per non capire che la domanda non verteva su ciò che sembrava porsi come tale. Quindi, che cosa chiedevano queste persone?
Mi è parso chiaro che ognuno di loro chiedesse un segno d’amore, un segno dell’amore di Dio, un segno che ognuno poteva essere scelto per la benevolenza di Dio. E le carte indicavano che sì, il suo desiderio sarebbe stato soddisfatto, che Dio era favorevole, che il destino era favorevole, che l’idolo, con cui ognuno si rappresenta Dio, era favorevole, lo amava. Ognuno chiedeva un segno d’amore e di benevolenza, che confermasse che era il prescelto da Dio o dall’idolo.
Quindi, tra le varie cose che in questo cammino ci aspettano, noi andremo a considerare anche l’amore di Dio o l’amore per Dio. Questa è una delle cose che saranno da indagare, perché oltre a indicare la complessità della questione, ciò indica qualcosa che è strutturale alla domanda, come domanda d’amore, ma che non può avere la risposta nei termini sostanziali o nei termini dell’alternativa fra il sì e il no.
La questione dell’amore è molto complessa e non si può ridurre all’ambito del sentimento, o dell’inclinazione, o dell’istinto. È una questione intellettuale molto complessa. Noi abbiamo indicato, nel nostro manifesto, una trentina di combinazioni dell’amore, con cui viene spesso definito: amore materno, amore del padre, amore sessuale, amore come ricerca, amore coniugale, amore erotico, ma giusto per indicare una complessità, per indicare come nei secoli e nei millenni, si è tentato di dare una risposta “per tutti” rispetto alla questione che l’amore pone.
L’amore è spesso indicato come ciò che dovrebbe consentire l’amicizia, la compagnia, l’unione, addirittura la fusione. Il vero amore è quello che consente la fusione, l’unione fra tizio e caia, tra caia e sempronio, cioè l’amore il cui fine sarebbe già dato, l’amore procreativo, l’amore erotico, l’amore per i soldi, l’amore per il lavoro, l’amore per la morte, l’amore “per”, l’amore “di”, il tutto condito da una sorta di reciprocità che dovrebbe garantire che quello è l’amore giusto; questa è una banalizzazione.
L’amore materno, l’amore filiale, l’amore coniugale, l’amore omosessuale, l’amore eterosessuale. Quanti amori ci sono? E se ne trascuriamo qualcuno? Non sia mai! L’idea di potere fare il catalogo degli amori è curiosa, però relativamente, nel senso che è stato il miraggio di ogni sistematica riuscire a fare il catalogo che contenga tutto ciò che serve, tutto ciò che deve soddisfare la curiosità. Il catalogo delle risposte per soddisfare tutte le domande, il catalogo previsto dalla conoscenza.
Ma è proprio qui che la conoscenza mostra la corda. Impossibile conoscere, se il tempo interviene e fa sì che ciascuna domanda sia specifica. Ciascuna domanda non rientra nel catalogo, non è assimilabile a un’altra e dunque occorre capire, ascoltare, intendere.
A indicare la complessità dell’amore basterebbe rilevare che per gli antichi non c’era un solo termine che qualificasse l’amore, ce n’era più d’uno. C’era filìa, che indicava l’amicizia, l’ospitalità; c’era agape, l’amore fraterno, l’amore filiale, l’amore disinteressato, anche il banchetto dell’ospitalità; poi c’era eros, l’amore sensuale, l’amore passionale, l’amore reciproco, l’amore erotico, l’eros, tanto più enigmatico di quanto si potrebbe pensare, tant’è vero che Eros, il dio dell’amore, non aveva un’origine ben nota, ben chiara e infatti era temuto da tutti gli altri dei perché la sua potenza era irrefrenabile e nessuno poteva ritenersi al riparo. Poi, erotismo è diventato l’amore che finisce, l’amore erotico, l’amore a termine. E, quindi, qual è l’amore per sempre? L’amore infinito? È l’amore senza l’idea di durata! Ma chi può dire di essere scevro dall’idea di durata, che è poi l’idea di fine?
La mitologia dell’amore che si è avviata con Platone – o meglio, con ciò che Platone fa dire a Socrate – indicherebbe il volere il bene, il possedere il bene, il tendere al bene. Quindi nell’amore ci sarebbe un fine di bene, una fine di bene: l’amore finisce nel bene e quindi finisce male. Finisce! Questa è l’idea platonica dell’amore, ossia che finisce. Allora ognuno cerca il suo rimedio alla fine dell’amore, per cui sorgono le varie prescrizioni, come l’amore paritetico, l’amore reciproco, l’amore che deve essere significato dalla prova d’amore, che è l’amore come ricatto. L’amore che debba essere significato dalla prova d’amore è esattamente il ricatto. “Provami il tuo amore!”. Forma preminente di ricatto che si formula come il culmine dell’amore: “Dimostrami che mi ami!”.
Freud ha introdotto qualcosa di nuovo al proposito, indicando che non si tratta della prova d’amore ma della dichiarazione. L’ha chiamato amore di transfert, l’amore che si dice nella parola, l’amore che risente della struttura della parola, l’amore che esige la sua sintassi, la sua frastica e che non può essere significato da nessuna prova, da nessun segno.
Ma l’idea di un amore che debba essere provato, garantito, certificato viene dalla sua animalizzazione, dall’idea che l’amore è ciò che lega, vincola, relaziona, unisce due esponenti dello stesso genere, cioè l’idea che l’amore sia umano, sia una caratteristica umana, una caratteristica degli esseri umani. Cioè che l’amore sia antropomorfo come la sua versione divina, l’amore di Dio, l’amore per Dio. Questo Dio che ama, questo Dio che dovrebbe amare, chi è? Dove sta? Come può Dio amare? E chi è quel Dio che ognuno può asserire di amare? Come? Quando?
Queste sono le questioni che l’amore evoca, le questioni che occorre attraversare, affrontare, per capire di cosa si tratta in ciò che viene chiamato facilmente amore, ma di cui spesso non è chiaro di cosa si tratti, talvolta addirittura confondendolo con la sessualità, come se l’amore fosse sovrapponibile alla sessualità. Come si distingue? Perché, certamente, non sono sovrapponibili.
Questo è un po’ il nostro programma, il nostro itinerario, queste sono alcune delle questioni che affronteremo, come anche l’idea che l’amore sia una tecnica, un’arte amatoria, un’arte da apprendere, un’arte da imparare, un’arte da padroneggiare. La stessa idea dell’oggetto d’amore è da chiarire. Qual è l’oggetto dell’amore? C’è chi pensa che il partner sia l’oggetto dell’amore. E questo sarebbe un guaio per chi lo pensasse perché, se l’amore coglie il suo oggetto, finisce!
L’amore esige l’astrazione. Qual è il mito dell’amore? Qual è il proverbio dell’amore? Qual è la struttura dell’amore? Qual è la particolarità? In nome dell’amore spesso accadono guerre, massacri, pulizie etniche. L’amore è senza fatalismo, senza naturalismo, senza predestinazione.
Nell’Amore e la crisi si tratta di questo. È l’esplorazione che si tratta di compiere per capire qualcosa di più, per capire come mai sono sorte specializzazioni che vorrebbero individuare i disturbi dell’amore e il modo corretto dell’amore. Resta la domanda: da dove viene l’amore?
C’è qualcuno che osi formulare qualche domanda, qualche risposta, qualche precisazione, qualche attesa rispetto alla questione, in modo da riprendere, mano a mano, le varie sfaccettature, angolature, sezioni?
Cecilia Maurantonio È proprio da dove viene, perché…
R.C. Lei vuole già rispondere da dove viene?
C.M. No. La domanda affiancava un’altra domanda, e cioè se l’amore è un’istanza, una necessità. Si avverte come mancanza e quindi si desidera.
R.C. Si avverte come mancanza?
C.M. Per esempio.
R.C. Chi lo avverte come mancanza?
C.M. Penso sia uno dei modi, non so. Anche questa sarà un’emulazione. Anche tra i giovanissimi, non tanto avere qualcuno per dire “questo è il mio ragazzo”, “questa è la mia fidanzata”, ma proprio perché diventa un segno, quindi può essere sia una mancanza di questo segno, sia una mancanza effettiva. Da dove viene?
E poi, questa è una mia idea, mi pare che l’amore non si possa quantificare. Quindi, la domanda è: c’è una misura nell’amore? Perché quantificandolo s’incorre in quello che poi diviene il ricatto o il confronto: “Io ti ho dato tanto”.
R.C. Esatto. È l’amore materno per eccellenza: “Io ti ho dato la vita!”, il merito supremo, il ricatto supremo, l’amore supremo. Perché qui si pone la metafora del dare, l’amore che dà. Ma che cosa dà? L’amore, che cosa dà per potere dire: “Io ti ho dato tanto”? Come può qualcuno asserire: “Io ti ho dato tanto”? Che cosa ha dato? Che cosa, qual è il dare che interviene nell’amore? In questo caso l’amore sarebbe la situazione di debito massimo, dove o c’è la parità o c’è il debito, quindi la rivendicazione, il ricatto. Cave amorem in questo caso! Come cave canem, una cosa da temere. Allora, in che termini interviene lo scambio nell’amore?
Pubblico Io l’amore lo intendo nel dare, un dare disinteressato; se ricevo, tanto meglio, altrimenti io nel momento in cui do, ricevo lo stesso, perché sento di fare una cosa buona. Può essere anche una risposta a quello che è un senso. Chi è che ci ha dato l’amore? Secondo me c’è una cosa che abbiamo dentro di noi, un bisogno intimo, più del mangiare, più di qualsiasi bisogno primordiale, fare del bene. E, infatti, a me succede quando faccio del bene, magari molte volte anche in forma egoistica, mi sento bene, perché sembra che stia facendo qualcosa per cui sono nato.
R.C. Quindi lei è predestinato all’amore?
Pubblico No, credo tutti quanti. Secondo me, se noi facciamo qualcosa contro l’amore poi ce lo risentiamo contro, almeno io credo.
R.C. Quindi è una dotazione naturale.
Pubblico Secondo me, sì.
R.C. E quindi è per tutti.
Pubblico Sì. Poi sta a noi cercare di coltivarlo e astrarlo da quelli che sono gli interessi materiali.
R.C. Allora c’è bisogno di astrarre?
Pubblico Beh, sì.
R.C. Allora non è qualcosa di naturale.
Pubblico Vabbè, diciamo naturale. Io credo che sia il modo di fare per esempio di un bambino che, il più delle volte, non ha un interesse, lo fa proprio in maniera disinteressata. Poi, quando una persona cresce c’è l’interesse economico, c’è l’interesse di amare una persona perché vuole entrare in una cerchia di relazioni, questo…
R.C. Già quello non è più amore, esatto. È chiaro che bisogna distinguere e qualificare. L’amore, però, come può avvenire senza scambio?
Pubblico Lo scambio dev’essere una conseguenza non calcolata, una cosa che non deve esserci per forza. Questo è intanto l’amore: un bene disinteressato. Lo scambio dev’essere nell’attivare un altro bene disinteressato, ma non per forza e non nella stessa misura. Può essere di diversa natura, diversa forma, maggiore o minore.
R.C. E chi stabilisce se è interessato o no?
Pubblico Beh, interessato… Se quella persona mi dà un certo tipo di relazione, se fa quello che io mi aspetto, allora io la continuo a amare, se invece non si muove secondo quello che io mi aspetto, allora io terminerò di amarla.
R.C. Quindi, è un amore interessato il suo.
Pubblico Interessato vuole dire che mi viene qualcosa in tasca, che può essere sia una relazione o tutto quanto. L’amore disinteressato è dire: “Io cerco di capire questa persona, starci vicino, dopo vediamo che succede”, non è detto che… E la stimo comunque.
R.C. Però, questo avverrebbe se lei avesse la completa padronanza e il pieno controllo di ciò che si scambia. Può accadere, tuttavia, che lei dia qualcosa senza rendersene conto, e può accadere che lei riceva qualcosa senza capire esattamente cosa sia e quindi fuori dal criterio dell’interesse, del tornaconto, della quantificazione. Quando dico scambio è sopra tutto questo, che non è lo scambio calcolato.
Pubblico Scambio inconscio, quindi.
R.C. Se vogliamo usare questo termine, sì, lo scambio inconscio. Uno scambio non sostanzializzabile, non immediatamente quantificabile o classificabile e che pure interviene, e che, però, forse è ancora più importante di quello di cui possiamo avere immediatamente coscienza; in questo senso dico scambio, di cui non possiamo preventivamente o anche successivamente dire se sia legato al bene o no, dato che non sappiamo prima di cosa è fatto. Per questo dico che la stessa idea di bene, usata per qualificare i termini dell’amore e dello scambio è in realtà fantastica, quanto meno aleatoria. C’è un’impostazione che spinge nella direzione di dire che bisogna scambiare ciò che è buono. Ma il fatto è che noi non sappiamo nemmeno che cosa ci scambiamo!
Questo è da indagare: come l’amore abbia a che fare con lo scambio, che c’è, ma che noi non sappiamo come avvenga e di cosa è fatto. Chiamiamolo, per il momento come lei suggeriva, lo scambio inconscio. Perché mi pare una formula aperta anche se non ancora precisa, aperta a possibili qualificazioni, a ulteriori precisazioni.
Mi pare molto interessante questo che lei dice. È chiaro che il termine scambio può avere varie accezioni, economico, finanziario, sostanzialistico, ma può averne anche altre, cioè molto più aperte, che vanno oltre.
Pubblico Oltre la materializzazione.
R.C. Esatto. Oltre la materializzazione. Prego, vuole aggiungere qualcosa?
Pubblico L’incomprensione dell’amore. A mio avviso è un travisamento che chi più dà è creditore. Invece, io penso il contrario, cioè, chi più dà non solo non è creditore, ma è ancora debitore perché il piacere di dare è grande. Uno che riceve amore, chi è innamorato dà, e dà con il sentimento, con l’animo, con tutte queste cose senza fare considerazioni di carattere economico o altro. Per me il piacere di dare è appagante, e cioè chi dà non è che dica “Io sono in credito”, è un assurdo.
R.C. Quindi lei lo fa per piacere, non per amore.
Pubblico Sì.
R.C. È un’altra cosa.
Pubblico Il discorso è che io sono stato innamorato tante volte nella mia lunga vita. Ho perso la testa per tantissime.
R.C. Dunque, ha perso la testa.
Pubblico Però, io ero fortunato, nel senso, a prescindere da quello che ricevevo dall’altra, per me era un momento infinito di esaltazione, di gioia, di felicità, e non mi ponevo tanto il problema se lei veramente corrispondeva. Fondamentalmente, m’interessava poco questa cosa, anche perché, nella maniera in cui mi innamoravo mi disinnamoravo velocemente, per cui…
R.C. Ah!
Pubblico Sì, perché sono infedele per natura, per cui accetto questa situazione e non ho sensi di colpa, insomma. Però, secondo me, il dare dell’amore è un vantaggio. Uno che dà, è sempre debitore; è un paradosso, probabilmente.
R.C. No, non è affatto paradossale, anzi, è conseguente. Se si tratta di uno scambio sostanziale, se si tratta di un così detto scambio economico, è chiaro che questo scambio è governato dal debito, e chi dà, dà perché è debitore. La questione sarebbe più interessante se intervenisse un dare senza debito e senza credito. Uno scambio al di là di un’algebra dello scambio, senza l’algebra.
Pubblico Sì, difatti io non mi sono mai posto il problema di ricevere. Io davo perché mi piaceva dare, poi pazienza.
R.C. Però, vede, è già uno scambio finalizzato al piacere.
Pubblico Il desiderio fa parte della vita.
R.C. Quindi lei ha introdotto due altri elementi nuovi che bisognerà considerare, l’innamoramento e il dare. Il dare per piacere, differentemente dal dare per amore.
Pubblico Ma sa, il confine tra… La spiegazione dell’amore è un po’ complicata, ce l’ha detto lei, non è che sia così semplice definire l’amore, e quindi è tutto un discorso aperto.
R.C. E quindi è da considerare se l’amore debba essere finalizzato al piacere. Finora io non l’avevo detto.
Pubblico Secondo quanto ha detto il signore qui davanti, l’amore è un dare per piacere, per la finalità del piacere, almeno da come ha esposto l’argomento o da come lo vive. Però, secondo me, ognuno ha la sua visione e comunque bisognerebbe distinguere l’amore rivolto a cosa,
perché, se lui si riferisce alla coppia, alla persona… Però, stasera mi pare che si parli di amore in senso generale. Potrebbe anche essere amore per la patria, per i cani, per gli animali; è sempre una forma d’amore per me, o no? Io dicevo che l’amore può esserci per stare bene, per un fine di bene, cioè che un sentimento che nasce è sempre, come diceva qualcuno prima, uno scambio inconscio. Potrebbe nascere amore anche guardando un albero, voglio dire.
R.C. Sarebbe l’amore platonico.
Pubblico Ma non stiamo parlando di vari amori, stasera?
R.C. No. Stiamo parlando per capire se si tratta di tanti amori, e quindi con caratteristiche e strutture differenti, o se la particolarità e la struttura dell’amore sia una e poi esistano tante fantasie in merito. Anche questo è da considerare.
Pubblico C’è di tutto e di più, penso. Guardando il mondo e anche l’arte e i libri di chi scrive…
R.C. Perché Platone era preoccupato da una certa visione del mondo. Era, diciamo così, orientato a finalizzare l’amore al bene; al bello e al bene. Però non siamo tenuti…
Pubblico Tutti a seguire la sua filosofia.
R.C. Esatto. È un ottimo motivo per indagarla, non per seguirla.
Pubblico Poi c’è chi vive l’amore geloso, allora uccide il partner. È un fin di bene che io non capisco, ma c’è anche quello.
R.C. Non è detto che sia un fine di bene.
Pubblico Un fine sì, per chi a cui tocca.
R.C. Certamente, per un certo modo di credere.
Pubblico Credere in quella visione dell’amore. In quel senso lì, siamo un oggetto.
R.C. Quante volte nei giornali viene titolato Delitto d’amore, Delitto passionale, Amante lasciato uccide per amore. “Uccidere per amore” mi sembra un ottimo materiale da indagare!
Pubblico Eh sì, se parliamo d’amore e di crisi.
R.C. Si tratta di capire se questo sbocco violento sia dovuto all’amore o alla crisi. Tutto ciò sembra cosa di adesso, di questi ultimi anni, invece è una cosa antica. Allora, occorre considerare l’amore e le reazioni all’amore. Questo è molto interessante.
Simone Barison E a proposito dell’abbinamento che leggo nel manifesto, amore e sesso, mi chiedevo perché nell’amore sponsale o da fidanzati, sia prevista o consigliata la fedeltà sessuale.
R.C. Consigliata da chi?
S.B. Dai preti o dal luogo comune. Fortemente voluta o data per scontata tra marito e moglie. È prevista anche dal Codice civile; quindi prevista oltre che dai preti anche dallo stato. È una questione seria, insomma.
R.C. L’adulterio come reato.
S.B. Io mi chiedo che cosa abbia a che fare il sesso, la prescrizione alla fedeltà sessuale, con un rapporto sponsale, con il così detto amore tra uomo e donna. Mi chiedo se non sia una furbizia sociale, nel senso che così è più facile mantenere l’ordine; per questo, probabilmente. Tuttavia, l’esclusività sessuale, chiamiamola così adesso perché non so precisarla meglio, sembra che per alcuni sia molto semplice. Statisticamente, forse per le donne è più facile mantenere una fedeltà sessuale, mentre per l’uomo diventa una cosa molto complicata. È più il gioco o la tentazione sessuale, o se non vogliamo divederla fra uomo e donna, per alcuni è così, per altri è cosà. Insomma, volevo indagare l’accostamento tra amore, sesso, fedeltà, esclusività.
R.C. Adesso lei introduce un altro termine, l’esclusività, quindi l’esclusione.
S.B. E la variazione, l’esigenza della variazione.
R.C. Esatto.
Pubblico Scusi se la precedo, le donne a chi si dovrebbero convertire? I maschi si dovrebbero convertire all’Islam; e le donne invece?
R.C. Non è una questione religiosa. Qui veniva posta una questione differente, non religiosa, per nulla religiosa. Cioè, che un fantasma venga codificato e legalizzato non è che dissipi la struttura fantasmatica, lo conferma, lo legalizza, lo autorizza, ma in termini clinici non dissipa la struttura fantasmatica, non è su questo che indaghiamo. Ci interessa capire, non prescrivere né rimediare, perché la questione è clinica.
Lucio Panizzo Spesso, la questione dell’amore è connessa a una richiesta, cioè a una domanda. Allora, la domanda d’amore a chi è rivolta? A un uomo? È rivolta a una donna? È rivolta a chi? E, quindi, il significante amore è connesso alla domanda. Allora, la domanda d’amore, la questione della domanda, a chi si rivolge? Si rivolge a un ascolto, a una provocazione?
Ci si innamora di una provocazione, di un qualcosa che non è sostanziale, soggettivo, ma che concerne la struttura della parola, quindi per un equivoco, per una provocazione. Ecco, allora io mi chiedo se la questione dell’amore sia direttamente connessa alla questione della domanda, e dove punta questa domanda che non è soggettiva.
R.C. Bene. Altri? Altre note?
Manuela Macario Una brevissima domanda. Cosa ha a che vedere l’amore con il matrimonio?
R.C. Ha un’ipotesi? Qual è la sua ipotesi?
M.M. La mia ipotesi è che sono due cose distinte. L’amore mi dà l’idea di essere come uno statuto, ma anche il matrimonio. Secondo me, non c’è un legame così stretto come si crede. C’è matrimonio perché c’è amore tra un uomo e una donna?
R.C. Lei dice: “Si sono sposati per amore”?
M.M. Esatto.
R.C. Contrariamente a altri che si sono sposati per interesse, per necessità.
Pubblico Per età.
R.C. Si sono sposati per età. Ci sono vari motivi. Lei dice che ci sono vari motivi, non è consequenziale.
M.M. Non voglio dire che ci può essere matrimonio senza amore, la mia domanda è un’altra. Ci può essere amore senza matrimonio? Come fare perché il matrimonio funzioni? Non è l’amore comune che lo fa funzionare, né l’esclusione di altri amori riallacciandomi al discorso che qualcuno aveva fatto prima.
R.C. Già lei è passata al plurale dell’amore.
M.M. Sì, perché abbiamo fatto un elenco di amori questa sera.
R.C. C’era una canzone che parlava di altri amori.
M.M. Pausini.
R.C. Pausini, dice la nostra esperta.
Pubblico Strani amori.
R.C. Mentre un altro diceva che non c’è sesso senza amore, no?
Pubblico Venditti.
R.C. Quindi, altri amori pure nel matrimonio.
M.M. Non parlo solo di amori nel senso di desiderio per altre persone che non sia il coniuge, non in quel senso.
R.C. Questo è differente dalla domanda precedente, non riguarda la fedeltà sessuale.
M.M. Il sesso è un’altra cosa. Quella domanda anch’io me la pongo, però questa è un’altra.
R.C. Che riguarda altri amori nel matrimonio.
M.M. No. Mi ponevo una domanda intorno alla questione matrimonio e che cosa abbia a che fare l’amore col matrimonio.
R.C. Quale amore nel matrimonio?
M.M. Sì.
Pubblico Il matrimonio è la tomba dell’amore.
R.C. Dicono così?
Pubblico Io sono più di quarant’anni che sono felicemente sposato.
R.C. Quindi era una battuta. Una battutaccia!
Pubblico Sarebbe interessante potere capire perché i giovani di adesso, anche i meno giovani, si mettono insieme ma non si sposano. Sì, certo, è una questione di probabilità, se va bene ci sposiamo, oppure continuiamo a stare assieme, se va male ci dividiamo. Ma perché succede questo? È solo una questione di comodità, una questione di facilità per sciogliere il rapporto, oppure c’è qualcos’altro che spinge i giovani a non legalizzare? Ai miei tempi, quand’ero giovane, tutti quanti si sposavano. Anzi, se una coppia si fosse messa insieme senza sposarsi sarebbe stato quasi uno scandalo, era qualcosa di diverso.
Pubblico Non potrebbe essere la difficoltà d’amare a impedire ai ragazzi di sposarsi?
R.C. Quindi, lei sposa la tesi del nostro amico.
Pubblico Nel senso che non parlavo più dell’amore come la prigionia dell’amore, in quei casi…
R.C. Adesso è intervenuto uno slittamento dall’amore alla sessualità.
Pubblico No, intendo dire la libertà d’amare, l’amore libero che i giovani identificano secondo un’altra visione, non platonica. Non saprei descrivere l’idea della prigionia, non le so dire una persona di riferimento; forse Otello? Però, adesso si segue un po’ quest’ondata di libertà, e quindi le chiedo se l’amore è libertà d’amare e non una cosa obbligata, una specie di scambio di sentimenti obbligati verso un’altra persona. Se c’è veramente amore non c’è bisogno per forza del matrimonio, di una cosa che sembra una forzatura, nel senso che l’amore deve arrivare al matrimonio. In questo modo c’è la coppia che si frequenta per un periodo di tempo e, per forza, in un altro periodo di tempo deve arrivare al matrimonio, perché altrimenti l’amore finisce; questo però solo nell’idealismo, nel concetto.
R.C. La questione è importantissima. Come lei nota, non c’è consequenzialità tra amore e matrimonio. Non è che uno sia la conseguenza dell’altro, lo sbocco uno nell’altro, però ciò può intervenire come fantasia come lei diceva, e cioè che l’amore debba sfociare nel matrimonio.
Pubblico Visto che hanno chiamato in causa i giovani, rispondo come giovane. Secondo me, e rispondo anche contro tendenza, il non giungere al matrimonio è una mancanza di responsabilità, non abbiamo il coraggio di fare certi passi; non nascondiamoci dietro a un dito. È troppo comodo cominciare una cosa già parandosi le spalle con qualcosa che andrà male, è già un passo fatto male. Perché è come dicevamo prima, cioè è già un amore pensato che finisce. Per me è questo che manca, il passo della responsabilità, giocarsi tutto. Manca il coraggio di farlo e basta! È la stessa cosa quando inizia un rapporto e si dice “ci frequentiamo”, e si fanno delle cose anche facendone altre, ma non è una responsabilità. Perché uno non decide di fare una cosa, la fa tanto per fare.
R.C. La questione, forse, non è di responsabilità ma di paura. Perché da quello che lei dice si tratta dell’idea che possa finire male.
Pubblico È troppo comodo fare una cosa e poi… È come prendere un’automobile in leasing invece di comprarla, è un mezzo passo.
R.C. La questione che si tratta di analizzare è come e perché l’epoca suggerisce che vada a finire male. Come e perché nell’epoca è così dilagante l’idea che vada a finire male, e questo nel matrimonio, nell’amore e quant’altro. Pare questa la questione: come e perché l’epoca indica, suggerisce, invita a credere che vada a finire male!
Pubblico Molte volte perché ci si arrende alle prime difficoltà, veramente molte volte. Quando c’è una paura che vada a finire male, oppure la paura che c’è da perdere troppo, allora alla fine c’è qualcosa di più comodo attorno e si lascia perdere.
Pubblico Tutto deve finire! Io credo che l’esperienza della vita sia fatta di dolore, di sacrificio sopra tutto e di morte. Io sono ottimista per questo, perché io credo in queste cose. Noi abbiamo un culmine e una discesa, io sono nella fase di discesa, nella discesa precipitosa. Siccome ho sempre vissuto in maniera attiva, ho vissuto parecchio, ho amato parecchio, adesso che sono vecchio mi sento fregato.
R.C. Adesso che è vecchio non vive più?
Pubblico Ero abituato bene e non posso più fare le cose che facevo prima, cioè volgarmente parlando, sesso in eccesso e con successo, non mi è più concesso, anche se qualche volta ci provo lo stesso. Però, siccome la casa va in rovina ogni giorno più di prima… Io gioco con le parole, è un mio vizio.
R.C. Bene. Mi pare che questo primo incontro abbia prodotto molte questioni, molta curiosità; io ho preso nota di tante cose. E quindi proseguiamo, la settimana prossima con l’appuntamento dal titolo L’intellettualità e il piacere, della serie La scienza e la crisi, in Via Valeri, mentre fra quindici giorni ci ritroviamo qui per proseguire e per provare a rispondere alle questioni formulate questa sera e che sono di notevole interesse.
Intanto, leggiamo La regina di Saba, di Marek Halter, e L’intellettualità e il piacere, della collana “La cifrematica”, così ci prepariamo ai prossimi incontri.
L’amore libero (L’esclusa Romanzo di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Giovedì prossimo, nella sala in Via Valeri, presentiamo il sesto numero della collana “La cifrematica”, che s’intitola La follia, la pazzia, la clinica. A presentarlo ci saranno alcuni esponenti del movimento cifrematico che vengono dalla Svizzera, esponenti di un’esperienza che è in corso da anni a Losanna e a Ginevra, con alcuni interventi intorno al tema Esperienza e clinica della psicosi in Svizzera.
È un’occasione sicuramente di grande interesse per considerare vari aspetti sia di ciò che viene chiamata la follia, sia di ciò che viene chiamata la pazzia, sia di ciò che viene chiamata la psicosi nelle sue rappresentazioni varie, e quindi una testimonianza di un modo di affrontare la questione differente da quello convenzionale psichiatrico, cioè senza uso di psicofarmaci. Già questo lo rende interessante. I nostri ospiti saranno François Keller, presidente dell’istituto e altri suoi membri. È il caso di diffondere la notizia per dare modo a tante persone di venire a ascoltare questi nuovi contributi.
Proseguiamo ora il nostro laboratorio tenendo conto delle molte domande che sono sorte nel dibattito di quindici giorni fa. Occorre precisare, tuttavia, che qui si tratta di un’indagine, di una ricerca attorno all’amore, la quale, però, non attinge a quanto di convenzionale è solitamente noto come amore, cioè non parliamo dell’amore come sentimento. Forse questo non abbiamo avuto modo di precisarlo così perentoriamente l’altra volta, quindi
occorre fare uno sforzo di astrazione rispetto a quanto viene pubblicizzato come sentimento, a quanto viene pubblicizzato come “discorso d’amore”.
Vediamo di precisare alcuni dettagli, perché occorre fare uno sforzo intellettuale per distinguere l’amore strutturale, per ciascuno, dalle rappresentazioni dell’amore, da quella sorta di repertorio psicologico che viene chiamato amore. Si tratta di considerare la questione dell’amore in assenza di finalismo, in assenza di reciprocità, in assenza di finalità, cose che renderebbero certamente l’amore padroneggiabile, dominabile, gestibile e, diciamo, anche umano, molto umano. Ma c’è da chiedersi se lo sia, se l’amore possa attribuirsi all’umano.
C’è chi diceva, la settimana scorsa, che nell’amore si tratta di dare o di darsi. Dare o darsi per piacere, non per una forma di convenienza, di calcolo, di utilitarismo, ma per piacere. Però, già questa formula indica il piacere come utilità, come fine, come scopo. Altri proponevano che si tratta di dare qualcosa per amore. Quindi, l’amore diventa il fine o il movente. Sono varianti dell’amore inteso come coscienza dell’amore, come amore conoscibile, conosciuto, come conoscenza dell’amore. Amore di cui sarebbe possibile ispirare un catalogo per indicare le formule proprie, corrette e, accanto, le formule improprie, i disturbi, le aberrazioni, le patologie. Ma questo non sarebbe più l’amore, bensì l’amore visto attraverso la sua patologia, come la sua rappresentazione sintomatica. Sarebbe l’amore come sentimento.
L’amore come sentimento è l’amore considerato per la sua rappresentazione sintomatica, dove per “amore”, si propone il volere bene, volere il bene altrui. E questo sfocia nell’altruismo, quasi a indicare una forma di conoscenza del bene, a indicare un modo attraverso cui c’è chi conosce il bene altrui e lo somministra. Questo è il bene come farmaco, il bene in una accezione morale. Oppure l’amore è proposto come legame sociale, è l’amore che lega, l’amore che dovrebbe portare all’unità, l’amore attraverso cui “fare uno”, l’amore di coppia, l’amore che unisce la coppia, l’amore che unisce la famiglia, l’amore che unisce la società, l’amore come collante, come ciò che unisce. Esploreremo quest’idea di amore che parte da lontano, dall’amore platonico. Dell’idea d’amore come legame sociale, dell’amore come forma della buona coscienza, ci parla Luigi Pirandello nel bellissimo romanzo L’esclusa.
La scena si svolge a casa del signor Pentàgora, che sta cenando e arriva il figlio. Questi annuncia che ha cacciato di casa la moglie. Perché l’ha cacciata? Perché lo tradiva. La moglie lo tradiva e la prova sta in una lettera che aveva in mano e il padre, apprendendo la novità, gli dice: Ricordati, oh! che te lo avevo predetto.
/…/ Ricordava.
Tant’anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, lo aveva condotto nell’antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli che si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire davanti, tradito e pentito.
– Te lo avevo predetto! – ripeté, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro.
/…/ Noi Pentàgora… – quieto, Fufù con la coda! – noi Pentàgora con le mogli non abbiamo fortuna.
/…/ Già lo sapevi… Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale!
Fece con una mano le corna e le agitò in aria.
– Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene.
/…/ – È destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua! Calvario.
E si picchiò sul capo.
– Ma, alla fin fine, sciocchezze! – seguitò. – Croce che non pesa, è vero, Fufù? – Fufù è il cane. Si capisce con il cane – quando abbiamo cacciato via la moglie. Anzi, porta fortuna, dicono. La gente piglia moglie, come si piglia in mano la fisarmonica, che pare chiunque debba saperla suonare. Sì, a stendere e a stringere il màntice, non ci vuol molto; ma a muover le dita di quella maniera per pigiare su i tasti, lì ti voglio!
Sorge così la nozione di coscienza. All’inizio del decimo capitolo, a proposito della coscienza, Pirandello scrive: Oh, mia cara, quando io dico: “la coscienza non me lo permette”, io dico: “Gli altri non me lo permettono, il mondo non me lo permette”. La mia coscienza! Che cosa credi che sia questa coscienza? È la gente in me, mia cara! Essa mi ripete ciò che gli altri le dicono. Orbene, senti: onestissimamente la mia coscienza mi permette di amarti. Tu interroga la tua, e vedrai che gli altri t’hanno ben permesso di amarmi, sì, come tu stessa hai detto, per tutto quello che t’hanno fatto soffrire ingiustamente.
L’amore secondo coscienza. A cosa conduca l’idea dell’amore e come s’instauri, questo romanzo lo illustra in modo interessante. C’è chi lo abbia già letto? Nessuno. È una lettura molto istruttiva, in cui si tratta della vicenda dell’amore a partire dalla credenza nella genealogia, quindi della predestinazione, con tutto ciò che comporta di umano, cioè d’infernale.
Segue la storia di questo figlio, della moglie, la condanna, le peripezie, l’incontro con l’amante. Il frutto del tradimento, mentre il primo frutto muore, il secondo dovrebbe sancire la condanna sociale definitiva. A questo punto, Marta, la moglie, si chiede perché doveva essere una vittima, lei che sola era l’esclusa, lei che non avrebbe ritrovato più il suo posto, checché facesse, lei a cui non sarebbe più ritornata la vita di un tempo. Pirandello mette lì queste cose con nonchalance: l’idea del ritorno, il fantasma di esclusione, il vittimismo come cose normali per persone normali, cioè per chi crede nella genealogia, nella predestinazione, nel vittimismo, nell’amore come legame sociale, nell’amore come reciprocità, nell’amore come modo della coscienza, l’amore secondo coscienza. E cosa dice di fare Marta, l’esclusa, la vittima ripudiata dal marito, ripudiata dal padre, ripudiata dalla società? Decide di uccidersi. Si tratta solo di trovare il modo.
E mentre si arrovella intorno al modo, è chiamata al capezzale della madre del marito, che sta per morire. E allora decide di confessare la colpa, il tradimento. Ma per via della colpa non può accogliere la proposta del marito di ritornare da lui. Ma mentre lei dice: – Vado… Non lo so… Ti raccomando… /…/
– No, Marta! No! No! Non mi lasciar solo! Marta! Marta! Marta mia! /…/
– Rocco, no, è impossibile… Lasciami… È impossibile…
– Perché?… Perché? … /…/ Perché Marta? Perché me l’hai detto?
– Lasciami… No… lasciami… Non mi hai voluta…
– Marta, dimentico tutto! e tu pure, dimentica! Sei mia! Sei mia! Non mi vuoi più bene?
– Non è questo, no! /…/ Ma non è più possibile, credimi, non è più possibile!
– Perché? Lo ami ancora? – gridò Rocco fieramente, sciogliendola dall’abbraccio.
– No, Rocco, no! Non l’ho mai amato, ti giuro! Mai! Mai!
E ruppe in singhiozzi irrefrenabili; sentì mancarsi; s’abbandonò tra le braccia di lui, che istintivamente si tesero di nuovo a sorreggerla. –
E nella stanza accanto la madre sta morendo, la madre di Rocco.
– Fiaccato dal cordoglio, a quel peso, egli fu quasi per cadere con lei: la sostenne con uno sforzo quasi rabbioso, nella tremenda esasperazione: strinse i denti, contrasse tutto il volto e scosse il capo disperatamente. In quest’atto, gli occhi gli andarono sul volto scoperto della madre sul letto funebre, tra i quattro ceri. Come se la morte si fosse affacciata a guardare.
Vincendo il ribrezzo che il corpo della moglie pur tanto desiderata gl’incuteva, egli se la strinse forte al petto di nuovo e, con gli occhi fissi sul cadavere, balbettò, preso di paura:
– Guarda… guarda mia madre… Perdono, perdono… Rimani qui. Vegliamola insieme…
E qui termina il romanzo, che è straordinario perché, contrariamente a quanto può sembrare, indica che la madre non muore, indica che, se il mito della madre è in atto, la madre non è morta, non è denigrabile, è senza colpa, è immacolata, per cui la vicenda non può andare a finire male. Cioè, mentre questa scena sembrerebbe sancire la colpa e il perdono in nome della madre morta, invece indica proprio il contrario, la dissipazione della fantasia genealogica per cui la madre sarebbe Eva, madre non vergine, mentre qui, in conclusione, troviamo Maria, madre, vergine, senza colpa, senza peccato. Si dissipa quella genealogia negativa con cui il romanzo si apre, cioè con il fantasma materno della negatività, di una genealogia cui appartenere, ma che lungo lo svolgimento del romanzo si articola e si dissipa.
Naturalmente, occorre leggerlo senza aderire al convenzionalismo, alla morale. Occorre leggerlo clinicamente, con la clinica della parola. Occorre leggerlo in assenza di coscienza morale e sociale come peraltro si tratta di leggere ciascuna opera, ma Pirandello in particolare si presta a ciò. Abbiamo fatto, anni fa, la lettura dei Sei personaggi in cerca d’autore e altre cose ancora. E la questione è che l’amore non può risentire della fantasmatica del materno, cioè della fantasmatica soggettiva per cui le cose finiscono, il tempo finisce. Elaborando la fantasia che ognuno sia agente dell’amore si reperisce un’altra nozione d’amore differente da quella esaltata dal discorso amoroso.
Prendiamo, per esempio, il caso di don Giovanni. Don Giovanni dice di amare le donne, ma di amarle tutte e di fare la contabilità di questo amore. Dove si situa don Giovanni? Don Giovanni è amante o don Giovanni è amato? Si situa nell’idea di amare o nell’idea di essere amato? Ama le donne o chiede di essere amato dalle donne? Che cosa muove don Giovanni a fare la contabilità dei suoi atti amorosi? Insegue l’amore o gli amori? Insegue le donne da amare o da cui essere amato? E perché deve amarle tutte? Potrebbe perdere qualcosa? Perderne qualcuna? Certamente, don Giovanni è estraneo all’amore. Come è estraneo chi ritiene di perseguire l’amore eterno o di presumere che l’amore possa finire. Per don Giovanni è già finito, per questo ripete. Ciascuna volta è costretto alla ripetitività per rinnovare l’amore che finisce. È questa l’idea della circolarità, della ripetitività. È anche l’idea del ritorno, della possibilità del ritorno che è l’idea stessa di potere tornare all’unità, tornare a quell’unione che era presunta all’origine e che poi sarebbe andata perduta. Il ritorno all’origine come modo di pensare alla fine, come modo di pensare alla morte. Questa è la prescrizione dell’amore umano, l’amore che unisce, che riunisce, l’amore come ritorno all’unità. Per don Giovanni l’amore si consuma nell’atto che lo inaugura, finisce. È un amore che si consuma, un amore che finisce.
Ma, dunque, il libertinaggio sarebbe una forma di libertà? O è il ripiegamento a cui costringe l’idea che l’amore finisca? È libertinaggio la libertà di amare? È libertinaggio l’amore libero? Potrebbe sembrare che questo non c’entri niente con la predestinazione, ma quante volte accade di sentire dire che tizio, tizia, caio, caia è in attesa dell’anima gemella? Ci sarà pure un’anima gemella! C’è anche chi si prodiga a far sì che tizio, caio e sempronio incontrino l’anima gemella. E l’anima gemella che cos’è se non il resto fantasmatico dell’idea dell’uno che si è diviso in due e che all’uno deve ritornare? Quell’idea gnostica che formula la predestinazione come ritorno all’unità attraverso l’anima gemella? E senza andare a trovare l’anima gemella, ogni formula che propone l’unità della coppia, l’unità della famiglia, l’unità sociale pone la questione gnostica dell’uno che si è diviso in due e che deve ritornare a costituire l’unità. Si tratta di un mito antichissimo, il mito dell’androgino.
C’era una volta l’androgino che bastava a stesso. Poi è stato separato, diviso in due: una metà è andata in giro errabonda a cercare l’altra metà per ricostituirsi, per riformare l’unità perduta. Questo mito antichissimo, dimenticato, è la forma più eminente di superstizione che istituisce la base del discorso amoroso, di ciò che viene proposto come amore, facendo di ogni erba un fascio e assimilando l’amore alla sessualità, all’erotismo e a quant’altro.
Occorre distinguere, invece, amore, sessualità, erotismo e quant’altro. Se, come dicevamo l’altra volta, già gli antichi per qualificare l’amore avevano bisogno di ricorrere a almeno tre termini distinguendo l’eros dall’agape, dalla filía, perché adesso tutto dovrebbe confluire nell’amore inteso come reciprocità, come sentimento, come idea di unità, di ritorno all’uno? Come se fosse una cosa naturale, addirittura una cosa bestiale, come se non si trattasse di cosa intellettuale. E, quindi, occorre indagare quale sia lo statuto dell’amore con la clinica, indagando quelle formule che possono sembrare scontate, consuete, usuali, ovvie e che sfociano invece nella fantasmagoria della rivalità, del ricatto, del tradimento, del vittimismo, dell’idea di fine, idea che trae a una reazione rispetto allo statuto originario dell’amore che ognuno cerca di padroneggiare a modo suo, per gestirlo, amministrarlo e somministrarlo anche agli altri.
Occorre indagare quanto a questo nei testi dei poeti, degli scrittori, dei filosofi, degli sceneggiatori per cogliere la struttura per via della clinica. Non è un caso che il romanzo L’esclusa si apre e si conclude in questo modo. C’è un filo logico e clinico che percorre il romanzo e gli dà la sua tenuta. Tutto ciò che accade nel romanzo occorre analiticamente intenderlo non come realisticamente accaduto, ma come una fantasia di Marta, la protagonista del romanzo, a partire dall’arbitrio della sua idea; intendere qual è stata la fantasia di Rocco, un altro protagonista del romanzo, a partire dall’arbitrio della sua idea, in questo caso l’idea che la madre sia assente, assente in quanto ripudiata, per cui colpevole di qualcosa. A partire da quest’idea, allora la negatività su ogni gesto, su ogni atto della vita quotidiana.
C’è un film che attualmente circola nelle sale, Gli amici del bar Margherita. È da vedere e da ascoltare. Però, occorre vederlo dall’inizio per capire qual è la fantasmatica lungo cui il film si snoda e poi si conclude.
Non va da sé capire e intendere che in ciò che sembra costituire il fondamento del negativo si tratta in realtà di un’idea. Non va affatto da sé. Solamente nell’atto analitico è possibile cogliere la natura fantasmatica del negativo. Al di fuori del procedimento analitico, il negativo è reale: ognuno crede al negativo, alla possibilità del negativo, che le cose vadano a finire male o che comunque possano andare a finire male, come possibilità. Questa è la superstizione, e questa superstizione è il discorso occidentale, ciò su cui si regge la civiltà occidentale con i suoi modi, le sue credenze, le sue convinzioni, con le sue prescrizioni. Ogni forma di classificazione altro non è che una conferma di questo: la classificazione conferma la credenza nel negativo come substrato.
Nell’atto analitico non c’è nessuna classificazione; ciascuna cosa è da qualificare nella circostanza specifica in cui occorre. È inclassificabile; non fa parte di una cronologia né di un sistema. Il discorso occidentale è il discorso del sistema, della classificazione, è l’esaltazione della classificazione anziché dell’analisi con cui cogliere la particolarità di quel caso, che è inaccostabile a ogni altro e non si presta all’incasellamento. Il discorso occidentale è un procedimento per analogia, per somiglianza, per possibilità, per memorizzazione, per semplificazione, per velocizzazione e in nome della velocità, della facilità, della finalità di bene ognuno partecipa alla sistematizzazione. Ma ciò è impossibile, perché l’infinito non è sistematizzabile, questa è la questione. Dunque, nemmeno l’amore può partecipare di un sistema, di un discorso che lo sistematizzi e che ne possa codificare i modi.
Solo avendo precisato questa serie di elementi noi possiamo accostarci alla questione effettiva dell’amore, che comporta la domanda, l’amore che sta nella domanda. Non l’amore che presupponga di sapere qual è il suo oggetto, qual è il suo destinatario, qual è la sua causa, qual è la sua fine, ma l’amore che sta nella domanda.
La questione è come, in che modo e per quale combinazione l’amore si combina con la domanda. Non c’è chi abbia già la combinazione, non c’è chi possa dire di saperlo già, e ciò esige la ricerca, esige di trovare il modo, esige di non partecipare all’idea di agire, di essere l’agente, di essere il rappresentante dell’amore, o dell’amorosità, o dell’amabilità, perché questa idea di amore transitivo, di amore che si volge al suo oggetto, altro non è se non l’esatta definizione di quella che Freud chiamava “nevrosi”. Nevrosi è l’idea di potere amare l’oggetto, che l’oggetto sia prendibile e che costituisca il destinatario dell’amore. Questa è la cosiddetta nevrosi, questo è il fantasma materno, è un’idea fasulla di amore.
Direi che per il momento possiamo fermarci qui e verificare se ci sono cose da chiarire prima di procedere ulteriormente. Ci sono domande, notazioni, echi, fantasie, obiezioni, dissidenze, dissensi, consensi o quant’altro?
Gianfranco Dalle Fratte Vorrei fare una domanda: lei ha detto che l’amore come sentimento è una rappresentazione sintomatica dell’amore. Poi ha detto che l’amore sta nella domanda. Io le chiedo: il sintomo procede dalla domanda? E se può dire qualcosa del sintomo, perché sicuramente non dovrebbe essere il sintomo dell’amore ma, mi verrebbe da dire, amore come sintomo. E come si combina il sintomo con la domanda.
R.C. Come distingue il sintomo dell’amore dall’amore come sintomo?
G.D.F. L’amore come sintomo è irrappresentabile, nessuna idea dell’amore e il sintomo dell’amore è l’idealizzazione dell’amore, un ideale. Sintomo e domanda: chi è nella domanda allora niente sintomo? Chi è nel sintomo, se non come rappresentazione, è senza domanda?
R.C. Lei ha toccato una questione complessa, affrontando la quale si dissipa l’idea di amore come relazione. Ciò che volevo sottolineare questa sera è proprio che l’amore non è la relazione, che l’amore non è il modo della relazione, non è una relazione, accanto e versus a quanto constatava Erich Fromm già molti anni fa, che l’amore non è soltanto una relazione con una particolare persona; ma già qui c’è l’ammiccamento a che possa esserci una relazione. Invece no, non lo è proprio. E neppure è una facoltà. Lui dice: “Eppure la maggior parte della gente crede che l’amore sia costituito dall’oggetto, non dalla facoltà d’amare”. Bene, non è né l’oggetto, né la facoltà di amare. L’amore non è una facoltà, non è la facoltà di amare.
“La maggior parte della gente”. Come si fa a esprimersi così? “La gente crede”. È del tutto inessenziale cosa crede la gente. Cosa può credere la gente non lo sappiamo. Cosa importa cosa crede la gente? È una formula attraverso cui si nasconde Fromm: “La gente crede che… Io credo che…”.
Cecilia Maurantonio Lei ha detto in apertura che l’amore non è un sentimento. Nel termine sentimento c’è il sentire e ha anche detto che non si sa quale sia la combinazione. C’entra una logica in questa combinazione anche se non è nota? Implica la logica, le logiche? E nel sentire ci si accorge dell’amore? Qualcosa si sente? Si tratta di sensazioni, di effetti? Magari non si sa sull’amore, ma ci si accorge?
R.C. Lei chiede come ci si accorge?
C.M. Più che come ci si accorge, m’interessava l’aspetto delle sensazioni o del sentire, perché non sarà così fortuito che l’amore sia una questione che riveste un’importanza di grande rilievo, assoluta. Infatti, in nome dell’amore, in virtù dell’amore si fanno battaglie, crociate, ecc. Effettivamente, noi non sappiamo che cos’è, ma qualcosa è, di qualcosa si tratta e pure di una grande portata. Cioè, è connesso al sentire, perché è così assoluto, in un certo modo? O magari dico io che è assoluto.
R.C. Stiamo indagando. Diciamo che non abbiamo ancora le risposte, dobbiamo indagare. È tempo d’ipotesi, di questionamenti, di domande. Intanto, si tratta di dissipare l’idea facile sull’amore, l’idea concorde, il luogo comune.
Pubblico La domanda è se l’idea del negativo viene a partire da una coscienza individuale o da una coscienza collettiva.
R.C. Quella individuale è più che sufficiente e, d’altronde, è l’unica. Cosa sarebbe la coscienza collettiva?
Pubblico È l’idea dell’amore, ossia di ciò che dice della tendenza a classificare, della tendenza a certe condizioni, a certe credenze, a certe cose che sono influenzate da una coscienza collettiva, per la formazione di una coscienza individuale.
R.C. La coscienza collettiva. E quindi occorre riprendere Pirandello.
Pubblico Sì, riprendere Pirandello e la predestinazione.
R.C. La coscienza è l’idea che ognuno ha di sé e degli altri inseriti in una ontologia, ossia in un’idea dell’essere anziché del divenire. Questa è la coscienza: che le cose siano. Allora è chiaro che è paradossale. Già l’idea che le cose siano è paradossale.
In ciascun atto, ciascuno si rende conto che le cose non sono mai tali, non sono mai come se le aspetta, non sono mai come crede siano. Non sono. E quindi già quest’idea è paradossale. Pensare poi, addirittura, che esista una coscienza comune, una coscienza collettiva, una coscienza popolare, una coscienza delle masse, ciò non è più paradossale, è comico. Non assurdo, perché l’assurdo è qualcosa di molto impegnativo. Questo è comico. Una coscienza collettiva vorrebbe dire che ci sarebbe una comunanza di conoscenza, di comunicazione, d’intendimento, d’intesa. Provate a mettere d’accordo, non dico due gruppi, ma due persone: è impossibile!
La coscienza è una reazione alla particolarità, è qualcosa che è stato proposto a un certo punto come reazione alla particolarità. Per fondare una comunità occorreva una coscienza, cioè un sapere comune, una comunanza. Allora è stata proposta la coscienza, un qualcosa in comune. Ma l’esigenza di parola indica che la comunanza è irraggiungibile, è impossibile, è una frottola. E non c’è da temere, perché le cose non avvengono né si dicono secondo coscienza, ma secondo la loro particolarità, secondo la logica particolare, che va indagata con il procedimento analitico. Analitico, non sintetico. La sintesi vorrebbe riproporre la riunificazione. Sintesi è questo, vuole dire riunificazione. Ognuno che propone la sintesi propone la riunificazione, cioè che c’era una volta l’unità, poi è intervenuta la spaccatura e bisogna ritornare all’unità. Questo è il fantasma di morte! Si tratta di un’idea terribile. E contro quest’idea lotta chi ci crede, perché la riunificazione, la sintesi, propone la fine. La riunificazione, la sintesi, coincide con la fine, è il ritorno all’origine, è la fine. Questo è il fantasma di morte contro cui lotta chi ci crede, ma non basta lottare, credendoci; occorre sospendere la credenza, occorre dissipare la credenza, occorre cioè assolvere la credenza. Non è questione di convincimento o di argomentazione, ma è questione di dissipazione, di assoluzione. È ciò a cui tende il procedimento analitico.
Analisi, ossia assoluzione. L’analisi è assoluzione e qualificazione. Proprio in quanto ciascuna cosa è assolta rispetto a una credenza, rispetto a una ontologia, questa cosa si può qualificare, può rivolgersi al suo statuto intellettuale, può rivolgersi allo statuto attuale. Finché rimane un’idea di retaggio, un’ontologia, una presa del passato di qualcosa su qualcos’altro, ognuno è sotto scacco, in ostaggio. Ognuno è ostaggio di questa credenza.
Con il procedimento analitico, non c’è più l’ostaggio del passato, non c’è più l’ipoteca del passato, non c’è più la predestinazione. Non può esservi amore in presenza di questo retaggio, dell’idea di appartenenza a un passato, di un imbrigliamento ontologico. Sarebbe l’amore inteso come imbrigliamento, come ricatto, come comunione, come unione, ma l’amore come unione non è amore, è unione. Cioè, c’è una sorta di riporto all’origine. Occorre che s’instauri, invece, l’amore nel suo statuto, e ciò è qualcosa che non ha nessun paragone possibile con l’animalità, con l’umanizzazione, con la socializzazione, con l’unificazione. Se si riesce a svincolare l’amore dalla sua metafora spirituale, religiosa, sociale, allora può comparire qualcosa dell’amore originario, dello statuto dell’amore. Fino a che l’amore resta abbarbicato a questo riporto, a questo paragone, a questo richiamo, non si tratta dell’amore, si tratta della gnosi.
Maria Antonietta Viero C’è una formulazione, credo nella Peste o in Dio, in cui Verdiglione scrive che l’amore è custode del parricidio o una formulazione abbastanza vicina a questa. Però, mi sembra questa sera a proposito dell’amore, che l’idea di amore come ricongiunzione all’unità, e quindi basata sul principio di unità, non sia di ritrovare lo statuto dell’amore, ma che si tratti del debutto nel parricidio per indagarne la struttura e trovare i termini. Cioè, togliere il parricidio è il toglimento dello zero. Con il parricidio, quindi con l’introduzione dello zero, c’è il debutto dell’amore funzionale anziché l’amore basato sul principio dell’uno come unità e del suo mito dell’androgino. Perché, anche i vari miti che riguardano l’amore così superficialmente, partono sempre dall’amore del padre, e anche il reperimento di un uomo da parte di una figlia, sia anche un re sia qualcos’altro, parte sempre dall’amore del padre per potere trovare un uomo. Allora, mi sembra che si ponga la questione del parricidio proprio per lo statuto dell’amore, intendendo come parricidio l’introduzione dello zero, quindi la funzione di nome e non il nome del padre che diventerebbe realistico, il nome del nome.
Mi viene in mente una frase che ho letto in questi giorni, penso sia di Goethe, che dice che si ama ciò che si conosce, ma siamo sempre sul principio dell’uno. Sarebbe l’elezione dell’unità perché la conoscenza sarebbe il rigetto dell’amore.
R.C. Ma qui diamo per acquisito cos’è l’amore, diamo per acquisito che Goethe sapesse di cosa stesse parlando. Non diamo per acquisito nemmeno che Goethe sapesse cosa stesse dicendo. Nessuno sa cosa sta dicendo se non avviene un processo di indagine, un processo intellettuale.
G.D.F. Adesso mi viene in mente una cosa. Lei parlava della presa. Allora m’interrogo sulla presa della cosa, dell’oggetto, perché prendere la cosa sarebbe prendere l’oggetto. Per esempio, se l’amore sta nella cosa, nella parola e se la presa è ricordo di un atto che conduce a governare la cosa, a governare l’oggetto, in questo caso l’amore, appunto…
R.C. Ora, lei a questo punto introduce la cosa. Di che si tratta nella cosa? “La cosa”, ciò che questiona.
G.D.F. Qualcosa di cui non so.
R.C. Perché la cosa? Questa cosa? C’è una cosa, di che si tratta? Vi vedo pensierosi. Non è il momento di pensare, questo.
Pubblico Io, in combinazione con il laboratorio L’amore e la crisi, sto preparando un esame dove c’è una combinazione […] il diavolo…
R.C. Diavolo come stemma.
Pubblico È ovviamente parte fondante della religione cristiana il diavolo, che rappresenterebbe la parte negativa, l’angelo che ha guardato Dio e, comunque, dovrebbe essere un racconto intorno al diavolo. Tuttavia, non è questa la questione. In combinazione con queste conferenze che trattano dell’amore, come sto sentendo, in cui aleggia questo diavolo, sto preparando un esame che parla del giornalismo di guerra e ho trovato un’indicazione bibliografica che consigliava un libro per la guerra. In questo libro ho trovato l’ossimoro odio-amore, guerra-pace e ci sono parti dove…
R.C. Cosa le fa pensare che odio e amore siano ossimoro?
Pubblico Innanzi tutto perché sono l’estrinsecazione di due contrari, di due opposti come bene-male, come amico-nemico e, come altre volte lei ha spiegato, questi contrari, questi opposti, consentono delle ideologie, delle mentalità, un certo modo di affrontare la vita o una certa visione del mondo. Questi ossimori sono frutto, da come sono riuscita a capire…
R.C. Io non ho mai detto che odio e amore costituiscono un ossimoro.
Pubblico Di odio e amore no, ma di amico e nemico sì.
R.C. È un’altra cosa.
Pubblico Il nemico è ciò che viene visto in guerra, e lì c’è un dispiegamento d’odio come ciò che consente la belligeranza e l’amore come conseguenza della guerra.
R.C. Un momento. Che l’autore dica che l’odio è un sentimento, come per altro l’amore, e che tutto debba essere un sentimento perché altrimenti crolla tutto, non è che per questo lei ci debba venire a dire le stesse cose, e cioè che l’odio è un sentimento.
Pubblico Volevo, però, porre la questione.
R.C. È quello che dicevo prima. Occorre andare oltre l’economia del senso e l’economia delle sensazioni. Occorre andare oltre la coscienza. Il sentimentale, come il sentimentalismo e la sentimentalità, è funzionale alla mentalità, alla coscienza e alla sistemistica. Occorre fare uno sforzo analitico, oltre la concezione avviluppante, antianalitica e anticlinica di giustificare le cose con la mentalità e la sentimentalità. Cioè, dire che qualcosa è un sentimento è un modo di dire comune, costituirebbe la sentimentalità comune, e non c’è ciascuno nella sentimentalità. Il sentire è libero, il sentimento no.
Ha fatto un lungo giro in questa cosa. È importante la messa in questione, cioè è essenziale procedere dalla questione aperta. Nessuna questione può essere ritenuta chiusa, già risolta, già codificata. La questione, la cosa, è imprevedibile.
Lucio Panizzo Mi chiedevo se c’è una connessione tra il significante amore e la solitudine. L’esempio che lei prima ha fatto della metà che è in ricerca dell’altra metà, cioè la questione dell’androgino, e la fantasia che l’amore possa essere un modo per incontrare qualcuno per non essere più soli, per me, in questo c’è la questione della solitudine, che è imprescindibile. Quindi, che relazione ha l’amore con la questione della solitudine? Perché indagando l’aspetto dell’oggetto, cioè del sembiante, ciò ha a che fare con la solitudine e con l’amore. Ritengo che nell’indagine intorno al significante amore, la solitudine può dare un apporto molto interessante, chiaramente distinguendo la solitudine dall’isolamento e da altre faccende apparentemente collegate.
R.C. Bene. È una bella domanda.
Manuela Macario Mi chiedevo: se l’amore non ha fine e non è una facoltà, se non è l’amore che tiene insieme le persone e lo stare insieme non è il fine dell’amore, pur tuttavia ci riescono in molti, senza amore, a stare insieme! Quindi, basta il sentimento? Sembrerebbe così. Volevo arrivare al fatto che, se l’amore non ha fine, non serve a qualcosa, però c’è, se c’è… O fa parte del percorso di ciascuno? Cioè, l’amore c’entra qualcosa con lo stare con una persona o no?
R.C. Ecco, lei ha posto l’accento proprio per negarlo. Ma ciò può consentire di capire bene la premessa. L’amore non è interpersonale. Nulla di personale e nulla di interpersonale, per cui non serve né per tenere insieme, né per stare insieme. Però, giustamente, come lei rileva, c’è questa idea e si tratta di chiedersi da dove viene.
M.A.V. C’è un’ultimissima cosa che prima mi ero annotata. Forse, la coppia, “l’insieme io e te” dissolve il “noi facciamo coppia” instaurando Nessuno. Cioè, se c’è Nessuno si dissolve la coppia e s’introduce l’insieme che non è “fare coppia”. Forse, la questione è che con Nessuno si dissolve la coppia instaurando l’insieme.
R.C. Ma chi dice questo?
M.A.V. C’è una formulazione che dice “Tra me e te Nessuno c’è”. Sarebbe da indagare il tra, la divisione. È interessante, perché questa frase, a analizzarla, tra me, te e Nessuno c’è il terzo che s’introduce. E poi c’è l’insieme che non fa coppia.
R.C. Quindi, va analizzata la frase, non citata. Occorre analizzarla. Questa è la questione, innanzi tutto l’analisi.
In materia d’amore (Gli amici del Bar Margherita Film per la regia di PUPI AVATI)
Ruggero Chinaglia La questione che noi affrontiamo e che auspico ciascuno giunga a capire e a intendere, è la questione di una partita che è senza alternativa e che investe ciascun atto di quella che, più o meno propriamente, viene chiamata vita. In questa partita la questione dell’amore è decisiva, però occorre capire di cosa si tratta.
“Amore” è un termine che entra nel vocabolario di ognuno e ognuno crede di sapere di cosa si tratta, invece è un termine assolutamente preciso, particolare, non generico. Quindi, come interviene l’amore per ciascuno, in ciascun atto, nel suo viaggio, in modo non generico, non volgare?
Attorno all’amore ruotano numerose fantasmatiche. Se noi verifichiamo in termini letterari, filosofici, psicologici ciò che viene chiamato amore, il meno che si possa dire è che attorno a questo termine ruotano fantasmatiche di possessione, e ciò sopra tutto quando l’amore viene definito come “tendenza al possesso di qualcosa”. Sarebbe questo l’amore? È una definizione che mira a legittimare, a avallare ogni fantasmatica di possessione, anziché provocare alla sua analisi, alla sua qualificazione.
Nulla può essere posseduto, nessuno può essere posseduto. La possessione, come insegnano i manuali intorno alle streghe e i manuali di psichiatria, è sempre diabolica, oppure può essere divina ma, quindi, sempre diabolica! È possessione quella del poeta per Platone, è possessione quella delle streghe per gli inquisitori, è possessione quella di chi avanza idee di possesso. La possessione è l’idea di potere toccare la sostanza, di potere toccare, possedere, avere a che fare con la sostanza. Oppure, avalla fantasmatiche di attrazione, quando l’amore è chiamato “tendenza verso qualcuno o qualcosa”, tendenza a fare, con quell’uno o con quella cosa, una cosa sola, un’unità.
L’idea dell’amore come attrazione è un’idea che risponde ai requisiti della fisica, ma nulla ha a che vedere con la questione intellettuale dell’amore, con lo statuto dell’amore, con il modo con cui l’amore interviene nella vita per qualificarla. L’amore è in direzione del valore e non già in direzione dell’applicazione di una fantasmatica accomunante, o di relazione, o di completamento. Quando l’amore è definito come ciò che colmerebbe la mancanza dell’uno o dell’altro, così come quando viene riferito all’amore materno, paterno, filiale, di coppia, all’amore transitivo, ebbene, tutto ciò non è amore, ma è la fantasmatica materna intorno all’amore, è ciò che non è stato ancora capito attorno all’amore, perché l’amore è una questione complessa, per cui è più facile sbrigarsela pensando che sia una forma di transitività piuttosto d’indagare la sua effettiva struttura, la sua particolarità, il suo modo.
Occorre fare i conti con questo, cioè col modo con cui ognuno si rappresenta le cose, “la cosa”, l’oggetto, il desiderio, il godimento. Ognuno si rappresenta ogni cosa nel tentativo di istituire un sistema di riferimento. Una volta istituito, ognuno si sente di padroneggiarlo, si sente tranquillo, si sente di sapere, si sente “competente” e questa è la facilità. La presunta competenza è sempre relativa a un caso generico, a un caso ideale, a un caso generale. Non c’è competenza sul caso particolare, perché è ciò che abbiamo dinanzi ora, e di questo non abbiamo competenza, abbiamo invece da capire di cosa si tratti. Quindi, per capire, per intendere, rispetto a ciò che si crede, paradossalmente occorre dissipare l’idea della presunta competenza. La competenza assorda, è assordante, impedisce di cogliere il particolare, il dettaglio, quel dettaglio che invece risulta decisivo per qualificare il caso particolare e decisivo per intervenire nel caso particolare, perché, intervenendo genericamente, nulla può accadere d’interessante.
Il caso particolare è senza sistema di riferimento. Che cosa istituisce l’elemento comune al sistema di riferimento? L’elemento comune a ogni sistema che possa definirsi a misura d’uomo, a misura di genere, la proprietà che esprime la possibile “comunanza” è l’idea di fine, l’idea che ciò che abbiamo dinanzi a noi deve finire. In alcuni casi è ammessa la variante che “possa” finire, anziché “debba” finire, ma si tratta sempre dell’idea di fine e questa credenza nella fine funziona come timone, come direzione da seguire. Anche quando ci sia la professione d’amore per la vita, questo amore per la vita è un amore inteso a termine, un amore che deve finire.
Come può intervenire quell’astrazione per cui ciascuno non si trova sotto la cappa dell’idea di fine, ma in un altro ambiente, in un altro cielo, senza questa cappa, quest’obbligo, questa prescrizione? Quella che è chiamata la “malattia del secolo”, e che va sotto un nome da molti accettato, condiviso, plaudito, ritenuto conseguente, indicativo di ciò di cui si tratta, ovvero la “depressione”, altro non è se non il dilagare dell’idea di fine, di finitezza; idea che viene applicata a sé o agli altri. Quante volte sentiamo dire: “Sono un uomo finito, una donna finita”, “Basta, sono stufo, non c’è più niente da fare”, oppure: “Siamo tutti destinati all’estinzione”, “Il destino comune è di morire”? Lo stesso pianeta sarebbe condannato o per le emissioni o per il calore, per arrivare all’apoteosi dell’idea di fine generalizzata secondo la quale sorge il dubbio apocalittico: “Quale avvenire per i nostri figli?”. Questa è la frase accomunante nella depressione di ogni esponente del genere umano. È l’apoteosi del televisivo. Quale avvenire? “Nessun avvenire per i nostri figli, la situazione è difficilissima”, questo è lo slogan. E cosa avrebbero dovuto dire allora i romani, i greci, gli egizi, i fenici? Cosa avrebbero dovuto dire? Quale avvenire? Nessuno! Pestilenze, malattie, calamità, belve. Quale avvenire?
L’idea di fine è accomunante, trasversale, ontologica e l’amore diventa il modo sublime di certificare la vanità di ogni sforzo come dichiarazione anticipata della fine, che sarebbe la dichiarazione d’amore. La questione è che l’idea di fine produce spavento. L’idea di fine spaventa ma, contrariamente a quello che può sembrare, chi accetta l’idea di fine, chi si crogiola nell’idea di fine, la avalla, la favorisce, tenta di localizzarla e la facilita; addirittura può giungere a anticiparla per confermarla e darla come avvenuta una volta per tutte, per trovare una ragione, una conferma, un po’ di pace, dato che è già avvenuta.
Tutto ciò accade in assenza di parola, cioè dove agisce l’idea di genere, l’idea di essere l’esponente di un genere in assenza di ricerca intellettuale, in assenza di statuto intellettuale, dello statuto per cui niente è, ma ciascuna cosa esige di precisarsi, di qualificarsi, di entrare in un dispositivo senza ontologia, senza idea di fine. Nessuno crede di partecipare all’idea di fine, ma ognuno lo fa e senza l’analisi non se ne accorge. Non si accorge di quante volte e in quanti modi avalla, partecipa, condivide l’idea di fine; l’applica a sé, ma non se ne accorge e vive nello spavento e si spaventa per sé e per gli altri, per come è andata e per come andrà.
“Senza parola” vuole dire senza dispositivo della parola originaria, senza il dispositivo in cui non già l’ontologia delle cose ma il loro funzionamento risponde dello statuto di ciascuna cosa, che esige in prima istanza il transfert, cioè che, parlando, nulla “è”, ma ciascuna cosa, funzionando, si espone alla metafora, alla metonimia, alla catacresi e quindi al divenire.
Un registro del funzionamento è il parricidio, il registro dove il nome è innominabile e anonimo. Ciascun atto di parola ha questa caratteristica: il nome che funziona è innominabile e anonimo. Cioè, in ciascun atto di parola, senso e significato non sono già dati, ma si producono, sono effettuali. Solo così il padre s’instaura con il suo mito e non risponde a una mitologia.
Se esploriamo la mitologia intorno al padre, dai greci in poi, troviamo che il padre uccide i figli. Kronos divora i figli, Zeus è un padre terribile. Il padre è rappresentato, e attorno a ciò sorge una rappresentazione di sé, dell’Altro e delle cose che si conformano alla rappresentazione del padre.
Nel parricidio ‒ una delle due facce del transfert ‒ il padre non è crudele, non è buono e non è malvagio, non è forte e non è debole, non è punitivo, non è premiante e non è nemmeno morto, che sono le rappresentazioni più comuni che intervengono a negare la parola, a negare il transfert e a fare sì che ogni atto si conformi a una rappresentazione. Ciò perché, anziché lo zero, anziché il padre, anziché il nome innominabile e anonimo, ognuno si rappresenta il nome, se lo rappresenta come segno dell’origine e si conforma a questo segno e a questa origine. Se l’idea che ognuno ha del padre è presa in un’oscillazione tra positivo e negativo, tra forza e debolezza, tra bontà e malvagità, conformerà la sua vita a questa oscillazione e la vita verrà presa in un’idea di alternativa tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo, tra la forza e la debolezza, tra la virtù e la pena, tra il premio e la colpa. Allora, sarà ammesso anche il cedimento rispetto alla tenuta, rispetto alla direzione del viaggio e ognuno potrà pensare di potere cedere, di potere lasciarsi andare. Il cedimento, anche momentaneo, è l’idea della fine che si realizza. Il cedimento è la vendetta in nome dell’amore negato – amore presunto e negato – che ognuno ritiene di potere esercitare. Se l’idea di cedimento viene analizzata non necessita più di realizzarsi, perché la vendetta è l’indice di ciò che non è analizzato, è l’indice dell’espulsione dell’amore dalla vita.
La vendetta ha due componenti, la colpa e la pena. Ogni attribuzione di colpa, con la conseguente idea di pena che dovrebbe immediatamente intervenire, compie la vendetta come conformazione all’idea di origine che ognuno ha. La necessità è capire che quanto è accaduto in quella che ognuno ritiene la sua precedente vita – non la vita precedente, la precedente vita – non è il segno di una mancanza, di un’incapacità, di una sfortuna, di un accanimento della sorte, di un mancato intervento di Dio, di un mancato intervento dell’amore materno o dell’amore paterno o di quant’altro, ma ciascun episodio della vita, anche e sopra tutto quando negativo, va analizzato per capire se non sia il frutto di una coerenza fantasmatica, di una coerenza del fantasma materno, ossia di una coerenza rispetto all’idea di origine che ognuno ha, e quindi dell’idea di destino che ognuno si rappresenta in quanto collegata e conformata all’idea di origine.
Ciò è difficile da capire? Non è difficile, è complesso. Se fosse difficile si potrebbe rendere facile, invece la complessità non è toglibile e proprio in quanto la questione è complessa va indagata e occorre capire.
Qualcosa abbiamo indagato della complessità e della coerenza fantasmatica reperibile nel caso che tende a divenire clinico, anche rispetto al romanzo di Pirandello L’esclusa. Romanzo che è veramente indicativo, da leggere per reperire i nessi della coerenza fantasmatica. Nulla di quello che accade nel romanzo è casuale rispetto alla coerenza fantasmatica, molto precisa, che abbiamo analizzato. Tuttavia, adesso propongo un altro caso.
Consideriamo questa sera un caso non letterario, ma filmico, il caso degli Amici del Bar Margherita, film diretto da Pupi Avati, che esplora il modo della ricerca dell’amore da parte di alcune persone che aspirano a fare parte di un gruppo di amici. Il film racconta come ogni esponente del gruppo idealizza i termini, i personaggi dell’amore, ma non legati a una congiuntura sociale, di epoca o di periodo, come apparentemente il film lascerebbe credere affidandosi alla visione.
Il film narra la vicenda di un gruppo di persone, di “amici”, nell’anno 1954 a Bologna, e il narratore della vicenda che si snoda nel film è un ragazzo, un adolescente, Taddeo, che narra perché nella fotografia di gruppo che ogni anno gli amici del Bar Margherita si fanno, ebbene, lui quell’anno in quella foto non c’è, pur essendo stato protagonista e testimone delle vicende di quell’anno, che sono narrate nel film e pur essendosi meritato di figurare fra gli “amici”. Per capirlo occorre la lettura clinica. Il film non è da vedere, ma da ascoltare, da leggere. Tra vedere e leggere un film, corre qualche virtù.
Contrariamente a quanto qualcuno può credere, andare al cinema non è un’attività visiva, non è un esercizio visivo, non è andare al cinema per fare lo spettatore, perché allora tanto vale andare allo stadio: al cinema si va per leggere. Per ascoltare, leggere, capire, intendere. Se poi ci rechiamo due volte a leggere lo stesso film, non si tratta più dello stesso film; se andiamo a vederlo, forse sì. Chi va al cinema a vedere il film, certamente lo vede, ma lo legge?
Il film racconta la vicenda del primo amore di Taddeo, la ricerca del primo amore e di ciò che vi è collegato, stante la coerenza fantasmatica che lo rende appartenente alla sua famiglia di origine e, che, conseguentemente, tende a farlo diventare esponente del gruppo degli amici del Bar Margherita.
Qual è la coerenza fantasmatica che trae in quella direzione? Questo lo si capisce all’inizio del film. È un errore entrare a film già iniziato, non solo in questo caso, ma ciascuna volta. Occorre non perdere le prime battute di ciascun film, perché il più delle volte, dato che il film non è solamente da vedere, ma è da leggere, è in quelle prime battute che viene enunciata la questione. Proprio come nel preambolo dell’analisi, come nell’incontro con lo psicanalista, è nelle prime battute che si pone la questione; poi, il racconto procede in varie direzioni, con aperture e coperture, con giri e raggiri e la questione magari sembra disperdersi. Ma è solo un modo per indicare la coerenza fantasmatica in atto, in cui si tratta di cogliere le connessioni con quel che accade, nonostante la buona volontà, nonostante le giustificazioni addotte dalla buona coscienza, nonostante le quali accadono cose inspiegabili senza l’analisi e la lettura. Con l’analisi, con la qualificazione, diventano precise, capibili e infatti man mano che si colgono, la fantasmatica materna si dissipa. Ma nessuno può leggere per altri, nessuno può fare l’analisi al posto di altri. Un’acquisizione non può essere fatta per interposta persona. Ciascuno fa il suo viaggio e il viaggio segue anche la coerenza fantasmatica del fantasma materno se non è dissipato. Fantasma materno, cioè il fantasma della fine, il fantasma che le cose finiscano, il fantasma che ci sia un agente che possa favorire la fine delle cose o la loro buona evoluzione.
Il film comincia con la lettura del regolamento del Bar Margherita. Chi vuole fare parte di questo club, di questa “famiglia allargata”, di questa comunità, che in quanto comunità è omosessuale, comunità che nega la sessualità a favore di una omologazione, deve attenersi al regolamento. Norme, regole, motivi sono le esche del dispositivo della parola.
Cosa dice il regolamento? Per prima cosa dice che al bar non devono entrare le donne: mogli, figlie, sorelle degli amici, tanto meno le fidanzate. Se poi, addirittura, ci fosse una fidanzata che volesse negare a uno degli amici la frequentazione del bar, ebbene, gli amici hanno il diritto di fare decisamente naufragare il fidanzamento. Secondo punto: al bar bisogna arrivare tardi la sera. Terzo punto: la messa e il rosario sono credenze assolutamente consentite, ma nessuno ci deve andare, così come sono vietate le gite ai santuari. Al quarto punto si dice che le donne, chiamate penne, se ci sono, devono essere segrete, sopra tutto devono essere già sposate, oppure prostitute.
Il regolamento è chiaro, sono le regole della “famiglia”. Chi appartiene alla famiglia deve seguire queste regole. E che cosa rilasciano come messaggio? Che la donna è unicamente prostituta e non c’è nessun’altra possibilità. La donna è donna di malaffare, è prostituta. La prima dichiarazione è la negazione del mito di Maria. Sono negati il mito della madre e il mito del tempo. La donna, ogni donna, è in assenza di verginità, di carità e di grazia, per cui è colpevole del peccato e del male e reca il marchio di questa colpa. Che il tempo debba finire, poi, è precisamente enunciato da Al, uno dei protagonisti, quando si chiede: “Perché mai sposare una donna? Per lasciarla”! E qual è il bello del matrimonio? “Il bello del matrimonio è che finisce”! E se sorgesse l’ipotesi che le donne siano strane? Ebbene, è giusto che siano strane perché, se non fossero strane, sarebbero uomini! Se ne può quindi inferire che le donne sarebbero degli uomini strani.
Questo è il contesto attorno a cui si snodano le vicende del gruppo: fantasma di fine e fantasma di origine. Infatti, accanto alla presentazione del gruppo, c’è quella della famiglia. E com’è la famiglia del narratore, Taddeo, il ragazzo che racconta la storia? La sua famiglia è questa: c’è la madre, vedova, c’è Taddeo e “uno che chiameremo il nonno”, e che la mamma chiama papà.
Sin dall’inizio il padre è annunciato come morto, è dato per morto. Con questa premessa è ovvio che anche “quello che chiameremo il nonno”, durante il film muoia, e muore infatti, e vedremo come, cioè con quella che viene chiamata una bella morte. Muore di eutanasia. Il film, la storia, la vicenda comincia procedendo da una famiglia in cui il padre è dato per morto. Il padre non c’è, la madre è vedova, il figlio è orfano e c’è “uno che chiameremo il nonno”, il quale prende lezioni di piano da una prostituta che fa venire in casa. Così il padre è tolto, è abolito. Tutto ciò che è narrato nel film procede dall’abolizione del padre, dall’idea che il padre sia morto.
Tolto il padre, lo zero, la funzione di zero, ogni cosa significa, ogni cosa è sostanziale e, sopra tutto, ogni cosa significa il male. Infatti, cosa accade? Le donne che intervengono nella storia sono prostitute; ogni donna ha questo connotato, in parte anche la madre che se la fa con il medico in modo clandestino. A un certo punto, Bep, un ragazzo non proprio sveglissimo, si fidanza con una ragazza “navigata”, nota agli amici del corso, “sia dalla parte dei numeri pari sia da quella dei numeri dispari”. Quindi, gli amici decidono di salvarlo da questo matrimonio. La chance che gli viene “consentita” è quella di vivere la sua storia d’amore con una entraîneuse che gli si presenta come una ragazza pura e innamorata al fine di distoglierlo dalla fidanzata.
Nel racconto interviene anche la donna ideale, una ragazza che rappresenta il vero amore, l’amore puro e che è inseguita per tutto il film da Taddeo, il giovane adolescente e che, finalmente, dopo tanti corteggiamenti e tentativi andati a vuoto, accoglie l’invito d’intervenire alla sua festa di compleanno. L’occasione è ritenuta irripetibile per socializzare e quindi egli tace non solo che il “nonno” stia per morire, ma addirittura che muore durante la festa. Irrompe la madre, annuncia la morte del padre, scaccia tutti da casa e la ragazza se ne va “per prima”. Allora Taddeo capisce “Che non l’avrei rivista più”. Morto il nonno, morto il padre, tolto il padre, in assenza di parricidio, nessun amore. Questa è la lezione: nessun amore senza parricidio!
Senza lo zero nessun amore, se non nelle rappresentazioni del negativo. E ogni attività pensata, rappresentata è attività illecita, è sempre un’attività che mira alla truffa transitiva: nel gruppo c’è chi vende gli impermeabili ai religiosi e si tratta ogni volta di una fregatura, c’è chi vende le automobili e sono auto rubate… E così, la vita diviene uno scherzo costante, uno scherzo con la morte, uno scherzo che deve dimostrare l’assunto di partenza, e cioè che non c’è il padre, che non c’è il mito del padre.
Ma se non c’è il mito del padre non s’instaura nemmeno il mito della madre e in assenza del mito della madre le donne sono di malaffare, le mogli sono insopportabili e il loro destino è di seguire il destino di tutte le donne. Sembrerebbe un film fosco, un film che descrive un ambiente infernale. Apparentemente, fino a un certo punto.
La conclusione del film sovverte la morale del film e introduce l’analisi. Il film si conclude con la scena in cui si sta predisponendo la fotografia di gruppo, la foto ricordo. Ma, nel momento in cui sta per essere scattata, Taddeo, il narratore che nel film è chiamato sempre “Coso” dagli “amici”, improvvisamente, Coso, al momento della foto in cui si trattava di consacrare l’immagine del gruppo a cui ambiva di appartenere, a cui sentiva di appartenere e a cui viene invitato a partecipare, al momento della foto, si toglie dall’inquadratura! E gli amici lo chiamano “Vieni, vieni, vieni anche tu”. “No, no, vedo meglio da qui!”. “Ma no, no, vieni, vieni”. “No, è meglio da qui!”, risponde.
Coso non è più Coso, non risponde più a questo nome, non risponde più ai requisiti per cui apparteneva al gruppo. Con questo gesto straordinario con cui Coso si sottrae alla fotografia, prende rilievo il racconto. Tutto ciò che è stato raccontato ha incontrato la rimozione, tutto ciò che si è narrato nel film e frutto di una coerenza fantasmatica, si dissipa, non è reale.
Narrando, la fantasmatica che consentiva la rappresentazione dell’infernale, con tutte le negatività, si dissipa. Coso non è più nel gruppo, Coso non crede più a questi elementi narrativi come segni del suo destino. Il racconto, la narrazione, il dispositivo dell’oralità ha fatto sì che intervenisse un altro statuto. Il gruppo, il gruppo degli amici del bar, il gruppo con le sue regole, la famiglia d’origine con la sua descrizione fantasmatica non c’è più. Questo gesto dà al film un valore narrativo straordinario perché non è più la descrizione dei mali di un’epoca, non lo si può più leggere sociologicamente, ma interviene la lettura clinica grazie a cui cogliamo che ciò che viene narrato non è il fatto, anzi, il fatto, narrando, non c’è più, diviene insostanziale e prende rilievo la logica, la struttura, il viaggio, l’insostanziale, lo statuto intellettuale. Nel romanzo L’esclusa c’è la stessa struttura narrativa in cui, alla conclusione del romanzo, tutta l’impalcatura fantasmatica si dissipa e s’instaura la madre con il suo mito. Qui, nel film, tutto ciò che doveva consacrare la vicenda con la sua negatività, non c’è più.
La questione della parola è questa, la questione dell’analisi è questa, la questione del viaggio intellettuale è questa e la questione dell’amore ne è costitutiva. Si tratta di un altro statuto dell’amore, che non è più un retaggio della coscienza, come qualcosa che dovrebbe fungere da legame sociale, per cui potrebbe finire in qualunque momento. L’amore come sentimento, come relazione è il fantasmatico.
Quello che abbiamo letto del film procede dal parricidio, cioè procede dallo zero che funziona nella parola, dal nome che non sappiamo quale sia e che esige lo sforzo di precisazione, di qualificazione. Così, ciascuna cosa entra nello statuto intellettuale e non in un gergo. L’amore ha a che vedere con questo. Non è qualcosa di umano che regola i rapporti interumani, ma è molto di più e solamente in questo statuto non è a termine, non può consumarsi né finire da un momento all’altro.
È questa la questione che va indagata e esplorata intorno all’amore e quest’altro statuto dell’amore che andiamo indagando è reperibile in ciascun caso che si esponga all’analisi, in ciascun caso narrativo, in ciascun mito che non diventi mitologia.
Abbiamo esplorato il mito di Ajase e il mito di Maria, abbiamo esplorato il romanzo L’esclusa e i Sei personaggi in cerca d’autore, abbiamo esplorato questo film e L’onore dei Prizzi, abbiamo esplorato vari casi e ciascuno dà il suo contributo alla qualificazione. Occorre, però, non aderire alla mitologia sostanzialista, al principio della sostanza, al principio del luogo comune; cioè, occorre fare l’analisi.
Per ora ho concluso le proposte per questa sera. Se ci sono domande…
Elio Cecchetto Pensavo a un film di Carlo Verdone, non ricordo il titolo. Carlo Verdone incomincia con la morte dell’analista.
R.C. Bene! Ciò la dice abbastanza lunga sulla sua esperienza analitica.
E.C. È un film abbastanza famoso, non ricordo il titolo.
R.C. Certo, avrà avuto successo avallando questa fantasmatica.
E.C. Il problema che poneva è: “E adesso che si fa, in alternativa all’analisi?”.
R.C. In alternativa! Esatto.
E.C. Questo non c’è più. Anzi, questa non c’è più, perché la psicanalista era una donna.
R.C. Certo.
E.C. Anziana.
R.C. Chiaro.
E.C. Molto anziana.
R.C. Molto. Addirittura moribonda!
E.C. Me la ricordo bene.
R.C. Eh sì. Verdone aveva problemi con la madre più che con il padre. Però, anche con il padre non può prendere una decisione, non può decidere nulla, perché in assenza del mito della madre, dato che ogni decisione può essere nefasta, si deve astenere. Senza il mito della madre è impossibile la decisione, perché c’è l’”a tu per tu” con la morte e ogni decisione può essere mortifera. Indagheremo anche questo film, se lei è così cortese da dirci il titolo, perché può dare dei contributi.
E.C. Non è che uno ha in testa un computer e premendo un tasto toglie l’idea di fine.
R.C. Le pare che io abbia detto questo?
E.C. No, non l’ha detto, non si può fare così.
R.C. Ho detto qual è il modo. Non è premendo un tasto ma occorre fare un viaggio, affidando ciò a dispositivi opportuni, a dispositivi intellettuali, il primo dei quali comporta l’analisi, perché senza analisi non si dissipa la fantasmatica.
Analisi vuole dire assoluzione. Si tratta di fare sì che l’idea di sostanza, di sostanzialismo trovi assoluzione e il primo modo è quello del transfert. La cosa non finisce, prosegue, ma intanto capiamo qual è il primo passo. Non c’è un tasto, non ci sono tasti, certamente no. C’è bisogno di un ragionamento, di un cammino, di un percorso, di narrazione, di racconto, di lettura, di ascolto. Vede che è complesso? È un dispositivo complesso, non è un tasto. Che tasto? Ho parlato di complessità, non di un tasto da premere.
E.C. È questo.
R.C. Esatto, mi pare che lei abbia rilevato bene la questione. Poi, se ci arriva il titolo del film, noi volentieri ci avventuriamo. Altri?
Pubblico Lei, come base di partenza per un’analisi ritiene importante sia il parricidio sia il matricidio?
R.C. No, io non ho parlato di matricidio, ma di parricidio come la faccia del transfert in cui funziona il padre. Parricidio nel senso dove il padre non è significabile, dove il padre è funzione di nome e non già come “padre di”, non già come padre genealogico, ma è il padre che interviene come nome, parlando. È qualcosa che esige astrazione.
Pubblico Astrazione. Allora mi sembra di avere capito che per lei il complesso di Edipo non abbia molta importanza a questo punto.
R.C. Come no! Complesso di Edipo che, come dice il nome, è complesso. Occorre capire di cosa si tratta in questo “complesso”.
Pubblico Sì, ma questo schematismo che viene da Freud è stato constatato anche a livello di psicologi, psichiatri.
R.C. Ecco, allora lei che lettura fa del mito di Edipo?
Pubblico Mah, sinceramente mi ha sempre lasciato indifferente.
R.C. Indifferente.
Pubblico Sì, perché lo intendo un meccanismo abbastanza “meccanico”, sostanzialmente.
R.C. Anche lei è con il nostro amico, con i meccanismi e il tasto.
Pubblico Non so, è che io ho poca fiducia nei meccanismi.
R.C. Ah, ecco.
Pubblico Però cerco di capire, per esempio Guattari e Deleuze nell’Anti-Edipo hanno messo in discussione questo concetto, questa tesi freudiana e la ritengono…
R.C. No, il mito di Edipo, altro che Freud, è narrato dai tragici greci, in particolare c’è Edipo re e poi Edipo a Colono. Allora, Edipo re arriva a un certo punto, ma è con Edipo a Colono di Sofocle che veramente c’è il contributo al mito di Edipo che ce lo fa leggere in modo non tragico. Proviamo a leggerlo!
Ora, non è questione di Freud, Guattari o Deleuze. Certo, Freud ha dato un contributo interessante, ma ancora più interessante l’ha dato Sofocle che ha posto in quei termini la questione. Provi a leggerlo clinicamente e non solamente come la favoletta dell’orso.
Pubblico Io sono senz’altro d’accordo, anche perché adesso le faccio delle osservazioni un po’ da uomo della strada. Diciamo che c’è una tendenza psicanalitica che non dà molta importanza all’inconscio ma ai fatti che succedono realmente. È una tendenza di qualche psicanalista di cui adesso non ricordo il nome.
R.C. No, ma lei ci dica qual è la sua lettura di questo mito, visto che l’ha citato.
Pubblico Il mio è semplicemente questo, nella mia infinita ignoranza che cerco di coltivare perché mi fa vivere abbastanza bene, ecco, io non credo molto nei miti delle cose, la mia esperienza di Freud è stata sempre abbastanza di perplessità. Per esempio, ho apprezzato altre tendenze psicanalitiche che sono sorte dopo Freud, Jung e altri, però io credo che la mitologia del passato, questa trasposizione attuale attraverso Freud e altri, per me ha una valenza sempre un po’ schematica, che non corrisponde alla vita reale che è fatta di smarrimenti, di paradossi, sopra tutto di non capire perché, secondo me, il volere capire tutto è impossibile.
R.C. Ma, da leggere il mito di Edipo a capire tutto, ce ne corre.
Pubblico Sì, giustamente, io ho saltato un po’. Però, io non credo che dal discorso che ha fatto lei del mito di Edipo, anche nel caso del parricidio come l’ha spiegato lei, che è interessante, abbia sostanzialmente una grande importanza.
R.C. Non sostanzialmente, ma intellettualmente. Intellettualmente ha una grande importanza, a condizione di leggerlo, non di farne una favoletta, perché un conto è la fiaba di Edipo e un conto è il mito. La fiaba dice che Edipo uccide il papà, va a letto con la mamma e poi muore. E quindi la fiaba dice: “Vedi? Non devi uccidere il papà, non devi andare a letto con la mamma se no, cosa accade? Che muori”. Ma questa è la fiaba!
Pubblico La colpa e la pena insomma.
R.C. Esatto. Passando per la conferma dell’idea di alternativa che è la Sfinge, l’incontro con la Sfinge. Invece, il mito dice proprio il contrario, che Edipo non uccide il padre, non commette incesto e incontra uno statuto senza colpa, tant’è vero che la tragedia di Sofocle si conclude con Edipo che sale in cielo! E non c’è il cadavere, non c’è la traccia umana, sostanziale, della sua punizione. Bisogna leggere questi dettagli, per capire che c’è un’astrazione straordinaria rispetto alla “fiabetta”; per Sofocle, Edipo è senza colpa, giunge a Colono in assenza di colpa!
Se effettivamente avesse ucciso il padre e avesse commesso incesto, non sarebbe mai potuto giungere a Colono, invece vi giunge. Non possiamo togliere dalla storia questo dettaglio, perché ciò ci consente di leggere quanto è avvenuto in altro modo. Importa la lettura clinica, l’ascolto.
Pubblico Sì, ho capito dalla sua esposizione un po’ la differenza di questo mito da come è presentato, schematicamente.
R.C. Perché molti si fermano, per leggere la questione di Edipo, al fatto che è cacciato dalla città, si acceca, fine. Qui abbiamo proprio l’aspetto giudiziario. C’è il delitto, la colpa e il castigo. Fine. Eh no, la cosa non finisce, questo è il punto. Magari, possiamo farne un’ulteriore lettura prossimamente, perché anche questo rientra nella questione. Rispetto alla questione del padre, della madre, della famiglia, il mito di Edipo ci può dare delle indicazioni. Altri?
Simone Barison A proposito della fine che secondo la mia lettura è finis, cioè confine, è anch’essa essenziale al viaggio perché, se una tappa non termina, non c’è un nuovo inizio.
R.C. Sì, ma non è il Giro d’Italia che ha le tappe, il tal giorno inizia, poi c’è l’arrivo e finisce, il giorno dopo inizia di nuovo eccetera. È un altro viaggio quello di cui si tratta, non è un viaggio a tappe. Questa è una rappresentazione del viaggio che nuoce al viaggio stesso.
S.B. Ma un viaggio comporta acquisizioni nuove, differenti.
R.C. Questo è auspicabile.
S.B. E anche di fare cose differenti. Quindi, nel momento in cui un’esperienza si conclude, può aprire il tempo a qualcos’altro.
R.C. Ecco, noi stiamo indagando molte questioni in direzione della salute e la formula “varie esperienze” sono propenso a metterla in questione. Non ci sono varie esperienze. L’idea che ci siano varie esperienze nuoce alla salute. Adesso non intendo dire di più, però questo mi sembra già qualcosa: non ci sono varie esperienze. Questa formula, che certamente è una formula di padronanza, si presta a padroneggiare la conclusione, a stabilire quando qualcosa possa ritenersi conclusa. Ebbene, la conclusione non è questione di coscienza, non lo stabilisce tizio, caio o sempronio quando qualcosa si conclude. Dire che qualcosa è conclusa è molto impegnativo e non asserirei così facilmente che una o più esperienze possano concludersi. Dico ciò in direzione della salute, però, per il momento non aggiungo nulla di più. Prego.
S.B. Non aggiunge nulla di più, non aggiungo neanch’io. Cosa devo dire?
R.C. Io mi scuso di averla interrotta, ma questo è intervenuto in direzione di qualcosa su cui sto riflettendo in maniera ingente in questo periodo, e allora…
S.B. Mi vengono in mente le esperienze letterarie, per esempio Ulisse, dove il suo viaggio lo porta a acquisire, in ciascun dispositivo differente, nuovi incontri, a dire cose nuove e a escogitare strategie differenti; in questo senso intendo. Se Ulisse non si dipartisse da una terra non giungerebbe a un’altra.
R.C. Intanto a noi non è dato sapere dove sia giunto, se sia giunto a una terra.
S.B. Così è scritto.
R.C. Dove?
S.B. Nel poema. Parte dal suo regno e fa un viaggio, così leggiamo. Quindi, la fine di qualcosa è anche un momento molto bello, grande, grandioso, che manifesta che quando qualcosa finisce è anche straordinario, riempie anche di emozione. Un qualcosa di grande che finisca, che può essere un guerriero che muore piuttosto che un’isola che si lasci dopo esserci vissuto per un po’, riempie di emozione. Almeno succede così.
R.C. Forse. Lei propone la fine come apoteosi!
S.B. Di un momento della vita, di un’acquisizione per poi andare a esplorare, a proseguire, a fare altro, a arricchirsi di altre perle, di altri doni.
R.C. Sì, ma può porsi il caso che, perché questo processo prosegua, non sia necessaria la fine di nulla, che nulla debba finire.
S.B. Si resta sempre lì, allora.
R.C. Ecco, occorre capire dove stia lì!
Pubblico […].
R.C. Lei non ha retto, eh!
Pubblico Beh, sì, è alla mia personalità.
R.C. Non ha retto la sua personalità?
Pubblico Sì.
R.C. Accade così il più delle volte: nessuno regge alla personalità che si affibbia!
Pubblico Forse non ho avuto rispetto nell’aspettare che avesse parlato il signore.
R.C. Ecco, non ha avuto rispetto. E questo va a suo merito, per altro! Aveva concluso?
S.B. Sì, abbondantemente.
R.C. Quindi, lei cos’è che dice?
Pubblico Io dico che ho una voce così squillante che forse non ho neanche bisogno del microfono, forse mi sentono lo stesso.
R.C. Però non è detto che si senta lei!
Pubblico Ah, io!
R.C. Magari il microfono l’aiuta a sentire ciò che dice e non solo, anche a ascoltare.
Pubblico A ascoltare ciò che dico. Io pensavo di essere convinta di ciò che sto dicendo.
R.C. Questa è la cosa peggiore che potesse dire questa sera!
Pubblico Lo so che con lei il fare vuole dire disfare un po’ tutto.
R.C. Prego, prosegua. Mi pare un modo per accoglierla dopo tanto tempo.
Pubblico Sì, grazie. Io sento che voi qui parlate un po’ e vi riferite a questo, a quello e a quell’altro, oppure parlate in modo molto distaccato da voi. O forse non è detto che parliate in modo distaccato da voi, magari ponderate le parole molto più di me, ma io a volte mi guardo dentro e guardo la fine dell’amore come diceva lei prima. Secondo me… Ma perché devo avere paura di dire questo? Perché potrebbe benissimo morire questo amore. Adesso io parlo non riferendomi al film, perché io non so… Sono fuori tema? Perché lei ha parlato di film e di libri mentre io, se posso dire, l’amore c’è se una persona ha amore, se è sincero il sentimento che prova per l’altra persona. Certo, potrebbe morire anche inaspettatamente, magari ci si aspetta qualche cosa che poi non è… Mi sono messa in un bel casino!
R.C. Esatto, ci si è messa da sola. Bene, abbiamo cominciato e proseguiamo. Anzi, proprio perché stiamo proseguendo, questa sera lei ha cominciato. Bene, ci sono altri, altri audaci? Ecco, c’è qui un audace in prima fila.
Gianfranco Dalle Fratte Lei parlava della coerenza fantasmatica. La coerenza fantasmatica sarebbe la fiaba, qualcosa che è intoglibile nel racconto? Si tratta di ascoltare la coerenza fantasmatica?
R.C. Da capire, la coerenza fantasmatica è da capire.
G.D.F. Quindi, la coerenza fantasmatica è ineliminabile, non si può abolirla; si può intendere ma non abolirla.
R.C. Esatto, e sopra tutto è innegabile. Negarla vale perpetuarla. Parlo della coerenza del fantasma materno, in questo caso. C’è anche la coerenza dell’operatore originario, ma io adesso parlavo della coerenza del fantasma materno, cioè, in particolare, della coerenza del fantasma di fine. Negando questa coerenza, quindi negando le connessioni nella storia, nel racconto, ciò vale a perpetuare questa coerenza, dunque il fantasma. Adesso è più chiaro?
G.D.F. Per niente, anzi!
R.C. C’era un’altra mano che vedevo. Eccola lì.
Fernanda Novaretti Aveva parlato, all’inizio, delle fantasmatiche intorno all’amore, della necessità di cogliere la struttura, la logica e il suo modo. Mi chiedevo cos’è la struttura, cos’è la logica e le loro differenze.
R.C. Non ne ha proprio idea?
F.N. Forse della logica sì, della struttura non so; è già nell’enunciato? In che cosa consiste la struttura non mi è chiaro.
R.C. Non le è chiaro, però un’idea vaga ce l’avrà. Intanto, lei ha rilevato che c’è la logica e la struttura. Dove si appunta l’una e dove si appunta l’altra?
F.N. Non so dove si appunta, la differenza non riesco a coglierla.
R.C. Ha aspettato proprio gli ultimi minuti per porre questa questioncella! Bene ho preso nota. Altri? Siamo proprio in conclusione.
G.D.F. Sembra, da quello che ha detto nei vari incontri, che l’amore non è umano, non è umanizzabile e non si tratta di un amore pensabile, credibile, rappresentabile. Comunque, non è umanizzabile e che si tratta, perché s’instauri l’amore, d’instaurare dei dispositivi di parola, si tratta della parola originaria e dello statuto intellettuale dell’amore. Allora, di cosa si tratta nello statuto intellettuale se non è una cosa umana? Cos’altro è? Grazie.
R.C. Bene. Si tratta in breve, brevissimo, giusto perché lei possa dormire tranquillo questa notte, della parola.
Ci sono altri. Prego, poi concludiamo con Moda.
Maria Antonietta Viero Dicevo che, se il padre è preso in un’oscillazione tra positivo e negativo, anche la vita comporterà questa oscillazione, troverà questa oscillazione nella vita. Poi dicevo, questa trasposizione…
R.C. No. Assenza di trasposizione, l’oscillazione non è trasposizione.
M.A.V. Allora diciamo che interverrà un’oscillazione come rappresentazione del fare.
R.C. Come rappresentazione del destino!
M.A.V. Stavo pensando a quali siano le conseguenze dell’oscillazione nel lavoro, nella vendita, nella riuscita, perché, in ciascun atto che comporti la vendita, l’oscillazione del padre tra positivo e negativo implica la non riuscita, per via di una maternizzazione. […] Pensavo alla vendita perché è un atto di autorità che comporta un rischio, dove l’atto non è garantito. Poi, un’altra questione riguarda Coso che non è più Coso perché all’ultimo momento si toglie dal gruppo. Quindi, il gruppo non c’è. Ciò significa che lì s’instaura il padre? Questo gesto d’autorità mette in evidenza il dettaglio che il gruppo è senza padre e c’è, invece, l’instaurazione del padre proprio in questo toglimento?
R.C. Perfetto. Poi c’è Fabrizio Moda.
Fabrizio Moda Prima ha parlato, tra i vari modi di sostanzializzare il padre, nelle raffigurazioni del padre, anche del padre premiante; questo mi ha un po’ stupito. La vedevo come una cosa positiva che il padre possa premiare e volevo chiedere il motivo dell’esclusione del padre premiante, se questa premiazione toglierebbe la tensione, toglierebbe in qualche modo il fare del figlio.
R.C. Il padre premiante è l’altra faccia del padre che punisce.
F.M. Sì.
R.C. Nulla di più, nulla di meno. E quindi ciò mantiene l’oscillazione, mantiene l’anfibologia del padre: una volta dà e una volta toglie, una volta premia e una volta punisce; male, bene. Cioè, la rappresentazione non articola la questione della funzione di padre, in quanto mantiene l’idea del padre come agente del bene e agente del male e rimane l’ideologia della vendetta.
F.M. Infatti, è stata la cosa che mi ha colpito di più.
R.C. È stato bravo, perché io l’avevo messa lì così, tra le pieghe.
F.M. Erano tutte negative tranne il premiante. Negative tra virgolette, chiaramente.
R.C. Esatto.
F.M. Infatti, la cosa che mi ha colpito di più e che ho sottolineato negli appunti, è il cedimento, che sarebbe una forma di vendetta. Infatti, mi è capitato recentemente di cedere diverse volte, momentaneamente e un po’, e ne ero quasi contento da un certo punto di vista, perché notavo che il cedimento era momentaneo, mentre non ci deve essere, neanche momentaneo.
R.C. Esatto.
F.M. Neanche cinque minuti? Perché poi passa.
R.C. Non è necessario cedere neanche un secondo.
F.M. Esatto, sì.
R.C. Bene, molto bene, grazie a lei.
L’amore nell’educazione
Ruggero Chinaglia Ci sono due primizie. Una è che Mikheil Saakašvili, l’attuale presidente della Georgia, intervistato da Raphael Glucksmann, il figlio di André Glucksmann, ha scritto il libro Io vi parlo di libertà, libro che sarà in libreria tra poco, ma che può essere prenotato presso l’associazione. L’altra è il libro di Alessandro Taglioni La materia, Dio, l’arte. È un testo molto impegnativo, che presentiamo qui, a Padova, venerdì 29 alle ore 18, alla Galleria Civica in Piazza Cavour, che ospita anche una mostra del maestro, di cui avverrà l’inaugurazione. Mentre, giovedì 28 alla Sala Polivalente in Via Valeri, abbiamo due ospiti per il dibattito della modernità La scienza e la crisi. Il titolo del dibattito è L’arte e il diritto. Il mercato, la vendita, la scrittura. Gli ospiti sono Elisabetta Costa e Gianluca Rozza. Si tratta di due esponenti del forum di Milano e sono avvocati. Gianluca Rozza è anche pittore, Elisabetta Costa è anche scrittrice, quindi è una combinatoria. È il caso di diffondere la notizia, e poiché la notizia non si diffonde da sé, l’ipotesi può essere quella di avvisare l’ordine degli avvocati della città. Chi intende collaborare può segnalarsi.
Questa sera parliamo dell’amore nell’educazione. Chiaro che ognuno sa “a sufficienza” sulla questione, però noi daremo un contributo. La settimana scorsa, tra le varie questioni che venivano sollevate, c’era chi avvertiva l’esigenza di situare con precisione l’amore quanto alla logica e alla struttura, per cui entriamo nello specifico. Abbiamo detto alcune cose intorno a quella che è stata e è una mitologia dell’amore, il discorso che è sorto su questa mitologia e sulle varie logìe dell’amore: chi ne fa un sentimento, chi una passione, chi una relazione. Ognuno può dire quel che gli pare, ma come qualificare l’amore?
Non sono molti quelli che hanno proposto di qualificare l’amore al di fuori della concezione umana e di cogliere lo specifico dell’amore non come caratteristica o attributo umano, ma come qualcosa che è proprio alla parola e che, essendo proprio della parola e della sua esperienza, non è umanizzabile. Cos’è l’amore non è nemmeno definibile in termini filosofici. La tentazione sostanzialista è la via facile, è la tentazione di assegnare a ogni cosa il nome del nome, il nome che possa rispondere alla domanda: “Cos’è questo?”. “Questo è questo; quell’altra cosa è quell’altra cosa”. E basta!
In questo modo ognuno può conoscere, può sapere, può diventare competente, può sapere di cosa si tratta, può sapere se può volere la tal cosa, se può averla o non averla, possederla o non possederla. Questa è la tentazione sostanzialista in base a cui ognuno “sa cosa dice”, ognuno è, ognuno sa. Ognuno sa cosa fare, sa cosa vuole, sa quello che dice. Ognuno. Ma così ognuno non si trova a qualificare. Ognuno, convinto che deve sapere, deve volere, deve potere, non osa qualificare, perché la qualificazione potrebbe mettere in discussione il sapere ideale.
A proposito dell’amore, Freud aveva osato una qualifica non in termini sostanziali, ma in termini di clinica, di testimonianza dell’esperienza e aveva inventato l’amore come amore di transfert, cioè non come passione o sentimento. Però, pur avendo aperto una breccia rispetto alla qualifica, questa breccia si è subito chiusa, in parte grazie a Freud stesso e in parte, in seguito, perché transfert è stato tradotto come una relazione, la relazione che dovrebbe collegare lo psicanalista e chi fa l’analisi. È chiaro che in questo slittamento del transfert come relazione, l’amore stesso come amore di transfert è rimasto impigliato nell’idea di relazione, per cui è stato tramandato, con e dopo Freud, che l’amore di transfert era qualcosa che si opponeva all’analisi, al transfert, e collegava vieppiù lo psicanalista e chi si trovava nell’esperienza.
Psicologi, sociologi, psichiatri, medici, filosofi si sono sentiti invitati a nozze. Era sorta una relazione nuova, ma che pur sempre relazione era. Una relazione nuova tra “medico” e “paziente”. E ciò ha decretato la fine del transfert in un’accezione inerente la parola. Così, è venuto meno ogni interesse scientifico verso il transfert inteso come relazione. Infatti, quale interesse scientifico può avere la relazione “tra”, ossia una riedizione dell’amore materno, dell’amore fraterno, dell’amore paterno, dell’amore umano, della passione umana, di un’idea umana della relazione? E questo ha consentito ancora una volta di espellere la parola. Si può fare ancora una volta come se la parola non esistesse, come se si trattasse sempre del rapporto sociale, del teatrino domestico prodotto dal tabù della prescrizione dell’incesto. Ecco, allora, che anche il transfert viene risucchiato dal tabù dell’incesto e diventa relazione umana. Ma non è così. Il transfert non è una relazione, ma se diciamo questo la faccenda si complica e allora tizio, caio, sempronio dicono: “Che cos’è?”. E lo vogliono sapere, sopra tutto quelli che lo vogliono evitare: “Diteci che cos’è, come avviene, dove, come, quando”. E lo chiedono sopra tutto coloro che se ne guardano bene, che tentano a tutti i costi di evitarlo, perché la loro vita, diciamo così, è improntata sul principio di evitamento della parola.
Non può capire di che si tratti, quanto al transfert, chi non corre il rischio della parola, chi voglia evitare la parola sul principio di conoscenza, chi non voglia correre il rischio della sorpresa, della meraviglia, dell’imprevisto, cioè dell’intervento del sapere, del senso e della verità non previsti, quindi dell’intervento dell’altro tempo: parlando, facendo, leggendo. L’avaro non potrà mai capire di che si tratti nel transfert. L’avaro, cioè chi ritiene di possedere le cose, di potere capitalizzare le cose, di potere capitalizzare il senso, il sapere e la verità, nonché di accumularli e di erigere su questo cumulo la propria competenza. E chi si ispirasse a questo principio, nulla può capire del transfert, nulla può capire dell’amore quando si prende per buona la formula dell’amore da transfert. Freud scrive saggi, libri, dà tanti contributi intorno al transfert, ma non apre una breccia nemmeno all’interno di quella che è andata costituendosi come una cerchia, un accerchiamento, la cerchia degli allievi. Infatti, in quanto allievi, ritenevano di dovere sapere e non già di capire, ritenevano di sapere cosa fosse.
Freud ha scritto vari libri, varie opere, la più importante come fama acquisita è L’interpretazione dei sogni, ma nessuno ha capito che è un’opera intorno al transfert. Ognuno ha ritenuto che fosse un’opera sui sogni, su come interpretare i sogni, come tradurre i sogni, come dovere dormire per sognare. Così è sorto un filone, in America, la psicoanalisi così detta americana, che stabilisce che bisogna dormire, sognare e poi fare l’analisi dei sogni! Su questo è sorta anche la cabala nostrana, diciamo, quella che attribuisce al contenuto del sogno un significato codificato. Ciò è un’ottima applicazione della negazione del transfert; questo vuole dire quello, quello vuole dire questo. Per tutti!
Quando Freud ha scritto L’interpretazione, è stato tradotto “codifica” dei sogni! Eppure, Freud in quest’opera parla di linguistica, ossia della linguistica analitica. Più di metà del libro ruota intorno alla questione della metafora e della metonimia, di come intervengono metafora e metonimia parlando e di come il sogno sia costituito da questo. È sogno il racconto e onirico il parlare perché, parlando, intervengono le usure della parola: metafora, metonimia e catacresi, l’abuso linguistico. Metafora, metonimia e catacresi, le strutture oniriche della parola.
Se parlando intervengono le usure della parola, impossibile codificare cosa voglia dire questo o quello. Impossibile una codifica generale, una codifica per tutti ma, caso per caso, si tratta di cogliere, ascoltare il modo in cui le usure intervengono: condensazione e spostamento, metafora e metonimia.
Freud chiama questo con un termine nuovo, transfert, spostamento, sopra tutto, ma anche condensazione. È qualcosa che, senza trasporto di sostanza, produce metafora, metonimia, catacresi, spostamento, condensazione, movimento, pausazione, ritmo. Con la metafora, con la metonimia, con la catacresi le cose viaggiano, non sono mai le stesse, non sono mai ferme. Sono in viaggio. Il transfert è la via del viaggio, il viaggio delle cose cui l’avaro cerca di opporsi perché le cose in viaggio non sono accumulabili, si spostano, si muovono e non c’è più un fondamento stabile, comune.
Le cose sono in viaggio perché si muovono, si spostano, si metonimizzano, si condensano, perché acquisiscono sfumature diverse volta per volta, caso per caso e ciò impedisce di dire “Io sono così”, “Io ho questo”, “Questa cosa è questa”. In certe circostanze questa cosa è un’altra cosa. Certo, Freud aveva individuato “un luogo” perché questo avvenisse e potesse avere la chance d’ascolto, ma occorreva un dispositivo – non comunque e dovunque –, un dispositivo d’ascolto in cui lo psicanalista occupava quella posizione indispensabile perché qualcosa cominciasse a funzionare in altri termini, cioè non secondo il luogo comune, non secondo la mentalità comune e si potesse cogliere il varco tra una cosa e l’altra, tra una cosa e se stessa, dunque, transfert.
Poi il transfert è stato recuperato come relazione tra tizio e caio, per cui è diventato mera fantasmatica erotica, una relazione tra fantasmatiche erotiche. Nulla di che, e questo vige ancora nella letteratura così detta contemporanea. Ma, Armando Verdiglione ha fatto una proposta nuova, una proposta differente a un certo punto, indicando non già il transfert come relazione, ma come l’avvio della struttura dove intervengono le usure della parola. Il modo della parola è secondo la logica della nominazione e non secondo la logica dell’episteme, filosofica, aristotelica, platonica. E, in particolare, rilevando l’aspetto della logica funzionale, Verdiglione propone che il transfert sia costituito da due facce: quella del parricidio e quella della sessualità.
La faccia del parricidio è quella dove funziona il nome e dove funziona il significante, quindi dove nulla è stabile perché, funzionando il nome, si producono effetti di senso e, funzionando il significante, si producono effetti di sapere. Senso e sapere. Funzionando il nome effetto di senso, ma anche effetto di dispendio; funzionando il significante effetto di sapere, il paradosso del desiderio.
Il funzionamento è una logica che interviene parlando, e produce nell’esperienza in atto gli effetti che dicevamo di senso, di sapere, di dispendio, di godimento, di desiderio. Allora, ciò che interviene nell’esperienza di parola in termini di senso, in termini di sapere è connesso alla ricerca rispetto al nome e rispetto al significante sulla faccia del parricidio.
E così come Freud aveva rilevato che c’erano la metafora e la metonimia, c’è anche una struttura onirica che si costituisce in qualche modo come elemento terzo. Nella logica della nominazione c’è il nome che funziona, c’è il significante che funziona, ma c’è anche Altro dal nome e dal significante. E, in effetti, oltre al senso e al sapere ci sono anche effetti di verità. Dunque c’è una struttura che si prospetta e si annuncia; non è una struttura formale precostituita, è una struttura temporale che si effettua e di cui si possono individuare gli elementi costitutivi après quoi, non prima, ma proprio sulla base degli effetti!
L’avaro vorrebbe che gli effetti non gli disperdessero il cumulo del suo sapere, per cui non si espone al transfert. L’avaro dice che non ha niente da capire, perché vuole mantenere la competenza su di sé, su quel suo personaggio in cui crede fermamente e di cui si lamenta, e in questo crede di situare la propria generosità, di lamentarsi del personaggio mantenendolo, perché così mantiene il suo capitale, la sua competenza, la sua soggettività; può continuare a lamentarsi generosamente, mantenendosi tale! Questo sarebbe l’amore di sé, l’amore del proprio personaggio verso se stesso, l’amore dell’avaro verso il suo cumulo, verso il suo capitale. E il transfert e l’amore di transfert? Verdiglione fa una proposta che spiazza assolutamente le competenze filosofiche, sociologiche, psicologiche, quelle competenze su cui si fondano le logìe, cioè i saperi. Verdiglione propone l’amore come dimora del parricidio, la dimora della faccia del transfert dove funzionano i nomi e i significanti, l’amore dove intervengono, come effetti, il dispendio e il senso, che non è mai lo stesso.
Quindi è un amore che non assolve, non adempie, non soddisfa la caratteristica addotta verso l’amore umanamente inteso, e cioè di essere transitivo, di essere amore per qualcuno, per qualcosa, amore che ama, amore di qualcuno che ama qualcun altro, amore di qualcuno che ama qualcosa e dove l’amore transitivo ha il destino di finire in ciò che lo soddisfa. L’amore transitivo è l’amore sostanziale. L’amore per il partner è l’amore “a tu per tu”, è l’amore “tra”, tra due. È l’amore che dovrebbe soddisfare l’erotismo.
L’atto non è d’amore, l’atto è di parola, l’atto è sessuale, l’atto è intellettuale. Non è atto amoroso, non è atto d’amore. Si tratta di cogliere, semmai, in che modo l’amore interviene nell’atto e come e quale sia l’istanza d’amore nell’atto. Se l’atto fosse amoroso, cioè se l’amore fosse transitivo, allora sarebbe l’atto la cui direzione è già codificata, è già data, sarebbe l’atto “finalizzato a”, l’atto il cui fine sarebbe l’amore. Ma l’amore, eventualmente, è modo dell’atto! Se l’atto fosse amoroso sarebbe salvifico, avrebbe come fine la salvezza di sé o dell’Altro. Non a caso, uno dei pochi e forse il più famoso film d’amore di Hitchcock s’intitola Io ti salverò.
Dunque, amore di transfert in quanto, dice Verdiglione, l’amore è custode del transfert. Custode! Quindi, è piallata l’ipotesi che il transfert sia una resistenza all’analisi, il transfert come resistenza, la resistenza come aspetto costitutivo del transfert. La resistenza è funzione di resistenza, non è la resistenza di qualcuno a qualcun altro, che è un’idealizzazione, una rappresentazione, una volgarizzazione, un modo di rappresentare la funzione come relazione. No, dice Verdiglione, c’è la funzione e c’è la relazione, che sono due logiche, non due apparati; non sono due aspetti sociali o di rappresentazione sociale. C’è la funzione, il funzionamento e c’è la relazione, l’apertura.
La relazione come apertura, non come la realizzazione dell’edipismo, dell’erotismo, della socializzazione, della soggettività. Relazione come apertura e funzionamento come intervento del numero triale.
La questione, dunque, non è umana e non è sociale, ma è aritmetica. La parola segue l’aritmetica, segue il numero diadico e il numero singolare triale. È una questione complessa, mica un giochetto tra tizio e caio, una conversazione da salotto. È una questione seria questa, è una questione scientifica. Mica uno psicologo può venire a fare il predicozzo sulla relazione interpersonale come “relazione transferale”. Questi sono babbei che non hanno capito niente, che sono a supporto di una società ideale da cui la parola deve essere espulsa e per cui fanno dell’interpersonalità il fondamento della relazione come relazione sociale. Ma la relazione non è sociale, è relazione nella parola, è la relazione come apertura, come l’inconciliabile, l’inconciliabile del due. Il due è inconciliabile.
Qual è il modo con cui il due è stato reso conciliante, è stato diviso a metà? Ecco l’androgino! Ecco il due che diventa due cose, e queste due cose si devono riunire. Ecco la cazzata della ricerca dell’anima gemella. Ognuno va in cerca dell’anima gemella. E magari la trova! Magari la trova psicotizzandosi in una specularità. Come? È la cosa più facile. La trova, oppure la cerca. E dove la cerca? Sarà papà, sarà mamma, sarà ciccì o sarà coccò il mio altro, la mia unità, il mio alter-ego? Perché io sono la metà di un tutto che deve riunirsi! La psicotizzazione, l’idea della predestinazione, di avere subìto un taglio che bisogna cucire per ricostituire, per costituire l’unità. E su ciò migliaia di anni di pseudo civiltà.
Gli amori. Ognuno insegue gli amori della sua vita. Cavolate ideologiche. L’amore è custode del parricidio, dove funziona il nome. Come funziona il nome e quale sia il nome che funziona non è noto, non è cosciente, non è questione di volontà. “Ho voluto rimuovere questa cosa”, “Non me la ricordo perché l’ho rimossa, l’ho voluta rimuovere”; questi sono sproloqui considerati scientifici. “Questo fa della psicanalisi, parla della rimozione, quindi ne sa di psicanalisi”. No, non sa proprio nulla, per quello parla così, perché non l’ha mai fatta, non si è mai esposto agli effetti della parola, non ha mai accolto l’eventualità di questi effetti. “Mi dica dottore, cosa ne pensa di me?”, “Cosa pensa di me dottore?”, “Adesso che abbiamo fatto alcune conversazioni, cosa pensa lei di me?”. Eccomi, ecce homo, mi presento, sono il mio personaggio e vorrei non trovare mai l’autore, così mi posso mantenere tale. Pirandello aveva capito qualcosa. Il personaggio, qualora avesse trovato l’autore, non c’è più come personaggio. Il personaggio è in assenza di nome, è personaggio di un ricordo, di un discorso, di un’ideologia, di una mitologia, di un’idea di sé. Personaggio di un discorso in assenza di parola perché, funzionando nella parola nome, significante, Altro, non c’è più personaggio, l’idea di sé si dissipa e s’instaura qualcosa, un’altra cosa, un altro senso, un altro sapere, un’altra verità. Il viaggio allora prosegue, perché per il personaggio il viaggio è finito, è sempre finito.
Il nome funziona ma non è conosciuto e l’oggetto che causa il funzionamento resta invisibile, imprendibile, intoccabile. L’amore non si rivolge alla sua causa, dunque non si rivolge all’oggetto. L’amore transitivo sarebbe l’amore che si rivolge alla sua causa, la raggiunge e fa con essa la ri-unione: è l’amore che finisce, è l’amore transitivo, l’amore che ha come presupposto l’amore di mamma, l’amore di figlio, l’amore di papà.
L’amore intransitivo è ciò che custodisce lo svolgimento della vicenda narrativa; non della vicenda concreta, ma narrativa. Non c’è vicenda se non interviene la narrazione, il racconto, la conversazione, la parola. Non c’è vicenda se c’è il ricordo senza memoria, l’essere, il soggetto, l’ontologia, la concrezione, se non c’è astrazione. Nessuna metafora e nessuna metonimia nell’ontologia delle cose; con qualche variante che conferma il sistema, in assenza di arte, d’invenzione, di cultura.
Nella proposta che avanza Verdiglione risalta un altro aspetto, e cioè che l’amore è senza contatto, senza consumazione e senza prova d’amore, quindi senza ricatto. Non è l’amore della mamma per il suo bambino, l’amore del bambino per la sua mamma, l’amore del ragazzo per la sua ragazza, l’amore della moglie per suo marito: è amore senza accoppiamento, cioè senza parità. “Mi ami tu?”, “Mi ami come ti amo io?”, “Ma noi ci amiamo?”, “Io ti amo di più”, “No, io ti amo di più”. Chi ama di più e chi di meno? È un amore ricambiato? Sarà un amore equivalente?
L’amore intransitivo è senza vendetta. L’indice della transitività è la vendetta. Colpa, pena, premio, punizione. La vendetta da soggetto a soggetto. La vendetta dovrebbe sancire la parità dello scambio. Ogni scambio in cui la parità è presunta necessaria, giustifica la vendetta; quindi, la parità è l’assenza di transfert.
L’idea di parità è l’idea di uno scambio senza parola, senza usura, senza transfert. Ma, nello scambio, nell’atto, nell’esperienza in cui l’atto esige di qualificarsi è impossibile evitare il dispendio, è impossibile evitare il senso, il sapere, la verità come effetti.
L’amore è il custode dell’impossibile economia dell’atto, è custode del dispendio e del sapere effettuali. È custode del procedere della ricerca e del suo scriversi; non resta chiusa in sé, si scrive. L’istanza della scrittura della ricerca è l’amore, e ciò indica l’altrove, indica che le cose non finiscono ma si dirigono altrove, verso la produzione.
L’amore non è mai sterile, esige la produzione che già ne comporta l’istanza, istanza che è nella strategia e nel programma. L’amore esige che il progetto si scriva, che la ricerca si scriva in direzione della produzione, e questa è l’economia. L’economia è l’altrove dell’istanza di scrittura della ricerca.
L’amore è l’altrove dell’economia in atto. Contrariamente all’economicismo, l’economia va verso la produzione. Dunque, l’amore non va verso il partner, va verso la produzione. Non è una questione di rivendicazione o di sintesi, ma di produzione, che è contrastata dallo spreco, da chi si ritiene sufficiente, da chi si ritiene personaggio sufficiente a se stesso, che non sa cosa fare, non sa dove andare. Non sa.
La produzione, e allora si pone una questione: quando l’istanza di produzione sfocia in una “neoproduzione”? Quando, come e perché l’istanza di produzione, anziché entrare nel processo di valorizzazione, di scrittura, di qualificazione diventa neoproduzione locale? Come, quando, dove e perché? È una questione.
Cosa c’entra tutto ciò con l’educazione? Perché il nostro incontro è sull’amore nell’educazione. L’educazione che non tenesse conto del dispendio, del senso, del sapere, della verità, del desiderio in quanto effetti, paradossi dell’annunciazione del transfert, sarebbe un’educazione al personaggio. L’amore nell’educazione interviene in quanto indice dell’intransitività.
“Tutto sua madre”, “Tutto suo padre”, “Tutto suo fratello”, “Tutto come me”, “Tutto come te”, “Fai come me”, “Fai come lui”. La riproducibilità, la riproduzione. Ma l’educazione è educazione alla qualità e va in direzione dell’unicum, dell’irripetibile, non del riproducibile, altrimenti diventa addestramento mimetico, addestramento al mimetismo genealogico e il viaggio è già tolto, bandito. Non si tratta di educare all’appartenenza, alla conventicola del genere umano. L’educazione è educazione all’infinito, all’insistenza.
Freud diceva che la pulsione è una forza costante. Ecco, l’educazione alla costanza della pulsione, all’istanza irriducibile della domanda. Non educazione a fare quello che si vuole, quando si vuole, come si vuole, se si vuole. Questa è la bestialità. L’amore interviene nell’educazione come indice dell’insostanzialità, dell’intransitività, dell’infinibilità, della non consumabilità; allora c’è amore nell’educazione.
Pensavo di concludere molto prima perché avevo un esempio da dire. Avevo un esempio preso da Gigetto. Magari ne parliamo la prossima volta, intanto ciascuno lo può leggere. Chi è che conosce l’opera di Pirandello L’innesto? Come faccio a parlarne se nessuno l’ha letta, se nessuno ne sa niente? Ci porterebbe via un’altra ora; quindi, discutiamo di quanto sentito. Magari ci rivolgiamo a Gigetto la prossima volta, così intanto qualcuno se lo legge perché, se invece di cogliere l’amore come ne abbiamo parlato questa sera, ci fosse chi pervicacemente cerca di farne un attributo umano, allora Gigetto ci dice cosa lo aspetta. Ci dice cosa spetta a chi volesse ispirarsi all’amore come sentimento umano, come passione umana. L’innesto è un’opera in tre atti del 1917. È incredibile questa lezione sull’amore di Luigi Pirandello già nel 1917! E nessuno se ne è accorto, nessuno che abbia letto questa lezione. Vediamo se dopo una novantina d’anni riusciamo a darne un’eco, a accoglierne l’indicazione.
Vedo che siete provati da queste cose, peraltro semplici, lievi, leggere. Cose leggere. Prego.
Cecilia Maurantonio Due domande. La più breve e semplice è rispetto agli effetti. Volevo capire se il dispendio, il godimento, il desiderio sono sempre effetti come il senso, il sapere e la verità. E poi volevo chiedere se l’amore, in quanto c’è l’oggetto come causa, trova una sua connessione con l’immagine, se nella causa interviene l’immagine.
R.C. Eh no. Come fa l’immagine a intervenire nella causa?
C.M. Non nella causa. La causa è il funzionamento, ma c’è anche l’immagine? Come e se c’è. Io dico che c’è.
R.C. E chi lo nega. Ma come, dove, quando e perché? Ci dica qualcosa lei dell’immagine.
C.M. Circa la causa pensavo allo specchio come punto di distrazione, che non restituisce un’immagine pari, un’immagine identica; quindi c’è un’alterità che non è lo specchio, ma è qualcosa che entra in atto. Il nome comincia a funzionare e risalta la trialità, la differenza come immagine. Adesso mi riferisco allo specchio, però è indispensabile lo sguardo per cogliere questa differenza, per cogliere la trialità.
R.C. Lei dice immagine come produzione?
C.M. Ecco, potrebbe trattarsi proprio di questo.
R.C. O come riproduzione?
C.M. No, produzione. Perché la riproduzione presupporrebbe che il pari fosse già la riproduzione, ma siccome il pari non c’è…
R.C. E allora l’immagine come produzione dove si produce? Chi la produce?
C.M. Nella catacresi interviene un elemento…
R.C. La catacresi è un’usura. Non è che nell’usura può starci qualcosa, l’usura è il modo. Noi non possiamo riempire il modo con qualcosa, né possiamo riempire la funzione con qualcosa, cioè la parola non è sostantificabile.
C.M. Certo. Anche se capisco che non posso attribuire l’immagine alla causa, la trovo essenziale alla produzione degli effetti, alla produzione delle sensazioni. Grazie.
R.C. Grazie a lei. Altri? Ecco un’altra mano. E siamo a due mani.
Lucia Macario Volevo fare una domanda riguardo al padre, anche rispetto a quello che è stato detto, e una considerazione rispetto all’amore, in particolare all’oggetto dell’amore, nel senso che l’amore non ha un fine, non si rivolge a qualcosa e non ha come fine l’oggetto, ma procede dall’oggetto. Quindi, non so se l’oggetto è la domanda, se l’amore procede dalla domanda, se è il modo della ricerca. Non c’è l’oggetto come fine, ma come qualcosa da cui procede l’amore, eventualmente la ricerca di qualcosa da cui parte la domanda di ciascuno.
R.C. Dicevamo prima amore di transfert, amore di domanda, amore dimora del parricidio, custode della domanda. Custode del parricidio nella domanda, dell’economia nella domanda, economia nell’accezione che dicevamo prima. Dimora del parricidio, altrove dell’economia. Economia che è ciò che si dirige alla produzione.
L.M. È una cosa strana che nel linguaggio si scelgono dei termini e non altri e mi chiedevo se ci fosse, ma forse non c’è, una lontana connessione tra il padre e il papà, nel senso che, se il papà è senza autorità perché è agente e il papà diventa padre, un termine si usa per indicare un funzionamento, cioè questo qualcosa che interviene nel dire. Nel dire, interviene qualcosa di nuovo, di Altro. Come mai si chiama padre e quale sarebbe la connessione tra il padre e l’autorità?
R.C. Esatto. Chiaro che praticamente ha fornito la risposta a entrambe le domande e certamente nulla ha il padre a che vedere con il papà. E, tuttavia, dipende dal padre la vicenda del papà. Quello che importa, più che vi sia il papà, è che vi sia padre, ossia la funzione di nome, il nome che funziona. Se non c’è padre possono esserci anche dieci papà. Ecco qui tutta la vicenda del papà come amico, papà come fratello, papà come personaggio. Quale sia il personaggio in cui il papà si rappresenta o viene rappresentato, dipende che vi sia o no funzione di nome, dunque che vi sia parricidio. Con questo, mi sembra che possiamo salutarci questa sera.
G.D.F. Voglio fare una breve domanda.
R.C. Lei aspetta sempre che cali il sipario e allora dice “Ci sono anch’io”! Allora sentiamo la breve domanda.
G.D.F. Io pensavo al malinteso, anche se lei non ne ha parlato.
R.C. Di tante cose ho parlato questa sera, ma non del malinteso.
G.D.F. Volevo dire, abolito l’altro tempo l’oggetto è conosciuto, abolita la funzione di Altro l’oggetto è rappresentabile e quindi sarebbe abolita anche la pulsione se la pulsione non cerca l’oggetto, ma la domanda. Però, in che senso la pulsione e la domanda sono apertura e quindi…
R.C. La relazione è apertura, non ho detto che la pulsione è apertura. Questo lo sta dicendo lei.
G.D.F. Sì. Ma perché due è apertura? Poi ha detto che due è relazione, ma non relazione tra due cose, bensì è relazione. E, appunto, apertura; in che senso apertura? Potrebbe avere a che fare con la dualità della pulsione? Apertura in che senso? E perché due sarebbe apertura? Apertura perché non c’è chiusura perché, se non viene abolita la trialità dell’oggetto, allora…
R.C. No, il due non ha niente a che vedere con la trialità. Casomai è il numero triale che procede dal due. Proprio in quanto c’è l’apertura, anche il numero singolare triale procede dall’apertura. Senza l’apertura abbiamo la logica della vendetta.
L’amore senza genealogia (L’innesto Romanzo di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Giovedì prossimo, a conclusione della serie dei dibattiti intorno alla Scienza e la crisi, avremo ospite Sergio Dalla Val, psicanalista, che alla Sala Polivalente di Via Valeri presenterà il volume numero cinque della collana “La cifrematica”, e terrà la conferenza Perché la cifrematica. Quali novità per la famiglia, l’impresa, la salute.
Questa sera, il laboratorio verte attorno alla lettura dell’opera di Luigi Pirandello L’innesto, opera che ciascuno ha letto ripetute volte, sia per prepararsi all’incontro di questa sera, sia, giorno per giorno, per esplorare varie frontiere. Prima della lettura dell’opera e per riflettere sul caso che Pirandello ci propone, c’è l’intervento preliminare di Cecilia Maurantonio, prego.
Cecilia Maurantonio Nella stanza, seduta, tra il sonno e la veglia, cercando la posizione, guardo attraverso gli occhiali, di fronte, verso la finestra, il balcone finestra, la terrazza immensa, la sua balaustra che affaccia sul mare, il mare, dove non c’è più l’orizzonte e vedo staccarsi dalla lente una figura di donna. Si solleva dalla poltrona con decisione ma senza fretta e, leggera, si allontana. Non ci sono più orme. C’è il racconto.
Molti anni fa realizzai con diapositive un filmato che poi fu inserito in un evento artistico, ai Giardini Romani. L’idea era quella della resurrezione. Ora ho chiara solo la scena conclusiva: un letto di fiori sparso sul prato che presentava l’orma di un corpo che non c’era più.
Nel sepolcro, dove avevano messo il corpo di Cristo, non c’era più sbarramento, l’ingresso era spalancato, la pietra come ostacolo all’ingresso non era più lì, ma nessuna orma! Dunque, non c’era più sepolcro perché non c’era orma; c’era lo spalancamento, per altro.
Il sogno, la catacresi, l’astrazione tra il sogno e la veglia, l’unica posizione che non lascia orme, senza segno del corpo e senza peso da dovere trasferire, nessun passaggio. Adiacenza sta a indicare questo e quello. C’è questo e qualcosa adiacente a questo.
Quale posizione è mai possibile prendere o assumere? Solo quella che si conosce già, quella predestinata, assegnata. Ci sarebbe la posizione che si vuole assumere e quella che non si vuole assumere, ma sempre rispetto a quella ideale, a quella che non c’è.
Il letto della parola non prende la piega del corpo, né del lino, né il moto ondoso del mare o quello liscio come una tavola. Pensarsi sul letto sarebbe una veglia funebre, dove la scena sarebbe erotica e il corpo sordo, dove il corpo sarebbe supposto diviso dalla scena.
Eppure, il letto c’è, è quello della parola, dove il luogo non è più spaziale e non prende la forma, il calco del corpo; dove il corpo non assume la misura del letto ideale o del letto prescritto. Il letto senza l’eletto, senza il predestinato. Il letto della parola che non costringe ma occorre alla letteratura, all’intelletto, alla lettura.
R.C. La piega della fiaba e la piega del caso clinico. Per giungere a questa distinzione leggiamo la rappresentazione teatrale, commedia in tre atti di Luigi Pirandello, che s’intitola L’innesto. Ora non la leggiamo tutta, anche perché è stranota a ciascuno che ripetutamente l’ha letta e riletta, per cui cogliamo alcune pieghe. C’è qualcuno che ignora quest’opera? Ah, ecco, lei solo!
Martino L’ho letta tanto tempo fa, ma non sapevo che stasera vertesse su questo.
R.C. Quindi l’ha letta.
M. L’ho letta, ho letto tante cose di Luigi Pirandello, ho presente molte cose, ma non L’innesto.
R.C. Bene. Noi abbiamo già avuto modo di compiere una lettura dell’Esclusa qualche settimana fa. Poi faremo una lettura anche di altro.
L’innesto è un’opera molto interessante, sia per le questioni che affronta, sia tenendo conto che è stata scritta verso la fine del 1917, ma sembra scritta l’altro giorno per il modo con cui Pirandello affronta determinate questioni.
La storia ruota attorno a Laura Banti, una giovane signora che si diletta di pittura e da alcuni giorni esce presto la mattina per recarsi in un parco a dipingere. Un giorno tarda a rientrare rispetto all’ora prevista e mentre viene attesa, la mamma conversa con un’amica, la signora Nelli e con l’altra figlia, Giulietta. E di cosa parla la mamma con l’amica? Parla del fatto che, dopo sette anni di matrimonio, Laura e Giorgio ancora non hanno bambini e dice che proprio per questo Laura perde tempo a dipingere, perché non ha una vera e propria occupazione.
FRANCESCA: /…/ Sa qual è il vero guajo qua? Che mancano i figliuoli! /…/ Io dico uno! Uno, almeno, creda ci vuole!
SIGNORA NELLI: Mi sembra che vivano così bene d’accordo Laura e suo marito…
FRANCESCA: Ah, sì, per questo… (Si china verso la signora Nelli e le confida piano all’orecchio:) Troppo anzi, signora mia! troppo! troppo! ― Per la mamma vanno troppo d’accordo! ―.
SIGNORA NELLI (piano, restando, ma un po’ anche sorridente): Come, troppo?
FRANCESCA Ma sì, perché… sa com’è? nei primi tempi, quando marito e moglie, giovani, si vogliono bene, se s’affaccia il pensiero d’un figliuolo, l’uomo specialmente si… si… /…/ mi spiego? perché teme di non poter più avere tutta per sé la mogliettina.
SIGNORA NELLI Eh! lo so… Poi passa un anno, ne passano due, tre… Lo desidera dunque il signor Banti, il figliuolo?
FRANCESCA No, Laura! Lo desidera Laura! Tanto! Giorgio dice che lo desidera per lei.
GIULIETTA E naturalmente, allora, Laura, lo desidera per sé!
FRANCESCA Ma che dici? Perché dici così? Vuoi far credere alla signora qua, che Laura non sia contenta di suo marito? Dunque, se la moglie desidera, vuole un bambino, la questione sembra che non sia contenta del marito. Se fosse contenta del marito non avrebbe alcun desiderio di avere bambini. Infatti, sono passati sette anni, i figli non sono venuti.
GIULIETTA Ma no, mammà! Io non ho detto questo. Quando passano, non tre, ma cinque, ma sette anni!
FRANCESCA Tu non capisci niente! La donna, signora mia, dopo tanti anni, se non si hanno figliuoli, sa che cosa fa? Si guasta. Glielo dico io! E anche l’uomo si guasta. Si guastano tutti e due. Per forza! (Accenna a Giulietta). Non posso parlare. Ma è proprio tutto il contrario di quello che immagina questa ragazza. Perché l’uomo perde l’idea di vedere domani nella propria moglie la madre, e… e… e… con lei mi sono spiegata, è vero?
Qual è il guasto? Che l’uomo perde l’idea di vedere domani nella propria moglie, la madre. Dunque, il figlio è considerato in alternativa al marito, la moglie in alternativa alla madre! Sono dettagli che annotiamo, per ora sono dettagli della fiaba, della rappresentazione; poi vediamo come leggerli. Ma mentre la mamma di Laura con l’amica e l’altra figlia discutono amabilmente sui guasti possibili della figlia e del matrimonio, viene annunciato il ritorno di Laura, ma il suo arrivo produce scompiglio, perché torna a casa lacera e ferita. Nel parco è stata aggredita e stuprata da uno sconosciuto, oggi si direbbe da un extracomunitario, da uno straniero. No, da uno sconosciuto. Quindi, già dal 1917 i parchi non erano sicuri e non solo di notte ma anche la mattina presto. Allora segue uno scompiglio, tutta graffiata, sanguinante, gettata fra le spine, ghermita da un villanzone, da un giovinastro, salvata da un tizio che, anziché inseguire il mascalzone, si occupa della signora. Nello scompiglio arriva anche il marito, il quale si dispera perché la moglie è stata stuprata. Ma di cosa si dispera? Dell’offesa ricevuta! E si lamenta che il poliziotto incaricato delle indagini lasci pensare che ci sarà un processo e quindi ci sarà una risonanza pubblica della cosa, mentre lui suggeriva di mettere a tacere il caso.
GIORGIO Prima di tutto, è inutile, perché ormai sanno tutti: qua, là dove l’hanno vista e raccolta… Ma quand’anche nessuno sapesse, se lo so io, non capisci che per me è finito tutto?
NELLI Io capisco, Giorgio, l’orrore che tu devi provare in questo momento. Ma bisogna che tu lo vinca con la compassione che deve ispirarti quella poverina!
GIORGIO Tu parli a me di compassione?
NELLI Non vorresti averne?
Dunque, per Giorgio è finita, c’è la fine, la coscienza della fine. Resta per gli altri, avendo coscienza della fine. Giorgio si fa vittima della violenza subita da Laura. Giorgio rimane per gli altri e il medico Romeri, saggiamente dice:
ROMERI E vado via anch’io. (Appressandosi e stringendo le mani a Giorgio). Mi raccomando. Bisogna sempre esser più forti della sciagura che ci colpisce.
GIORGIO Questa è peggiore per me d’una morte. Ma se l’immagina, dottore, lei ancora viva, domani, davanti a me? Pervicace Giorgio: “Domani, davanti a me, se l’immagina?”! E qui si chiude il primo atto.
Il secondo atto si apre nella residenza di campagna di Giorgio e Laura, e si apre con una conversazione tra Laura e il giardiniere della villa, Filippo, il quale cosa sta facendo? Ovviamente accudisce il giardino, ma nello specifico sta procedendo all’innesto di una pianta.
FILIPPO Eh, ma l’arte ci vuole! Se non ci hai l’arte, signora, tu vai per dar vita a una pianta, e la pianta ti muore.
LAURA Perché può anche morirne, la pianta?
FILIPPO E come! Si sa! Tu tagli – a croce, mettiamo – a forca – a zeppa – a zampogna – c’è tanti modi d’innestare! /…/ Qua c’è una pianta. Tu la guardi: è bella, sì; te la godi, ma per vista soltanto: frutto non te ne dà! Vengo io, villano, con le mie manacce; ed ecco, vedi? Comincia a sfrondarla, per fare l’innesto; parla e agisce, prendendosi tutto il tempo che bisognerà per compire l’azione. Pare che in un momento t’abbia distrutto la pianta: ho strappato: ora taglio, ecco; taglio – taglio – e ora incido – aspetta un poco – e senza che tu ne sappia niente, ti faccio dare il frutto. – Che ho fatto? Ho preso una gemma da un’altra pianta e l’ho innestata qua. – È agosto? – A primavera ventura tu avrai il frutto. – E sai come si chiama quest’innesto?
LAURA (sorride, triste): Non so.
FILIPPO A occhio chiuso. Questo è l’innesto a occhio chiuso, che si fa d’agosto. Perché c’è poi quello a occhio aperto, che si fa di maggio, quando la gemma può subito sbocciare.
LAURA (con infinita tristezza): Ma la pianta?
FILIPPO Ah, la pianta, per sé, bisogna che sia in succhio, signora! Questo, sempre. Ché se non è in succhio, l’innesto non lega!
LAURA In succhio? Non capisco.
FILIPPO Eh, sì, in succhio. Vuol dire… come sarebbe?… in amore, ecco! Che voglia… che voglia il frutto che per sé non può dare!
LAURA (interessandosi vivamente): L’amore di farlo suo, questo frutto? del suo amore?
FILIPPO Delle sue radici che debbono nutrirlo; dei suoi rami che debbono portarlo.
LAURA: Del suo amore, del suo amore! Senza saper più nulla, senza più nessun ricordo donde quella gemma le sia venuta, la fa sua, la fa del suo amore?
FILIPPO Ecco, così! così!
A quel punto si avvicina Zena, una contadina del posto, giovane, attorno alla quale nove anni prima, quindi prima del matrimonio di Laura con Giorgio, erano sorte alcune dicerie di una relazione con Giorgio, e queste dicerie erano aumentate sopra tutto nel momento in cui Zena, che già era fidanzata, resta incinta. Di chi sarà il figlio? Del fidanzato o del signorino Giorgio? Zena giura che è del fidanzato, il quale però, per sposarla, vuole dei soldi, ci marcia un po’. Quindi Laura indaga su questa vicenda e dice:
LAURA /…/ Ne eri proprio, dunque, così sicura tu?
ZENA Di che? Che il ragazzo non era del signorino?
LAURA Ecco, sì. Perché, tu sai, tante volte… avresti potuto tu stessa essere in dubbio. Ma Zena non accetta, non ha dubbi. Laura incalza:
LAURA Tu non hai nessun dubbio?
ZENA Tu dovresti esser contenta, mi pare, di quello che ho sempre detto!
LAURA Se ne sei proprio sicura…
ZENA Bada, signora, che la povertà è cattiva consigliera.
LAURA Ma no: perché io anzi, ora, alla tua coscienza mi rivolgo, Zena!
ZENA La mia coscienza, lasciala stare. Parlò allora, la mia coscienza, e disse quello che doveva dire. /…/ Vedo che ti piacerebbe che tuo marito avesse avuto un figlio con me. Ebbene, io ti dico questo soltanto: che io contadina, il figlio lo diedi a chi ne era il padre vero. – Ah, eccolo qua, il signorino… E in quel momento arriva Giorgio.
Zena se va e Giorgio dice:
GIORGIO (Sorpreso, addolorato): Ma come? tu parlavi con… Che forse è venuta a dirti qualche cosa?
LAURA (subito, negando con forza): No, no! Ma che! Nulla! Non ci pensa più!
GIORGIO E perché è venuta qua, allora?
LAURA No, non è venuta lei; l’ho fatta chiamare io. E così la conversazione va avanti e Giorgio si accorge che Laura ha freddo.
GIORGIO Vedi come sono fredde queste tue manine? T’ho portato da ricoprirti bene. Siamo scappati qua tutt’a un tratto. È volato più di un mese. È venuto il freddo… Quindi apprendiamo da fonte ben informata che è trascorso un mese.
LAURA Ma staremo qua ancora! Sarà più bello, ora, qua, soli soli… Tu non hai paura del freddo, è vero?
GIORGIO No, cara.
LAURA Non devi aver paura con me…
GIORGIO Ma io ho avuto paura di te, cara! /…/ Laura mia…
LAURA Tua, tua, sì! Ah, non puoi immaginarti come, ora! E pure vorrei ancora di più! Ma non so come!
GIORGIO Ancora di più?
LAURA Sì, ancora più tua – ma non è possibile! Tu lo sai, è vero? lo sai che di più non è possibile?
GIORGIO Sì, Laura.
LAURA Lo sai? Di più, si morirebbe. Eppure ne vorrei morire.
GIORGIO No! Che dici?
LAURA Per me dico; per non esser più io… non so, una cosa che senta ancora minimamente di vivere per sé… ma una cosa tua, che tu possa fare più tua, tutta del tuo amore, del tuo amore, intendi? tutta in te, così, del tuo amore, come sono!
GIORGIO Sì, sì, come sei! come sei!
LAURA Tu lo senti, è vero? lo senti che sono così tutta del tuo amore? e che non ho per me più niente, niente, né un pensiero, né un ricordo per me, di nulla più… tutta, assolutamente tua, per te, del tuo amore?
GIORGIO Sì, sì! Annichilimento totale. E così Giorgio “Le prende il volto tra le mani” e le dice Tu sei il mio amore; ma io non voglio, non voglio che tu ne abbia male!
Curioso, eh! “Tu sei il mio amore, ma io non voglio che tu ne abbia male”. Dunque, è un amore che può arrecare danno, che può portare il male! A quel punto Laura si sente male, giustamente. Di fronte a questa minaccia ha un malore. E allora discutono se è il caso di chiamare il medico. Poi, Laura dice che è meglio e lascia intuire che potrebbe essere un malore connesso a una possibile gravidanza, al che Giorgio dice di sì, che è meglio chiamare il medico per verificare se effettivamente…
GIORGIO Ma… se tu stai male…
LAURA No! no! io non ho niente! io ho te! Ecco: te – e non ho niente altro, che non mi venga da te! – Se godo, se soffro, se muojo – sei tu! Perché io sono tutta così, come tu mi vuoi, come io mi voglio, tua. E basta! Tu lo vedi, tu lo sai!
Ma di nuovo vacilla e allora viene chiamato il medico. Mentre il medico arriva, Laura ha un colloquio con la mamma, con la sua buona e brava mamma, e le comunica che probabilmente è incinta. Ma lei non vorrebbe il medico, perché la presenza del medico potrebbe acquisire per il marito un’immagine di male, ancora di quel male che gli fu fatto.
LAURA Ma che meglio! Che vuoi che intenda, che sappia, che rimedio vuoi che abbia, un medico, per quello che io sento, per quello che io soffro, e che non voglio, non voglio, capisci? che sia un male, e che con la presenza di quel medico che hai portato acquisti per lui un’immagine di male! Ancora di quel male che mi fu fatto!
FRANCESCA Non vuoi? Ma che forse…? Che dici, Laura? Oh Dio… Che forse, tu?
LAURA (convulsa, afferrando la madre): Sì sì, mamma! Sì!
FRANCESCA Ah, Dio! E lui? tuo marito? lo sa?
LAURA Ma è appunto questo il male che tu hai fatto, mamma!
FRANCESCA Io?
LAURA Sì! Ch’egli lo sappia, che egli lo pensi ora, come un male a cui si possa portar rimedio: un rimedio più odioso del male.
Laura intende o presume che il marito, apprendendo che lei è incinta a un mese dallo stupro, come conseguenza dello stupro, potrebbe volere rimediare a questo male con un rimedio più odioso del male. Laura pensa che potrebbe essere costretta a abortire. Il pensiero è l’idea dell’aborto, interviene l’idea di aborto.
Ora, potrebbe sembrare curiosa la faccenda, siamo nel 1917. Ma non è una questione di epoca, non è una questione da leggere sociologicamente, è una questione di fantasia e questa è senza età, è senza epoca di riferimento.
Ma, la mamma dice:
FRANCESCA Come? Che senti? Io ho paura che tu, figliuola mia, sia troppo esaltata e che…
LAURA Ti pare che vaneggi? No! Non posso spiegartelo con la ragione, ma l’ho saputo, qua, ora, mamma, che è così! E non può essere che così!
FRANCESCA Che cosa, figlia mia? Io non ti capisco!
LAURA Questo! Questo ch’io sento. La ragione non lo sa; forse non può ammetterlo. Ma lo sa la natura, che è così! Il corpo, lo sa!
La “natura” tra mille virgolette. “Il corpo lo sa”. È interessantissima qui la questione. La ragione non lo sa, forse non può ammetterlo. La natura lo sa, il corpo lo sa. Qui si aprirebbe la questione della salute, della sensazione intorno a qualcosa che può intervenire e che ancora non è certificato; ma il corpo lo sa, “il corpo” per dir così. E prosegue:
LAURA Una pianta – qua, una di queste piante! Sa che non potrebbe essere senza che ci sia amore! Allora, se qui ci sono queste piante è per via dell’amore. Si rifà alla conversazione con il giardiniere che dice che ciascuna pianta che dà frutto, che è stata innestata, deve essere “in succhio”, cioè in amore, senza amore non può fruttificare.
LAURA Me lo hanno spiegato or ora. Neanche una pianta potrebbe, se non è in amore! Vedi com’è? Non sono esaltata! No, mamma. Io so questo: che in me, in questo mio povero corpo – quando fu – in questa mia povera carne straziata, mamma, doveva esserci amore. E per chi? Se amore c’era, non poteva essere che per lui, per mio marito. E qui è tutto da discutere se si tratta di una così detta razionalizzazione, cioè una buona coscienza, o di qualcos’altro, ma lei dice che doveva esserci amore.
FRANCESCA Ma lui, dimmi un po’, tuo marito, lo sa? S’informa la mamma, sempre premurosa.
LAURA Credo che già lo sappia. Ma ora, là, con quel medico… Ah! proprio questo, vedi, non doveva avvenire! Che egli lo sapesse così!
FRANCESCA Ma se già lo sa, figlia mia!
LAURA Volevo che sentisse anche lui, naturalmente, quello che io sento! E che s’unisse a me, s’immedesimasse in me, fino a sentirlo, ecco, e volerlo in me, con me, quello che io sento e voglio!
A quel punto arriva il dottore. Il dottore parla con la mamma, la quale apprende che anche Giorgio sospetta.
FRANCESCA S’è dunque affacciato a Giorgio il sospetto che…?
ROMERI Dio mio, sì, signora!
FRANCESCA Ma perché il sospetto?
ROMERI Perché… perché, signora mia, può affacciarsi anche a lei… anche a me… a tutti…
FRANCESCA Ma no, scusi: non c’è poi mica da stabilire una certezza!
ROMERI Basta il dubbio, signora!
FRANCESCA E se mia figlia non ne avesse?
ROMERI Dica che non vorrebbe averne!
FRANCESCA Precisamente. Non vuole, non vuole averne!
ROMERI Eh! se si trattasse soltanto di volontà…
Dunque, il dubbio di cui si tratta, qual è? È il dubbio sulla paternità. Il dottore, la mamma, Giorgio dubitano intorno al padre. Il dottor Romeri è, come dire, comprensivo:
ROMERI Capisco. Ma capisca anche lei, signora, che allo stesso modo ripugna al marito il dubbio, anche il più lontano. Tanto più che, lei lo sa, è avvalorato, questo dubbio, dal fatto che in sette anni di matrimonio non ha avuto figliuoli.
Dunque, c’è questo dubbio e il dubbio è apparentemente condiviso, compreso. Compreso e condiviso nonostante il medico non sia proprio compiacente in tutto e per tutto, infatti, espone un caso in cui si trovò durante la guerra, in cui un soldato in caserma sparò a un suo superiore e poi si sparò, e dice:
ROMERI No, signora, lei non intende in qual senso io lo dica. È proprio il contrario. Un soldato, in caserma – sono ormai tant’anni – in un accesso di furore, sparò contro un suo superiore; poi rivolse l’arma contro se stesso per uccidersi anche lui. Rimase ferito mortalmente. Ebbene, signora: di fronte a un caso come questo, nessuno pensa al medico a cui è fatto obbligo di curare, di salvare – se può – quel ferito; come se il medico fosse soltanto uno strumento della scienza e nient’altro; come se il medico non avesse poi per se stesso, come uomo, una coscienza per giudicare se – ad esempio – contro al dovere che gli è imposto di salvare, egli non abbia diritto di non farlo, o il diritto almeno di disporre poi della vita che egli ha restituito a un uomo che se l’era tolta per punirsi da sé con la maggiore delle punizioni: uccidendosi! Nossignori! il medico ha il dovere di salvare, contro la volontà patente, recisa, di quell’uomo. E poi? quando io gli ho restituita la vita? perché gliel’ho restituita? Per farlo uccidere, a freddo da chi ha imposto a me un dovere che diventa infame, negandomi ogni diritto di coscienza sull’opera mia stessa! Questo, signora, per dirle che io ho riconosciuto sempre, e voglio riconoscere, nei casi della mia professione, di fronte ai doveri che mi sono imposti, anche diritti che la mia coscienza reclama.
Salvarlo per lasciare che poi venga giustiziato. Cioè, pone un caso che oggi si chiamerebbe etico, di bioetica, altri potrebbero chiamarlo deontologico, e nel 1917 questo medico rivendica la libertà intellettuale.
Ma, perché questa dissertazione? Perché lui si dichiara disponibile contro la morale vigente? Contro l’impostazione ben pensante lui si dichiara disponibile. A cosa? All’aborto. La mamma, infatti, s’informa:
FRANCESCA E allora lei si presterebbe…?
ROMERI Sì, signora: senza la minima esitazione. Dato il caso – s’intende – che la signora volesse consentire.
Quindi, anche il medico, che sembrava per la libertà intellettuale è per la convenzione sociale, per mettere a tacere la coscienza degli altri. E quindi, il medico è d’accordo, la mamma è d’accordo e Giorgio, cosa dice Giorgio?
GIORGIO Ma il mio stupore è questo, che lei non l’abbia già chiesto, non lo chieda subito!
FRANCESCA Non è mica una cosa da nulla per una donna, Giorgio! A te basta esigerlo!
GIORGIO Come! Ma per se stessa, io dico, dovrebbe chiederlo subito, a qualunque costo! Dovrebbe esser nulla per lei, di fronte all’orrore d’un simile fatto! Ma come? Crederebbe forse che io potrei sorpassare ancora, cedere, chiudere gli occhi, accettare? Ah! perdio! Ma dov’è? Dov’è? Smaniando, fa per andare nella camera di Laura. (alludendo a Laura): Che dice? Posso sapere almeno che cosa dice? O vorrebbe forse darmi a intendere che il suo amore…
LAURA (entrando dall’uscio a destra): Che il mio amore… –?
Dice Laura entrando in scena proprio in quel momento, ma come, state parlando dei casi miei, in mia assenza? Io ero qui col medico, con la mamma! Anche la madre in questo caso diventa un’estranea. /…/
LAURA Che debbo fare? Dipende da te, Giorgio. Dal tuo animo.
GIORGIO Come! E tu hai bisogno che te lo dica io, qual è il mio animo? Quale può essere? Non lo comprendi? Non lo vedi? Non lo senti?
LAURA Sento che tu mi sei tutt’a un tratto nemico. Come… come se io…
GIORGIO Dunque tu dici di no? /…/
LAURA Tu dunque ricordi solo una cosa? E dimentichi tutto?
GIORGIO Ma che vuoi che pensi io in questo momento?
LAURA: Non puoi neanche pensare che per me è proprio tutto il contrario?
GIORGIO Il contrario? che cosa?
LAURA (come assorta lontano, trucemente, con lentezza): Ch’io non ho memoria, né immagine: nulla! io non vidi! io non seppi nulla! Nulla, capisci?
Per Laura nessun ricordo, nessun ricordo del passato, nessun ricordo del male, nessuna visione del male. Non ha memoria, cioè ricordo, né immagine, niente.
GIORGIO Sta bene. E poi?
LAURA E poi… (S’interrompe in un silenzio opaco. Poi dice:)Niente. Se hai perduto tu, invece, la memoria di tutto.
GIORGIO Ah, del tuo amore, è vero? Ma è proprio così, dunque? Tu m’hai circondato del tuo amore, tu mi hai avviluppato nelle tue carezze, sperando ch’io credessi?
LAURA (con un grido): No! (Poi con nausea) Ah!
GIORGIO E allora? C’è il sospetto.
LAURA Non ho ragionato, io: io ho amato: io sono quasi morta d’amore per te; mi sono fatta tua come nessuna donna mai al mondo è stata d’un uomo; e tu lo sai; tu non hai certo potuto non sentirlo questo, che ho voluto averti tutto in me; che mi sono voluta tutta di te…
Ma il marito è irremovibile e allora Laura prosegue, perché Giorgio vuole che si faccia l’aborto e lei dice:
LAURA Solo per un ragionamento, è vero? e dopo che m’hai buttato in faccia con disprezzo, con orrore, tutto ciò che t’ho dato di me? e che tu hai potuto stimare un calcolo vile… un laido inganno… un espediente… /…/. Perché non puoi credere ch’io volessi salvare in me chi ancora non sento e non conosco — che ancora non sento e non conosco! —. Io l’amore volevo salvare! cancellare una sventura brutale, non brutalmente come tu vorresti…
GIORGIO Accettando la tua follia?
LAURA (con un grido di tutta l’anima): Sì! Tutta me stessa! Perché tu vedessi tutta me stessa tua, nel figlio tuo: tuo perché di tutto il mio amore per te! Ecco, questo! questo volevo!
GIORGIO (ritraendosi, quasi inorridito): Ah, no!
LAURA Non è possibile: lo vedo.
GIORGIO Come vuoi ch’io possa accettare?
LAURA E lascia allora che accetti io, invece, la mia sventura.
GIORGIO Tu?
LAURA Io sola, sì, tutta intera la mia sventura. /…/ Giorgio è irremovibile.
GIORGIO Dopo quello che hai fatto?
LAURA Che ho fatto?
GIORGIO Dopo quello che hai voluto?
LAURA Che ho voluto?
GIORGIO (con ferocia): Il mio amore, “dopo”!
LAURA (con disprezzo): Per nascondere, è vero?
GIORGIO Ma sai che c’è di mezzo il mio nome?
LAURA Ah, non temere. Avrò il coraggio che ebbe la Zena. Peccato ch’io non possa darlo – dopo l’inganno – al suo padre vero!
GIORGIO Ma tu volevi darlo a me! E non è questo un inganno?
LAURA Chiamalo inganno! Io so che era amore! /…/ Non sono più tua moglie! Mamma, io vengo con te! /…/ Mamma, possiamo andare! S’avvia con la madre.
GIORGIO (balzando in piedi, con un grido d’esasperazione e di disperazione): No… Laura… Laura… Giorgio si copre il volto con le mani e rompe in singhiozzi.
LAURA (accorrendo a lui): Giorgio, tu mi credi?
GIORGIO Non posso! Ma non voglio perdere il tuo amore!
LAURA (con impeto di passione): Ma a questo solo tu devi credere!
GIORGIO Come credere? A che?
LAURA (come sopra): Ma a ciò che io ho voluto, con tutta me stessa, per te, e che devi volere anche tu! È mai possibile che tu non ci creda?
GIORGIO Sì, sì… Nel tuo amore, credo.
LAURA (quasi delirando): E dunque, che vuoi di più, se credi nel mio amore? In me non c’è altro! Sei tu in me, e non c’è altro! Non c’è più altro! Non senti?
GIORGIO Sì, sì…
LAURA (raggiante, felice): Ah, ecco! Il mio amore! Ha vinto! Ha vinto! Il mio amore!
E si conclude la rappresentazione teatrale.
Dunque, di che si tratta in questa rappresentazione? Qual è la logica che Pirandello tratteggia lungo la rappresentazione e che noi leggiamo come una fiaba, ma di cui occorre trarre l’indicazione clinica rispetto a quella che sembra la storia dei fatti? Di cosa si tratta? Qual è il caso che Pirandello qui indica? È il caso dello stupro? È il caso della violenza subita? È il caso di una vicenda matrimoniale? Che caso è? È il caso dell’amore che trionfa su tutto e nonostante tutto? Cosa c’è, cosa dice?
C.M. È il caso indicato dal titolo, dal racconto del giardiniere. Infatti, l’innesto della gemma si chiama “a occhio chiuso”. La questione è già lì, che non si sa da dove viene la gemma dell’innesto e dello sconosciuto non c’è ricordo.
R.C. E perché non c’è ricordo?
C.M. Perché non c’è mai stato il fatto!
R.C. Esatto! Questa che sembra la vicenda di Laura, la fiaba di Laura, è come la fiaba di Cappuccetto Rosso che va nel bosco, incontra il lupo e ha tutta una serie di vicissitudini. Questa è la fiaba, ma il caso clinico è differente e indica lo svolgimento di una fantasia inconscia. La fiaba dice di qualcosa che non è mai avvenuto e racconta a suo modo una fantasia inconscia. Qual è la fantasia che Pirandello qui tratteggia con molta delicatezza e in vari punti?
Gianfranco Dalle Fratte La visione del figlio da parte di Giorgio, che dice che non c’è nessuna colpa.
R.C. Bravo, questo è un dettaglio molto importante. Già all’inizio dice che c’è offesa senza colpa. È ciò di cui si occupa la coscienza morale, è ciò che viene chiamata la coscienza di colpa, il senso di colpa. Giorgio, lei dice, si sta interrogando attorno all’ammissione del figlio. Dunque, dopo sette anni di matrimonio, Giorgio e Laura stanno per avere un bambino; questo è l’annuncio che Laura dà a Giorgio, e Giorgio si chiede “Ma sarà figlio mio, sarà proprio figlio mio? Non è che Laura magari ha un amante?”. E ricorda di quando lui se la faceva con Zena. Giorgio si chiede di chi è il bambino che sta per nascere. La moglie, Laura, assicura che è figlio dell’amore. Figlio dell’amore, non che è suo figlio: figlio dell’amore. In effetti, Laura non può dire nient’altro che questo, dato che mater certa, pater numquam. Dunque, Giorgio è attanagliato dall’idea che non sia figlio suo, come sua è Laura, come suo è l’amore. Suo! L’amore reciproco, l’amore transitivo, l’amore di Giorgio per Laura e di Laura per Giorgio. Senza l’Altro, reciproco, a tu per tu in quella che sembra la celebrazione della psicosi nella chiusa della fiaba: Non c’è più Altro, e invece, propriamente, instaurandosi l’Altro, Giorgio ammette il figlio; ammette il figlio riconoscendo la paternità, cioè la funzione padre.
Se voi notate, tra i personaggi, il padre è assente. C’è la madre di Laura, non c’è il padre di Laura. Il padre è assente e interviene come questione del nome dove Giorgio dice: “Si tratta del mio nome”. C’è tutto un attraversamento del negativo, del male, del fantasma di morte, del fantasma di fine, delle negatività, dell’aborto attribuito a Laura ma pensato da Giorgio, tutta una fantasmatica inerente l’amoroso, in termini di reciprocità. Tolto l’Altro, tolto il terzo, allora il male, il negativo, la fine, la morte sono dinanzi. Ma tutta questa negatività viene dalla negazione del padre, dalla negazione della funzione padre, cioè viene dal fantasma di genealogia.
La rappresentazione svolge il fantasma genealogico dove la mamma interviene sulla figlia per indicare quale padre, quale marito, cosa è accaduto, come è stato, chi è stato, la Zena, chi era il padre, chi era il figlio. Qui è molto interessante, la madre non è messa in discussione, la madre, in termini di accoglimento, in termini di proseguimento, in termini di mito di ciò che non finisce, la madre c’è. La mamma è materna, la mamma si preoccupa dell’eventuale aborto, l’idea materna delle cose, ma la madre come mito in cui non c’è nessuna parentela, Laura lo dice con precisione, anche la mamma in questo caso diventa un’estranea; cioè, c’è assoluta differenza tra la mamma e la madre, due statuti assolutamente differenti. Un conto è la mamma, istanza genealogica, un conto la madre, istanza dell’incontabile, dell’infinito, istanza del proseguimento, della costanza, dell’accoglienza; questo è il mito della madre, mentre per Giorgio c’è il dubbio sulla paternità, c’è il dubbio intorno al padre. Il padre in termini di funzione padre, non del papà, non in termini di genealogia.
Il fantasma di genealogia spinge Giorgio a non ammettere il figlio perché, in quanto generatus, non può essere figlio suo. Sant’Agostino dice che il padre è padre al figlio, non del figlio e il figlio procede dal padre, non è figlio del padre, questa è la questione del filius genitus nec generatus. Il figlio è genito, cioè procede dal padre, non è generato dal padre. Questa è la questione della funzione padre e della funzione figlio e della funzione di Altro, in assenza di genealogia. Questo è ciò che viene ribadito nell’annunciazione di Maria e nell’annunciazione di Elisabetta: “Avrai un figlio”. “Non conosco uomo”. “Avvenga di me secondo la tua parola”.
Avvenga secondo la parola: l’accoglimento. Allora la questione è che Giorgio dubita di sé, dubita del padre e sospetta che la moglie lo abbia tradito, ma c’è l’amore, l’amore come custode del parricidio e del figlicidio, l’amore come custode della ricerca. Nello svolgimento dell’amore ‒ non già come sentimento reciproco, umano, ma amore in quanto custode del parricidio ‒ Giorgio giunge a ammettere il figlio, a riconoscere il padre e la fantasia si dissipa. Mai Laura l’ha tradito, mai ha subito violenza e il matrimonio prosegue.
Qui, non è questione di lieto fine, ma è questione di teorematica. Il male, il negativo, lo stupro non ci sono più perché non ci sono mai stati, se non nella fantasia di Giorgio. Dunque, la rappresentazione e la fiaba narrano non tanto la travagliata vicenda di Laura vittima dello stupro, quanto la fantasmatica inerente la genealogia di Giorgio che è giunto a un passo dal ripudiare la moglie, sospettandola di tradimento, ma il processo narrativo, il processo intellettuale, il processo d’indagine è giunto a dissipare questa credenza.
M. La credenza è un’altra e introduce una nuova fantasia, che non c’è mai stato lo stupro e il male.
R.C. Lei qui introduce una nuova variante.
M. Il potere della fantasia è da accettare.
R.C. Ma il testo ripetutamente asserisce che la colpa non c’è, la violenza non c’è stata.
M. Certo, ma perché per Pirandello non c’è niente di definitivo, quindi quello che conta, quello che è, è tutto nella fantasia.
R.C. Questa è la questione dell’inconscio, cioè di un’altra logica rispetto a ciò che può sembrare alla coscienza, dove la coscienza è a sua volta il prodotto di una serie di convenzioni, per lo più sociali, che hanno lo scopo di garantire una convenienza sociale.
Il testo ripetutamente ci trae altrove rispetto al convenzionalismo e alla morale e indica un’altra via. Le vicende narrative che abbiamo ascoltato questa sera, di Maurantonio e di Pirandello, indicano questa doppia tessitura in cui si tratta di distinguere tra la fiaba, la narrazione e il racconto. Il racconto non è mai il racconto dei fatti, ma è secondo l’inconscio, secondo la logica della parola, è racconto di ciò che non è già saputo, di ciò che non è conosciuto, è il racconto che è da ascoltare per capire e intendere cosa c’è di Altro rispetto all’apparente svolgimento dei fatti. È il racconto che ci consente di dire che non c’è più il fatto in quanto tale, il fatto come rappresentazione.
Invito ciascuno a rileggere L’innesto e a cogliere le indicazioni testuali che Pirandello fornisce. La lettura arricchisce il testo e lo restituisce in qualità, restituendo anche ciò che non era nelle intenzioni dell’autore; ma non è questo che importa. La lettura in questi termini valorizza il testo, così come la lettura di un quadro valorizza l’opera e la restituisce altra, valorizzandola; per cui non si tratta di approdare alla lettura unica ma, leggendo, di cogliere nel testo le varie pieghe. Alcuni ne colgono alcune, altri altre; non si tratta di cercare la verità ultima, ma i risvolti clinici, le pieghe. Il risvolto clinico è la piega, la piegatura. Clinica è la piega. In greco klínein è piegare. La clinica è l’arte della piegatura, cogliere come la parola, piegandosi nella clinica, cioè senza aderire a una morale confezionata, a una lettura chiusa, già segnata, consenta di apprezzare altre pieghe. Ciò in direzione della qualità del testo, della qualità della lettura. C’era una mano alzata.
Sabrina Resoli Sì, rispetto a un dettaglio, quando all’inizio del secondo atto Laura dice: “Sono come tu mi vuoi”, mi chiedevo se il fantasma genealogico non comporti anche un fantasma d’incesto.
R.C. Esatto, bravissima.
S.R. Con questa fantasia “Sono come tu mi vuoi”, l’Altro non è ammesso e per questo Laura può essere stuprata, l’Altro è degradabile.
R.C. Esatto.
S.R. Quindi la fantasia dello stupro, della degradazione c’è proprio perché c’è la fantasia d’incesto?
R.C. Precisamente! Infatti, questo avevo omesso di dire, che nel fantasma di genealogia il figlio sarebbe il segno dello stupro, il segno della violenza compiuta, il ricordo di una violenza che non c’è mai stata, ma che è creduta e questo ricordo è il ricordo nella credenza dell’incesto!
La credenza nell’incesto si volge nella rappresentazione della violenza subita o della violenza compiuta, con le due possibili letture: la violenza subita nel caso del discorso isterico, la violenza compiuta nel caso del discorso ossessivo. Molto preciso, molto bene.
Maria Antonietta Viero A proposito di questo, allora lo stupro interverrebbe a introdurre un elemento dell’Altro nella catena genealogica che altrimenti non sarebbe avvertita?
R.C. Sì, è una rappresentazione dell’Altro, l’Altro che violenta. Cioè, l’altro tempo, rappresentato, diventa il tempo della violenza, il modo della violenza e questa violenza può essere subita o compiuta. Allora c’è o il vittimismo o il debito morale. Il vittimismo nel caso della violenza sempre subita, il debito morale nel caso della violenza sempre compiuta e che si tratta di togliere, di purificare, di cancellare, rimediando con un atto ritenuto non violento a un atto ritenuto violento, per saldare il conto. Questo nel caso del discorso ossessivo. Nel caso del discorso isterico è quello di lamentarsi sempre “della violenza che tu mi fai”. Ma Laura dice “Sono come tu mi vuoi”, rappresentando il volere dell’Altro come modo della rappresentazione dell’Altro, dell’incesto, della genealogia. Questo giusto per avventurarci sul terreno testuale.
Se non ci sono altre note ci salutiamo. Ringrazio Cecilia Maurantonio, in particolare, per indicare di proseguire l’elaborazione sulla “posizione”, che non è la posizione del corpo, ma è “la posizione”. Invito ciascuno giovedì prossimo all’incontro con Sergio Dalla Val, alla Sala Polivalente di Via Diego Valeri, mentre ci ritroviamo qui fra quindici giorni per proseguire la lettura di Pirandello con La vita che ti diedi. Cominciate a leggerlo. Vediamo di esplorare questi testi, perché quello che Pirandello ci fornisce è proprio l’apertura clinica, che non è solo una questione di non obiettività delle cose, ma c’è un filo logico molto interessante che è clinico. Dico clinico nell’accezione che dicevamo prima, di cogliere la piega in direzione della cifra, quindi della cifra del testo, della cifra della questione che il testo affronta.
L’amore più ne ha, più ne dà (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Lei voleva chiedere qualcosa?
Cecilia Maurantonio In una sua conferenza lei ha accennato all’ombra, dicendo che non è dinanzi, ma alle nostre spalle. Proprio rispetto a quanto diceva la volta scorsa e a quanto effettivamente si conferma leggendo Pirandello, che pone in rilievo la questione della coscienza, chiedo in che modo il vedere l’ombra dinanzi, presumerla, proceda dalla questione del punto bianco o nero, oppure in che modo si ritiene l’Altro l’oggetto che si denigra o si esalta, o l’Altro come il pensiero di sé che viene attribuito all’Altro. In che modo la fantasmatica pone l’accento rispetto all’ombra che pone dinanzi, rappresentandosi ora l’oggetto, ora l’Altro.
R.C. Quindi, qual è la domanda?
C.M. Cos’è che implica, che pone l’accento, come fantasmatica, sull’oggetto rappresentato o sull’Altro come coscienza, quindi nella coscientizzazione dell’oggetto o dell’Altro come pensiero di sé.
R.C. La settimana scorsa abbiamo concluso la serie d’incontri su La scienza e la crisi, che è stata un’occasione per considerare le varie questioni in merito all’accezione di scienza, e adesso proseguiamo con cadenza settimanale questi incontri intorno all’amore. In particolare, insistiamo su Pirandello, l’amore e l’inconscio, dove si tratta della lettura.
Pirandello ci fornisce qualche pretesto, ma la lettura è questione di ciascun caso in cui si tratta delle cose che si rivolgono alla qualità e la lettura esige l’assenza di realismo. Per capire, per intendere, per leggere, occorre dissipare il realismo, in particolare il realismo della coscienza, ovvero, ciò che si presume di sapere già, di conoscere, ciò che si presume “sia”. Perché la lettura non avviene nel registro del realismo, né in quello del reale, ma avviene nell’intervallo, dunque esige la funzione vuota, la funzione di Altro in assenza di significazione. Quel che si legge acquisisce valore, non ce l’ha già, quel che si legge non ha già significato, ma è con la lettura che ciò che si legge acquisisce il suo valore.
Dunque, leggendo. La lettura come memoria e la lettura come esperienza esigono il gerundio: leggendo. Leggendo, ciascuna cosa acquisisce il suo valore, si rivolge alla qualità. La qualità è questo, è il valore di ciascuna cosa, perché mai la qualità può essere standard, né può essere acquisita una volta per tutte. La lettura esige la gerundività, cioè che quel che è saputo non costituisce la chiave di lettura, né una base per cogliere ciò che il caso nuovo e la combinatoria nuova ci propongono. Questa è l’accezione di lettura a cui ci rivolgiamo.
Pubblico Resettare.
R.C. Resettare, to reset, to set. Sarebbe come dire regolare, mettere, rimettere, quindi reset, rimettere. Ecco, non è calzante, non si tratta di mettere le cose e poi dire “rimettiamo le stesse cose in un contesto nuovo”. Qui non si tratta di cancellare nulla. Nulla è cancellato, nulla è cancellabile e ciascuna cosa si aggiunge, si affianca, è adiacente, per cui non c’è la tabula rasa da cui partire, ma è questione di clinica, di combinatoria che propone ciascuna volta una combinazione e una combinatoria nuova. È questa novità che occorre cogliere, non è che bisogna svuotarsi o svuotare o cancellare qualcosa che è incancellabile; occorre l’accoglimento di ciascuna cosa che si dispone, accadendo.
Perché questa disposizione sia accolta nella sua novità, occorre una certa ginnastica, in quanto l’idea di “memoria” vigente è l’idea di memoria selettiva o elettiva, di memoria recente o antica. Occorre, quindi, un altro modo d’intendere la memoria, un altro modo d’intendere la disposizione e ciò esige l’ascolto, che è differente dallo stare a sentire, che non riguarda il suono o il fonetico ma riguarda piuttosto l’acustico. Nell’ascolto si tratta della combinazione tra l’immagine e i significanti.
È suggestiva l’ipotesi del reset, però ciò comporterebbe una cancellazione che invece non avviene, che è impossibile avvenga. La questione è intellettuale, è questione di ginnastica, di clinica. È, sopra tutto, questione di parola e dell’esperienza della parola. E questo non avviene per uno sforzo di volontà, né per un’impostazione cosciente, ma è una ginnastica, un esercizio che esige l’esperienza della parola originaria e esige un’altra formazione rispetto a quella che prevede l’apprendimento e l’applicazione di quel che si è appreso.
Il modo della parola non procede per apprendimento, ma per formazione e insegnamento intellettuali, per integrazione. Esige l’integrazione di ciascuna cosa con ciascun’altra. E l’integrazione comporta che, caso per caso, c’è una novità di cui tenere conto e l’impossibilità di presumere che qualcosa sia acquisita una volta per tutte. Ciò indica che la questione intellettuale è, innanzi tutto, la questione della dissoluzione dell’idea di fine e dell’idea del finito che traggono con sé l’idea di morte.
Pensare di acquisire una cosa una volta per tutte è l’idea che qualcosa finisca. Solo così io posso averla per acquisita, darla per acquisita, cioè darla per avvenuta. Se io do una cosa per acquisita è come se dicessi: “Quella cosa non può trovare un risvolto nuovo, è così”, cioè è come se la dessi per finita. Questo è un modo con cui si presenta l’idea di fine, l’idea di morte. La questione intellettuale è la dissipazione dell’idea che nessuno, per così dire, sa di avere. Voi potete provare a interrogare Tizio, Caio e Sempronio se per caso crede nella fine delle cose, dirà di no, che non gli si pone nemmeno la questione.
Martino Si esaurisce.
R.C. Nulla si esaurisce.
M. Si revisiona però, non vedo perché ci sia questa espunzione.
R.C. Non è un’espunzione, è una constatazione che nulla si conserva. Però, il materiale clinico, la pratica clinica ci dicono che nulla si cancella e nulla è più insopportabile dell’idea della fine, che qualcosa finisca.
M. Occorre rimuovere anche l’idea della nostra fine.
R.C. Non si tratta di rimuovere, non è questione di rimuoverla, è questione di dissiparla. Perché questa è propriamente la schiavitù eminente del soggetto. Ognuno che si crede soggetto, si crede soggetto in quanto mortale. L’idea della mortalità propria o altrui, posta dinanzi a sé, è l’ombra cui si riferiva poco fa Maurantonio, la quale comporta uno sbarramento rispetto a quel che si fa. L’idea di mortalità, il pericolo di mortalità posto dinanzi è proprio ciò che impedisce il gerundio e comporta la paura, la paura della mortalità, la paura della fine. Al momento possiamo fare un atto di fede, diciamo così, poi vediamo come questi aspetti intervengono anche nel testo di Pirandello che, occorre dire, non è scevro da istanze cliniche, cioè da istanze che vanno oltre la ragionevolezza umana e incontrano un’altra ragione, che non è la ragione del luogo comune ma è la ragione della parola, è la ragione dell’Altro, è la ragione secondo cui le cose vanno verso la qualità.
La ragionevolezza umana propone uno sbarramento alla qualità, perché propone l’alternativa fra il bene o il male. Le “umane cose” non giungono a porsi la questione della qualità, ma la questione dell’alternativa tra il bene e il male, e questo è molto importante, perché la qualità non ha nulla a che vedere con il bene o con il male. Ciò che si qualifica non ha da rispondere a una morale del bene o del male, ma risponde al criterio del valore. Criterio che non è comune, né per tutti, ma ciascun caso individua quel criterio, è secondo quel criterio. Questa è la questione della parola rispetto a cui è impossibile applicare ideologie, morali, filosofie, sociologie, logìe, cioè discorsi che devono dimostrare la loro validità.
Quel che accade nella parola non ha questa dimostrazione da dare e, anzi, constatiamo proprio che, dove c’è questo imbrigliamento, questa chiusura verso la dimostrazione, cioè verso una circolarità, allora interviene una reazione. Quel che in molti casi viene annoverato e etichettato, classificato come psicopatologia, altro non è che una reazione all’imbrigliamento, alla chiusura. Dove interviene un’idea di chiusura, di fine, per chi ci crede interviene una reazione, cioè una non accettazione dell’ipotesi di chiusura, di fine. In un primo momento, se non c’è un dispositivo in cui ragionare, interviene una reazione. Questo qualcosa che sembra intervenire per chiudere determina una reazione, determina qualcosa “contro”. Se c’è modo di ascoltare, di parlare, di ragionare, la cosa si chiarisce; mentre, se non interviene il dispositivo di parola, interviene il trattamento, che per lo più è farmacologico, psicofarmacologico, psicoterapeutico, cioè di riconduzione alla ragionevolezza.
Non si tratta di ricondurre nessuno alla ragionevolezza, ma di far sì che ciascuno intenda e colga le ragioni dell’Altro, la logica particolare, e trovi il modo opportuno che la chiusura sembra precludere. Detto così è semplice, trovarlo comporta vicissitudini, varie vicende, un cammino, un percorso.
Come avevamo accennato la settimana scorsa, lo statuto intellettuale è negato dove sia proposto che a una questione si possa rispondere con la soluzione o con la sostanza, che sono la stessa cosa. È sostanza tanto proporre un farmaco o una droga come risposta a un’istanza, e altrettanto è rispondere con una soluzione, con un’idea di soluzione, con una proposta di soluzione. Non c’è soluzione; c’è disposizione, c’è combinatoria, c’è da trovare l’altro modo, ma l’altro modo non è la soluzione, bensì l’attuazione nella ricerca, facendo, nel gerundio.
Quel che si trova non può mai fondarsi come ciò che si è trovato e quindi andare bene per gli altri casi che seguiranno. Trovare la sostanza che vada bene in ogni caso è il miraggio di ogni disciplina. Perché non c’è “ogni caso”, ma ciascun caso. Ogni caso è l’accezione di scienza che si riferisce al discorso scientifico. Trovare la dimostrazione mantenendo le stesse condizioni di pressione, di temperatura o quant’altro riguarda l’esperimento, perché tutto è ricondotto all’esperimento, per cui anche lo psichico si trova in una condizione di sperimentalismo, tant’è che vengono somministrate sostanze che dovrebbero andare bene per tutti, la sostanza legale. Dove, invece, non intervenga la prescrizione autorizzata ma la trasgressione, ecco allora la droga come sostanza che dovrebbe dare la risposta alle istanze che non trovano articolazione. Ma il fantasma è lo stesso, è l’idea di “ogni caso”, è l’idea della totalità, è l’idea dell’ognuno anziché del ciascuno.
Occorre tenere conto che nulla avviene una volta per tutte, nulla è già avvenuto ma, volta per volta, si tratta di accogliere ciò che si sta disponendo. Questa è l’umiltà, la generosità, l’ascolto di cui abbisogna l’intendimento. Per capire, per intendere c’è bisogno di questa generosità, cioè di non fare appello alla propria idea di conoscenza; la conoscenza è fuorviante. Se noi applichiamo il criterio della conoscenza, cioè la conoscenza del bene e del male, di ciò che ritengo sia bene o sia male per me, per te, per tutti, allora abbiamo abolito gran parte dell’invenzione e della generosità con tutto ciò che ruota attorno, perché la mentalità della prescrizione del bene, della conoscenza del bene impedisce di lasciare fare e introduce l’idea di soccorso nella prescrizione a seguire una certa linea, e questo, il meno che si possa dire, è indice di assenza di tolleranza.
Allora, qui ci addentriamo in un tema che abbiamo affrontato nel recente festival internazionale La democrazia, del novembre scorso. Democrazia è un termine che ha varie articolazioni, una sua storia e sembra il non plus ultra dell’apertura, ma se noi applichiamo il modello democratico al vivere, al pensare, al desiderare, noi ci troviamo imbrigliati in una prescrizione che deve rispondere al criterio della maggioranza. E se io ho un’idea differente? Se io non seguo il criterio della maggioranza, come faccio? La devo buttare via, la devo togliere di mezzo perché è un’idea malsana, dato che non è della maggioranza? È una questione che, purtroppo, non è dibattuta come merita, sopra tutto in quelli che sono i così detti interventi sanitari, in quelle che sono le etichettature psicologiche, psicopatologiche, che sono ormai dominanti nei vari settori della scuola, della sanità, della società. Ma questo lo lasciamo per il momento da parte, è solo un’evocazione che, tuttavia, è un corollario di ciò che stavamo dicendo.
Ciò che si tratta di considerare, di analizzare, di vagliare, di non dare per scontato, è che nessuno dice la verità o mente in quanto tale. Ciò che conta non è il senso di un discorso che ci viene rivolto, ma sono i significanti, i nomi, la loro combinatoria, ciò che emerge dalla combinatoria.
C’è molta attenzione da parte degli apparati sanitari verso chi enuncia, per esempio, l’idea di morte. Se uno dice: “Io voglio morire”, allora immediatamente: “Perbacco, vuole morire! Bisogna impedirglielo!”. E subito questa persona diventa un soggetto da sorvegliare perché ha detto che vuole morire, pensa alla morte, è malato. Se avesse detto che pensa alla vita, allora sarebbe sano. Quindi, uno può dire che pensa alla vita, che è contento di vivere, se uno invece pensa alla morte è una cosa brutta. Se uno dice che pensa alla vita dice la verità, è vero; se uno dice che pensa alla morte dice la verità, è vero, ma nel primo caso va bene, nel secondo va male.
Già pensare alla morte è un paradosso. Pensare alla morte, di che si tratta? Se io dico che penso alla riuscita va tutto bene? Se io dico di essere arrivato, di avere raggiunto la riuscita, uno dice: “Beh è arrivato, è una brava persona!”. Ma se questa idea mi opprime perché implica che, se sono arrivato al traguardo, allora non c’è più avvenire? Ebbene, contro questa idea io reagisco. Ma non so che, dicendo questo, interviene la combinatoria per cui il termine riuscita si collega con l’idea di fine, con l’idea di negazione all’avvenire. Ciò può emergere solamente se c’è un’articolazione, se c’è un dispositivo, se interviene l’ascolto, non è una questione terminologica, è una questione di combinatoria, di logica, di clinica. È un dispositivo e richiede apertura, spalancamento.
M. Anche l’apertura ha una fine. Mi chiedo se non si tratta di qualunquismo, perché ogni tipo di discorso può essere interpretato.
R.C. No, qui non si tratta di ammettere qualunque cosa, ma di capire come quella cosa o quell’altra intervengono nel mio itinerario per impedirne lo svolgimento. Questo si tratta di capire: come il mio progetto possa trovare degli impedimenti e quali sono questi impedimenti. Non sono impedimenti standard, non sono impedimenti sociali, non sono impedimenti dovuti a quello che altri possono pensare essere il mio bene o il mio male, ma sono impedimenti presunti, sopra tutto dovuti all’intervento dell’idea di fine e al suo modo di serpeggiare in ciò che faccio, negando, apparentemente, il gerundio.
Questo è il punto, questa è la questione intellettuale, questa è la questione dell’itinerario intellettuale. Parlando e facendo qualcosa accade nell’istante, qualcosa che mai è accaduto, mai è dato per accaduto, ma accadendo, facendo, parlando è la questione della parola, il gerundio.
M. Anche il finendo.
R.C. Finendo comporta una fine asintotica. Fino a che io posso dire finendo, la fine non è intervenuta né sta per intervenire; è un’idea. Occorre che le idee si svolgano, operino, perché queste idee io non so dove possono portare, dove possono condurre.
M. Finché c’è un’idea di bene bisogna lasciarla procedere.
R.C. L’idea che esista il bene è del tutto indimostrata. Occorre non avere paura di certe parole e lasciare, invece, che le cose si dicano e proseguano a dirsi, senza intervenire come Procuste a sancire qual è il modo prescritto che debba andare bene per tutti. Non esiste il “per tutti”. Dire “per tutti” è la negazione intellettuale.
Questo è il contesto in cui ci troviamo e allora possiamo cominciare a leggere l’opera di cui si tratta, La vita che ti diedi, che è molto complessa. C’è chi l’ha letta recentemente in vista dell’incontro?
M. Io.
R.C. Bene. Quindi lei ha preso il nostro appuntamento seriamente, mentre altri non hanno preso così seriamente la cosa; dicono: “Se lo legga lui, Pirandello”. Quello che diceva il nostro amico è che, per l’occasione, ha incominciato a leggerlo. Sicuramente l’aveva già letto, ma non basta avere letto. Talvolta accade che un cifratore dice: “Ma, l’abbiamo già detta tante volte questa cosa, ne abbiamo già parlato tanto”. Già detto! Qualcosa è stato detto e qualcosa è da dire, qualcosa si sta dicendo, nulla è già finito. C’è qualcosa che si sta dicendo ora, apri le orecchie ora, perché ora qualcosa si dice. Con la premessa di avere già detto non ascolto quel che si dice ora, ma è lì che c’è qualcosa di essenziale, in quel che si dice ora, ciascuna volta, nell’istante.
Ecco, allora, questo lavoro teatrale di Pirandello, in tre atti. Vediamo come incomincia la storia, il testo e poi il caso. C’è una storia. Quante persone arrivano dallo psicanalista e dicono: “Le dico in breve la mia storia: è accaduto questo, questo e quest’altro. Ecco, adesso le ho raccontato la mia storia, veda lei! Ho già detto tutto! Questa è la mia storia”. Trenta, quaranta, cinquant’anni di vita sono riassunti in dieci minuti, mezz’ora, un’ora, tre ore. Dice: “Basta, ho detto tutto, questa è la mia storia”. Sì, questa è la storia, ma poi qual è il testo di questo breve racconto, della storia? E questa storia, che cosa indica, dove ci trae?
L’indagine può cominciare se teniamo conto che la storia non è mai reale, la fiaba non è mai reale e solamente analizzando i termini della storia, della fiaba, posso capire qualcosa e, capendo, intendere e, intendendo, valorizzare, qualificare e, qualificando, il processo di valorizzazione non si arresta al senso comune, ma giunge a qualcosa di straordinario, di unico, di non scontato, di non comune; mai comune, il racconto non è mai comune.
La storia si apre con la notizia di un decesso, la morte del figlio di Donna Anna, tornato da qualche giorno alla casa materna. È appena tornato e muore. È un dettaglio su cui è il caso di non soprassedere in maniera veloce. Il figlio appena tornato, perché era partito, torna e muore. Adesso noi non saltiamo alle conclusioni, andiamo avanti, però è un dettaglio importante. Era partito qualche anno prima, torna e muore, quasi a indicare che l’idea del ritorno è l’idea di morte.
Noi abbiamo pubblicato un bellissimo romanzo, che la dottoressa Novaretti ha letto e recensito ampiamente, di uno scrittore bielorusso, Vasilij Bykov, libro che s’intitola Caccia all’uomo. Bykov è uno scrittore dissidente che ha avuto varie persecuzioni nel regime del dittatore dell’unico stato dell’ex confederazione a mantenere un regime dittatoriale, il bielorusso Alexander Lukashenko. C’è un altro bellissimo libro di Bykov, La disfatta, fatto di quattro racconti, che narra del clima, di quali sono le vicende che accadono in questo contesto sociale dittatoriale, e è un materiale straordinario di testimonianza, veramente notevole. Nel romanzo Caccia all’uomo, la questione pretestualmente si snoda attraverso le vicende di una famiglia dove il padre segue un certo percorso di libertà, non aderendo al diktat dell’ideologia, e si scontra con il figlio che invece è assertore di questa ideologia, e quando il protagonista del romanzo ritiene sia il momento di ritornare alla terra natia, muore, viene ucciso. Ora, è curiosa e interessante la questione dell’idea di origine, dell’idea di ritorno all’origine con l’idea della fine, perché occorre leggerlo senza realismo; leggendo, non c’è più realismo, per cui il ritorno, questa idea di morte, è un fantasma! Questa uccisione non è realistica, ma soddisfa l’idea fantasmatica del ritorno all’origine, che è un modo per pensare alla propria fine.
Allora, il figlio ritorna e viene subito dato per morto. Ma, sarà morto? Questo lo dobbiamo capire, leggendo. Intanto, la mamma del figlio, Donna Anna, dice che il figlio non è morto, vive, e lei lo vede vivere, per cui gli astanti, la sorella, il prete, le pie donne dicono che Donna Anna straparla, è pazza. La sorella, Donna Fiorina dice: Impazzirà! Impazzirà! Perché? Perché Donna Anna non ha acconsentito che la salma del figlio venga rivestita secondo consuetudine, ma vuole che sia lavata e avvolta in un lenzuolo.
DON GIORGIO – Fare diversamente dagli altri! –
DONNA FIORINA – Non perché voglia, creda! – dice la sorella a don Giorgio.
DON GIORGIO – Credo; ma – dico il dubbio, almeno – il dubbio che, a sviarsi così dagli altri, dagli usi, ci si possa smarrire e… e senza neanche trovare più compagni al dolore nostro. Ecco, occorre trovare la compagnia al dolore nostro. Stare agli usi, conformarsi agli altri, altrimenti c’è il pericolo di “non trovare compagni al dolore nostro”, nostro! “Perché capirà, un’altra madre può non intenderla codesta nudità della morte che lei vuole per il suo figliolo –.
Un’altra madre può non intenderla, invece le madri devono avere una visione unica, comune del nostro figliuolo. Il figliuolo, i nostri figli, i nostri bambini, i nostri scolari, i nostri giovani. Nostri! Nostri di chi? Chi è il proprietario, chi è il padrone di questi nostri figli? Nostri! Terribile questa istanza di padronanza! Nostro, aggettivo possessivo. Già dicendo nostro, la questione della tolleranza potrebbe sembrare messa in questione.
Pubblico Il pretesto potrebbe essere i nostri morti.
R.C. Il pretesto potrebbe essere per prendere le distanze o le vicinanze. La profanazione dei nostri morti! Lui parla dei nostri morti. Ma sono i nostri morti? Sono nostri i morti? Sono nostri i figli? Nostri… Guai a chi tentasse di prendere ciò che è nostro: il nostro dolore, i nostri figli, i nostri morti! È sospetto questo, no? Già dire “nostro dolore”, come se fosse cosa già nota, come se fosse cosa comune, come se il dolore fosse partecipabile. Infatti, c’è l’usanza delle partecipazioni; ci sono le partecipazioni alle nozze e le partecipazioni funebri: partecipo alla tua gioia, partecipo al tuo dolore, Partecipiamo! A cosa? Come partecipiamo? È paradossale, il dolore è ignoto, il dolore estremo è ignoto, il dolore che non si sa, che non è conosciuto. Il dolore cosciente è un dolore formale, è il nostro dolore, cioè il dolore standard, è un dolore sociale, un dolore ideologico, ma il dolore estremo non è partecipabile.
Non a caso Pirandello lo nota, lo nota non perché lo condivida, ma perché lo pone in evidenza alla nostra lettura come questione da leggere. “Trovare compagni al dolore nostro” è di un’ironia assoluta. La compagnia al dolore è qualcosa di antitetico, perché Donna Anna, la sorella la conosce bene, dice:
DONNA FIORINA: Sempre così è stata! E non si smentisce mai, sempre così è stata. Sembra che stia ad ascoltare ciò che gli altri le dicono; e tutt’a un tratto spunta fuori – come da lontano – con parole che nessuno s’aspetterebbe. Cose che – che sono vere – che quando le dice lei pare che si possano toccare – a ripensarle, un momento dopo, stordiscono perché non verrebbero in mente a nessuno; e fanno quasi paura. Cioè, pizzicano il fantasma comune, contraddicono, sono in controtendenza “E fanno quasi paura”. Io temo proprio, le giuro che temo di sentirla parlare; non so più nemmeno guardarla.
C’è un bellissimo saggio di Freud Lo straniante. È stato tradotto nelle opere come Il perturbante, ma il titolo originale tedesco è Das Unheimliche, non comune, non ordinario, straniante. E dice proprio che l’immagine non è convenzionale, è straniante e se tu pretendi che debba rispondere al canone, allora la stranianza può produrre paura. Ma la paura indica lo scarto tra l’immagine attesa e l’immagine differente che non ti aspettavi. Non dice che l’immagine è negativa, dice che l’immagine è sorprendente, è un alibi, è straniante, comporta una causa di straniamento, qualcosa di non atteso, non previsto. Nulla di negativo è nella struttura propriamente dell’oggetto causa di desiderio. E, dunque, Donna Anna dice stranezze!
Pubblico C’è un simbolismo nel figlio morto.
R.C. Qui interviene come pretesto per dire di una procedura non canonica, non comune rispetto a quella che è l’usanza, per cui, anziché la vestizione, cioè il funerale secondo i canoni, qui viene ipotizzato un altro modo, un’altra procedura. E allora quest’altra procedura viene subito stigmatizzata. E come viene stigmatizzata, criminalizzata? Il prete è maestro per indicare, perché la sorella dice: Oh Dio, Sente? Parla… parla con lui! Lui sarebbe il cadavere. E “generosamente” don Giorgio dice: Lasci, è il dolore. Farnetica. E così è tolto il valore delle parole. Anziché ascoltare e intendere qual è il messaggio, la sfumatura, la varietà, la differenza dell’intervento di Donna Anna, la differenza e la varietà vengono spazzate via: è il dolore. Farnetica. Il dolore farebbe farneticare. No! Il dolore è nella procedura del sapere inedito. Farneticare sarebbe delirare; delirio è il debordamento, fuori dal solco, lira, solco, delirium, uscire dal solco, cioè uscire dalla linea comune. Questo è il delirio, l’indice di un debordamento, di qualcosa che non segue la traiettoria. Deborda, quindi è un indice della varietà, un indice artistico; il delirio non è da togliere, è da ascoltare, ma se viene invece privato di ogni valore, se viene appiattito, il messaggio del delirio è tolto. E, infatti, che cosa aggiunge Donna Fiorina? Non è d’accordo con don Giorgio e dice: No. È che le cose, come sono per noi, come noi le pensiamo – questa sventura – chi sa che senso avranno per lei!
Le cose così come “noi” le pensiamo, chissà per lei che senso avranno! Esatto, proprio questa è la questione! Non c’è l’unidirezionalità del senso, non c’è l’universalità del senso! E già qui il testo lascia riflettere; Donna Anna dice che il figlio non è morto. E don Giorgio dice: A vivere nel nostro ricordo, sì. È un buon traduttore don Giorgio, traduce nel senso comune! Questa dice che vive e allora “vive nel ricordo”, cioè vive per ciò che è stato. Ma, Donna Anna lo guarderà come ferita dalla parola “ricordo” e dirà con voce fredda: Non posso più né parlare, né sentire parlare. Cioè, se ogni cosa che dico viene banalizzata, viene ricondotta al senso comune, non posso più parlare, non parlo più. È la questione dell’anoressia intellettuale: non parlo più, non mangio più, non faccio più. È la protesta contro il convogliamento, contro l’”imbrancamento”, contro l’aggregamento, contro la traduzione standard. “Non posso più sentire parlare, non parlo più”, se ogni cosa che dico è banalizzata!
DONNA FIORINA Perché, Anna?
DONN’ANNA Le parole – come le sento proferire dagli altri!
DON GIORGIO Io ho detto “ricordo”. Che cosa ha detto in fin dei conti, ha detto “ricordo”!
DONN’ANNA Sì, don Giorgio; ma è come la morte per me. Se non ho mai, mai vissuto d’altro? Se non ho altra vita che questa – l’unica che possa toccare: precisa, presente – lei mi dice “ricordo”, e subito me la allontana, me la fa mancare.
Se si tratta dell’atto, dell’istante, di ciò che accade ora e tu dici ricordo, è l’annichilimento. “Ricordo”, come dire il nostro ricordo, il nostro sapere comune, la negazione della memoria in atto, questo è il punto.
M. Non c’è una negazione sul figlio morto, ma un’insistenza sul nostro, in quanto lei ritiene di continuare a dare vita.
R.C. Eh, ma come? Dobbiamo ancora arrivarci, perché questa è la questione che introduce l’amore.
M. Sì, ma c’è sotto anche la concezione di Pirandello sulla morte. Lui ha questa caratteristica di contestare il senso comune, proprio in quanto per lui la vita degli altri non è altro che la vita che noi gli diamo.
R.C. Adesso, qui, noi lavoriamo sul testo, non sulla concezione pirandelliana, cioè non facciamo il commento a Pirandello inteso come un corpus unico, ma occorre che teniamo conto del testo, altrimenti non c’è più la lettura, ma interviene il commento, cioè interviene un’attribuzione di un’etichetta a un personaggio, Pirandello, che a questo punto diventa un personaggio fantastico a cui possiamo attribuire ogni cosa a nostro piacimento, o a piacimento della critica vigente, o a piacimento della critica alternativa, ma sempre commento, non è più lettura. Invece occorre leggere, cioè attenersi al testo, a quel che si dice, a quel che si pone dinanzi.
M. E, secondo lei, esiste una lettura senza interpretazione?
R.C. L’interpretazione è parte della lettura.
M. Non credo che abbia senso pensare che le parole dicano di per sé. Mi sembra che questo sia un mito da sfatare che la parola ha questo potere magico.
R.C. Il bello è proprio che il potere magico non c’è. La lettura vanifica la magia. Magari trova che la parola ha, per così dire, un potere: suggestione, persuasione, influenza.
M. Suggestione magica.
R.C. No, ecco dove casca! Questo è un dettaglio da elaborare. La suggestione, così come la persuasione e l’influenza, sono tre aspetti del processo di usura della parola. La suggestione da dove viene? Che cosa indica la suggestione? A parte che nessuno ha il potere di creare nulla, neanche Dio ha il potere di creare, perché Dio opera per la scrittura delle cose, allora, per la suggestione è questione di suggerimento. Che cosa suggerisce? Il suggerimento da cosa viene? Occorre tenere conto in ciascun caso, in ciascun dettaglio della base linguistica, altrimenti facciamo metafisica. Se noi togliamo la base linguistica allora può intervenire la magia, l’idea magica o l’idea ipnotica. Ma noi dobbiamo tenere conto della base linguistica, è da lì che viene il suggerimento, non da un ente metafisico o da qualcosa che non c’è o chissà da che cosa. Il suggerimento è linguistico. Lo stesso la persuasione, che non è operata da qualcuno su qualcun altro, è la lingua a persuadere. E la persuasione, nella lingua, viene dal significante, mentre il suggerimento viene dal nome e l’influenza viene dall’Altro.
Allora, questo tessuto, questa tessitura tra la persuasione, la suggestione, l’influenza, non è qualcosa di magico o di ipnotico o di subliminale o di chissà quale natura, ma è di natura linguistica e indica propriamente qualcosa che noi ascoltiamo.
La suggestione, la persuasione, l’influenza sono frutti dell’ascolto rispetto al funzionamento del nome, del significante e di ciò che è Altro dal nome e dal significante. Nulla di magico; è atto linguistico, ma è importantissimo intendere questo, altrimenti possiamo rifugiarci nel fatto che Tizio mi ha persuaso, che Tizio mi ha suggestionato a fare una cosa che mai avrei fatto, o Caio mi ha influenzato contro la mia volontà. Queste sono balle, in quanto sono questioni che riguardano la concatenazione, la combinatoria dei nomi, dei significanti che vengono ascoltati, che intervengono in un certo contesto e che producono suggestione, persuasione e influenza. Altrimenti noi dovremmo sempre temere il pericolo della magia o di qualche potere invisibile in grado di condizionare, suggestionare, influenzare nostro malgrado.
Nessun “nostro malgrado”! È un processo di qualificazione quello che avviene attraverso la suggestione, la persuasione, l’influenza. È un processo intellettuale, altrimenti non avremmo nessuna persuasione, nessuna suggestione, nessuna influenza se non ci fosse un processo intellettuale in atto. La materia inerte non è influenzabile, non è suggestionabile e non è persuadibile. Occorre non rifugiarsi nell’escamotage di pensare che esista un potere invisibile che possa governare, nostro malgrado, il nostro cervello.
Quindi il ricordo, perché Anna dice che bisogna andare oltre il ricordo e dice sì, va bene, avvenga pure questo rito funebre, bisogna vestirlo, profumarlo, lavarlo, accendere i ceri, recitare le preghiere.
DONN’ANNA – Sì, recitare le preghiere, accendere i ceri… – E fate, sì; ma presto! – Io voglio quella sua stanza là com’era, che stia là viva, viva della vita che io le do, ad attendere il suo ritorno… A attendere il suo ritorno, quindi il figlio non è già ritornato! Lei vuole attendere il suo ritorno. O la prendiamo per pazza, che farnetica, straparla, oppure teniamo conto del testo, e il testo prosegue …con tutte le cose com’egli me l’affidò prima che partisse. – Ma lo sa che mio figlio, quello che mi partì, non m’è più ritornato? – Allora, è tornato e è morto, oppure non è tornato? Come leggere? Come occorre leggere questo dettaglio che è molto interessante, perché adesso non dico che ci mette nell’imbarazzo, ma quanto meno in allerta, cioè, non è così scontato che la storia sia grave. Il realismo della storia, il realismo apparente forse è fuorviante. La storia è pensata in questo modo, ma forse non è andata così. Al che, giusto per concludere, appena dice questo, la sorella, che la conosce bene (bisogna sempre diffidare da chi ti conosce bene, amici, parenti…), dice – Lo conosciamo bene, ce lo ricordiamo benissimo –. Terribile! Hanno dei pregiudizi enormi “Ma sei sempre uguale, non sei cambiato per nulla”. Una serie di insulti! Incredibile! Bisogna proprio negare che sia intervenuto un processo di qualunque natura, da cui l’attribuzione dell’identità, dell’immobilismo! Ma questo ci porta da un’altra parte.
Allora, come dice il testo, la sorella Fiorina guarda don Giorgio, come a dire: “Straparla”. Al che Anna riprende, cioè, inutile che cerchiate di commiserarmi.
DONN’ANNA Non guardi Fiorina. Anche i suoi figli! Le sono partiti l’anno scorso per la città, Flavio e Lida. Crede che essi ritorneranno? Infatti, poi la questione è ripresa, tornano, ma irriconoscibili, quindi non tornano, non tornano più.
Direi che ci fermiamo qui. Ci ragioniamo, perché già in queste prime pagine ci sono state tolte molte certezze rispetto a ciò che il racconto sembrava dire, rispetto alla cronologia della storia, mentre il testo ci ingiunge di prestare orecchio in altro modo. E dove ci condurrà quest’altro modo lo verifichiamo la settimana prossima, proseguendo la lettura di quest’opera, La vita che ti diedi.
Il figlio, la memoria, il dolore (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Iniziamo con la segnalazione del bellissimo libro Iran. Gnomi e giganti. Paradossi e malintesi, di Ebrahim Nabavi e Reza Abedin, due scrittori iraniani. Vi leggo un paio di aforismi per capire qual è l’ironia con cui è scritto il libro. Poi, ciascuno può valutare se vale il caso di leggere anche altre parti.
Ci sono 12 sedie. L’ottava sedia dice: “Per inaugurare il Parlamento hanno trovato duecento sedie su cui si sarebbero seduti i nemici del popolo”. La nona sedia recita: “Le dittature nascono in un paese quando c’è una sola poltrona e gli altri sono costretti a sedersi per terra. In questa situazione c’è un rapporto diretto tra l’altezza della poltrona e la severità della dittatura. Più sono alte le gambe della sedia, maggiori sono le paure del dittatore di cadere”. La decima sedia: “Lo sviluppo politico significa aumento del numero di sedie su cui si può stare seduti a decidere. Ora, per estendere la democrazia è necessario incrementare la produzione di sedie”.
Bellissimo libro. Degli stessi autori e di altri esponenti della libertà intellettuale di vari paesi, della Cina, dell’Iran, dell’Iraq, dell’Egitto e quant’altri, potete trovare dei saggi nel volume che s’intitola La libertà, che contiene gli atti del Festival della modernità che si è svolto qualche mese fa, a Milano. Terzo volume che è propedeutico alla lettura del prossimo libro in uscita di Armando Verdiglione, Scrittori e artisti, e di quello di Augusto Ponzio, La dissidenza cifrematica, che è una lettura di alcuni dei testi e degli eventi che hanno caratterizzato l’esperienza cifrematica sin qui. Ecco, queste sono delle letture per la prossima settimana reperibili in libreria.
Questa sera, invece, riprendiamo La vita che ti diedi. Per l’occasione, chi ha letto l’opera? Ci sono domande rispetto a quello che abbiamo letto la settimana scorsa, a questa prima parte della lettura?
Pubblico Io faccio una domanda, però non credo ammetta risposta, questo non è importante. Ripensando al dialogo tra Donna Anna, la sorella e il prete, e pensando a questi bei principi della cifrematica, mi chiedo chi è che più si comporta in accordo con i principi della cifrematica, tra Donna Anna e gli altri due? La cosa mi pare molto problematica, non so se sembra la stessa cosa anche a lei, perché mi pare che ci sia un verso in cui sembra che Donna Anna sia molto aperta al nuovo. Non capisco il suo nuovo modo di porsi di fronte alla vita, il suo nuovo modo di poter far vivere i morti non solo nel ricordo ma nel presente; e per un altro verso però mi sembra che lei sia attaccata al passato, perché il suo modo di far rivivere il figlio è cristallizzarlo nel passato. Lei rifiuta di credere che quello che è ritornato sia ancora suo figlio, perché non lo riconosce più. E, pensando a quello, mi viene in mente ciò che lei diceva a proposito di ciò che si deve evitare, cioè di vedere qualcosa come definitivamente acquisito nel passato. A me sembra che proprio lì Donna Anna dimostri che per lei il figlio è quello del passato, quello che lei ha conosciuto prima ancora che partisse, prima che partisse per quei sette anni. Dopo, quello che è tornato, basta, non era più suo figlio. Quindi mi sembra di vedere proprio questa forma di chiusura, non accettare che le situazioni cambino, vadano in modo diverso e anche direi che questo chiudersi poi in se stessa, che è un’altra delle cose che vengono biasimate dalla cifrematica. Come invece il prete, che sembra essere quello più immerso nello standard, ma poi si accorge che questa Donna Anna è chiusa in sé, non ha la possibilità di dialogare con gli altri. Infatti dice: “Non posso più parlare né sentire parlare gli altri”, e è costretta a rinunciare anche alla possibilità di comunicare agli altri il suo dolore e di avere quindi consolazione.
R.C. Molto interessante. Nel corso della sera vediamo di cogliere vari aspetti. Certamente, c’è una sorta di dicotomia tra passato e avvenire, tra presente e passato, avvenire e passato c’è una sorta di cesura, di cristallizzazione. Però, questo è da leggere se sia propriamente una caratteristica di Donna Anna o anche di altri o come intervenga nel racconto. Bene. Ci sono altre questioni? Altre domande?
Elisa Ruggiero Io ho cominciato a studiare i vari brani che lei ha indicato per gli incontri e ho trovato, leggendo Pirandello, una notazione che rinviava a un racconto, in sostanza avevo trovato una connessione con un racconto, sempre di Pirandello, Camera in attesa, e si collega molto bene con l’intervento precedente in relazione a questo aspetto dicotomico. Tra le altre cose mi sono annotata un brano e se vuole glielo leggo, perché si collega molto bene a questa questione del figlio, del ritorno, della partenza, di come viene visto. Il racconto parla dell’attesa. In sostanza parla di un ragazzo…
R.C. Senza sostanza. Questo racconto è senza sostanza.
E.R. C’è questo ragazzo che parte per la guerra di Libia…
R.C. No, non parte. È già partito e non è ancora tornato.
E.R. …e in casa rimangono le tre sorelle e la madre che lo attendono, e in questa attesa, nonostante il fatto che ricevano una missiva che spiega loro che è disperso…
R.C. No. Non “nonostante”, proprio per quello. Altrimenti non aspetterebbero.
E.R. No, perché poi, in realtà, dice che l’agente le aveva rassicurate che siccome c’era il termine “disperso”, non era probabilmente morto, ma era disperso.
R.C. Appunto, non “nonostante”, proprio per quello.
E.R. Cioè, non c’era la sicurezza della morte. Quindi loro continuano a fare i rituali casalinghi che facevano quando il ragazzo, che si chiama Cesarino, viveva ancora in questa casa. E poi, continuando, c’è questo intervento in cui dice: “La verità è che voi non riconoscete nel vostro figliuolo o nella vostra figliuola, ritornati dopo un anno, quella stessa realtà che davate loro prima che partissero. Non c’è più, è morta quella realtà. Eppure voi non vi vestite di nero per questa morte e non piangete… ovvero sì, ne piangete, se vi fa dolore quest’altro che vi è ritornato invece del vostro figliuolo, quest’altro che voi non potete, non sapete più riconoscere.
Il vostro figliuolo, quello che voi conoscevate prima che partisse, è morto, credetelo, è morto. Solo l’esserci d’un corpo (e pur esso tanto cambiato!) vi fa dire di no. Ma lo avvertite bene, voi, ch’era un altro, quello partito un anno fa, che non è più ritornato.
Ebbene, precisamente come non ritorna più alla sua mamma e alle sue tre sorelle questo Cesarino Mochi partito da due anni per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date. E dunque realmente può bastare alla mamma e alle tre sorelle di Cesarino Mochi la vita ch’egli seguita ad avere per esse, qua nella realtà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse.
Come se si ponesse in un certo senso la possibilità di un ritorno di un tempo che si è fermato in una famiglia, di un ritorno in un ambiente dove il tempo si è fermato.
R.C. Però, Pirandello nota che l’orologio non si ferma e il tempo non si ferma. Il tempo non passa, non scorre, non finisce. Certo, altra cosa il fantasma della fine del tempo. Chiaro, e questa è la questione, qui.
E.R. Infatti poi gioca molto anche sul significato di bugia, dove bugia dovrebbe essere “candelabro”, o bugia come ipocrisia anche dell’ipocrisia della fantasia di un ritorno…
R.C. Adesso non dobbiamo fantasticare, cioè non c’è da metterci del proprio. C’è da leggere, perché il testo fornisce ampiamente il materiale di cui si tratta. Solamente mettendoci del proprio il materiale viene coperto e risulta illeggibile. Occorre invece leggere. Quindi, importa la lettura del testo e, con la lettura, la restituzione del testo. Per ciò il testo non è da studiare, perché lo studium comporta una sorta d’imbrigliamento, propriamente l’assenza di tempo dal testo.
Invece, la lettura non priva il testo del tempo e restituisce il testo nella lingua che è propria al testo e propria alla lettura. Quindi c’è l’incontro della lingua nella lettura: l’altra lingua e la lingua altra. Nella lettura si tratta di cogliere che non c’è uniformità della lingua e del testo, né c’è identità linguistica. Dunque né identità né uniformità, ma più lingue. Qual è la lingua del testo? Qual è la lingua della lettura? In che lingua è scritto il testo? In che lingua lo leggiamo? Qual è la lingua con cui avviene la restituzione del testo? Ecco, ciò esclude lo studium, ossia che il testo sia studiabile. Il testo è da leggere.
La nostra riflessione di lettori occorre che giunga alla lettura. La lettura passa anche per la riflessione. La riflessione è sulla via. La lettura s’avvale della suggestione e della persuasione come dicevamo la settimana scorsa. La riflessione è in questo processo che, però, va oltre la riflessione perché la questione è linguistica e il testo non è unitario, non è un tutto. Occorre avvalersi dei dettagli che il testo offre, tenere conto della varietà linguistica. Il testo non ha un senso, ma il senso è ciò che si produce lungo la lettura dei nomi, mentre il sapere si produce lungo la lettura dei significanti. Ma nomi e significanti non sono distinguibili prima; solamente a posteriori, per effetto del senso e del sapere che si produce, leggendo, possiamo accorgerci di esserci imbattuti in nomi e significanti. Non c’è modo, prima, di cogliere quale sia il nome e quale il significante in cui noi ci imbattiamo leggendo, perché la lettura non è un processo volontario, è un processo intellettuale, cioè secondo la logica particolare della parola. Questo è il passo dallo studium alla lettura: l’intervento della logica particolare, del modo particolare della varietà linguistica, che va oltre quella che viene chiamata la lingua propria, la lingua che uno crede di parlare.
La lettura mette in questione la padronanza sulla lingua, la padronanza sulla parola, sulla materia linguistica, sulla materia intellettuale e questa constatazione giova a qualificare la psicanalisi in quanto esperienza della parola originaria, esperienza della lettura della parola.
La psicanalisi non è uno strumento di padronanza, non è un codice da applicare alle cose e non è nemmeno uno strumento di conoscenza. La formula “la psicanalisi dice che” è un tentativo di circoscrivere la psicanalisi a strumento di padronanza, cosa che non è, non può e non vuole avere, perché la psicanalisi è esperienza. Non è un apparato disciplinare, non è un corpus. Allora, per un verso la psicanalisi non è un viatico per la salvezza dell’anima o del corpo, né è strumento di padronanza, anzi, è il modo con cui ciascuno che ne intraprende l’esperienza constata che la padronanza è una mera idealità e che l’idea di padronanza, l’idea platonica non regge nella pratica, nell’esperienza.
La psicanalisi non promette la salvezza, non promette nulla. Non è una religione, né la variante laica della religione: è esperienza della parola originaria, è qualcosa che si svolge, e nel suo svolgimento produce acquisizione nella varietà, nella differenza, nella molteplicità specifica di ciascun caso, di ciascun viaggio, di ciascuna esperienza; non dell’esperienza intesa come unica, come universale.
Questo è importante perché la psicanalisi non è né ideologia, né religione, né promessa di salvazione. Ciò può indurre qualcuno a chiedersi, allora, a che serva la psicanalisi. Ecco, non serve! Infatti, non serve a nessun precetto, a nessuna ideologia, a nessuna verità data come causa. Non serve. Allora, qualcuno direbbe che è inutile! Diciamo che è superflua. La psicanalisi si attiene al superfluo, cioè alla proprietà del tempo che non passa, non scorre, non finisce e proprio per questo produce effetti di senso, di sapere, di verità.
Pubblico Come la filosofia, sembrerebbe almeno da queste caratteristiche. Allora, in cosa differisce? Perché la filosofia è quella cosa senza la quale si rimane nel “tale e quale”.
R.C. E proprio qui sta la differenza. Non si rimane certamente “tale”, proprio perché si tratta del quale.
E.R. E rispetto all’errore come si pone la questione?
R.C. Avremo modo di parlare profusamente. L’errore è strutturale, è costitutivo.
E.R. Ma si può ancora parlare di errore? Cioè, un errore che generalmente, nel luogo comune viene considerato tale…
R.C. No, no, ma figuriamoci. Ma bisogna che lei si ascolti mentre parla. Mica che sbrodoli tutto… Luca distingueva, non mi stancherò mai di ripeterlo, tra parlare e blaterare. Esigeva, Luca, che ci fosse parola, non lallazione. Allora, perché ci sia parola occorre che ci sia il silenzio, l’ascolto, la pausazione, cioè la modulazione. Non si può sbrodolarsi addosso senza ascoltare ciò che si produce parlando. E se lo diceva Luca occorre tenerne conto. Perché parlare comporta la logica particolare, il tempo, l’ascolto, la qualifica. Dunque, qualificando, nessuna cosa è tale, perché si qualifica e, qualificandosi, differisce, varia, entra nel processo intellettuale. La sfumatura è un aspetto di questo processo di qualificazione, ma per accogliere la sfumatura occorre lasciare che le cose si dicano. Nessuno dice le cose, ma le cose si dicono. Questo è uno degli aspetti, perché la parola è senza sostanza, per questo si attiene al tempo, per questo il superfluo è una sua proprietà, e come notava un cifratore, precisamente Gianfranco Dalle Fratte qualche giorno fa, la sostanza limita l’ingegno. L’intervento della sostanza limita l’ingegno. E ciò è particolarmente coglibile per i medici, i quali, abituati a rispondere con la sostanza, non colgono la questione, la domanda che ciascun caso propone, ma immediatamente puntano a somministrare il rimedio, la sostanza, che già i greci indicavano nella sua anfibologia di rimedio e veleno.
Ecco allora l’erotismo della posologia: poco fa bene, molto fa male, troppo guasta. Ma, quanto è il troppo o il troppo poco, da cui tutta una farmacia, una posologia, un erotismo della dose? La dose è il modo eminente della somministrazione della sostanza legale. A ognuno la sua dose, questa è la prescrizione della sostanza.
La parola invece ha un altro motto: a ciascuno la sua logica. Non la sua dose. Dunque, la questione esige l’astrazione, il tenere conto che si tratta della materia intellettuale e non della sostanza, della materia del dire, del parlare e di come interviene la materia; di quale materia si tratta in ciascun dettaglio; questo giova alla lettura.
Senza la natura intellettuale delle cose, della materia, la lettura risulta impossibile. Allora interviene la sordità, l’assordamento, il convenzionalismo, l’accomodamento sull’abitudine, sul luogo comune, sulle proprie credenze. È questo che occorre capisca anche il medico: l’attestarsi su una credenza posta come sostanza è altrettanto nociva di una sostanza, è sostanza, interviene come farmaco nella sua anfibologia. Qui siamo nella materia della lettura, che è materia intellettuale.
Possiamo proseguire la lettura. Certo, non dal punto dove l’avevamo lasciata, ma da un altro punto, dal punto in cui proseguiamo. Noi abbiamo incontrato sin qui la questione del figlio, che ancora non è chiaro se sia morto o se non sia morto, se sia tornato o se non sia tornato, se sia partito o se non sia partito o perché sia partito. Quindi, c’è un figlio che non è identico a sé, è un figlio che se è ritornato non è quello che è partito, se è partito non è quello che è tornato, se è morto non è nessuno dei due precedenti, cioè è un figlio che sfugge alla presa. È un figlio senza sostanza, senza una rappresentazione possibile della sua identità, un figlio che differisce. È un figlio che, a suo modo, propone un’adiacenza, un’allusione al mito di Cristo, che è il mito del figlio, è un figlio, questo a cui allude Donna Anna, che non è situato nella genealogia, che non si può dire sia “suo” figlio; è “il” figlio.
San Tommaso dice che il filius non è generato ma procede. Non è figlio del padre ma procede dal padre. E sant’Agostino aveva a sua volta affermato che il padre non è il padre del figlio ma è padre al figlio, dunque, padre e figlio senza genealogia. Per sant’Agostino genitus indica la processione del figlio dal padre, per cui siamo in presenza di un elemento linguistico che si coglie molto bene se noi leggiamo il De Magistro di sant’Agostino, che è sopra tutto un trattato di linguistica. Ma, più che un trattato è una testimonianza, potremmo dire, una testimonianza della linguistica freudiana, paradossalmente.
Sant’Agostino coglie propriamente la questione della parola e della sua tripartizione in segno, tripartizione in nome, significante, Altro. Certo, sant’Agostino non si esprime così, ma se leggete il De Magistro troverete gli elementi di questa tripartizione, di questa analisi linguistica. Allora, il figlio, il filius è il modo con cui funziona il significante che procede dal nome. Nome, significante, Altro. Tre aspetti della parola in quanto segno. Cogliere che esiste questa tripartizione del segno ci avvia verso la lettura, come cogliere che la parola non è un monolite ma è costituita dalla logica del tre. Parlare, differentemente da altre forme così dette “verbali”, esige il tre, la logica del due e la logica del tre, non solamente quella che si è attestata con la filosofia come logica binaria. Questa è la differenza che interviene con la parola. E allora leggiamo, avvalendoci di questi aspetti, di queste constatazioni, di queste acquisizioni, e riprendiamo la lettura da pagina 17.
DONN’ANNA: “Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora? Non mi è morto ora, ma quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio – il figlio che ritorna, ritorna altro. Impossibile incontrare lo stesso figlio. E questo anche Leonardo lo asseriva, come anche Eraclito, quando diceva che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Leonardo in altra formula indicava che l’acqua che scorre è impossibile che possa bagnare due volte. L’acqua che scorre è la prima di quella che passa e l’ultima di quella che è andata. Insomma, non c’è possibilità di fermare il tempo –. Ma deve ammettere che io lo so mio figlio com’era. Una madre guarda il figlio e lo sa com’è. Dio mio, l’ha fatto lei. Ebbene, la vita può agire così crudelmente verso una madre. Le strappa il figlio e glielo cambia. Un altro. E io non lo sapevo. Morto. E io seguitavo a farlo vivere in me.
DON GIORGIO (che si sente quindi chiamato in causa) Ma per lei, dunque, signora, per come era per lei. Non come era per sé, se egli fino a poco fa viveva.
DONN’ANNA La sua vita, sì, ah, la sua vita è quella che egli dava a noi, a me. Ma capisce che cosa orribile mi è toccato patire? Mio figlio, quello che è per me, nella mia memoria, vivo, era rimasto là, presso quella donna, e qua per me era tornato questo che non potei sapere più nemmeno come mi vedesse, con quegli occhi cambiati. E che posso saperne io della sua vita com’era, adesso, per lui, delle cose com’egli le vedeva, come le sentiva… Ecco, vede? È così. Quello che ci manca, ora, è solo quello che non sappiamo, che non possiamo sapere – quello che ci manca è quello che non sappiamo –. La vita com’egli la dava a sé e a noi.
Qui viene introdotta una questione non da poco: la questione della mancanza, non come nell’accezione comune come deficit, carenza, ma come ciò che produce sapere. La mancanza è ciò che noi non sappiamo. Impossibile sapere la mancanza ma, proprio a partire dalla mancanza, dalla mancanza a sé del significante, si produce l’effetto di sapere: dalla mancanza, ossia, dalla differenza da sé, questa mancanza che comporta l’inidentità strutturale, questa mancanza che esige dunque la produzione di sapere. Noi non sappiamo, la questione è questa. Contrariamente alla prosopopea di chi, accoglie gli spettatori, i proseliti e quant’altro, dicendo: “Noi sappiamo che…”, e pontifica, noi invece, strutturalmente, non sappiamo. “Sapremo”, per così dire, dopo aver parlato. Parlando, acquisiamo. Parlare comporta questa processione. È lì che si produce il sapere, è lì che c’è una trasformazione, è lì che interviene la qualifica. Le cose non sono già qualificate. Dicendosi si espongono a questa processualità, in cui interviene il sapere come effetto.
Pubblico Ma quello che non sappiamo, noi non lo sapremo mai. Quello che abbiamo perso è qualcosa che sapevamo ma…
R.C. Ma qui non è persa “La vita che lui dava a noi e che noi diamo a lui”. C’è questo scambio. La questione è che c’è questo scambio, e questo scambio è propriamente oltre la coscienza. Nessuno sa ciò che dà e ciò che da questo scambio ne ha. E questa è già l’annunciazione della questione dell’amore. Proprio lì, dove sembra trattarsi della morte, della perdita, della mancanza, si enuncia la questione dell’amore nei termini di questo scambio di qualcosa che si dà e che si ha. Paradosso. Solitamente c’è chi ritiene che per dare bisogna avere. Bene, l’amore dà quel che non ha, e qui comincia a annunciarsi questa questione.
Ma allora, Dio mio, si dovrebbe anche intendere che la vera ragione per cui si piange, anche davanti alla morte, è un’altra da quella che si crede – il dolore e il sapere. Qual è la connessione? – Si piange perché si sa quale sia il dolore?
Qui Pirandello dice di no
DON GIORGIO – pieno di buon senso dice – Si piange quello che ci viene a mancare.
Ma Donna Anna non è d’accordo. Dice:
DONN’ANNA La nostra vita è in chi muore. Quello che non sappiamo. Questo si piange.
Allora il dolore non lo sappiamo. Il dolore non è la coscienza del dolore. Il dolore estremo è inconscio, quello che non si sa. Don Giorgio protesta:
DON GIORGIO “Ma no, signora”,
DONN’ANNA “Sì, sì, per noi piangiamo, perché chi muore non può più dare nessuna vita a noi. E chi vuole ch’io pianga, se non per me?”.
Non viene pianto o compianto il morto, ma qualcosa che riguarda lo scambio e che non si sa.
DONN’ANNA Come debbo dire, io, ora? Debbo dire che io – io – non sono più viva per lui perché lui non mi può più pensare.
Però qui siamo già nel fantasmatico. Quello che importa è che questo scambio, questo dare, questo avere, non sono quantificabili, non sono rappresentabili in un quantum, in una sostanza. È eventualmente formalizzabile in un racconto, in una testimonianza. Dunque con la memoria, non con il ricordo di ciò che è stato, ma con la memoria in atto di ciò che accade ora. Questa è la memoria, la memoria in atto. E infatti Donna Anna si ribella all’idea del ricordo, qualcosa che chiude nel passato e dunque sancisce che qualcosa sia finito.
DONN’ANNA Mi sono accorta bene che la vita non dipende da un corpo che ci sia o non ci sia davanti agli occhi. Può esserci un corpo, starci davanti agli occhi ed esser morto per quella vita che noi gli davamo.
Se non interviene nello scambio. Qui c’è un’accezione di vita che è molto complessa. Da cogliere, da analizzare, da esplorare. Nulla di comune, nulla di biologico.
Vuol dire che io ora non debbo più permettere che s’allontani da me, dov’ha la sua vita; e che altra vita si frapponga tra lui e me: questo sì! – Avrà la mia qua, nei miei occhi che lo vedono, sulle mie labbra che gli parlano; e posso anche fargliela vivere là, dove lui la vuole: non m’importa! senza darne più niente, più niente a me, se non me ne vuol dare: tutta, tutta per lui là, la mia vita: se la vivrà lui, e io starò qua ancora ad aspettarne il ritorno, se mai riuscirà a distaccarsi da quella sua disperata passione.
Qui abbiamo l’indizio per il caso clinico. C’è la passione. C’è la passione che si frappone a qualcosa. E questo, per il momento, lo accantoniamo, lo lasciamo lì. Passione disperata. Perché emerge poi dalla storia che questo figlio stava in Francia con una signora, e sarebbe questa per Donna Anna la sua disperata passione. Intanto la storia procede, e Don Giorgio, la sorella, tutti, tentano di consolare Donna Anna. E Donna Fiorina dice: “Bisogna pure consolarsi in qualche modo”. Donna Anna dice “Eh sì”, dicendo “faceva questo, faceva quello”, ricordando. Il ricordo, come una sorta di passato che deve essere riattivato
“Come tutti hanno sempre fatto” dice la sorella, anch’essa dotata di molto buon senso, e Donna Anna dice: “Ecco, insomma, farlo morire”; il ricordo: il modo per farlo morire. Tolto il tempo, il ricordo sancisce la morte.
DONN’ANNA Insomma, ecco, farlo morire, farlo morire anche in noi; non così d’un tratto com’è morto lui là, ma a poco a poco; dimenticandolo; negandogli quella vita che prima gli davamo, perché egli non può più darne nessuna a noi – quindi un altro modo di dare la morte. La negazione dello scambio –. Si fa così? – Tanto e tanto – tanto a te e tanto a me –. Più niente tu a me; più niente io a te. – O al più, considerando che se non me ne dai più è perché proprio non me ne puoi più dare, non avendone più neanche un poco, neanche una briciola per te; ecco, di quella che potrà avanzarne a me, di tanto in tanto, io te ne darò ancora un pochino, ricordandoti – così, da lontano. Ah, da lontano lontano, badiamo! per modo che non ti possa più avvenire di ritornare. Dio sa, altrimenti, che spavento! – Questa è la perfetta morte – ossia, il ricordo nega lo scambio, nega il tempo e dunque sancisce la perfetta morte. È un altro modo di considerare la questione.
E intanto la cosa va avanti, e viene annunciata l’ipotesi che questa donna, questa “disperata passione” arrivi lì, nella casa. E tutti la sconsigliano di accondiscendere a questa ipotesi, sapra tutto perché Donna Anna vuole favorire che questa Lucia Mobel arrivi dalla Francia. E perché Donna Anna insiste per favorire questo arrivo? Perché, dice:
DONN’ANNA Volete ch’io glielo uccida in questo momento, uccidendo anche lei?
DONNA FIORINA Ma scriverai alla madre nello stesso tempo?
DONN’ANNA Scriverò anche alla madre per scongiurarla che glielo lasci vivo!
Cioè, se venisse annunciato a Lucia che il figlio è morto, verrebbe ucciso il figlio e verrebbe uccisa anche Lucia. Questa è l’idea di Anna. E qui si chiude il primo atto. E il secondo ricomincia con l’arrivo di Lucia, la quale arriva perché incinta. Donna Anna avrebbe potuto impedire a Lucia di arrivare scrivendo una lettera, ma dice di non aver potuto.
DONN’ANNA Non ho potuto! Mi ci son provata, tre giorni, e non ho potuto; per la paura che ancora ho.
DONNA FIORINA Di che?
DONN’ANNA Che possa non essere per lei com’è per me! che «sapendolo», il suo amore debba finire!
Proprio per l’impossibilità dello scambio. Come se Lucia abbia bisogno ancora di mantenere lo scambio, cosa che invece Donna Anna ha superato. Questo mi pare il succo.
Donna Anna in qualche modo annuncia uno scambio senza coscienza, in cui non è rappresentato ciò che viene scambiato, e teme che invece per Lucia non sia così, e che quindi, per Lucia, una volta annunciato che è finito, allora possa finire per lei. Cioè, che Lucia possa credere nella fine. Altro dettaglio che ci serve per il caso clinico. Dunque l’amore non sa ciò che dà, ci dice il testo e, sapendo, finisce. L’amore procede in questa condizione di assenza di coscienza, di assenza di rappresentazione di ciò che viene scambiato. Nel momento in cui interviene la coscienza dell’amore, l’amore non c’è più. Nel momento in cui interviene la coscienza di ciò che viene scambiato, non è più amore. Interessantissimo. E dunque siamo sul versante materiale, sul versante di ciò che è senza visione, senza rappresentazione, senza presenza e senza presentificazione. E qui si apre un altro dettaglio interessante.
DONN’ANNA Io non ho bisogno di credere alle ombre. So che vive per me. Non sono pazza.
DONNA FIORINA Lo so! E intanto fai, come se fossi!
DONN’ANNA Che ne sai tu come faccio? delle ore che passo? Quando, su, abbandono la testa sui guanciali, e lo sento, lo sento anch’io il silenzio e il vuoto di queste stanze, e non mi basta più nessun ricordo per animarlo e riempirlo, perché sono stanca. «So» anch’io, allora! «so» anch’io! e mi invade un raccapriccio spaventoso! ‒ la coscienza. È coscienza, è conoscenza, e questo sapere del finito fa sì che ci sia un raccapriccio spaventoso. È interessantissimo. La coscienza è coscienza della fine, del finito, di ciò che è stato, in assenza di avvenire, perché è coscienza del ricordo. È senza il tempo che verrà. “e mi invade un raccapriccio spaventoso”. Lo spavento è lo spavento della fine del tempo ‒ L’unico rifugio, l’ultimo conforto allora è in lei, in questa che viene e che ancora non «sa». – Chiaro che questa è una rappresentazione. Questa lei che arriva e ancora non sa è lo spiraglio, lo squarcio rispetto alla coscienza. È l’irruzione di ciò che non si sa ‒. Tu vuoi farmi pensare prima del tempo a ciò che avverrà – ecco la rappresentazione, la presentificazione, cioè l’impossibile coscienza di ciò che verrà. Ossia la rappresentazione finita – Sei crudele –. La negazione dell’avvenire è precisamente la rappresentazione di ciò che verrà.
DONNA FIORINA Ma perché considero che con questo viaggio lei rischia di compromettersi; ― eh, viene a trovare l’amante. Rischia di compromettersi ― ora che tutto è finito ― ora che tutto è finito. Per Fiorina le cose finiscono sempre. Il fantasma è quello della fine del tempo. Rischia di compromettersi. Ha una concezione benpensante. Le cose finiscono, e quindi rischiamo di comprometterci. Senso comune. Perché Lucia arriva lì approfittando di un’assenza del marito, che è andato da Nizza a Parigi per affari. Sarebbe questo ciò che consente a Lucia di andare a trovare il figlio di Anna. Dunque c’è il marito che si è assentato. Il marito assente. Sempre un guaio per il marito, essere assente – E se il marito ritornasse all’improvviso e non la trovasse?
Molto terra – terra Donna Fiorina, avvocato del diavolo. Lei è per le convenzioni sociali. E qui si apre un intermezzo. Arrivano i figli di Donna Fiorina, che sono due. Sono “i signorini”. Lida e Flavio – Sono arrivati i suoi figli, signora – questi irrompono, e Donna Fiorina comincia un po’ a vacillare. “Arrivano oggi? Non dovevano arrivare domani?”. Arrivano inaspettatamente. E come li vede i suoi figli? Innanzi tutto, prima di vederli, li sente. Dice:
DONNA FIORINA Sì… sì, – ma Dio mio… – io non so… – come parlate?
Nota che parlano in modo differente da quando sono partiti, e ritengono che questo appunto sia dovuto al fatto che è un momento triste e loro hanno fatto irruzione sulla scena in maniera entusiastica senza tener conto che lì, per altri, è un momento di dolore. Ma Donna Anna dice:
DONN’ANNA. No, Flavio; no, Lida. Non è per me; è per voi.
LIDA (non comprendendo) Che cosa, per noi?
DONN’ANNA. Niente, cari! Ben tornati. (S’accosterà alla sorella e le dirà piano con un sorriso per confortarla): Pensa che almeno, ora, sono più belli.
Quindi sono più belli, ma… Elisabetta, la governante, dice, guardando Lida “Sembra un’altra”. E Donna Fiorina “No, no, sono gli stessi”. Quindi si riprende il tema del figlio che non può tornare, e se tornasse sarebbe Altro. Irriconoscibile. E qui i ragazzi raccontano quello che hanno fatto, e più raccontano, più parlano, più Donna Fiorina è a disagio. Al punto che Flavio se ne accorge., dice. “Sei davvero strana mammina”. La mamma è strana, i figli sono diversi, sono altri. Elisabetta dice: “Qui, ormai è come se la casa fosse proprietà di lui che se ne è andato. “Come se dovesse sempre arrivare?”, chiede Flavio. E Elisabetta:
ELISABETTA. No: come se non se ne fosse andato mai, e fosse qua ancora, com’era prima che partisse. Ci penserà lei, dice, a non farlo partire. Perché i figli che partono, muojono per la madre. Non sono più quelli!
I figli che partono si potrebbe anche dire che sono i figli che nascono. Nessun legame tra la madre e il figlio. Allora, questo è un elemento fantasmatico o è un elemento strutturale? È un elemento fantasmatico di Elisabetta, che asserisce che il figlio che parte muore, o è qualcosa di strutturale? Non c’è nessun legame, nessuna saldatura tra madre e figlio. Nessuna genealogia materna come pure nessuna genealogia paterna. Il figlio procede dal padre, quindi non genealogia ma processione e nessun legame tra madre e figlio. Nessuna funzione materna, nessuna genealogia, nessuna possibilità di incontrare la madre, per il figlio, e di incontrare il figlio, per la madre. Il figlio che parte non ritorna. Il figlio che nasce non ritorna. Sono elementi su cui occorre ragionare. E intanto le cose vanno avanti, e Lucia è arrivata, e chiede dov’è lui. “Eh, lui non c’è. Partito” Dov’è andato? – Partito – Ma come, io arrivo e lui… – eh sì – c’è almeno un motivo valido? Dice Donn’Anna: “Certo, c’è un motivo valido”.
DONN’ANNA Ecco: te la dirò – ma prima questo: che non intese offenderti, affidandoti a me –
LUCIA – no! ah, mi comprenda! – io… – io so che –
DONN’ANNA – che lui mi confidò sempre tutto – come vi siete amati
LUCIA Tutto?
DONN’ANNA Poteva confidarmelo, perché –
E qui Lucia ha una specie di brivido, come se Donn’Anna sottintendesse che era un amore platonico, no? E Lucia dice: “No”. Come?
LUCIA (prorompendo). Mi perdoni! mi perdoni! Sia madre anche per me! – Io sono qua per questo!
DONN’ANNA Ma allora, egli –
LUCIA – partì di là per questo
DONN’ANNA Ma lo forzasti tu a partire?
LUCIA Io, sì! Dopo! dopo! – All’ultimo, a tradimento, quest’amore, durato puro tant’anni, ci vinse!
All’ultimo. Alla fine. C’è l’ultimo momento. A tradimento questo amore ci vinse. Quindi interviene qualcosa di impuro. Interviene l’incesto. L’atto non casto. “Dopo tanti anni di amore puro…”. Quindi interviene una fantasia di fine e di incesto. Interviene un amore che non è più puro, non è più casto.
LUCIA Sconvolta, atterrita, lo spinsi a partire. – Non avrei più potuto guardare i miei bambini. – Ma fu inutile, inutile. – Non potei più guardarli. Mi son sentita morire. …
(La guarderà con occhi atroci.) Comprende perché? – Ne ho un altro!
Dunque questo amore non puro ha prodotto un altro bambino. In quanto amore non puro, che ci vinse all’ultimo.
DONN’ANNA Suo? Di mio figlio? Del morto? Di chi?
LUCIA Sono qua per questo.
DONN’ANNA Suo? Suo?
LUCIA Egli ancora non lo sa! Bisogna che lo sappia! – Mi dica dov’è!
DONN’ANNA Oh figlia mia! figlia mia! – Egli vive allora in te veramente? – Partendo, lasciò in te una vita – sua?
LUCIA Sì, sì – bisogna che lo sappia subito. Dov’è? Me lo dica! Dov’è?
E Donna Anna, ancora circospetta, ancora non rivela i dettagli di questa partenza. Dice: “è andato lontano, ma tornerà.”. “Tornerà? Le scriverà?”
DONN’ANNA Sì sì, certo – calmati – siedi, siedi qua accanto a me – e lasciati chiamare figlia –
LUCIA – Sì, sì –
DONN’ANNA – Lucia –
LUCIA – Sì –
DONN’ANNA Figlia mia! –
LUCIA – Sì, mamma! mamma! –
Un quadretto idilliaco. Madre e figlia si sono trovate.
DONN’ANNA Ah, egli doveva – ma fin da prima, fin da prima doveva farti sua! Questa gioja me la doveva dare, d’avere in te un’altra mia figlia, così! – così! –
Dunque la gioia di Donna Anna è trovare un’altra figlia. E Lucia precisa:
LUCIA – Senza tutto il male – oh Dio, il male che abbiamo fatto!
Dunque, hanno fatto del male. C’è chi ha fatto del male perché, se c’è l’incesto, c’è anche il male. Se c’è l’idea che il tempo finisca, c’è il male, c’è il peccato, ogni negatività viene posta dinanzi. Se il tempo finisce il negativo passa dinanzi, e ognuno ha ogni rappresentazione della fine del peccato del male della morte.
DONN’ANNA. Ora non ci pensare! – Quelli che non ne hanno fatto…
Insomma, chi non ha mai fatto il male scagli la prima pietra, chi ha fatto il male, poi, magari, procura del bene… Insomma, è favorevole a una mediazione. Ma Lucia è precisa:
LUCIA Ho tagliata in due la mia vita – io –
La vita tagliata in due.
DONN’ANNA – Ne hai una in te –
LUCIA – Ma quegli altri, là? – Son dovuta fuggire qua, con questa, che ancora è nulla e che pure subito è diventata tutto – tutto l’amore precipitato d’un tratto così, diventato d’un tratto ciò che non doveva mai diventare!
DONN’ANNA La vita!
LUCIA Ah quello che ho patito, lei non lo sa, non lo potrà mai immaginare! – Il letto, Dio mio, dove si riposa, diventato un orrore! – Certi patti con me stessa… – Sa, sa il bruciore di certi tagli? – Così! Là, a tenermi coi denti finché potevo, per impedirmi che il corpo finisse d’appartenermi e cedesse! E ogni qual volta scattavo da quell’orribile incubo dove per un attimo, cieca, ero stata costretta a mancarmi – ah – liberata –potevo essere di lui, pura, per il martirio subito – senza rimorsi. – Non dovevamo cedere anche noi! Il patto poteva valere soltanto così. – Perché, anche quegli altri là – che crede? (lei è madre, e con lei posso parlare) –
DONN’ANNA. – Sì, parla, parla –
LUCIA. – Quegli altri là (è vero) non erano amore che si fosse fatto carne – erano di quello, carne – ma l’amore che ci avevo messo io, l’amore che avevo dato io anche a quegli altri – io, io così col cuore pieno di lui – li aveva fatti, anche quelli, quasi di lui. …
C’è il rovesciamento. C’è un nesso con L’innesto, ma è il rovesciamento. Il caso dell’innesto è il rovesciamento. Non c’è stupro. C’è fantasia di stupro, nell’Innesto. Il caso dell’innesto non è il caso della moglie, è quello del marito. È il marito che, all’annuncio che la moglie è incinta, sospetta che il figlio non sia suo, e respinge l’ipotesi della paternità. Questo è il caso clinico dell’Innesto. Questo lo cogliamo analizzando la storia. Nel caso clinico dell’Innesto conta la fantasmatica del marito. È il marito che si rappresenta questa storia, per cui è il marito il protagonista del caso. È il marito che si rappresenta la moglie come vittima di uno stupro, cioè la moglie è fedifraga, in certo qual modo. La moglie è andata con un altro – volontariamente o involontariamente –. È una fantasia maschile. Il caso dell’Innesto è una fantasia maschile. Posto dinanzi alla questione pater incertus, dice: “Eh, non sono mica stato io… Allora c’è stato uno stupro, oppure è andata con un altro.”. Questa è la questione che si svolge con L’innesto. Qui invece è un’altra cosa. Qui, in quest’opera, a parte il giardiniere, non c’è nessun uomo. Non c’è il padre del morto, non c’è il padre di Lucia, non c’è il marito di Anna, non c’è il marito di Fiorina, non c’è né il padre né il marito. Occorre tenerne conto. Non c’è nessun personaggio maschile, non a caso. Questo è un altro elemento che clinicamente è rilevante.
Pubblico: Ma il figlio però ha un suo ruolo…
R.C. Certo, fantasmatico. È un ruolo fantasmatico, è un ruolo attribuito. È un elemento che non è estraneo alla logica degli avvenimenti e non è estraneo alla lettura. Cioè, leggendo tra le righe questa storia, noi rileviamo anche questo come un elemento preciso, non casuale. Terminiamo su questa enunciazione di Lucia, che dunque gli altri due figli erano carne “di quello”, però l’amore ce l’aveva messo lei “così col cuore pieno di lui”. Cioè, tramite l’amore per lui, lei aveva potuto accogliere i figli del marito “perché l’amore è uno” però…
LUCIA … ora questo non è più possibile! – Di due io non posso essere. Piuttosto m’uccido…
Cioè, se lui è morto e non c’è più l’amore, io non posso nemmeno più accogliere gli altri due figli.
DONN’ANNA. Non solo per te, ma anche per non dare a quell’altro «questo» che è tuo solamente e di lui – non puoi –. A questo punto Donna Anna diventa un elemento di chiusura. Questo amore che viene da lui non lo devi dare a quell’altro. Donna Anna distingue tra il marito e il figlio, e tra i due amori, quando invece Lucia aveva detto invece che l’amore è uno.
LUCIA La violenza che ho fatto a me stessa per tanti anni – quei due bambini che mi sono nati ad onta di questa violenza –
DONN’ANNA Che vuoi dire?
LUCIA Nulla, nulla contro di loro! Ah, ma contro quell’uomo – è un così intimo e oscuro sentimento d’odio, che non lo so dire. – Sento che io sono stata madre due volte così, senza la mia minima partecipazione, per opera d’un estraneo a me – e badi, nella mia carne viva e con tutto lo strazio dell’anima – mentre lui – oh, lui non lo saprebbe nemmeno!
E allora terminiamo qui, perché poi si apre un altro capitolo che è decisivo, perché giunge all’epilogo, alla conclusione della storia e alla conclusione del caso clinico. E molti elementi sono già comparsi, per indicare chi sia il protagonista del caso. Perché il protagonista della storia chi è? Ci sono vari personaggi: Donna Anna, Lucia… ma chi è il protagonista che – recatosi dallo psicanalista – racconta questa sua fantasia?
Come e perché la lettura dissipa i personaggi della fiaba e instaura il caso clinico e il caso di cifra (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Questa sera concludiamo la lettura de La vita che ti diedi. Ci sono domande, riflessioni, letture, proposte? Qualcuno ha da leggere qualcosa?
Cecilia Maurantonio Io avrei qualcosa.
Il figlio è il protagonista del romanzo, i vari personaggi parlano, questionano, ragionano e si muovono proprio intorno alla morte presunta del figlio di Anna, che è messa in discussione dalla madre. Nel romanzo, il nome del figlio della signora Anna non è conosciuto, il nome non viene mai citato, mentre non solo non sono mai menzionati i nomi ma neanche l’esistenza dei mariti di Anna e di Francesca. Molteplici presenze di madri, come anche Fiorina, assenti i mariti o i padri. Vi sono don Giorgio e Giovanni; don Giorgio è, per l’abito che porta, la maschera, ha un’altra valenza nel contesto della storia, e Giovanni, il giardiniere, che è figura connessa agli aspetti della bellezza tra le cose della casa e in particolare tra le cose che si dicono. Per esempio, è interessante la scena in cui Elisabetta, la nutrice, si affaccia alla finestra e conversa con “la voce” di Giovanni. E di cosa parla? Della luna. Evocando una frase di lui, parla della luna; lui parla della luna, non può parlare dell’anonimato del nome “luna”. Lui non può parlare. Le cose divengono parlando per via di catacresi. Cosa introducono nel racconto questi personaggi? La lingua della nominazione, la logica della nominazione, la parola originaria e la sua logica, procedura e scrittura nel suo viaggio di qualificazione, quindi anche di lettura. Il tragitto di un nome, dello zero, attraverso e nonostante le varie fantasmatiche rappresentate, dà l’idea di assunzione dell’Altro attraverso l’amore. Il nome funziona, infatti il figlio non torna, proprio la differenza del figlio da se stesso impedisce il riconoscimento: non è più lo stesso. Cosa lo ha ucciso? La lontananza sempre maggiore da dove era partito? Niente lo uccide, il figlio procede dal padre e è diviso da se stesso. Il sacrificio: le cose che si dicono si fanno, il sacro nella parola, il sacrificio senza cadavere, la differenza non si lascia imbalsamare, e giunge il frater, l’Altro differente dal padre e dal figlio a confermare il figlio, “la vita che ti diedi”.
Nella scena conclusiva dell’ultimo atto, la questione resta aperta, la questione nella parola è di vita, non c’è alternativa alla vita; Anna prende il posto di Lucia e acquisisce il sapere sulla morte del figlio, sente il dolore; il sacrificio è il martirio del figlio, crede nella sostanza e all’improvviso l’Altro viene rappresentato, la madre diventa l’origine, la funzione di morte. L’Altro è tolto. L’alternativa? Siamo ai “poveri morti affaccendati”. La vita, i mezzi della parola, il viaggio, con le cose da fare.
R.C. Bene, è un primo approccio d’ipotesi di caso clinico. Niente e nessuno può prendere il posto di qualcosa o di qualcuno. Impossibile prendere il posto dell’Altro, nulla sta al posto di qualcosa d’altro, questa sarebbe la zuffa, l’azzuffarsi per la riconquista del posto. Questa è una fantasmatica abbastanza frequente.
C’è un’altra domanda?
Lucio Panizzo No, ha a che fare col racconto l’Innesto.
R.C. Non è un racconto, è una commedia.
L.P. registrazione non comprensibile.
R.C. Ah, ecco. E quindi lei se la prende con Giorgio?
L.P. No, non me la prendo con Giorgio.
R.C. Se la prende con me?
L.P. Non so con chi prendermela.
R.C. Ecco, è questo il punto. È qui che adesso tocca a lei, né a Giorgio, né a altri. Perché la questione è come ciascun elemento diviene elemento intellettuale. E con l’analisi, con il processo di qualificazione si avvia un itinerario, con l’analisi si dissipa il personaggio.
Qui, noi, stiamo leggendo la pièce teatrale La vita che ti diedi tenendo conto del modo con cui i personaggi divengono statuto intellettuale. La lettura è ciò che dissipa il personaggio in quanto personaggio fiabesco, personaggio del fantasma. La lettura è ciò per cui s’instaurano il caso clinico e il caso di cifra, dove non si tratta più del personaggio in quanto agente – il personaggio avrebbe la prerogativa di agire – ma, dissipandosi il personaggio, è la parola a agire.
Lo statuto intellettuale s’instaura procedendo dallo zero, cioè dalla funzione di rimozione o di padre. Il padre nella parola è la funzione di rimozione. Il padre non è il padre di qualcuno, non è il papà, ma è il padre, cioè funzione di zero, funzione inassegnabile a alcun personaggio. Proprietà dell’analisi è proprio l’instaurazione dello zero. Noi, sin qui, abbiamo invece incontrato vari personaggi, e ognuno di loro espone le proprie ragioni, il proprio parere, il proprio punto di vista, il proprio credo. La lettura compie la traversata dalle ragioni dell’umano alla ragione dell’Altro, dove non si tratta della ragione di qualcuno su qualcun altro o di qualcosa su qualcos’altro, ma della ragione e del diritto dell’Altro, delle proprietà e delle particolarità dell’Altro, Altro come funzione vuota, Altro che comporta la non significazione. Solamente qualcosa che non sia sostanza può non significare. Credendo nella sostanza, ognuno se la deve rappresentare, darle un senso, un sapere, un significato, una forma, darle una rappresentazione e porsi in relazione con questa sostanza. Noi analizzeremo più avanti, leggendo Uno, nessuno, centomila, come Pirandello metta in questione la nozione di sostanza, che sarebbe ciò da cui procede la relazione sociale, cioè l’idea che, data la presenza di qualcuno di fronte, qualcuno che avrebbe determinate caratteristiche, questa presenza comporterebbe immediatamente l’assunzione di altre caratteristiche per mettersi in relazione. Ecco la relazione umana, la relazione sociale, la relazione sostanziale che procede non già dall’apertura ma dalla rappresentazione di qualcosa o di qualcuno. A questa segue la serie delle rappresentazioni, fino a rappresentarsi la vita come qualcosa che segna la vita, dice Pirandello, come cronologia dei fatti che segnano ognuno, perché quello che conta, dice ancora Pirandello, sono i fatti. Ma dice ciò non come suo credo, ma come messa in questione del senso comune, dell’ideologia vigente nell’epoca, potremmo dire nella sua epoca, che per altro è l’ideologia vigente in ogni epoca. L’epoca è contrassegnata dalla credenza nella sostanza, che costituirebbe il fondamento di ogni relazione speculare, dalla quale ognuno troverebbe il conforto della propria identità. Tutto ciò è esente dall’intellettualità. Questa è l’animalità, e lo possiamo cogliere sia leggendo Pirandello, sia dal racconto che ognuno fa di sé. Quindi è con questa disposizione che occorre leggere, con la disposizione allo statuto intellettuale, che è lo statuto di ciascuna cosa nella scommessa intellettuale.
La scommessa intellettuale è che non c’è più sostanza, quindi non c’è più fondamento, non ci sono più un senso, un sapere, una verità su cui fondarsi per rappresentarsi. Vediamo di cogliere questi vari aspetti leggendo quest’opera straordinaria intorno alla questione della famiglia non come fondamento sociale, non come cellula dell’ordinamento sociale, non come unità fondamentale della società, ma la famiglia come traccia, come traccia dell’interdizione linguistica, la famiglia senza genealogia.
Ognuno, occorre dire, usa il termine famiglia per rappresentarsi l’origine, l’appartenenza, la provenienza, l’habitat. Facciamo invece uno sforzo per cogliere la famiglia esente dall’origine e dalla rappresentazione dell’origine. Ognuno pensa all’origine per giustificarsi, per giustificare perché per cosa e per come si trova a un certo punto, per trovare un alibi. Ecco, sgombriamo la scena da questo alibi, sgombriamo la scena da ogni fantasia di origine e, con questa disposizione, leggiamo.
Proseguiamo a leggere da dove avevamo concluso la settimana scorsa. A casa di Donn’Anna è arrivata Lucia, moglie del figlio di Donn’Anna. Ma è ancora presto per dire che è la moglie. Si annuncia come l’amante. È arrivata perché contava d’incontrarlo, dato che ha potuto constatare di essere incinta, come si dice, di costui. Ora, Lucia non è alla prima gravidanza, ma alla terza, quindi ha altri due figli, ma avuti con il marito. Qual è il pensiero di Lucia intorno al marito? Cosa pensa Lucia del marito?
LUCIA: /…/ è un così intimo e oscuro sentimento d’odio, che non lo so dire, /…/ Solo perché moglie m’ha resa madre, per potersene poi andare spensierato con altre donne – tante – cinico e sprezzante; solo attento agli affari; e poi, levato di lì, fatuo, frigido – guarda la vita per riderne, e le donne per prenderle, e gli uomini per ingannarli. Cioè, è proprio un Barbablù, avete presente la fiaba di Barbablù? – Ho potuto resistere a stare ancora con lui, solo perché avevo chi mi teneva su, chi mi dava aria da respirare fuori di quella bruttura. – Non dovevamo bruttarci anche noi! Perché si sono bruttati, in realtà. Se vi ricordate, Lucia dice che, all’ultimo, questo amore, che per tanti anni era puro, si è bruttato. Le giuro, le giuro che non è stata una gioja – e la prova (è orribile dirlo, ma per me è così) – è in questa mia nuova maternità.
Dunque, la nuova maternità è la prova che quelle precedenti non sono state una gioia. E qui c’è una notizia non da poco che butta all’aria il luogo comune sulla gioia e la maternità.
LUCIA Avevo fatto tutto là, tre anni, per non essere più madre. Lo credo, lo credo anch’io che dev’essere una gioja; e non voglio altro, le giuro che non voglio altro che questo: che veramente diventi per me questa gioja che non ho provata mai!
Dunque, deve essere una gioia la maternità; è una prescrizione!
DONN’ANNA Ma devi averla tu nel cuore, figlia mia! Se non l’hai tu, chi te la può dare? Quindi, questa gioia ci deve essere già, non viene dalla maternità. Per Donna Anna questa gioia la devi prima avere tu.
LUCIA Lui! Lui!
DONN’ANNA Sì, lui; ma per come tu hai nel cuore anche lui! Solo così. È sempre così. Non cercare nulla che non ti venga da te.
Salta ogni teoria psicologica sulla maternità! Gli dettero il premio Nobel anche per questo, evidentemente. Cioè, occorre che noi teniamo conto che la comunità letteraria, scientifica, gli ha dato il premio Nobel, come dire che non ha trovato obiezioni morali, letterarie, di alcun genere al conferimento del premio, cioè, non dice corbellerie e noi dobbiamo pur tenerne conto.
Non cercare nulla, dice Donna Anna, che non ti venga da te. Donna Anna, man mano che la pièce avanza, diventa sempre più realista.
LUCIA Che vuole che mi venga da me in questo momento! Sono così smarrita – sospesa – Questo tradimento di non farsi trovare… – Ho bisogno di lui, di vederlo, di parlargli, di sentirne la voce!
E Lucia non sa dove trovarlo, lo cerca e non lo trova, sembra come l’omino famoso. E Donna Anna a questo punto s’intenerisce.
DONN’ANNA – Tremi tutta – sarai così stanca! – Il lungo viaggio!
LUCIA Mi rombano le orecchie – la testa mi vaneggia –
DONN’ANNA Vedi, dunque?
LUCIA – Tanta ansia, tanta ansia.
Lucia, ansiosa, deve andare a riposare e viene accompagnata alla camera. Il mattino dopo, cosa accade? Arriva Francesca, che è la mamma di Lucia. Quindi, c’è Donna Anna, a cui Lucia si affida come madre e arriva Francesca che è la mamma di Lucia. E Francesca dice: “Ma, allora, è morto o non è morto?” “È morto”, dice Francesca. Sgombra subito il terreno da ogni possibile malinteso. Donna Anna dice di no. Tutti gli altri dicono di sì. Francesca dice: “No, no, basta, occorre rivelare a Lucia che lui è morto”. Donna Anna si oppone.
DONN’ANNA (parandosi di fronte a lei): No, signora! Lei non sa il male che le farebbe! /…/ Perché non sa quello che io so! Il caso è molto più grave di quanto lei s’immagina!
FRANCESCA Più grave? Lui è morto! Ancora più grave?
DONN’ANNA /…/ – Sì – e ch’egli non è così morto, come a lei pare – Quindi, se fosse morto. Ma il caso è più grave di così, perché lui “non è così morto come a lei pare”! La frase successiva sembrerebbe togliere ogni malinteso a questa formulazione.
DONN’ANNA – se vive ora in lei, come l’amore d’un uomo può vivere, diventar vita in una donna – quando la fa madre – ha capito?
FRANCESCA (raccapricciando): Suo figlio? – Oh Dio! e come? – Ma dunque – per questo? –
DONN’ANNA È arrivata in un tale stato di disperazione, che non m’è stato ancora possibile “dirglielo”. Le ho detto che era partito – per lei, per prudenza – per non comprometterla – e già è bastato questo, perché si vedesse, si sentisse morta –
Quindi, morto lui, morta lei. C’è un’idea di morte che gira, aleggia su questa scena. Lei si sente morta, si vede morta, lui è morto, però non è morto, è partito. E dunque, Donn’Anna dice:
DONN’ANNA /…/ nell’animo [di Lucia] in cui si trovava là – se lui le fosse mancato – cioè se le fosse stato confermato che fosse morto – si sarebbe uccisa – creda!
FRANCESCA Ma lei, Dio mio, lei vuole tenere ancora la mia figliuola legata a un cadavere?
DONN’ANNA Che cadavere? La morte per lei è là, presso l’uomo a cui lei l’ha legata: quello, è un cadavere! – Io ho cominciato invece fin da jersera, a farle intendere –
FRANCESCA – che ha gli altri figli suoi – là –
DONN’ANNA – ma questo lo sa! me n’ha parlato lei stessa /…/.
FRANCESCA – dei figli?
DONN’ANNA – sì: che se l’è fatti suoi, dopo – dopo che le erano nati – estranei! – Se li è potuti far suoi con l’amore di mio figlio, intende? Hanno avuto bisogno dell’amore di lui, anche quelli, perché diventassero vita per lei.
Dunque, questi figli sono nati estranei. Qui si annuncia qualcosa di rilevante: nessuna relazione tra la madre e il figlio! Anzi, con la nascita, nessuna relazione tra la madre e il figlio. E, in effetti, a ben considerare, la questione della nascita comporta la recisione, un taglio che è impossibile colmare, un taglio che rescinde ogni possibile relazione, vera o presunta, tra la madre e il figlio.
Ma Francesca si preoccupa per la salute di Lucia e dice: “Ma bisogna pure che lo sappia, che qui ormai non c’è più”.
DONN’ANNA Non qua! – “Qua” le diremo “lui non ritornerà, se non saprà che tu sei partita. Lo vedrai tra poco; perché egli ritornerà a te, là”.
Quindi lui tornerà a lei, a casa. E questo è un dettaglio clinico: lui tornerà a lei, a casa. Chiaro? Non è più la fiaba questa, è un dettaglio clinico, lui tornerà a lei, a casa. Come può accadere questo? Se lui fosse morto, potrebbe tornare a lei a casa? A questo punto, con tutto questo baccano, Lucia si sveglia e vede che è arrivata la mamma. E come la vede, subito pensa che è accaduto un guaio e intuisce in un baleno la sciagura. E cosa le dice la mamma per confortarla? Che sì, è accaduto un guaio, lui è morto. La mamma le annuncia, papale papale, che lui è morto:
FRANCESCA Figlia mia… figlia mia…
LUCIA È Morto? è morto? (Respingendo l’abbraccio della madre, per volgersi a Donn’Anna.) No! Non è possibile! Oh Dio (con le mani tra i capelli:) il sogno che ho fatto! (smarrendosi e guardandosi attorno:) Morto? – Ditemelo! Ditemelo!
FRANCESCA Sono già tanti giorni, figlia –
LUCIA /…/ E io l’ho sognato, che non poteva più ritornare, tanto lontano se n’era andato; /…/. Per non farmi più pensare che se non l’avevo trovato qua ad aspettarmi, come doveva – eh sì, questo soltanto doveva essere accaduto, che fosse morto! E non l’ho compreso, perché lei [Donn’Anna] /…/ me ne ha parlato come se fosse vivo!
DONN’ANNA (guardando lontano): Lo vedo –
LUCIA (stordita): – Che è morto?” – e non le è morto qua sotto gli occhi?
DONN’ANNA – No: ora – /…/ ora lo vedo morire.
LUCIA Come? Che dice? /…/ Io lo sapevo, lo sapevo che sarebbe morto! Non avevo voluto crederci. Me lo disse lui stesso, quando partì, che sarebbe venuto qua a morire! /…/ Lo vidi io! Moriva, moriva, da anni; gli s’erano spenti gli occhi; era già come morto quando partì! Così pallido lo vidi, così pallido, così misero lo vidi, che lo compresi subito che sarebbe morto!
Eh, lo vedo così misero, così pallido. Quindi, Lucia racconta che già da tempo se lo rappresentava morto.
DONN’ANNA (sola): Figlio mio! – le tue carni! – te ne sei andato così – misero, misero! E io… io t’imbalsamavo – vivo! – vivo ti imbalsamavo – come non eri più, come non potevi più essere – /…/ Fuori della tua vita ti volevo far vivere? fuori della vita che t’aveva consumato – povera, povera carne mia che non ho visto più! che non vedrò più!
C’è un rovesciamento per Donna Anna, che ricorda il figlio, misero, e in questa miseria lo vede imbalsamato, imbalsamato vivo nel ricordo che lei ne aveva. A questo punto, Francesca dice a Lucia che deve andarsene, che deve tornare a casa dai suoi bambini.
DONN’ANNA No! Me la lasci signora! è mia! è mia! Me la lasci! Me la lasci! /…/ Sono la tua madre!
FRANCESCA Ma vuole che lasci me per lei? E i suoi figli? Quindi, due madri che si azzuffano per il possesso della figlia. E Francesca dice a Donna Anna che è pazza.
FRANCESCA (violenta): Signora, ma si fa coscienza lei di quello che dice? Si fa coscienza, cioè, è cosciente? E Lucia, di rimando:
LUCIA E tu, di quello che io farei? ti fai coscienza? Ti fai coscienza di quello che farei? Cioè, te lo rappresenti? Al che, Donna Anna fa un passo indietro:
DONN’ANNA (subito abbattendosi): No, no: tua madre ha ragione, figlia! Ha capito che io lo dico per me – per me – non per quello! – Divento misera, misera anch’io! – Ma è perché muojo anch’io, ora, vedi? Sì, appena ti nascerà questo che ti porti via lontano; appena gliela darai tu, di nuovo, la vita – là – fuori di te! – Vedi? Vedi? Sarai tu la madre allora; non più io! Non tornerà più nessuno a me qua! È finita! lo riavrai tu, là, mio figlio /…/ sarà tuo; non più mio! Tu, tu la madre, non più io! E io ora muojo, muojo veramente qua. Qui è tutto un morire, un morire e dare la vita, inizio e fine. E sempre Donna Anna a Lucia Vai, vai, figlia, – vai nella tua vita – a consumare anche te – povera carne macerata anche tu, – carne macerata! – La morte è ben questa. E ora basta. – Non ci pensiamo più. – Ecco; pensiamo – pensiamo, qua, ora, a tua madre piuttosto – che sarà stanca.
FRANCESCA No, no – io voglio subito, subito ripartire.
DONN’ANNA: Eh, subito non potrà signora. Si deve aspettare. Passa tardi di qua il treno di Pisa. Avrà, avrà tutto il tempo di riposarsi. – E tu, figliola mia –
LUCIA No, no – io non partirò – non partirò – rimarrò qui con lei, io!
FRANCESCA Tu partirai! Dice la mamma. E Donn’Anna ribadisce:
DONN’ANNA Qua non c’è più nulla per te. /…/.
LUCIA Ma là io non torno! non torno, sai! – Non è più possibile per me! – Non posso! Non posso e non voglio! Come vuoi che faccia più, ormai?
DONN’ANNA /…/ È ben questa la morte, figlia – Cose da fare, si voglia o non voglia – e cose da dire… – Ora, un orario da consultare – poi, la vettura dalla stazione – viaggiare… – Siamo i poveri morti affaccendati. – Martoriarsi – consolarsi – quietarsi. – È ben questa la morte.
E, quindi, che accadrà? Che accadrà dopo questo epilogo? Cosa sta per accadere? Cosa è accaduto? Di cosa si tratta? Qual è il caso di cui qui si narra la fiaba? Di cosa si tratta in questa pièce, il cui epilogo sembra così tragico? E invece no, non è per nulla tragico se andiamo oltre la fiaba e la leggiamo, se andiamo oltre i personaggi e li leggiamo nel loro statuto e non nel loro realismo di personaggi.
Cominciamo allora a porci le questioni serie. Come accade che vi sia questo sdoppiamento della madre? Perché è di questo che si tratta: ci sono due madri! Come può accadere lo sdoppiamento della madre? Perché occorre leggere la fiaba, per andare oltre la fiaba con la logica della nominazione, non con la stessa logica della fiaba, altrimenti restiamo nella fiaba, restiamo nell’epoca.
Ora, la pièce racconta di un sogno, di un sogno o di una fantasia; ma di chi? Chi ha la fantasia di cui la pièce narra alcuni aspetti? Narra sopra tutto di uno svolgimento. Chi è il protagonista della pièce? Qualcuno aveva proposto che il protagonista è il figlio.
C.M. È la funzione del nome.
R.C. Allora, poniamola così: x si reca da y per raccontargli un sogno, dice “Ho fatto un sogno”, oppure “Ho avuto una fantasia e ho pensato che…”. Chi è x che va da y a raccontare delle sue fantasie? Chi ha avuto la fantasia di cui la pièce ci illustra l’aspetto fantasmatico?
Lucio Panizzo A me sembra Lucia.
R.C. Lucia si trova fra due madri. No, non è tanto un malinteso: è nell’assenza di malinteso se occorre rappresentarsi due madri! Lei dice Lucia ma Manuela non è d’accordo, perché?
Manuela Macario […] il morto […].
R.C. Eh no, il morto non c’è, non c’è! Il morto che non c’è; proprio per questo è nella fantasia. Occorre astrarre. Non c’è nessuno che vede, ma è una fantasia che si enuncia. Per prima cosa occorre sgombrare la scena dal realismo. Quali sono i termini materiali della vicenda? Non reali, ma materiali, cioè dove si tratta della materia narrativa e della materia intellettuale. Eh, capisco che l’ora è tarda e la prova è perigliosa!
C.M. […] quindi c’è questo distacco […].
R.C. Sì, e quindi?
C.M. Nel momento in cui lui non c’è, Lucia può accorgersi di aspettare il figlio.
R.C. Eh no, non è per quello, non è perché lui non c’è che se ne accorge, casomai il contrario: perché lui c’è, non perché lui non c’è. A meno che non vogliamo pensare a Lucia come a Maria. Non è la storia di Gesù Bambino. Prego.
Sabrina Resoli Penso sia la fantasia di Lucia che è incinta e si accorge che ciò che sembra prescritto intorno alla maternità non accade, e quindi si interroga intorno alla madre, alla questione madre.
R.C. Lei la fa all’acqua di rose, lei dice che una donna perché s’interroga intorno alla madre, fantastica che i figli sono così, il marito è cosà, due madri, tutte queste cose qui?
S.R. Si chiede anche chi è.
R.C. No, lei no, lei non se lo chiede. Lei non ha dubbi che il figlio procede dal padre, non ha dubbi. Il suo dubbio non è sul padre, eh no. Perché qui si tratta di una questione linguistica ben precisa. Qui il dubbio non è sul padre, a monte è sul padre, ma si forma come dubbio sul marito: è il marito che è fedifrago, è il marito che… Solo perché moglie m’ha resa madre, per potersene poi andare spensierato con altre donne – tante – cinico e sprezzante; solo attento agli affari; e poi, levato di lì, fatuo, frigido – guarda la vita per riderne, e le donne per prenderle, e gli uomini per ingannarli. Una bestia! Quindi, qui c’è un marito esecrabile, c’è l’esecrazione del marito, questa è la questione, che certamente parte dall’esecrazione del padre, ma qui testualmente si pone l’esecrazione del marito, e di questo dobbiamo tenere conto perché è un dettaglio clinico, non è un dettaglio fantasmatico; cioè, è chiaro che è un dettaglio fantasmatico, ma tesse il caso clinico, come se questo fosse il caso da cui ha attinto Pirandello. Da quale caso di cronaca ha attinto per scrivere questa pièce? Qual è il caso di cronaca? Qual è il materiale da cui ha attinto? Qual è la fiaba? Non è un caso morale, non è una questione, un pistolotto contro l’infedeltà dell’uomo, è una fiaba.
Gianfranco Dalle Fratte Comunque, lei di sicuro fa il ruolo della vittima.
R.C. Lei?
G.D.F. Lucia. Mi sembra faccia un po’ la vittima.
R.C. Eh sì, è il meno che si possa dire. Quindi gli uomini pensano che sia Lucia la protagonista qui!
M.M. […].
R.C. Ah, lei è per il pan per focaccia: lui ha delle amanti, allora anch’io!
M.M. No, quando lei ha detto che lui verrà da lei a casa, ho pensato che avesse, che ci potesse essere una spiegazione.
R.C. Ma è proprio così, infatti. Manuela dice che c’è una trasposizione del marito nell’amante. Ossia, questa donna non fa la bascula tra il marito e l’amante, per nulla. Allora hanno ragione Panizzo e Dalle Fratte quando dicono che si tratta del caso di Lucia.
La questione è questa: Lucia, un giorno scopre di essere incinta del terzo figlio, due ne ha già avuti e ora è in attesa del terzo. Di chi è incinta? Del marito, che è partito per un viaggio di lavoro. E, siccome il marito è lontano, è assente e ci sono dei problemi di genealogia – infatti, nella fiaba, come notavano Panizzo e Maurantonio, non c’è il padre, il marito è assente, il padre non c’è proprio, non c’è nessun padre –. Ora, in assenza dello zero, che cosa accade? Che si rappresenta il negativo, e le cose, anziché nel loro statuto materiale, intellettuale, “significano”. E che cosa significano? O il bene o il male! Entrano, cioè, nell’alternativa. In assenza di zero, e già l’assenza di zero è indice che l’apertura non c’è, le cose significano l’alternativa fra il bene e il male, fra il positivo e il negativo.
Dunque, Lucia è incinta, il marito è assente e lei fa un pensiero totalmente negativo sul marito, ritenendo che le sia infedele: è andato a spassarsela con qualcun’altra! E già l’idea del negativo è idea del tempo che finisce, è idea d’incesto, di male, di corruzione. L’idea del marito fedifrago si doppia sull’idea di morte e d’incesto, e dunque pensa che il marito potrebbe morire. Anzi, dato che è fedifrago, sarebbe giusto che morisse e essa stessa potrebbe morire o uccidersi. Quindi, in assenza di processione dell’uno dallo zero, in assenza di zero, prevale l’idea di fine: il matrimonio è finito, l’amore è finito e tutto ciò che è accaduto nel matrimonio è impuro, è negativo. Sorge il fantasma d’incesto: nessun elemento del matrimonio è nella verginità, ma tutto è negativizzato ‒ i figli, l’amore, la maternità ‒ e nulla può lei offrire ai figli o a altri.
Ecco l’idea di corruzione, l’assenza di carità. Nessuna offerta, nessuna proposta, nessuna annunciazione. E l’assenza di grazia comporta che c’è il male dinnanzi. Lui è morto, lui sta morendo, i figli sono la sua rappresentazione, tutto quanto detto prima è segnato dalla negatività. Lucia pensa di lasciare il marito: quale modo migliore se lui morisse? Ma, tolta l’apertura, tolta la logica diadica, tolta la questione aperta, allora abbiamo l’alternativa, abbiamo il binarismo. Ecco che la madre diventa due madri, la madre che conferma la morte del marito, la negatività sul marito e la madre che invece non accetta che il figlio muoia. Quindi, abbiamo la madre che nega che il figlio possa morire e la madre che annuncia che il figlio è morto. Sono proprio due posizioni antitetiche, alternative.
Dunque, per un verso è tolta l’apertura, per un altro verso è negata la logica triale, per cui è negato anche l’Altro. Tolto l’Altro, la madre non è più l’indice del malinteso ma diventa la rappresentazione delle Parche: la madre è colei che dà la vita o la toglie. I greci avevano questa rappresentazione della madre, materna nel dare la vita, mortifera nel toglierla, nel tagliare il filo della vita. Ecco l’anfibologia della madre, la madre che dà la vita, la madre che toglie la vita.
Ma lo statuto della madre non sta né nel dare la vita, né nel toglierla. La madre è indice del malinteso rispetto alla vita, in assenza di relazione con il figlio e in assenza di relazione umana. La madre è indice del malinteso, che è uno statuto intellettuale che indica la questione del tempo. Infatti, tolta la madre, l’Altro è la morte. Dice: “Io potrei uccidermi, se questo avvenisse, io potrei, potrei…”. Ma questa è una fantasia, perché l’Altro non si lascia togliere, la madre non si lascia togliere e il padre non si lascia abolire. E, nel suo viaggio narrativo, Lucia, con il malinteso, ritrova la madre come indice, ritrova la madre che assicura anche il matrimonio, per cui ritorna a casa dove troverà il marito che non è affatto morto, ma che si era allontanato qualche giorno per motivi di lavoro. Dunque, la questione è semplice: solamente se il tempo è presunto finire, è dato per finito, allora le cose diventano presenti, si sostanzializzano e significano l’alternativa. I dettagli, invece, indicano l’articolazione, il viaggio narrativo che Lucia compie e che consente d’intendere che si è trattato solamente di un cedimento momentaneo, di una fantasia.
Sono proprio gli interventi dei vari personaggi – ciascuno dei quali interviene, diciamo così, borderline, tra il fantasmatico e l’analitico – dove troviamo le varie notazioni rispetto al figlio che non muore, alla madre che non è la mamma, alle varie convenzioni sociali. Chi si crede madre entra nella genealogia, entra nel fantasma di fine del tempo. Cioè, l’attribuzione a qualcuno del ruolo materno è l’attribuzione del ruolo delle Parche, dove ci sarebbe l’istituto della padronanza per gestire il tempo.
C.M. Quindi lui non sarebbe più suo il figlio che muore.
R.C. E proprio per questo, il figlio non sarebbe più la funzione di figlio, ma sarebbe l’elemento genealogico che inscrive ognuno nella stessa appartenenza, in una vita che deve finire.
C.M. Quindi è lì che non c’è più la materia?
R.C. Chiaro.
C.M. Perché, a un certo punto, Anna dice “io abbracciando […] mi sento questo corpo […]”, come se venisse qualcosa, questo sentire il corpo dell’Altro, no? Diciamo che c’è una funzione, si attribuisce anche alla trasposizione una relazione, quindi l’assunzione del posto dell’Altro, come se si potesse incarnare l’Altro, addirittura.
R.C. Esatto. La questione procede proprio dall’incarnazione, ossia dal fatto che non c’è la parola che si può fare sostanza, ma c’è la parola. In nessun caso căro facit verbum, ma verbum facit caro. Non c’è una carne che preceda la parola e possa diventare parola, non c’è una sostanza che possa diventare parola. È la parola la struttura materiale delle cose per cui la parola si fa carne, diviene carne. È la carne nella parola. Non c’è una sostanza che preesista alla parola, ma ciascuna cosa sta nella parola. Adesso si può provare a rileggerlo tenendo conto della vicenda e per cogliere l’aspetto del caso di cifra.
Pubblico Secondo lei Pirandello è un grande scrittore? Cioè, è uno scrittore cha ha lasciato un segno? Non so, io ho letto i Sei personaggi in cerca di autore…
R.C. Perché lo scrittore dovrebbe lasciare un segno? È un incisore?
Pubblico Sì, ma nell’immaginario collettivo può incidere sia in senso negativo […].
R.C. Questo se esistesse un immaginario collettivo, cosa che non è. Lei ha i suoi pensieri, un altro ne ha degli altri. Se provate a mettervi d’accordo bisogna prima disarmarvi, altrimenti ci scappa il morto.
Pubblico Diciamo che a livello politico, purtroppo, esiste.
R.C. No, non c’è nemmeno a livello politico. Quello che viene chiamato “immaginario collettivo” è una baggianata gnostica che è stata rilanciata in tempi recenti, una baggianata che suffraga l’ipotesi di un substrato comune, di un’origine comune da cui tutti procedono e di cui portano il segno, ma non c’è nessun segno, nessuno è portatore di nessun segno.
Pubblico […].
R.C. Ma questo non ha niente a che vedere con l’immaginario collettivo, nel senso che ciascuno coltiva la sua illusione. Se lei confronta la sua illusione con altre illusioni, troverà che nessuna collima perfettamente con l’altra. Quindi, l’immaginario collettivo non c’è; a ciascuno la sua illusione.
Pubblico Immaginario nel senso di controllo.
R.C. Ecco, tanto meno.
Pubblico […].
R.C. Ma quella è un’altra faccenda. Noi intanto andiamo avanti tenendo conto di ciò che questa testimonianza, questa scrittura ci pone e cioè che la questione è intellettuale, che non c’è realismo, mai, da nessuna parte e ciascuna cosa esige la lettura proprio per non incorrere in quel cedimento, in quel lasciarsi andare che sarebbe il realismo, cioè ritenere che le cose siano tali, senza qualifica, senza il loro viaggio. È solamente cogliendo gli aspetti del viaggio di ciascuna cosa che allora s’istaura la clinica, e con la clinica l’ascolto, per cui noi possiamo ascoltare il racconto di ciascuno senza realismo, cioè noi possiamo ascoltare il racconto senza la necessità di convertirlo in paura, in prescrizione o in divieto, ma lasciando che giunga alla sua cifra.
Pubblico Senza neanche un significato?
R.C. Senza significato! Però con il suo valore, che non è rappresentabile. Allora, ciò che viene qualificato come un dramma non ha nulla di drammatico, ma è una fantasia che indica propriamente che Lucia, avendo pensato che il marito peggio di così non poteva essere, nel suo viaggio narrativo trova che tutto ciò è fantasmatico e, che, in realtà, il marito è un’ottima persona, che il suo matrimonio è straordinario e quindi lei prosegue a casa sua il viaggio del suo matrimonio.
Pubblico Quindi non ha un marito ignobile?
R.C. Per nulla, però l’ha pensato per un momento. E avendolo pensato, immediatamente tutta la negatività dell’idea della propria origine le si è posta dinanzi. E allora fantasmi di morte, fantasmi di fine, fantasmi d’incesto, peste e corna, sangue e stridor di denti. Però, tutto ciò non è reale.
Pubblico Ma il marito è infedele.
R.C. No, il marito è fedelissimo.
Pubblico Questo “a casa” è la madre affettiva […].
R.C. “A casa”, nella parola originaria. “A casa”, nell’atto, nella parola originaria dove certamente la mater è mater secura, non è madre dolorosa, non è la madre che toglie la vita, nemmeno che dà la vita, non è la madre verso cui avere il debito perenne, né la madre da cui guardarsi perché potrebbe costituire un pericolo, ma è la madre senza anfibologia, quindi la madre come indice del malinteso. Questa è la nozione clinica che ci viene da questa lettura. E bisogna dire che questo testo dà un contributo interessante.
La lettura e l’ascolto
Ruggero Chinaglia Siamo in fase conclusiva, quindi questa sera verifichiamo anche che cosa si è scritto, che cosa si è letto di quanto abbiamo proposto, indagato in questi mesi. C’è chi ha qualche proposta da leggere, domande da fare, suggerimenti, testimonianze del lavoro svolto? Abbiamo proposto vari testi, sia nei dibattiti, sia nei laboratori, vari libri: la collana “La cifrematica”, La dissidenza cifrematica, Pirandello, i libri di Armando Verdiglione di cui tra poco leggeremo anche l’ultimo edito, Scrittori e Artisti, romanzi, La Regina di Saba di Marek Halter e L’arte, Dio, la materia di Alessandro Taglioni, libri che hanno fornito ampio materiale e altro ne forniranno leggendo, non contemplandoli ma leggendoli, perché la contemplazione non basta, occorre la lettura.
C’è chi ha già avviato la lettura di alcune cose e chi può avviarle, chi l’ha avviata può proseguire, chi non l’ha ancora avviata può avviarla e proseguire. Allora c’è chi abbia qualcosa da proporre questa sera, da leggere, da suggerire? Maurantonio, Resoli, Lucia Macario, bene. E poi altri? Domande, curiosità, dubbi, punti oscuri? Tutto chiaro fin qui? Cominciamo, e poi, magari, cammin facendo, se sorgono ulteriori dubbi… Ecco, allora prego, Maurantonio, venga, così leggiamo la prima proposta di questa sera.
Cecilia Maurantonio La conoscenza e lo studium nella parola non hanno presa, non possono giungere mai a soddisfare l’istanza propria della parola di approdare alla qualità; c’è quindi un tentativo di sapere le cose prima che avvengano, stabilendone a priori significato e valore, ma questa valutazione sulle cose si applica solo per potere controllare il tempo. La questione essenziale è quella del tempo come fantasmatica, cioè che questo possa finire, che determini la condizione umana di mortalità.
R.C. Sì, la questione essenziale è posta dal tempo. Poi, che ci sia la fantasmatica che possa finire è meno essenziale, ma detto così sembra che la questione essenziale sia l’idea che il tempo finisca; poi, magari, possono seguire altre cose.
C.M. Non posso che dire che questa idea determina la condizione umana. È proprio questa paura che impedisce la scrittura dell’esperienza della parola. Nella parola, lungo l’itinerario, non ci sono passaggi da uno stato a un altro, perché nulla è al di fuori della parola. Ciascun elemento è nella parola e l’ostacolo è la condizione che le cose avvengano, s’instaurino, proseguano e si qualifichino, per cui “Non c’è passaggio dallo stagno al giardino”, citazione, questa, presa da un’equipe clinica del dottor Chinaglia.
L’ascolto è essenziale, ma occorre che si sia dissipato il fantasma materno, ossia il fantasma della fine del tempo, il fantasma di morte. Gli indici del tempo: la madre è l’indice dell’indissipabilità del malinteso, l’Altro è l’indice dell’infinibilità del tempo, la morte è l’indice della differenza sessuale. Nulla di tutto ciò si può togliere, ma crederlo implica la paura, vivere di paura, nutrirsi di paura secondo l’idea che opera proprio in direzione della morte. Ma nulla si può togliere dalla parola, per cui è essenziale l’elaborazione e la dissipazione del fantasma di fine. L’unico modo è non alimentarlo. C’è chi si sente dire ciò che deve fare. I modi, gli atteggiamenti che seguono lo standard della coscienza occorre non prenderli realisticamente, non hanno alcuna incidenza nell’attuale. Il realismo segue il ricordo, non ha memoria, non può sapere della parola tripartita. Se si assume realisticamente tutto ciò, la paura regna, s’insinua il dubbio ponendo l’alternativa alla parola come ricordo della vita, ma la vita è della parola e siccome la caratteristica dell’originario è l’ignoranza e quelle della parola sono il sogno e la dimenticanza, cioè la scrittura dell’avvenire, nulla può intaccare il destino della parola, la missione della parola, la qualità, ma queste qualità esigono il gerundio, divenendo infinito, in quanto resta sempre da scrivere e da leggere.
R.C. Bene, c’è qualche elemento importante, qualche questione da precisare. Allora Sabrina Resoli. Prego.
Sabrina Resoli Rimozione, zero, padre funzionale, autorità.
Parlando, qualcosa funziona come nome, il significante rimosso. Quali i corollari della rimozione, della funzione di nome nella parola? Nome anonimo e la sua inconoscibilità non può essere tolta da alcuno svelamento. Innominabile non per divieto ma per sua proprietà. Quali le implicazioni del funzionamento del nome? Parlando, ascoltando, vivendo accade di constatare questo funzionamento, con la formula, per esempio, “non si può dire tutto”, ossia non c’è presa o conoscenza su quel che si dice. Si dissipa l’idea che il dicibile, il visibile e il rappresentabile costituiscano criteri di realtà, anzi, il funzionamento del nome introduce l’astrazione come condizione del reale. La questione che il fantasma materno non accetta o respinge è che lo zero è il numero che marca l’assenza strutturale.
Qualcosa funziona per via di assenza: ecco il padre. Qualcosa funziona perché non si rappresenta: ecco l’autorità. Così, per esempio, nel discorso in cui la rimozione è abolita non s’instaura l’autorità e vigono in esso rappresentazioni: l’autoritarismo, la severità, la rigidità, a indicare che, tolto l’autore, non resta che il personaggio.
Tolto lo zero è impossibile l’astrazione. Tutto è visibile, rappresentabile, conoscibile in quanto supposto finito e come tale soggetto alla morte. Ogni idea di male, di negatività, di fine, perde lo statuto fantasmatico e diventa possibile, realistica, attribuibile a sé e all’Altro.
Che il padre funzioni in assenza di rappresentazione comporta anche che il figlio non ha da rappresentare il padre, non ha da certificarlo né da dimostrare la discendenza. Ossia, il padre, funzionando, inaugura la processione, il figlio procede dal padre, non è generato. Il funzionamento del nome dissipa la genealogia e il fantasma d’incesto: non c’è origine né il suo marchio da rappresentare, che volge nella macchia, ma c’è l’originario, per cui ciascuna cosa trova il proprio statuto nella verginità e nella differenza.
R.C. Bene. Lucia Macario, prego.
Lucia Macario La piega nell’ascolto.
Badare al suono per confermare il patto. La visione, ossia la visione realistica, nega il nome e sostituisce al significante un significato. In che modo verificare l’accaduto e come accogliere la proposta del terzo? Nella lettura si approda a un’altra via da cui procede la combinatoria dei nomi e dei significanti. Tutto ciò che si vedeva scompare perché acquisisce un nuovo valore, un’altra musica. Il viaggio linguistico non può non giungere alla lettura clinica. Se continuo a sentire i fantasmi e a vivere nelle ombre non posso ascoltare il dettaglio, la variazione, neppure quel che si dice. Perché ritornare se non per fermare il tempo? Ciò che spaventa non è la fine ma la differenza, per ciò ogni cosa ha una sua definizione, un limite, un’accezione finalistica. Se una cosa finisce, se il viaggio finisce, ho l’illusione di avere conquistato una certezza in più, ma sopra tutto ho l’illusione di avere gestito il tempo. Quindi, l’idea, in realtà, è sempre quella di essere in balia del caso, del fato, del tempo. Un conto è avere un impedimento che non c’è, un conto è accorgersi che quello che c’era o, meglio, che si credeva che ci fosse, ha lasciato il posto a qualcos’altro, inaspettato. È la sorpresa della differenza, ossia le cose differiscono. Nessuno è; al massimo ognuno crede di essere qualcuno. È nel preciso istante, nell’intervallo del tempo, che la piega dissolve questa credenza, nell’ascolto. L’ironia è il modo dell’apertura, dell’inconciliabile, per cui i conti non tornano, è ciò per cui non può non esserci l’accadimento, l’altro modo. È una voce che trasforma, che non “senti parlare” perché ne odi la musica, la novità, la variazione. La casa è un’altra casa, la famiglia è un’altra famiglia, la madre è un’altra madre, il figlio non è più lo stesso. Ciò che è attuale si sposta all’infinito secondo un criterio inedito. Non importa che cosa sono venuta a fare, ma che per divisione divengo Altro attraverso nuove e inaspettate acquisizioni. Divenire Altro implica la non accettazione, la negazione del ritorno. Le cose non significano perché servono a invocare qualcosa che accolga la piega, l’ironia del tempo.
R.C. Bene, grazie. Altre note? Anche orali, anche musicali. Altre note che si aggiungono? Il materiale è già di spicco. Lei che è un assiduo frequentatore del nostro laboratorio, avrà notato qualche elemento, qualche aspetto per cui ritorna. Viene una volta, ode qualcosa, poi decide che anche la volta seguente è il caso di venire, no? E poi anche la volta dopo. Allora, evidentemente, qualcosa si ode, qualcosa si precisa man mano, qualcosa invita a proseguire. Non vuole dirci niente di questi inviti che lei accoglie volta per volta? Tiene tutto per sé. Quindi, lei sarebbe un contenitore, un contenente. È così che si rappresenta. Lei dice che ancora non è giunto il momento di parlare, preferisce aspettare, tenere per sé. Ancora non ci siamo meritati di ascoltare qualcosa? Ho capito. E altri invece che ritengano che sia giunto il momento di parlare? Dato che è un laboratorio, quasi un parlamento. Elio?
Elio Cecchetto la registrazione non si sente; riferisce un episodio di cronaca
R.C. Questo sarebbe un “fatto di cronaca”. Cosa dice Lucia di questo fatto di cronaca? Lei ne è al corrente? Ah, ecco, non era informata. L’apprende ora da questa agenzia. E cosa le pare?
L.M. […].
R.C. Vede? La signora dice che bisogna essere più solleciti.
L.M. In realtà non avevo sentito, non era ben chiaro. Cioè, non ho ben capito com’era la dinamica, però in realtà quello che mi stavo chiedendo…
R.C. Ecco, lei è interessata alla dinamica.
L.M. No, anzi mi stavo interrogando su questo e mi stavo chiedendo il motivo per cui ha parlato di questo caso…
R.C. Lei voleva capire il motivo per cui?
L.M. Stavo cercando di capire una connessione che mi sfuggiva.
R.C. Quindi, non s’interroga su cosa sta dicendo, ma sul perché lo dice, qual è il motivo.
L.M. Sì, che forse può emergere…
R.C. Quindi, se è valido o non valido, se è un buon motivo o non è un buon motivo.
L.M. No, non quello, ma magari si può capire il motivo capendo quello che sta dicendo, cioè nel senso che… Perché arriva dopo magari.
R.C. Esatto. Quindi lei dice perché in un appuntamento che è intitolato Pirandello, l’amore e l’inconscio, Elio ci racconta questo episodio di gioco a guardia e ladri.
L.M. No, perché credo sia importante capire l’intervento di ciascuno quindi…
C.M. Il titolo è La lettura e l’ascolto.
R.C. Sì, appunto. E sin qui, ha capito perché Elio ci ha raccontato questo episodio?
L.M. No, ma credo non sia casuale.
R.C. Non è casuale? Ah ecco, è un’ipotesi, potrebbe essere anche casuale. In effetti porre la questione è un atto politico, sicuramente. Lei diceva che aveva un’altra domanda da formulare. È il momento.
C.M. Sono due. Intanto la cosa importante, anche rispetto ai dibattiti, è che la questione che si pone è quella dell’integrazione, perché c’è stata la testimonianza di come ciascuno si è trovato nell’integrazione rispetto alle proprie vicende, alle proprie circostanze, nell’ambito del lavoro e nello specifico, e questo è essenziale per il contributo di civiltà che l’integrazione dà per giungere alla specificazione, alla qualificazione, con le virtù dell’Altro. Questa è un’istanza, e come già nel testo, con le annotazioni che ho detto prima, è connessa alla riuscita di questo, a ciò che lei diceva in una equipe clinica, l’aspetto miracoloso della teorematica del tempo.
La mia domanda verte rispetto a un’elaborazione, a una lezione, anche intorno a questo, oppure se c’è il tempo con il taglio, il tempo dell’Altro, l’altro tempo quindi il tempo connesso alla superficie; ma c’è una domanda rispetto al taglio.
R.C. Bene. Vediamo se ci sono altre ipotesi, altre testimonianze che il viaggio sia in corso. Come accorgersi se il viaggio è in corso senza testimonianza? Il viaggio non è tra sé e sé, né tra sé e l’Altro. Allora, come capire che il viaggio è in atto, è in corso? Che c’è viaggio? E senza testimonianza il viaggio può dirsi in corso? È forse nell’intimità, nell’intimismo, nell’omertà la proprietà del viaggio? Forse che l’omertà è proprietà del viaggio? La vergogna, il pudore sono proprietà del viaggio? La riservatezza, la paura sono proprietà del viaggio? Sono proprietà intellettuali? O sono rappresentazioni che ognuno ha di sé e che si rappresenta o che rappresenta per gli altri, per un altro o per qualcuno per indicare che c’è padronanza sul viaggio, che il viaggio è sotto controllo? Oppure che il viaggio non è abbastanza sotto controllo e quindi, dato che non è tutto sotto controllo, un giorno la testimonianza verrà quando la padronanza sarà assoluta? Ma quando la padronanza sarà assoluta? La padronanza, ossia la rispondenza del fatto all’immaginazione.
Ma già l’immaginazione è il fatto e siccome non può darsi il fatto del fatto, nemmeno la padronanza giunge mai a essere ritenuta assoluta, totale, in modo tale da incrinare la riserva. Perché la riserva che ognuno ha è anche la riserva sulla padronanza. Oltre a essere la riserva su di sé, riserva sull’Altro, riserva sul viaggio, riserva sul tempo che può finire, è anche riserva sulla padronanza. Come andare oltre l’immaginazione, oltre la riserva, oltre il ricordo? L’immaginazione è la fissazione a un ricordo che, in quanto tale, è avulso dalla logica. Ma quale logica? Come intendere la logica? Non già come imparare la logica, ma come intenderla? E senza la testimonianza, il racconto, la scrittura, la lettura, come intendere secondo quale logica si sta svolgendo il viaggio? Il viaggio non è immaginario, come non è immaginaria la vita.
Immaginare la vita è farne una cosa morta, vivere la vita è come crederla di averla già vissuta, è trovarsi nella metempsicosi. Credere di potere vivere la vita è credere nella metempsicosi, pensarsi metempsicotico. E, in effetti, pensarsi è pensarsi come morti, cioè come avendo già vissuto, quindi pensarsi come morto o come sopravvissuto, pensarsi come tale pensando di vivere la vita ponendo la vita come oggetto dinanzi a sé. La vita esige il gerundio, non è ciò che si può vivere, e pensare di vivere la vita è una forma di mortificazione, è la formula del compromesso sociale, è la vita come legame sociale, non è la vita secondo la logica, è la vita da vivere. La vita come prescrizione è la vita da padroneggiare, la vita su cui esercitare la padronanza, il dominio, la vita da possedere; è l’immaginazione ma non è la vita, cioè è fantasma materno. Pensare la vita, pensare la morte; “pensare” è ciò che è senza l’idioma, ciò che è in assenza dell’idioma. Dunque importa l’idioma! “Che cos’è?”, lei dice. Non è! La parola è secondo l’idioma, la vita è secondo l’idioma, l’itinerario è secondo l’idioma, avviene secondo l’idioma. Dunque, di cosa si tratta nell’idioma, nel numero, il numero della parola, il numero della vita, il numero e il suo modo? Qual è il modo del numero? Qual è il numero?
Abbiamo la logica diadica, la logica singolare – triale, quindi il numero due e il numero tre, il modo del due e il modo del tre, dunque la parola, l’itinerario, la vita secondo il modo del due e secondo il modo del tre, per la combinatoria e per la combinazione del due e del tre. Come immaginare questa combinazione, questa combinatoria? Come immaginare la combinazione e la combinatoria secondo cui le cose accadono vivendo? È immaginabile? Sì, ma solamente a condizione di toglierla, togliendo la combinazione allora la si può immaginare, ma se le cose procedono dal due, secondo il modo del tre, con il modo del tempo, come potere creare un contenitore, una rappresentazione? Come ipotizzare una realtà stabile?
Ecco, allora, che la questione dell’ascolto e della lettura si situano qui. Dato che le cose si dicono secondo il modo del due e il modo del tre e con il modo del tempo, ecco la necessità dell’ascolto e della lettura, la necessità della clinica e l’occorrenza della cifra, perché l’ascolto si compie nella clinica e la lettura conclude alla cifra, ma la clinica non va senza legge e senza etica. Legge, etica, clinica: tre compimenti della struttura, che risalta dal funzionamento, struttura secondo il funzionamento per l’intervento del tempo. La struttura, la costruzione, l’industria della parola. Quel che si dice si struttura, non è già dato, non significa, non è il segno del passato, né il segno dell’avvenire; non è, ma si struttura. Com’è dunque la struttura? Come avviene? Immaginare la struttura vale negarla. Ipotizzare la struttura è già un modo di ammetterla, è già un’ipotesi di luce. Sapere la struttura è un altro modo per negarla. La struttura non è spaziale, non dura, “dura minga”. Non può durare, perché la struttura è temporale, non temporanea. È temporale, sessuale, secondo l’idioma. Non è l’idioma, è secondo l’idioma, non è la logica, è secondo la logica. La questione è che è impossibile negare tanto la struttura quanto l’ipotesi. Cosa vuol dire? Che la struttura è impossibile da sapere; impossibile sapere la logica secondo cui qualcosa sta avvenendo, impossibile sapere la struttura che sta avvenendo. Quindi, l’ascolto e la lettura esigono procedura e processione, il viaggio, il modo del viaggio, i dispositivi del viaggio: la conversazione, la narrazione, il racconto, la scrittura, la testimonianza. Allora l’esperienza si scrive, il viaggio si scrive, la struttura si scrive. Essenziale l’ascolto nella lettura.
La legge, l’etica e la clinica come compimenti della struttura: compimento della sintassi, compimento della frase e compimento del pragma. Se leggendo un testo, un film, un romanzo, un racconto intendiamo che c’è una struttura che si scrive è perché non prescindiamo dal tre, dal modo del due, dal modo del tempo, altrimenti non ci sarebbe nessuno scarto, nessun varco in quel che si dice, nessun varco tra la parola e la cosa, nessun varco tra una parola e un’altra. Il varco è essenziale per l’ascolto. Il varco è ciò che l’interpretazione rileva tra un equivoco e un altro equivoco, così come la sfumatura rileva un varco tra una menzogna e un’altra menzogna, e l’intervento rileva un varco tra un malinteso e un altro malinteso. Ma se la rimozione è negata, se la resistenza è negata, se la funzione di Altro è negata nessun varco può giungere all’ascolto, ma la soggettività, gli attributi del soggetto, l’essere del soggetto, l’avere del soggetto. Il soggetto è ciò che vorrebbe colmare la funzione di rimozione con l’avere del soggetto. Avere il nome, avere la corrispondenza tra il nome e la cosa, tra il nome e il significante, tra nome e nome senza varco, senza scarto. Ma la funzione introduce invece il “non”, il non dell’avere. La legge è la legge del non dell’avere, quindi legge senza prescrizione. Non è la legge che dice: “Sì questo, sì quello, sì così, sì colà, abbi questo, abbi quello, abbi quell’altro”, ma è la legge del non dell’avere. E l’etica è l’etica del non dell’essere, quindi senza morale. L’etica è in assenza di comportamento, perché è etica del non dell’essere, dove il “non” indica il varco del significante a se stesso, il varco dove sta la sfumatura.
Senza la legge del non dell’avere, senza l’etica del non dell’essere e senza la clinica dell’occorrenza – clinica senza classificazione, senza gnoseologia, senza nosografia – abbiamo il soggetto della miseria e il soggetto della povertà. Ma con legge, etica e clinica il caso è di cifra, il caso è narrativo, il caso è linguistico; non è di cronaca nera, come peraltro Pirandello ci indica con il suo modo, attingendo alla materia dei suoi scritti.
Trovate tracce del caso giudiziario nella scrittura di Pirandello? Il caso giudiziario si traspone nel caso di cifra senza più modello inquisitorio, senza più pena, senza più colpa. Ma tutto ciò è intellettuale, non naturale; è il modo intellettuale. L’ascolto e la lettura indicano che non c’è più soggetto, non c’è più reminiscenza, non c’è più il ricordo di sé, dell’Altro, della propria vita, della vita passata, della vita prossima. Vivere nel ricordo della vita è come togliere la vita e istituire il ritorno all’origine, il ritorno a casa, alla casa natia, all’allucinazione che la rappresenta.
Ecco l’importanza del varco della parola, il varco del significante a se stesso, il varco tra significante e nome, il varco dell’Altro. Il varco senza passaggio. Nessun passaggio tra un significante e l’altro, tra uno stato e l’altro delle cose. Tra un modo e l’altro modo non c’è passaggio.
L’adiacenza è l’Altro, è la corda dell’Altro, l’adiacenza è ciò che caratterizza la funzione di Altro, e dunque è, per così dire, il risultato che indica che il viaggio è in corso; non una promessa, né una vanteria, ma la testimonianza, la scrittura, la restituzione in valore di ciò che entra nel viaggio. E la restituzione è senza riferimento al soggetto, alla vita che fu, che sarà. In questa restituzione c’è modo di accogliere le proprietà e le virtù del viaggio in corso. Il non dell’avere e il non dell’essere indicano l’instaurazione dell’Altro e dunque il soggetto si è dileguato.
Ciò che chiamiamo viaggio o itinerario intellettuale non è catartico, non è un percorso di purificazione, né di espiazione, né di ascesi, né di miglioramento perché non procede dal negativo verso il positivo. Non è un viaggio di liberazione dalle scorie verso la purezza, è viaggio intellettuale. Non è un viaggio per essere più belli, più buoni, più bravi, più puri; è un viaggio che comporta il lavoro intellettuale per capire, intendere di che si tratta in ciascun atto. Non è un viaggio per acquisire tutto il sapere, dopo di che, una volta acquisito tutto il sapere allora sapremo e basta, non c’è più bisogno di nulla. È un viaggio lungo cui le esigenze aumentano, non diminuiscono. È un viaggio senza fine, è un viaggio senza le rappresentazioni naturali dell’inizio e della fine. E questo è un bel viaggio, viaggio senza la necessità delle preoccupazioni.
Pubblico Vorrei una precisazione intorno alla legge del non avere….
R.C. Non del “non avere”, ma del “non” dell’avere. Non è la legge prescrittiva, ma è la legge del non dell’avere. La legge o il compimento della sintassi non è la legge dell’avere o del non avere, ma è la legge del non dell’avere. Questa struttura del “non” è intoglibile; è ciò che ha preoccupato sin dall’inizio gli uomini, ha preoccupato i sistematizzatori, ha preoccupato chi riteneva di dovere esercitare la padronanza sul modo dell’accadere, del divenire delle cose: è il modo originario.
La struttura è originaria: è la legge del non dell’avere, l’etica del non dell’essere, la clinica dell’occorrenza, altrimenti detta “non c’è più ontologia”. Cioè, non ci sono più le cose dette, fatte, immaginate, immaginabili, ma c’è l’atto, l’atto di parola che non è potenziale ma attuale. Non è dell’ordine del possibile, è atto inimmaginabile che si rivolge al valore. L’atto tende al valore.
L’instaurazione della parola è un altro modo di vivere. Con la parola, per la parola non c’è più la necessità di litigare per esercitare una padronanza, per indicare di essere conformi a una idealità, non c’è più questa necessità, perché il valore non sta nella prestanza, non sta nelle rappresentazioni, ma sta nella cifra. E per cogliere questo valore occorre la restituzione. Non è un valore che si possa accumulare, mettere in cassaforte, tenere in tasca, ma esige un dispositivo pubblico e privato insieme, non domestico, non solipsistico, non nell’isolamento ma nella solidarietà; non nella comunità, ma nel pubblico, con il pubblico, per il pubblico quale indice dell’infinito, senza esercitare selezioni, esclusioni e quant’altro. È importante, no? E ciò esige la parola nella sua complessità. La complessità è molto interessante perché è per via di complessità che l’arte, la cultura e la scienza non finiranno mai e nemmeno la produzione artistica, culturale e scientifica. Non c’è d’avere paura che finisca.
Questione di dizionario, cioè di quella virtù linguistica, di quella proprietà linguistica che indica che la rimozione, la resistenza, la funzione vuota sono in corso, non sono abolite. Il dizionario è una proprietà dell’itinerario con cui si annunciano le conquiste del viaggio. Se non s’instaura il dizionario ciò è indice che nemmeno il viaggio è in corso. Il dizionario non è il dizionario comune, ma è il dizionario proprio al viaggio in corso, per cui una cosa non ne vale un’altra, una parola non ne vale un’altra, una sfumatura non ne vale un’altra. Il dizionario: un equivoco non ne vale un altro, una interpretazione non ne vale un’altra. Glossario e dizionario sono due proprietà linguistiche del viaggio, due indici che il viaggio è in atto, perché senza dizionario non c’è nemmeno parola, per cui parliamo la lingua popolare, la lingua del litigio, la lingua dove uno ha ragione e l’altro ha torto. Con il dizionario non c’è l’affrontamento perché il caso è clinico, non è il caso della rissa. Il caso clinico si rivolge alla cifra e ciò comporta che la ragione è dell’Altro, non è la mia ragione o la tua ragione; è un’altra cosa, è un altro modo e lì sta il bello. Non è una questione di punti di vista, ma è una questione di conquiste.
Quali sono le conquiste? Quali le acquisizioni? Come ciascuna acquisizione si scrive, si valorizza e valorizza il dispositivo, come valorizza ciascuna cosa, questo è ciò per cui l’ascolto e la lettura sono imprescindibili. Sono conquiste lungo l’itinerario che si svolge nel modo del due e nel modo del tre, con il modo del tempo. I modi: ci sono le cose, c’è la logica, c’è la struttura e ci sono i modi, il modo della logica e il modo del tempo.
C.M. Ci sono la logica e i modi.
R.C. Certo, i modi. Non c’è l’ontologia, nessuna ontologia; se togliete il modo avrete l’ontologia e quindi la classificazione. Ma adesso basta perché è già tardi.
C.M. Come procediamo?
R.C. Ciascuno a suo modo. E, dunque, come procediamo? Perché lei ha già inteso che qui accade qualcosa! Esatto. E riprenderemo con Ciascuno a suo modo, proseguendo la lettura di Pirandello che ci fornisce ampio materiale. Apparentemente Pirandello, ma non solo Pirandello. Ma quando? La settimana prossima, il mese prossimo o a settembre? Quando?
C.M. La settimana prossima.
R.C. E perché? Occorre darvi il tempo affinché voi leggiate, perché fino adesso non è avvenuto. Voi avete bisogno di tempo per leggere perché fino a ora non c’è stato questo tempo. Al momento, mi pare che voi abbiate bisogno di molto tempo! Quasi un mese, forse anche di più, più di un mese. Un mese andrebbe bene.
C.M. Noi leggiamo Shakespeare.
R.C. Ecco così intanto leggete un po’ di Shakespeare, anche Freud, Verdiglione, leggete le dispense, la collana “La cifrematica”. Cioè, occorre anche un po’ di lavoro. Qui mica può lavorare uno solo, lavoriamo insieme. Mi pare che ci sia questa necessità. Cosa dice Fabrizio? Lei, cosa dice? Ha bisogno di un po’ di tempo?
Fabrizio Moda Anche la settimana prossima.
R.C. Per lei andrebbe bene anche la settimana prossima. E, però, lei che cosa fa per meritarsi che la settimana prossima siamo ancora qua? Lei che contributo ha dato a che noi, settimana per settimana, siamo qui a testimoniare delle cose che noi facciamo, della ricerca in corso? Che contributo sta dando? Qual è il suo contributo?
F.M. L’ho dato sul lavoro.
R.C. E perché proprio qui non ci deve essere contributo? Perché? Che cosa glielo impedisce?
F.M. Nulla.
R.C. Ecco, appunto, non c’è nessun impedimento a questo.
R.C. (rivolgendosi a una persona del pubblico) Lei, per esempio, si è accorto che il nostro sito si sta trasformando in una maniera straordinaria? No, neanche di quello si è accorto. Quindi non si è accorto che stiamo lavorando quanto al sito, che stiamo lavorando al programma dell’avvenire, che stiamo lavorando per la clinica, che stiamo lavorando per la cifratura, che stiamo lavorando per la valorizzazione dell’esperienza. Lei non si accorge di questo.
Pubblico […].
R.C. Un anno fa. Non siamo mica nel sistema solare! Qui la questione è quella dell’istante. Il suo contributo all’istante, perché ci sia una valorizzazione assoluta per lei, per noi, per ciascuno, qual è, dove sta, perché si nasconde? Perché si nega questa chance? Anche questa è una questione, no?
Lei, come si chiama che ride sotto i baffi? Mariano, ecco Mariano, qual è il suo contributo al dispositivo? Contributo in qualità. Qual è, dove sta, c’è?
Mariano Giungerà a tempo equo.
R.C. Tempo equo. Il tempo non è né equo, né iniquo. Il tempo non dura, non aiuta a vedersi.
Il vittimismo e il fantasma di assassinio (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Prossimamente faremo un dibattito intorno al libro di Ruggero Guarini Fisimario 2008. Lettere immaginarie. Il dibattito s’intitola Il giornalismo, la satira, la politica. Intanto, ciascuno può cominciare a leggerlo, è un libro molto bello. Ruggero Guarini è scrittore, giornalista e intellettuale nell’accezione più ampia e ha attuato un dispositivo molto particolare in queste lettere immaginarie, ponendo degli scambi epistolari molto curiosi. Si può trovare Hitler che scrive a Carla Bruni, Leopardi che scrive alla plebe napoletana, Benito Mussolini che scrive a don Antonio Sciortino, Cassandra che scrive a Eugenio Scalfari. Ci sono vari interlocutori con differenti argomenti e con un’arguzia che percorre l’intero testo; veramente dà una notevole soddisfazione al lettore.
Questa sera cominciamo la serie La letteratura, l’amore, il piacere. È un modo, come dicevamo, d’incontrarci e di parlare di varie cose. Prosegue, parlando, una ricognizione che riguarda la parola, i suoi modi, quel che si dice, il modo dell’ascolto. Quindi, la letteratura interviene in più accezioni, non solamente come l’insieme degli scritti e dei testi che compongono una determinata materia o un argomento volto a assicurare il sapere su quell’argomento, ma interviene sopra tutto nell’accezione che riguarda qualcosa che nel suo scriversi produce un sapere altro, un sapere nuovo, un sapere che prima non c’era. Letteratura che si combina con la scrittura e con la lettura; non un qualcosa che va verso il passato, ma qualcosa che si compie nell’avvenire, con ciò che si va scrivendo, con ciò che si scrive.
In questa direzione va anche il compimento frastico della parola, perché il significante che si divide da sé produce la lettera, da cui la letteratura. La scrittura della lettera si compie nella letteratura, dunque nel processo che è di scrittura, di lettura, di qualificazione di ciò che s’incontra e dell’invenzione.
Quindi, la letteratura, l’amore, il piacere. Non si tratta solo della letteratura sull’amore, della letteratura sul piacere e di quanto è stato scritto sull’amore e sul piacere, si tratta piuttosto d’inventare, mano a mano, l’accezione di amore che interviene caso per caso, di cosa si tratta quanto al piacere, di ciò che viene chiamato piacere, di ciò che viene chiamato amore. Ossia, si tratta di andare oltre l’accezione comune, oltre una nozione comune già stabilita per inventare qualcosa di nuovo. Ecco perché invenzione, lettura e scrittura non sono elementi facoltativi. La parola che tende a qualificarsi, che tende a divenire qualità esige di scriversi. È questo che ci fa notare che la parola non è qualcosa di totalitario ma risente della complessità.
La parola è complessa, nella parola intervengono tante cose, ma quest’accezione di complessità è ben precisa e non riguarda l’intreccio di quante cose intervengono parlando. La complessità è qualcosa di specifico che s’instaura a un certo punto. L’idea più comune della complessità è che le cose sono difficili, per cui occorre che vengano semplificate per diventare più facili, cioè, la complessità è intesa come un problema, come uno sbarramento, come qualcosa che impedirebbe il capire, l’intendere con immediatezza ciò che si dice, ciò che si pensa, ciò che si fa. La complessità è intesa come un elemento negativo che deve volgersi al positivo, verso la semplicità, semplificandosi attraverso un processo di sfrondamento, di decifrazione, di spoliazione di quel che risulterebbe in più per giungere al nocciuolo, all’osso della cosa, alla sostanza, a quell’osso di cui parlava anche Hegel e che risulterebbe lo spirito nella sua unità tra coscienza e realtà. Questo è il miraggio: il miraggio del discorso comune di giungere all’osso, alla verità ultima, alla “buona sostanza”, che però non c’è!
Non c’è la verità ultima, non c’è la sostanza delle cose, ma ciascuna cosa tende a qualificarsi, tende a divenire qualità e in questo processo di qualificazione, proprio dove la parola sembra approdare al semplice, sorge la complessità. Non è che la complessità c’è dall’inizio, ma la complessità s’instaura a un certo punto dell’itinerario della parola verso la sua qualità. Questo è il punto, il bello della cosa. Non tutto è complesso, non ogni cosa è complessa. La complessità riguarda propriamente il funzionamento della parola lì dove s’instaura l’Altro con la sua piega. Allora, dove s’instaura la molteplicità, quando s’instaura l’ascolto, interviene anche la complessità, che ha un’allusione al semplice e che indica la sua necessità come necessità intellettuale, come necessità che esige uno sforzo intellettuale, un lavoro per approdare al semplice, a quell’unicità della piega per cui qualcosa risulta preciso.
Prima le cose risultano vaghe, non chiare; quando la cosa incomincia a chiarirsi sorge la complessità. Non c’è già prima. Ecco la necessità dell’analisi, del lavoro analitico, perché solo lungo il processo analitico è possibile cogliere l’andamento che approda alla qualità, alla cifra, dove ciascuna cosa si precisa rispetto all’indistinzione, al generico, allo standard. Nel processo di qualificazione le cose si precisano.
In questo sta anche la clinica come compimento della struttura della parola. È per questa via che il sapere e il senso si effettuano e la verità s’incontra. La verità non è il frutto di un’operazione archeologica, la verità non sta sotto alle cose, non preesiste alle cose, non è un postulato da dimostrare, da rivelare, da estrarre. La verità è un effetto pragmatico, è un effetto che segue all’instaurazione della clinica. Per clinica noi non intendiamo una classificazione, tutt’altro! Noi intendiamo precisazione. Parlando qualcosa si precisa, quindi sfugge a qualsiasi classificazione e si precisa; può definirsi ma non per definizione classificatoria, ma per una definizione arbitraria, contingente.
Il processo di qualificazione, il processo letterario, è qualcosa che non va da sé. La letteratura, la scrittura, la lettura, tutto ciò non va da sé. Non basta fare scorrere qualcosa sulla carta o su un altro supporto perché questo sia scrittura. Siamo in un’altra accezione di scrittura, che esige il dispositivo complesso, clinico, di individuazione della piega, dal molteplice al semplice, dal complesso al semplice.
Qual è la piega di ciascun dettaglio? Quale piega incontro nella mia lettura, quella piega per cui una sezione di qualcosa si precisa? Questa non è la verità sulla cosa, è una piega, una lettura, una lezione, una sezione che non è l’ultima o la definitiva, è temporale.
La clinica pone l’accento sull’istanza di verità, mentre la letteratura pone l’accento sulla questione del sapere: come si produce, come si effettua e come si scrive il sapere. Dunque, si tratta dell’attuale nella letteratura e con ciò che nell’attuale si scrive, consentendo la produzione del sapere che si scrive. Questo è essenziale per acquisire quegli elementi per stabilire, mano a mano, il da farsi: come parlare, come pensare, come scrivere. Ciò non è preordinabile, non può rispondere alla predestinazione, ma esige la ricerca e il modo della ricerca è il modo analitico, non la sintesi, perché non c’è nulla da riunire.
Sintesi vuole dire riunificazione, ma la questione della parola è l’analisi e ciò che si coglie dall’analisi non ha da essere riunificato e reintrodotto in un sistema. L’analisi è asistematica. Per questo l’analisi risulta problematica, perché non risponde al sistema, a quello che per definizione deve rispondere al principio di unità. L’analisi non vi risponde e il sapere è una produzione istantanea, non è qualcosa su cui potere fondare una dottrina. Sul sapere non si può fondare nulla. Ciascun dettaglio esige ulteriore analisi perché il dettaglio precedente non serve a niente rispetto a quello che segue. Questa è la questione dell’esperienza che si scrive, della memoria che si scrive. La memoria non come serbatoio, ma come esperienza che si scrive; è la memoria originaria che non può aggrapparsi al passato, a ciò che è già stato fatto, a ciò che è stato, perché ciascun passo si rivolge all’avvenire, non al passato.
La questione è avvertita anche in ambito disciplinare. Assistiamo, infatti, a un curioso paradosso in quella che viene chiamata “letteratura scientifica”, cioè la serie di scritti attorno a un determinato argomento, caso, questione. La letteratura scientifica, prendiamo il caso della medicina, non approda a un sapere fondante, ma approda alla probabilità, a un sapere su cui poggia la probabilità statistica.
Già qui la letteratura scientifica è incerta perché incontra lo scarto tra il matema e il sapere, lo scarto tra il sapere effettuale e il sapere fondante. E nemmeno quella che viene chiamata letteratura scientifica può aggrapparsi a un sapere certo. Quindi, anche la letteratura scientifica esige un supplemento d’indagine, un supplemento di ricerca, perché ciascun caso presenta aspetti particolari. Ciò comporta varie riflessioni sulla natura della scienza, quale sia la materia della scienza e indica che non c’è un sapere universale. Ma questo non è un problema, anzi, è una fortuna.
Che ci sia apertura è essenziale, ma anticipiamo dicendo che proprio l’assenza di sapere universale è ciò che vanifica l’infanticidio, l’omicidio, il suicidio, che invece si attuano proprio dove interviene una chiusura e un sapere avviluppante cui l’infanticidio, l’omicidio o il suicidio dovrebbero porre un riparo, costituendo un intervento che dovrebbe indicare la possibilità di gestire il tempo e il suo taglio. Sarebbe l’applicazione del metodo di Procuste; il mito di Procuste indica quali sono le conseguenze di un’ipotesi di chiusura rispetto a un sapere che risulta fondante l’origine, una prescrizione all’omogeneità.
Ma perché ci occupiamo di letteratura? Di quale letteratura? Rivolgendoci a cosa? Perché non siamo trombetti, come diceva Leonardo, e non siamo umanisti, non siamo romantici, non ci rivolgiamo alle umane lettere né all’uomo, ma ci rivolgiamo alla parola e al suo destino, perché il destino della parola è il nostro destino. Il destino dell’uomo non è il nostro destino, che sarebbe un destino di morte; noi non partecipiamo al destino umano, ma ci rivolgiamo al destino della parola. È un’altra scena e, per indicare in che modo ciò comporti un’altra scena, affrontiamo la questione per la sua punta e non per la sua coda.
Entriamo allora nella combinatoria che letteratura, scrittura, lettura, amore, piacere ci propongono. Lo facciamo con un testo da leggere che s’intitola Superior stabat lupus. È noto, no? Avrei giurato che qualcuno dicesse: “Ma è Fedro!”. Una volta le favole di Fedro si leggevano alla scuola dell’obbligo. Adesso, nella scuola che è divenuta democratica, queste cose non si fanno più, il latino sopra tutto, però la fiaba del lupo e dell’agnello magari è nota.
Il lupo e l’agnello, Superior stabat lupus, inferior agnus, che semplicemente vuole dire che il lupo stava sopra e l’agnello sotto, dato che ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi.
Allo stesso ruscello giunsero un lupo e un agnello spinti dalla sete. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. Il lupo stava sopra e, poco lontano, l’agnello sotto. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit: “Cur – inquit – turbulentam fecisti mihi istam bibenti?”. Laniger contra timens: “Qui possum –quaeso – facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor”. Il lupo interroga l’agnello: “Perché mi intorbidi l’acqua?”. L’agnello risponde: “Com’è possibile? L’acqua arriva a me dopo di te”. “Ah!”, dice il lupo “è vero”. Repulsus ille veritatis viribus: “Ante hos sex menses male – ait – dixisti mihi”. Allora il lupo vinto dalla verità di queste parole dice: “Sei mesi fa hai parlato male di me”. Respondit agnus: “Equidem natus non eram!”. Risponde l’agnello: “Ma non ero ancora nato!”.”Pater, hercle, tuus – ille inquit – male dixit mihi!”. Dice il lupo: “Se non sei stato tu è stato tuo padre”. Atque ita correptum lacerat iniusta nece. E qui con un balzo gli si avventa contro. Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt. Questa fiaba è stata scritta per quegli uomini che con cause fittizie opprimono gli innocenti.
Qui la morale di Fedro, per il quale il mondo si divide in due, da una parte stanno gli innocentes e dall’altra gli opprimentes. Siamo alla questione che non è, come sembra, quella della prepotenza, ma quella del vittimismo e che occorre leggere. Non basta attenersi così facilmente al senso, occorre leggere. La lettura giova per cogliere la piega che si compie nella clinica, e per giungere alla piega ci avvaliamo ancora del nostro amico Luigi Pirandello, che ha scritto, mentre voi eravate un attimo distratti, una novella. Come s’intitola la novella scritta lì per lì mentre voi eravate occupati? Superior stabat lupus, che è la vicenda di Corrado Tranzi, quanto meno sembra trattarsi della sua vicenda.
Corrado Tranzi, chi era costui?
Corrado Tranzi, fino a ventiquattr’anni disprezzatore implacabile di tutte le donne, implacabile derisore di tutti gli uomini che se n’innamoravano, appena presa la laurea di dottore in medicina, chiamato per un caso d’urgenza mentre di buon mattino stava a concertare una partita di caccia nella farmacia di un amico […] s’innamorò anche lui tutt’a un tratto, proprio in quella sua prima visita di medico.
Viene chiamato a casa di un moribondo, che nella fattispecie era una moribonda, e quando arriva gli apre la porta una fanciulla scarmigliata, mezza discinta, in lacrime e …restò abbagliato a guardarla in bocca, mentr’ella affollatamente gli parlava della zia trovata a letto, un quarto d’ora prima, rantolante e senza conoscenza.
Quindi viene introdotto nella camera della zia rantolante, e, mentre gli viene descritto di cosa si tratta, Corrado Tranzi nota che la fanciulla accarezza i capelli di un ragazzotto che era ai piedi del letto di quella che era la madre malata e che, nella fattispecie, era il cuginetto della ragazzina.
Tranzi si stizzì di questa carezza …e se ne stizzì tanto, che improvvisamente s’interruppe per ordinare che, perdio, quel figliuolo se ne poteva andare a piangere di là. Aria! aria! Un po’ d’aria attorno al letto! L’inferma morì tre giorni dopo.
Tre giorni in cui Tranzi si prodiga intorno al letto della malata, ma si prodiga invano. D’altronde, lui ha già capito al primo sguardo che si trattava di un caso indubbio e irrimediabile di embolia cerebrale. In questi tre giorni viene a sapere che la ragazzina si chiamava Ebe, che era figliola di un professore di fisica che insegnava al collegio nautico, che la malata era la cognata del professore accolta in casa a lato della sua vedovanza.
Qui, la prima scena è che Tranzi odia tutte le donne e odia tutti gli uomini che si innamorano delle donne, ma quando arriva a casa di un fanciullo orfano dove la madre sta morendo s’innamora della prima donna che vede. Curiosa combinazione, no? Bene, e tra le altre cose viene a sapere che il ragazzo si chiama Marco Perla, il quale aveva chiesto la mano della cugina, la quale però, con molto dolore, aveva rifiutato, confessando che le sarebbe stato impossibile sposarlo perché, fin da bambina, era cresciuta con lui e lo amava come un fratello e solo come un fratello avrebbe potuto amarlo. Allora, immediatamente, Corrado Tranzi si fa avanti e chiede la mano di Ebe.
Al primo momento c’è un certo sconcerto. Come? Questo è arrivato qui qualche giorno fa e subito chiede la mano! Però insiste, dice che bisogna decidere subito, che lui sta per vincere un concorso importante, così ha la carriera assicurata, che la ragazza è di suo gradimento. Il padre acconsente. Vengono celebrate le nozze.
Fu una furia, una frenesia d’amore, che durò appena un anno. Ebe morì di parto. La sera stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un pazzo; scomparve.
E se ne va in America.
Altro risvolto della scena è che abbiamo una bambina orfana di madre, anzi, di più, che nascendo aveva ucciso la madre – così dice – orfana di madre e abbandonata dal padre. Peggio di così, più fosco di così! E la bambina crebbe in casa dei nonni che la chiamarono Ebe come la loro figliola: Ebe la madre, Ebe la figlia.
E sembrò ad essi che veramente la loro Ebe ricominciasse a vivere in quella bimba, dapprima tra le loro braccia, custodita con l’anima e col fiato, poi tra le loro cure piene di palpiti e di sgomenti.
A mano a mano che cresceva, la bambina, soprannominata Bebè, Ebe/Bebè, somigliò sempre più alla madre.
Ne ripeté tutte le grazie infantili, le mosse, i sorrisi, i primi giuochi, tra lo stupore accorato de’ due vecchi che credevano d’assistere a una prodigiosa resurrezione.
Un raggio di luce sembra entrare nella casa dove la scena è invece tra le più fosche. Casa in cui continua a vivere Marco Perla al quale non sfugge che la bambina assomiglia sempre più alla mamma, a quella mamma che lui aveva tanto amato. Non solo pensa al ricordo della sua infanzia trascorsa insieme a quell’altra bimba, ma rivive quegli stessi sentimenti …che si rifacevan vivi della vita stessa della piccina.
La quale, ecco, come quell’altra, voleva giocare con lui; voleva – senza saperlo – far ripetere a lui quegli stessi giuochi già fatti con quell’altra se stessa, ch’era stata la sua mamma piccina.
E lui ripeteva quei giochi.
E le cose procedono. La bambina cresce e Marco Perla rinfocola i ricordi e sopra tutto …tra tutti i ricordi, più vivo e più preciso aveva quello del giorno e dell’ora che per la prima volta in un bacio della cuginetta aveva sentito d’improvviso, lui solo, il sapore e il calore d’un amor nuovo, diverso dal solito, per cui s’era tutto turbato e acceso, quasi che da quelle rosee e fresche labbra ignare gli fosse venuto un fuoco delizioso per tutte le vene. Ebe aveva dodici anni; lui quindici; ed era stato un giorno d’aprile, nelle prime ore del mattino.
È un ricordo indelebile.
Tutto sembra procedere per il meglio, anche se Marco Perla è un po’ imbarazzato: non riesce a rispondere agli abbracci e ai baci della bambina che vuole scherzare e giocare con lui. È un po’ restio perché ha i suoi ricordi. Un certo giorno cosa accade? Il professor De Vitti muore, il nonno di Ebe muore, lo zio di Marco muore. E questa morte …venne a strappare violentemente Marco Perla da quell’ibrido e atterrito stato d’animo.
A complicare le cose accade che il professor De Vitti entrò tardi nell’insegnamento, per cui al momento di morire non aveva compiuto quel percorso necessario a garantire la pensione. È un bel problema, per cui alla moglie toccano poche migliaia di lire e l’incombenza di provvedere alla famiglia spetta a questo punto a Marco Perla, unico sostegno della famigliola. Marco Perla, oltre ai ricordi, teme un altro pensiero: l’idea che Bebè cominciasse a vedere in lui un altro, il capo di casa, quasi il padre, e a considerarlo come tale.
Quindi, mentre prima era stato amato da Ebe come un fratello, teme ora che Ebe figlia lo possa amare come un padre.
Da un pezzo la zia notava in lui curiose assenze di memoria, strane smanie, improvvise tristezze; e lo vedeva dimagrire e fissarsi sempre più in una ispida e squallida bruttezza.
Non per una qualche malattia, ma per questi pensieri. La zia allora ha il sospetto che sia innamorato.
E sospetta …che quella morte dello zio gli avesse troncata la speranza di farsi una casa; che gli pesasse il debito di gratitudine per i benefizii ricevuti da bambino.
La zia dice che Marco ha ricevuto da bambino, quando era rimasto orfano, molti benefici che adesso gli pesano perché li deve restituire occupandosi della famiglia. C’è un debito morale che dovrebbe pesare; questo è il sospetto della zia. Ma non è questo il problema per Marco Perla, che invece era invasato dalla paura che un altro, d’un tratto, vedendo Bebè crescere di giorno in giorno più bella, venisse a strappargliela, quindi la considerava già una cosa sua che poteva essergli strappata da un altro.
Dunque, da una parte c’è la zia che ipotizza un debito morale, dall’altra c’è Marco che teme lo strappo: un altro d’un tratto venisse a strappargliela, come già gli era stata strappata la madre di lei.
Già aveva avuto uno strappo, adesso potrebbe ricevere il secondo. Lo strappo. Parrebbe curiosa la fantasia dello strappo. Strappo cui non aveva potuto opporsi allora, né potrebbe opporsi …in alcun modo pur sentendosi amato. Ma sì! una volta da fratello; ora forse da padre.
E, neanche a farlo apposta, un bel giorno la zia gli conferma che, effettivamente, ci sarebbe un giovane pittore che si è accorto di Ebe, e lui è bello come un angelo, per cui anche Ebe si è accorta di lui. Pittore che tra breve deve partire per Roma per compiere il suo itinerario. A quel punto Marco si altera:
Ah, questo per Roma? come quell’altro per l’America? – sghignò orribilmente. – Ma non vi basta una? Due eh? volete buttarne via due, così, al primo che capita?
Lo strappo.
Così, dinanzi all’eventualità che lo strappo si compia, Marco confessa alla zia che lui ama Bebè e grida alla zia tutta la sua passione.
La zia, dapprima sbalordita, poi quasi atterrita, cercò di calmarlo. Gli disse che mai e poi mai avrebbe sospettato ch’egli avesse potuto prendersi così d’amore per quella piccina.
La quale difficilmente avrebbe potuto capire, dato che c’era anche il precedente con la madre. Quindi …la zia sarebbe stata felice d’affidare a lui quella piccina sua; proprio felice. Ma Bebè?
Bebè, sarebbe stata felice?
Per ora gli garantisce che se ne occupa lei di comunicare a Bebè la faccenda. Marco acconsente e comincia l’attesa che la zia parli a Bebè, convinca Bebè, comunichi a Bebè come devono andare le cose.
E …furono per Marco Perla mesi d’angoscia e di disperazione.
Così non sarà per voi, invece, che avrete modo di leggere nei prossimi giorni il seguito della novella in modo da capire perché è la novella del vittimismo. Intanto, riflettiamo su quanto abbiamo letto e su quanto leggendo, magari, abbiamo ipotizzato. Qui siamo a metà della faccenda, non è conclusa, però degli elementi sono già emersi.
Pubblico Può riassumerci in parole brevi la conclusione della novella?
R.C. “In parole brevi”!
Pubblico La donna detesta l’attesa.
R.C. “La donna detesta l’attesa”? Appunto! È per quello che subito lei andrà a leggersi la novella già stasera!
C’è qualche elemento tra quanto letto sino a qui e che sia sembrato non trascurabile?
Lucio Panizzo Il ricordo e il debito morale mi sembrano assolutamente non trascurabili. Io non ho letto la novella, ma danno al personaggio la sua costruzione. Io penso che l’attesa, per esempio, si strutturi sul ricordo e sul debito morale, perché lo stesso ricordo è un’attesa di una ripetizione del passato. Però, è impossibile che si ripeta qualcosa del passato, mentre nel ricordo il passato ritorna sempre, probabilmente anche come debito – e qui c’è un qui pro quo – allora s’instaura l’attesa. E anche che deleghi il compito di parlarne alla zia è un grosso problema. Come si fa a fare il portavoce di qualcuno se la voce non è nemmeno assumibile e non è una facoltà? La zia è il suo portavoce. È un grosso problema. È impossibile.
R.C. Eh già. Questo è un punto non da poco. Quindi, lei dice che qui c’è una delega, una delega verso la zia. Bene. Altri?
L.P. Però può essere…
R.C. “Può essere”. Dice che ci possono essere delle buone probabilità, probabilità statistiche secondo la letteratura scientifica.
Cecilia Maurantonio C’è una concomitanza con le morti come evento per cui – questo non l’ho ancora capito ma ho notato questa cosa con la morte – sono come due eventi in cui qualcosa accade. L’unica volta che lui ha manifestato l’amore con una domanda è avvenuto lo strappo, quindi, molto probabilmente anche la delega è avvenuta per un ricordo. Comunque, c’è da chiedersi come ama quest’uomo e cos’è questo amore. Si tratta di amore, di passione o d’innamoramento? Che si sia innamorato, questo lo si è colto dalla lettura; che ami è più una questione di sacrificio che di altro e si fa carico di alcune cose lungo la vicenda.
R.C. Quindi, lei è curiosa di sapere come ama Marco.
C.M. Beh, se poi effettivamente si tratta d’amore, che è incontrollabile come amore. Però, io ho colto che è innamorato, da come lei ha letto.
R.C. Quindi è innamorato, ama.
C.M. Sì, ma se questo amore è un sacrificio, non è amore. È sempre pagamento di un debito o per una forma di ricatto per portarsi avanti e ricevere dopo, non so; quindi, c’è sempre qualcosa che non è meritabile, non è meritevole da parte sua.
R.C. Bene. Molto interessante. Altri elementi? Prego. Sì, prima lei e poi la nostra amica a fianco che si chiama?
Pubblico Maddalena.
Giorgio Fornasier A proposito della fiaba, della vittima, del lupo e dell’agnello. Oggi è stato pubblicato in internet, e credo abbia avuto un successo mondiale, un video della polizia inglese in cui ci sono dei bulli in città, dei ragazzotti che in mezzo alla folla picchiano a destra e a manca della gente. A un certo punto passano due transessuali e chiaramente loro si scatenano. Si avvicinano ai transessuali e vanno per picchiarli, e in due secondi – proprio questo è il bello della scena – i bulli sono a terra, distrutti, non riescono più a camminare, né a fare niente perché i due transessuali, in realtà, erano due lottatori di lotta estrema che andavano a una festa vestiti da donna. Il bello del video era vedere compiersi una giustizia, in qualche modo, nel senso che le presunte vittime, avvicinati da tre bulli belli grossi, in effetti non erano più vittime, ma hanno compiuto una giustizia e quindi non c’è stato vittimismo perché hanno reagito. È come se la pecora si fosse sbranata il lupo. In questo senso mi sta bene, altrimenti il non vittimismo di cui lei parla me lo deve dimostrare, perché il lupo è un criminale, è un prepotente, realisticamente e anche non realisticamente. Non trovo un varco per non dargli una lezione come hanno fatto quelli di oggi.
R.C. Quindi lei è tifoso di Fedro!
G.F. Sì, non mi viene così semplice ammettere che ci sia una storia di vittimismo, ma piuttosto di prepotenza. E questo cambia, cambia anche come impostiamo la società.
R.C. Forse bisogna chiarire un dettaglio: il lupo è il vittimista!
G.F. Così è più complicato.
R.C. No, così è più semplice, perché è il lupo il vittimista.
G.F. Cioè, le argomentazioni che pone per passare all’azione sono i soprusi che avrebbe subito?
R.C. Sì. Allora la prepotenza non è che l’altra faccia del vittimismo. È semplice.
G.F. Sì, così mi convinco.
R.C. Bene, ha visto? Parlando si trova. Prego Maddalena.
Maddalena Una cosa molto importante è stata come parla del ricordo. Il ricordo fa parte del passato. Com’è possibile che una persona viva il presente di soli ricordi, quando i ricordi non ti permettono di vivere assolutamente il futuro? È impossibile. Poi, nel ricordo del passato c’è la delusione, una delusione di un amore non corrisposto; quindi, il ragazzo è o non è innamorato? Io dico che non è innamorato della ragazza, cioè lui vive esclusivamente solo di ricordi e basta. La cosa che ho trovato molto toccante è stata come lui cita questi ricordi. I ricordi fanno parte del passato, quindi, secondo me, non puoi vivere nel presente e non puoi vivere nemmeno nel futuro. Lui ama questa ragazza, ma non Bebè, perché lui ci vede sua mamma, dunque fa parte del passato, non del presente e nemmeno del futuro. È il passato. Ama la madre. Con Bebè lui rivive i ricordi del passato, ma parliamo sempre del passato che, arrivati a questo punto, va cancellato.
R.C. Il passato è incancellabile, è per questo che non ha bisogno di essere ricordato.
M. Sì, condivido e non condivido, però tante volte il ricordo fa male. Un amore non corrisposto, come in questo caso. Lui vede in questa ragazza sempre l’amore non corrisposto.
R.C. Chiaro. È molto preciso, per cui non è che il ricordo a volte faccia male, perché è sempre un modo di negare l’attuale. Certo, molto interessante.
M. Però, io dico che il ricordo fa parte del passato. Basta. È bello ricordarlo se è bello, ma se il ricordo è brutto va cancellato.
R.C. E, però, qui lei un po’ si contraddice.
M. Perché? Lui vuole vivere con la figlia ciò che non ha vissuto con la madre.
R.C. Sì, certo.
M. Ha capito? È qualcosa che lui non ha vissuto e quindi lui vuole rivivere, vuole portare nel presente il passato. Ma questo è impossibile.
R.C. È ancora più curiosa la cosa. Vuole rivivere qualcosa che non ha vissuto! Giusto? Perfetto. Dunque, è una eventualità impossibile. Ora, rispetto a questa struttura, che cosa cambia rispetto al fatto che il ricordo sia bello o sia brutto?
M. Se il ricordo è bello ti fa bene.
R.C. Del passato?
M. Del passato. Se il ricordo è brutto ti fa soffrire.
R.C. Del passato?
M. Del passato. È una differenza che segna.
R.C. Quindi, sia nel primo caso sia nel secondo caso, si tratta sempre del passato, di ciò che lei diceva prima impedisce l’avvenire, no? Dunque, che sia bello o che sia brutto sempre impedisce il futuro!
M. Eh, ma se è bello c’è una grande apertura, mentre se è brutto c’è la chiusura.
R.C. Ci ragioniamo. Bene. Però è interessante la cosa. Molto interessante. Altri? Altre note?
C.M. È curiosa la somiglianza della figlia con la madre che viene notata, annotata, evidenziata.
R.C. La somiglianza chi la nota?
C.M. La mamma, cioè i nonni.
R.C. I nonni. Non solo.
C.M. Beh, lui ovviamente gioca, ripete gli stessi giochi in cui c’è un contenimento continuo della sessualità, resta nel gioco. Lui riceve un bacio e c’è una fissazione che poi impedisce di vivere.
R.C. Bene. Altri? Forse lei? Sento quasi un prorompere di un ragionamento fragoroso e il migliore modo di ragionarci è parlare.
Manuela Macario Sono confusa. Mi è capitato di sovrapporre alcuni modi, esperienze personali al libro. Cioè, è la prima volta che m’accorgo di fare una sovrapposizione così forte, quindi sono un po’ confusa, perché pensando al libro è chiaro che arrivo a un ragionamento mentre, poi, pensando, trasporto sulla mia esperienza un ricordo, oppure una paura che accada una seconda volta la stessa cosa, e ciò mi fa arrivare a un altro ragionamento; quindi, sono andata fuori strada con il mio ragionamento.
R.C. Non lo sappiamo.
M.M. Poi, come racconta la novella, sembra più di pensare di leggere i pensieri di Pirandello piuttosto che leggere i pensieri dei singoli personaggi, cioè a volte non è chiaro chi pensa cosa. Lui descrive una scena, la sta descrivendo lui, però non è chiaro se la scena, così come la descrive lui, è vista da tutti i personaggi o da qualcuno. Ci sono personaggi che hanno la loro visione della cosa; fa parte della scena che la zia pensasse che Marco si sentisse in debito e, invece, per lui era diverso, ma per tutto il resto è una scena che viene descritta dall’autore. È difficile capire ciascun personaggio come e quali pensieri sviluppa, come analizzare ciascun personaggio.
R.C. Esatto, brava, perché è proprio questo che occorre fare: l’analisi del personaggio! Infatti, è solamente così che il personaggio può imbattersi nell’autore e non continuare a cercarlo facendo il personaggio. Perché la questione dell’autore è sottile. Il destino del personaggio è di riconoscere l’autore e non applicare al personaggio il principio d’autore, che lo condanna a essere personaggio. La lettura analitica consente al personaggio di non essere condannato a fare per sempre il personaggio, quel personaggio.
M.M. Quindi, non è sbagliato partire dal personaggio. Stavo tentando di capire il personaggio.
R.C. Però bisogna non trascurare l’autore. L’autore, non lo scrittore! L’autore, per cui non importa sapere quali pensieri sono di Pirandello e quali del personaggio, perché non si tratta di applicare il principio d’autore, ma l’autore. Anche per Pirandello si pone la questione dell’autore. L’autore non è lo scrittore. Lo scrittore s’imbatte nell’autore, si avvale dell’autore, che è sconosciuto.
M.M. Appunto, forse è quello che volevo dire io, nel senso che si trova l’autore cominciando dalla costruzione del personaggio.
R.C. Questa è la scommessa: che il personaggio non sia più personaggio ma incontri lo statuto intellettuale, la piega e l’altra cosa.
Vediamo di chiarire ulteriormente la faccenda la settimana prossima, dove parleremo in maniera semplice della struttura del vittimismo e come e perché il ricordo giova al vittimismo.
Bullismo e vittimismo (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Siamo arrivati a un certo punto della novella Superior stabat lupus. Per riprendere i termini della questione, che cosa è accaduto sino a qui? Chi vuole fare il “riassunto” della puntata precedente? C’è chi vuole intervenire?
Cecilia Maurantonio Corrado Tranzi, appena laureato in medicina, è chiamato per un caso urgente, ma entrato nella stanza vede una fanciulla e, anche se scarmigliata, se ne innamora immediatamente. Mentre è nella stanza con la zia moribonda, che era ospite dei genitori della fanciulla che si chiama Ebe, vede al capezzale della moribonda un ragazzo, figlio della malata e cugino di Ebe. Ebe, per consolare il cugino gli accarezza i capelli e Corrado Tranzi, infastidito da questo gesto, allontana il ragazzo dicendo che la malata ha bisogno d’aria. Tranzi cerca di affrettare i tempi e chiede la mano di Ebe temendo che la presenza del cugino potesse aggiungere qualcosa al sentimento e all’affetto che c’era già per la cugina. Lui la sposa e dopo un anno di grande amore ha una figlia, però Ebe muore dandola alla luce e lui parte all’improvviso senza nemmeno vedere la figlia. I nonni di Ebe si accorgono di una grande somiglianza della nipote con la loro figlia, la bambina infatti viene chiamata come la madre Ebe e con il diminutivo Bebé. Marco Perla, che è il cugino, si accorge anche lui di questa somiglianza che rinfocola i sentimenti forti di amore e di passione che aveva provato nei confronti della cugina. A me ha colpito il bacio che lui si ricorda della cugina. Intanto muore il nonno di Bebé, che non lascia granché di pensione. È quindi Marco Perla a pensare al sostentamento di Bebé e della zia, perché il padre è sempre in viaggio e non si sa dove sia. Perla si sente anche in obbligo nei confronti della zia, che lo aveva ospitato quando da giovane era rimasto lui orfano e provvede al sostentamento di entrambe, ma è anche mosso dalla passione e dall’amore per Bebé, per cui coglie l’occasione di questo momento difficile. Il testo parla di sentimenti, che poi sono descritti come ricordi dei giochi che lui faceva con la cuginetta, della grazia dei gesti, le risate; sono queste le cose che provocano in lui questi sentimenti. Poi non mi ricordo.
Pubblico Lui chiede aiuto alla zia.
R.C. Chiede di intercedere, di mettere una buona parola, che è una proprietà di Maria, per dire così. Lui chiede alla zia di mettere una buona parola e aspetta. Aspetta che la zia gli tolga le castagne dal fuoco; e qui entriamo nel vivo della questione. Voi non potete saperlo perché non lo avete letto, però entriamo nel vivo.
Aspettando che le parole della zia sortiscano qualche risultato …furono per Marco Perla mesi d’angoscia e di disperazione.
L’attesa! Una disperazione ancora domestica che consente di aspettare, perché la disperazione effettiva non consente di aspettare. Nella disperazione, lui si chiede se la zia aveva saputo o non saputo parlare con Ebe.
Forse la zia non aveva saputo parlare. Lo argomentava dal contegno di Bebé verso di lui.
Lui aspetta, guarda Bebé, ma non nota la svolta, non la nota e aspetta. Ha molta pazienza Marco Perla, eh!
Più tempo passava, e più profondamente vedeva egli radicati nel cuore di lei il ricordo e il rimpianto di quel giovine già partito per Roma.
Cioè, anziché dimenticarsene, questo ricordo continua e s’ingigantisce. Quindi, Marco Perla è disperato e intanto la zia deperisce …quasi rosa da quel segreto che egli le aveva confidato.
Ma poco prima di morire trova il coraggio; lui aspettava e intanto la zia non le aveva ancora detto nulla.
Lo trovò poco prima di morire, il coraggio di parlare a Bebé, la povera zia. Se la chiamò accanto al letto, e cominciò a domandarle se ella si rendesse conto della condizione in cui tra poco – la zia gliela spiega – si sarebbe trovata: sola in casa, giovinetta, con un uomo che non le era né padre, né fratello, anche lui quasi giovane ancora, senz’alcun obbligo veramente verso di lei – si sarebbe trovata sola in casa, giovinetta, con un uomo che non le era né padre, né fratello – Che cosa era egli per lei? Figlio d’una sorella della nonna. Ed ella per lui? Figlia d’un uomo, che un giorno era irrotto come una bufera in casa e l’aveva schiantata. Una pianticella quasi senza radici, era: la madre, morta; il padre, sparito.
Questo è l’habitat: la casa schiantata, la madre morta, il padre partito. È importantissimo questo passo, perché è lo scenario fantasmatico in cui si svolge la vicenda. Madre morta, padre sparito, casa schiantata e quindi nessuna famiglia, nessuna casa, il disastro totale, si apre il diluvio. In quest’inferno …non le restava altro sostegno che lui, Marco, il quale si era sacrificato per loro.
Lui si era sacrificato per loro! Quindi, dato che si era sacrificato, …bisognava dargli un compenso, un premio per i tanti sacrifizii.
Dunque, Marco vanta credito presso la zia e presso Ebe. L’anfibologia del premio. Il premio è anfibologico: da una parte premio e dall’altra pena, la nozione di premio fa pendant con quella di pena. Quindi a Marco il premio per i sacrifici e a Ebe la pena.
Egli era buono e l’amava: le sarebbe stato padre e marito insieme.
Delicatissima la zia, in punto di morte dice: “Ti dico io come stanno le cose e in che condizioni ti trovi, con la casa schiantata, la madre morta, il padre sparito e in casa la persona che vanta credito nei tuoi confronti e che sarà per te padre e marito”. Una scena dell’incesto. Io adesso muoio, tu resti qui e dove resti? Te lo dico io: all’inferno a celebrare l’incesto! Ebe, dopo avere udito quest’apparente profezia, che cosa prova?
Stupore, dolore, orrore, vergogna assaltarono e sconvolsero Bebé, a questa rivelazione inattesa. Si aggrappò al collo della nonna e, rompendo in singhiozzi, la scongiurò di non morire, per carità di lei. No no; ecco: la avrebbe tenuta stretta così, per sempre, e non le avrebbe permesso di morire, ecco, non glielo avrebbe permesso! Ora che sapeva questa cosa orribile, sola con zio Marco non voleva, non poteva più restare. Per carità! per carità! Sarebbe morta lei, piuttosto.
Il testo che ci si profila a questo punto della ricerca è in realtà il contesto in cui si svolge l’intera vicenda, un testo fantasmatico. In quale famiglia accade quanto narrato? Nella famiglia in cui la madre è morta, è data per morta e non si è instaurata la madre, cioè in assenza del mito della madre e il padre è sparito, cioè in assenza del mito del padre. Questo è il contesto in cui il fantasma di morte avvolge il padre e la madre, e nulla può accadere se non all’insegna del male, del negativo. Infatti, qual è il destino che l’aspetta? L’incesto. Nel suo destino la sessualità è negata e il segno del negativo è davanti a ogni cosa. Padre e marito insieme: ecco il fantasma dell’incesto.
Qui c’è una precisione notevole nella combinazione e nella combinatoria di ciò per cui, a un certo punto, per qualcuno può instaurarsi il fantasma d’incesto. L’incesto altro non è se non un fantasma, il modo con cui è posto dinanzi il fantasma di genealogia, il fantasma d’origine. Da dove vengo, dove vado? Vado verso l’origine, dove c’è la coincidenza dell’origine con il destino! Questo è il fantasma d’incesto: la coincidenza dell’origine e del destino, per cui dinanzi c’è sempre l’origine, l’idea di giungere all’origine. Questo è il circolo mortifero, il circolo della morte, l’idea di morte. Il fantasma d’incesto e il fantasma di morte sono molto prossimi.
Noi abbiamo letto in precedenza che questo fantasma di morte era addirittura un fantasma di assassinio:
Ebe morì di parto. La sera stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un pazzo.
Quindi, la fantasia è l’idea di avere ucciso la madre. Fantasma di morte e fantasma di assassinio che impediscono l’instaurazione della madre e del suo mito, la madre come indice del malinteso e come mito del tempo. Se c’è madre le cose non finiscono, le cose non possono volgersi al negativo perché il tempo non finisce e la madre in quanto indice del malinteso e del tempo non finisce. Ma se la madre è data per morta, se quindi il tempo è dato per finito, se il tempo è pensato attraverso la sua negativa, cioè attraverso la sua fine, lo scenario è funesto, è macabro: nessuna chance. Quale eventualità può affacciarsi all’orizzonte? Eventualmente un altro fantasma di morte: muore la zia e Ebe piuttosto morirebbe anche lei; il fantasma di morte persiste.
Dopo c’è una notazione molto interessante, è quasi un annuncio della scena del fantasma.
Bebé non aveva mai pensato al padre scomparso: non aveva mai avuto per lui alcun sentimento, né rancore né curiosità: esso per lei non esisteva, non era mai esistito. Cominciò a esistere il giorno della morte della nonna, allorché, ritornata in casa dal camposanto, si vide insieme con Marco Perla: insieme e divisa, insieme e nemica, conoscendo in lui un sentimento al quale non sapeva e non voleva rispondere.
Qui c’è la struttura del diniego. Lei “non” aveva mai pensato al padre, “non” esisteva, “non” aveva mai avuto per lui alcun sentimento, né curiosità. Allora, com’è che ci troviamo in questa scena fantasmatica in cui la madre è morta, il padre sparito, la casa schiantata, se mai c’era stata alcuna curiosità per il padre, mai nessun pensiero rivolto al padre? Il giorno della morte della nonna … si vede insieme a Marco Perla: insieme e divisa, cioè ancora l’anfibologia, la divisione che interviene nell’idea di relazione. Però, anziché relazione originaria questa diventa relazione sociale, relazione umana, relazione incestuosa. Questo è il percorso fantasmatico: Marco Perla diventa, come dice la zia in punto di morte, fantasmaticamente marito e padre.
Ecco un’altra anfibologia, un’altra doppia possibilità, positiva e negativa. Questo è l’infernale, avere il positivo e il negativo sempre davanti, per cui occorre scegliere. E cosa scegliere? Scegliere il positivo o scegliere il negativo? Ecco la questione che la logica binaria pone a ognuno, ossia scegliere per escludere una parte, ovviamente per escludere il negativo, per escludere la parte svantaggiosa, per esercitare la conoscenza sul bene; ma se c’è una cosa che è proprio impossibile è la conoscenza. È impossibile conoscere ciò che è esposto alla differenza e alla variazione.
Dunque, Bebé sa che Marco ha verso di lei un sentimento, cui però non vuole e non sa rispondere. A questo punto cosa può accadere?
Un odio cupo e feroce – diventa una belva, si animalizza, è già un animale anfibologico lei stessa – s’impossessò di lei per il padre sconosciuto che l’aveva messa al mondo e abbandonata senza neppure vederla; che dopo averle dato la vita – è il padre che dà la vita! – le aveva negato ogni diritto di esistere per lui – il padre, dopo averla messa al mondo, perché le nega questo diritto? – solo perché lei senza sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre.
La quadratura del cerchio! È precisissimo. A quel punto, un odio cupo e feroce per il padre che l’aveva messa al mondo e poi abbandonata. Perché l’ha abbandonata? Perché lei, nascendo, aveva ucciso la madre. Il fantasma di abbandono è la base del vittimismo.
Dunque, Bebé ritiene di essere stata abbandonata dal padre per punizione in quanto lei ha ucciso la madre. C’è una doppia fantasia. La prima di avere ucciso la madre. Una fantasia antica quella di nascere senza la madre, la stessa fantasia per cui Atena sorge dalla mente di Zeus. E cosa fa Atena? Atena è dedita a evitare l’incesto, infatti è vergine e non madre. Così la vuole la mitologia, così la vuole il suo destino: vergine e non madre, per evitare l’incesto!
La seconda fantasia è il fantasma di abbandono: “Perché sono venuto al mondo? Che ci faccio io qui al mondo?”. Quante volte abbiamo sentito questo lamento “che ci faccio io al mondo”, sottinteso “dato che sono stato abbandonato, dato che tu mi hai abbandonato, dato che voi mi avete abbandonato?”. È il lamento del vittimista che non sa cosa ci fa al mondo. Intanto crede nel mondo, in questa costruzione fantastica che chiama mondo e anche non sa cosa farci, perché è stato abbandonato. Allora, dato che è stato abbandonato, può abbandonarsi a ogni nefandezza, si abbandona a tutto il negativo possibile e fa il pazzo, il malato, il deficiente, il carente e tutte le rappresentazioni possibili dell’impossibilità, dell’insufficienza, dell’incapacità, rivendicando il suo buon diritto a non essere abbandonato, a essere accudito, a avere una vita facile. Ogni vittimismo procede dal fantasma di abbandono, dunque è il corollario della soggettività e del fantasma di morte.
Questa è veramente una pagina straordinaria che indica da dove la vicenda, fantasmaticamente, prende avvio. Dunque …le aveva negato ogni diritto di esistere per lui – “esistere per lui” ovviamente, quindi anche qui il fantasma di genealogia, d’appartenenza, una relazione diretta – perché lei senza sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre; come se questa non fosse stata una sciagura anche per lei.
Lei è sciagurata, nasce da una sciagura. Qual è l’origine di Bebé? A che cosa può volgersi il suo itinerario? A un’altra sciagura.
E anziché odio e orrore, la sua vista, la vista della figliuola orfana appena nata, non avrebbe dovuto suscitare in lui una maggiore pietà, il sentimento d’un doppio dovere! Quindi è rivendicazione rivolta al padre. Alla sua vista il padre avrebbe provato odio e orrore, quello stesso odio e orrore che adesso lei, a suo modo, restituisce.
Lei viene dall’odio e dall’orrore del padre che l’ha abbandonata e dunque segnata. Crede nella predestinazione, crede nella negatività dell’origine e alla conseguente negatività del destino. Nessuna conquista da fare per chi si culla in questa fantasmatica dove tutto sarebbe dovuto e allora si abbandona, può abbandonarsi, può permettersi tutto, se fare o non fare ciascuna volta. Invece, il padre, vedendola, avrebbe dovuto avvertire il doppio dovere, mentre al contrario era fuggito, era scomparso per orrore di lei. L’orrore è orrore dell’incesto, è orrore della relazione che può diventare sociale, è orrore dell’appartenenza, di una schiavitù sentita come prescritta e come predestinata. È attribuita all’Altro, ma ognuno si affligge e si assegna la schiavitù.
Dunque, il padre era fuggito …sottraendosi a ogni responsabilità per la vita che le aveva dato.
Dare e avere, dare e prendere, dare la vita, prendere la vita, l’anfibologia della madre, le Parche che tessono e tagliano il filo della vita, la madre che dà la vita e che toglie la vita. Debito e credito ontologico, soggettività del debito e del credito. Quindi ora Bebé se la prende con i genitori.
Era fuggito, scomparso […] rovesciando questa responsabilità addosso ai due poveri vecchi, a cui aveva tolto la figlia – cioè sua madre – e ora addosso a uno, che non aveva alcun dovere di assumersela.
Bebé ignorava che anche a costui il padre aveva tolto qualche cosa.
Qui Pirandello è finissimo, con una frasetta messa lì che sembra confermare la realtà dei fatti, dice invece qual è la struttura di questo fantasma. Qual è la struttura del vittimismo? Qual è la struttura che fonda la coppia vittima/carnefice, la coppia vittimista? Perché il vittimismo non si fa da solo, c’è bisogno sia della vittima e sia del carnefice, dell’autore del misfatto. Ora, qual è l’idea? Che qualcuno mi possa dare quel qualcosa di cui ho bisogno! Il vittimismo sta lì, nell’idea che qualcuno possa dare a me ciò di cui ho bisogno e ogni rivendicazione parte da questo. È semplice capire che anche la coppia amante/amato diventa un’accoppiata vittimista. Chi dà all’altro ciò di cui ha bisogno? E in che misura? In modo paritetico, paritario oppure impari, dispari, ineguale? Questa è l’altra faccia dell’abbandono, credere di avere bisogno di qualcosa che può essere dato da un altro.
Pirandello che cosa ci dice? Sembra confermare la ragione di Bebé, che ignorava che anche a Perla il padre aveva tolto qualcosa. Questa è l’idea che sia possibile togliere qualcosa all’Altro, da cui la restrizione, da cui l’alternativa: “Non posso fare questo, perché altrimenti non posso più fare quell’altro. Se faccio questo, non faccio quello! Non posso fare questa cosa, perché altrimenti tolgo qualcosa al marito, ai figli, ai genitori, agli amici, ai compagni, alla mamma, al mondo! O questo o quello, altrimenti rischio di togliere qualcosa all’Altro e così l’Altro mi toglie qualcosa”. Ecco il ricatto, la rivendicazione, il fantasma di abbandono; c’è sempre l’idea del soggetto, della soggettività, di essere soggetto.
Qual è la colpa del padre che Bebé ignora?
Ignorava ch’egli – il padre – aveva lasciato a costui – Marco – il peso della figlia – la figlia come peso, il figlio che pesa, il figlio pesa e quindi toglie qualcosa, il peso della figlia l’aveva lasciato a costui – dopo avergli tolto l’amore della madre.
Gira e rigira questi sono i termini: le rivendicazioni, l’accusa, l’idea di una colpa, l’idea di un torto subito, l’idea d’abbandono, l’idea genealogica, l’idea d’origine macchiata dalla colpa, l’idea della macchia come origine. Da dove vengo? Dalla macchia! Per tanto ogni sciagura è possibile!
Qual è la conclusione della ricognizione che Bebé sembra fare sulla propria vicenda?
Ed ecco, uno adesso la raccoglieva, che di quanto aveva fatto per lei voleva esser pagato e in pagamento esigeva tutta lei stessa, tutta la sua vita che gli apparteneva, poiché colui, quell’altro, gliene aveva lasciato il peso.
Sembra di avere attraversato un’epoca geologica e in effetti è così, perché questi sono i fantasmi dell’epoca, questa è la struttura fantasmatica attorno a cui si svolge l’epoca; l’epoca senza l’analisi, senza il ragionamento che segue all’analisi, l’epoca senza parola, l’epoca in cui le cose sono segnate dalla demonizzazione ontologica, dove le cose “sono così”. L’epoca senza racconto, senza narrazione, senza conversazione, senza analisi.
Se noi leggessimo senza analisi questo racconto, potremo credere a tutti i torti qui rappresentati e che, effettivamente, questa è la realtà dei fatti perché è andata proprio così, mentre dal racconto sono evidenti le fantasie, nella fattispecie di Ebe ma non solo le sue. Perché sono le fantasie che ognuno esibisce a piene mani, senza risparmio, rispetto a sé e rispetto all’Altro e che sono le fantasie dell’epoca.
La novella prosegue, ma per questa sera ci fermiamo qui, perché c’è materiale che esige analisi.
Magari c’è qualche domanda, qualche chiarimento che urge attorno a quanto abbiamo letto.
C.M. Come relazione sociale c’è l’ultima frase che ha detto: “Ti ho tolto dalla strada”.
R.C. Brava. La relazione sociale comporta la scelta con l’anfibologia e questo dà l’idea di padronanza sul tempo. Pone l’idea dell’intolleranza verso la rappresentazione come spettacolo della sessualità. Lo spettacolo deve essere decente. Prescrizione al corretto uso della sessualità.
C.M. È un’idea differente che mi era venuta intorno all’inizio della lettura di questo testo. Corrado Tranzi, il personaggio che appare per primo, non c’è più, non c’è una storia che lo precede, non dice da dove viene, se ha i genitori.
Sabrina Resoli C’è una frase interessante, quando Bebé dice che odia suo padre perché le ha negato di esistere per lui. Quindi, ho pensato al fantasma di riconoscimento connesso al vittimismo, di chi attende da altri il riconoscimento.
R.C. Deve vendicarsi, è destinata a vendicarsi per amore, per ribadire quell’amore che non è stato riconosciuto. Lei lo avrebbe amato, mentre lui le ha negato di potere dedicarsi tutta a lui.
Veronica Anche l’odio è un sentimento. Tutto gira sempre attorno ai ricordi, quindi è il vittimismo dei ricordi.
R.C. Esatto.
V. Lei si è fermato così sull’odio, ma l’odio è un sentimento. L’indifferenza uccide.
R.C. L’odio transitivo apparentemente uccide. Ma la struttura dell’odio è impersonale, è intransitivo, come l’amore. L’odio è essenziale come l’amore, ma non è un sentimento! Il passo da fare è di dissipare l’idea che l’odio e l’amore siano sentimenti. Sono sentimenti nella situazione di Bebé. Bebé li ha trasformati in sentimenti, cioè in rivendicazione. Ma lo statuto originario dell’odio e dell’amore non è sentimentale, non è nemmeno personale, non è soggettivo. Fino a che vengono considerati sentimenti, possono essere gestiti, padroneggiati: “Io ti odio, tu mi odi, io ti amo, non ti amo, ti amerò sempre”. Cose facili da dire! Ma dove stanno l’amore e l’odio?
Sentimenti, lei dice, come la tristezza o la noia. Sarebbero tutti sentimenti, cioè vanno, vengono… “Oggi ce l’ho, domani chissà”. No! Lei non può odiare e non può nemmeno amare. L’amore è essenziale, ma non è che uno se ne accorge. L’amore è essenziale proprio quanto al modo della vivenza.
V. L’amore è un bisogno.
R.C. Bisogno è un termine interessante, però ha avuto una pubblicità ideologica per tanti anni, sempre puntando a fare stabilire da qualcuno quali sono i bisogni reali di qualcun altro. Negli anni Sessanta e Settanta il dibattito verteva sui bisogni reali delle masse, poi sui reali bisogni dei giovani, poi sui reali bisogni delle donne, adesso su quali sono i reali bisogni degli omosessuali. Il bisogno non è nemmeno lo stato di bisogno. Il bisogno non è in relazione a qualcosa che manca. Curioso, no?
Pubblico È importante il bisogno di amare o di sentirsi amati?
R.C. È proprio il tema della settimana prossima, proseguendo la lettura, quello dell’importanza del bisogno di amare o di sentirsi amati.
L’abbandono (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Il 5 novembre, alle 20.45, nella Sala Anziani di Palazzo Moroni si svolgerà il dibattito con Ruggero Guarini dal titolo Il giornalismo, la satira, la politica, in presentazione del suo libro Fisimario 2008. Letture immaginarie edito da Spirali. Ruggero Guarini è giornalista, scrittore, personaggio poco televisivo ma assolutamente interessante. Ha collaborato con i più importanti quotidiani, ha diretto a lungo le pagine culturali del “Messaggero” di Roma, collabora con varie agenzie di stampa e in questo libro pubblica alcune lettere immaginarie che personaggi dell’antichità, da Platone, a Hegel, a Hitler scrivono a personaggi attuali della politica, della cultura, del costume e in cui espone le proprie notazioni. È un bel libro scritto con stile giornalistico, che illustra in modo molto preciso vari aspetti di quello che succede, che spesso non vengono sottolineati. È un libro che vi segnalo; lo trovate sicuramente in libreria e anche la sera stessa in Sala Anziani.
Ci sono domande, notazioni rispetto alla novella Superior stabat lupus che abbiamo letto e ascoltato la settimana scorsa? C’è qualcosa che ha suggerito un ragionamento o una curiosità?
Pubblico Lei come inserisce Pirandello nel contesto cifrematico? Lo ritiene funzionale oppure…
R.C. Funzionale? No, pretestuale. Non è che debba essere inserito nella cifrematica, così come nessun autore può essere inserito da qualche parte, però diciamo che il suo testo è interessante e, come altri testi, ci fornisce spunti per indagare su varie questioni. Non è che tutto quello che ha scritto Pirandello possa essere considerato omogeneo, ma noi ci siamo imbattuti, leggendo, in alcune sue opere e abbiamo riscontrato…
Pubblico Non conoscevo le Novelle, solo le opere teatrali, ma sono veramente interessanti.
R.C. Sì, occorre dire che Pirandello compie una certa elaborazione intorno a tante cose e scrive di varie faccende e vicende, anche perché non crede nella rappresentazione dei fatti. Nelle sue opere presenta, in molti casi, varie angolature della stessa questione, in modo che la “stessa” questione non è più tale, ma non perché è vista da destra, da sinistra, da sopra o da sotto, ma proprio perché non è vista, cioè non c’è la visione. Quello che risalta in molte sue opere è che non c’è una visione delle cose, ma c’è il racconto, c’è lo svolgimento e questo differisce a mano a mano che le cose entrano nel racconto.
Pubblico Non c’è una presa di posizione.
R.C. Esatto. C’è la posizione dei vari elementi, delle varie cose, ma non c’è modo di prendere posizione. A mano a mano che le cose entrano nel racconto svolgono varie fantasie. Per noi è interessante la constatazione che non c’è il fatto. Il fatto giudiziario non esiste, è una rappresentazione e, non a caso, ciò emerge dal testo di Pirandello, che era uno che frequentava proprio le aule dei tribunali. Molte delle vicende che traspone nelle sue opere sono rielaborazioni di vicende processuali che lui ascoltava nelle aule dei tribunali. Di questi processi, che si svolgevano con una metodologia giudiziaria, inquisitoriale, ci restituisce tutt’altro dall’inquisizione, tutt’altro dal modo giudiziario: ci restituisce racconti, vicende che risultano una proposta per la clinica.
Cosa vuole dire “per la clinica”? Non essere definiti con delle etichette, ma cogliere una traiettoria verso lo specifico che quel dettaglio propone e che non può essere sommato a altri. C’è una specificità che risalta, e è proprio su ciò che si basa la clinica. La questione psicanalitica, cifrematica, verte non sulla riconduzione a un elenco di etichette, ma sull’indicazione verso qualcosa di specifico che riguarda quella piega, la piega di quel dettaglio.
Clinica, dal greco clinein, piegare, è l’arte della piega, riuscire a individuare la piega di un caso, di un dettaglio. Questo importa, questo è il modo della clinica. Non ci interessa fare l’analisi di Pirandello per inserirlo in un qualsivoglia contesto e tanto meno dargli un’etichetta, ma leggiamo il suo testo perché presenta molte sfumature e molti pretesti per ragionare.
Ci sono altre domande per indicare a che punto ci troviamo nella lettura di questa novella? Lei c’era l’altra volta? Ah, non c’era, mi pareva infatti. Quindi lei ha perso una parte importante della novella, ma l’ha letta per conto suo? C’è chi ha qualche elemento per dire a che punto ci troviamo nella lettura della novella? Nessuno osa? Nessuno ha letto la novella? Nessuno ritiene sia il caso di fare una panoramica? Nemmeno Maddalena? Si ricorda a che punto siamo e cos’è accaduto nella puntata precedente?
La fiaba inizia, come quasi ogni fiaba, con qualcuno che muore e da questo “deriva che”. Avete presente la fiaba del Gatto con gli stivali? Muore il mugnaio e da questo incomincia la fiaba e così tante altre. Qui, per esempio, muore una signora e prima di morire viene visitata da un medico, il quale, arrivato per curarla, invece s’innamora della fanciulla. Quale fanciulla? Ebe, che viveva con i genitori.
Pubblico Lei ha dimenticato un passaggio,
però: manca la parte iniziale dove Corrado Tranzi detestava le donne.
R.C. Adesso non possiamo ripetere tutto quanto. Corrado Tranzi disprezza le donne, questo è proprio l’avvio della fiaba. Corrado Tranzi, in breve, sposa la ragazza che dopo un anno ha una bambina, ma muore di parto e Corrado Tranzi, appena lo sa, fugge. La bambina cresce con i nonni e con il cugino Marco il quale, essendo innamorato della mamma di Bebè, poi s’innamora anche di lei. Non è altrettanto per Bebè. Bebè non è innamorata del cugino, però la nonna dice che deve sposarlo perché lui ha fatto tanto per lei. Dinanzi a questo annuncio, Bebè pone delle questioni e ritiene praticamente che lei ha ucciso la mamma e ha fatto fuggire il papà. Lei è responsabile di questi misfatti e, al contempo, è vittima del fatto che, essendosene il papà andato, l’ha lasciata in balia di questi avvenimenti. Quindi è un turbinio di pensieri.
Pubblico Si considera responsabile.
R.C. Dice ripetutamente che ha ucciso la mamma, così dice il testo.
Pubblico Lo dice lei che ha ucciso la mamma?
R.C. Così dice il testo in un primo momento: Senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre. È un primo riferimento all’idea di avere ucciso la madre. Poi c’è un secondo riferimento più esplicito: Solo perché lei, senza sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre, e questo è proprio il suo pensiero. C’è l’idea di avere ucciso la madre nascendo e di essere stata abbandonata dal padre. Ha questi pensieri che non sono così strani, come vedremo.
Per la violenza di questi pensieri e di questi sentimenti, Bebè affogata di tristezza, con lo spirito sconvolto dalla iniquità della sua sorte, quindi ha una sorte iniqua, ammalò subito e così gravemente, che per parecchi giorni fu in pericolo di vita. Già qui c’è un aspetto interessante: Bebè si ammala per la violenza dei pensieri. È già un modo di annunciare – e sì che Pirandello non era medico, ma tuttavia coglie questo aspetto molto interessante – che la salute dipende dal dispositivo immunitario, cioè dal dispositivo intellettuale. Abbiamo avuto notizie in molti casi di persone che, magari accusate ingiustamente di qualcosa o condannate ingiustamente per qualcosa, si ammalano, oppure, a fronte di una cattiva notizia, tizio si ammala, c’è un cedimento, qualcosa cede in quello che riguarda la salute, e così capita a Bebè, affogata di tristezza.
Lottarono a lungo e senza tregua la sua volontà di morire e l’amore di Marco Perla, che le si espandeva attorno, vigile, fervido a trattenerla, a sostenerla, con insistenti, ininterrotte premure, pronto sempre a dare il proprio alito per ogni respiro che ella non volesse più trarre, e la propria vita per nutrire quell’atroce volontà di morte.
Qui Pirandello accentua la questione della “volontà di morire”, ma nessuno vuole morire! Ci può essere l’idea di morte, l’idea di cedimento, ma nessuno vuole morire. Per intenderlo basta parlare con i così detti malati terminali o in persone in cui risalta che c’è una certa prossimità alla fine: ebbene, non c’è nessuna volontà di morire. Nessuno vuole morire, nemmeno chi tenta il suicidio vuole morire.
Pubblico Da cosa si evince che nessuno vuole morire, perché sembra a prima vista molto strano.
R.C. Qui si apre un capitolo piuttosto ampio, che riguarda il fantasma di assassinio più che il fantasma di morte. Occorre considerare che il suicidio è un modo dell’omicidio, è un modo di negare l’Altro assumendo il posto dell’Altro. È una questione abbastanza complessa, però il suicidio è un modo di portare a compimento un fantasma di assassinio, e solamente in una certa struttura di discorso questo può essere portato fino al suo gesto estremo, altrimenti si tratta per lo più di promuovere una prova d’amore.
Sono rari i suicidi che vengono attuati con lo scopo effettivo di farla finita, sono rari e rientrano nella mitologia della sparizione, che è una fantasmatica specifica propria a un certo discorso. Negli altri casi c’è una variegatura di questioni, ma si tratta sempre d’inscenare un’idea di vittimismo che abbia lo scopo di sollecitare l’attenzione e l’amore verso chi compie il gesto. Si tratta sempre e comunque di un’idea di vittimismo che viene posta innanzi, e vediamo che siamo nella questione.
Pubblico Il vittimismo è incapace di partorire la morte?
R.C. Esatto. Occorre tenere conto che l’idea non è la volontà. Idea e volontà sono due questioni tra loro distinte!
Pubblico Distinte d’accordo, ma non è che dall’idea necessariamente procede poi l’azione?
R.C. Ecco, questa è un’idea!
Pubblico Certo.
R.C. Secondo quest’idea, all’idea segue l’azione. Non è così! L’idea opera perché qualcosa si scriva. L’idea opera sempre in direzione della vita, non della morte. L’idea opera perché qualcosa si scriva in direzione della qualità, quindi l’idea opera anche per la salute.
Se noi teniamo conto di questo, allora cominciamo a distinguere tra l’idea e ciò che qualcuno può asserire come sua volontà. “Voglio morire!”, è una bella frase a effetto, ma non è l’idea. “Voglio morire” è un enunciato. Qual è l’idea di questo enunciato? Non è necessariamente l’idea di morire! Qui sta la questione dell’analisi e della clinica che, in un’enunciazione di questo tipo, distingue l’idea che opera da ciò che viene addotto come significato.
L’ascolto consente di distinguere questi due registri e di non prendere in maniera realistica la minaccia. Sta qui un aspetto della questione intellettuale. La questione dell’ascolto è esattamente in questa faglia tra l’idea e ciò che è addotto come volontà.
Lottarono a lungo e senza tregua la sua volontà di morire e l’amore di Marco Perla…
potremmo anche dire “lottarono a lungo la sua volontà di morire e la sua idea”. Diciamo che una questione d’amore c’è, occorre poi verificare come si svolge.
…e alla fine vinse l’amore. Ora sarebbe bello se questa frase fosse terminata lì, invece Pirandello aggiunge “di lui”! Alla fine vinse l’amore di lui.
In questa rappresentazione di lotta tra la volontà di morire e l’amore di lui, vinse l’amore di lui. In realtà, la questione è che vinse l’amore, ma lo capiremo più avanti:
…ed ella nel languido intenerimento e nell’abbandono della convalescenza, per gratitudine e per pietà, alla fine cedette e s’indusse a sposarlo.
Questa sembra una cosa messa lì interlocutoriamente, ma è un brano in effetti ricchissimo: c’è la materia dell’abbandono, l’abbandono transitivo, e del cedimento. Il vittimismo è cedere all’idea che c’è la colpa, la responsabilità, che c’è il carnefice. L’abbandono transitivo è l’abbandono della vittima alla negatività, abbandonarsi alla negatività, è il cedimento! E s’indusse a sposarlo, come dire lei non lo sposa, ma cede, cede e lo sposa. È ben differente dire: “Mi sposo, la sposo, lo sposo”, oppure: “Devo sposarmi, cedo e mi sposo”! Cioè, io non sono responsabile di questo gesto, ne sono vittima e in quanto vittima compio questo gesto. Quindi, il vittimismo c’è già e il gesto è il frutto dello statuto di vittima.
Ogni gesto improntato alla negatività si compie in una connotazione vittimistica. Bebè compie questo gesto per quanto abbiamo potuto apprendere prima: orfana, senza padre, senza madre, aveva ucciso la madre, era stata abbandonata dal padre, e tutto ciò giustificherebbe la negatività cui si abbandona. Ma ogni giustificazione è la giustificazione della vittima. Chi si giustifica è già vittima. Giustificarsi è già l’indice del vittimismo, è già indice che non c’è la lotta per svolgere il cammino in direzione del compimento e lo sbarramento non è dato dalla difficoltà, ma la difficoltà è già una giustificazione. Quando uno dice: “Ma purtroppo non è facile fare questo, anzi è difficile, questa cosa è troppo difficile, quindi non posso farla”, è già vittimismo. Cosa vuole dire facile o difficile? Difficile rispetto a cosa? Rispetto a me? Rispetto all’idea che io ho di me? Certo, ma l’idea che io ho di me è già un’idea vittimista. Ognuno può pensarsi solamente in quanto vittima, altrimenti è impossibile pensarsi, perché c’è da fare, ciascuno ha da fare, ha da fare quel che occorre fare per la sua vita, per il suo itinerario, per il suo compito. L’unico modo di frapporsi a questo fare, a questo compito, è quello di pensarsi: pensarsi inadeguato, debole, incapace, vittima. Pensarsi è già pensarsi vittima.
Pubblico E chi si pensa vincitore?
R.C. Chi si pensa vincitore è vittima, è vittima della vittoria, cioè, è già vittima di una scena che finisce. Come posso pensarmi vincitore se non ammettendo che il tempo finisca? “Ho vinto”, ma allora il tempo finisce lì! Ho vinto cosa? La vittoria è un elemento sintattico, cioè è qualcosa che esige il proseguimento, non è l’elemento conclusivo di qualcosa. La vittoria è un elemento sintattico nel cammino che esige il proseguimento, è vittoria che non è mai definitiva, è vittoria in un dettaglio, in un frangente. Ma l’idea “ho vinto, sono il vincitore” è un’idea problematica, è già un’idea di fine e, come tale, è già un’idea vittimista. Non basta suddividere positivo e negativo per dire che qui c’è la vittima e qui no, che il negativo è vittimista e il positivo invece no.
Pubblico Mi pare da quello che lei dice, che in realtà uno possa non pensarsi vittima, anche se poi di fatto lo è. Forse non ci si pensa, ma ci si crede vincitori.
R.C. Certo, conta l’idea. Il pensarsi vincitori, questa sorta di esigenza di pensarsi, di pensare a sé, quindi di rappresentarsi, è già un modo di contenersi, di porre un’idea di fine, ossia è un tentativo di fare coincidere l’idea di sé con l’essere. Il vittimismo punta a questo, cioè a potere compiere questa sorta di sovrapposizione, e pensarsi è il modo di dare per avvenuta questa sovrapposizione.
Pubblico Insomma, per non fare le vittime dobbiamo accuratamente cercare di non pensarci.
R.C. È impossibile evitare alcunché.
Pubblico Siamo messi un po’ maluccio, mi sembra…
R.C. No, anzi! Perché quello che importa non è evitare. Non si tratta né di prescrivere né di vietare, che sono due modi di costringersi a ciò che si vuole evitare o prescrivere. La questione è l’occorrenza: cosa è necessario fare in questa circostanza? La questione è quella del progetto e del programma, quindi del modo del tempo, si tratta dell’analisi e del modo del tempo.
Pensarsi è una sospensione dell’analisi e del modo del tempo, perché pensarsi è un modo di “fermare il tempo”. Pensarsi è un modo per dire “io sono così” ma, se io sono così, il tempo è barrato. Il tempo è ciò che impedisce di dire “io sono così”, perché è impossibile abitare il tempo, in quanto il tempo è il taglio in atto. La questione del tempo è la questione del divenire, dell’avvenire, dell’evento, non dell’essere! Il tempo non ha bisogno di nulla, non è soggetto a questo o a quello. Il tempo non dipende da altre cose, il tempo è taglio, ciò che interviene a marcare la differenza parlando, facendo. È questo il tempo, non la durata di qualcosa che è la sua rappresentazione spaziale. Il tempo è impensabile. È impossibile pensare al tempo, alla divisione. Uno può anche provare, ma non può riuscirci perché è impossibile pensare al tempo. Contro questa impossibilità gli umani si pensano: “Vedi, io sono più forte del tempo, mi penso e, pensandomi, il tempo è sconfitto perché l’ho tolto di mezzo”.
Se mi penso, il tempo è abolito e allora le cose sono difficili, sono impossibili, intervengono in un’anfibologia, in una possibile divisione fra il bene e il male, fra il fattibile e il non fattibile. Pensarsi è un modo per sospendere l’analisi. Si pensa chi è nella paralisi. Basta pensarsi; pensandosi, il tempo è sbaragliato. Effettivamente, Cartesio non aveva torto: mi penso e quindi entro in una ontologia; così sono in un contesto che non è più un contesto operativo, pragmatico e che va in direzione dell’avvenire, ma sono in un contesto che riguarda una circolarità tra l’origine e il destino.
Pensarsi è farsi segno dell’origine e far sì che questo segno diriga anche il destino. Qui entriamo nella questione che riguarda il mimetismo, che è più noto con il nome di ereditarietà, ma ne parleremo in un altro momento.
Quindi, Bebè ha un cedimento, ma che non è il cedimento di sposarlo! Apparentemente il cedimento è questo, ma in realtà è di essersi pensata e di rappresentarsi come vittima, di rappresentarsi vittima della sua origine, nata senza padre, uccidendo la madre! Questo è il vittimismo di Bebè, la quale dunque guarisce.
Guarita, già donna, mirandosi il corpo fiorente, le carni ancor quasi acerbe e già offese e condannate a rimanere per sempre ignare d’ogni gioja d’amore.
È un quadro che più fosco non si può. Bebè è senza l’avvenire? Si pensa, e come si pensa? Senza avvenire. E così, pensandosi:
…non poté sottrarsi alla riflessione che la misera, magra bruttezza di lui, già quasi vecchio, dava un valore inestimabile a quel suo corpo, e che perciò il pagamento che di esso egli aveva voluto farsi, rappresentava quasi un patto d’usura, solo in parte mitigato dall’adorazione di cui la circondava.
Sarebbe stata quest’adorazione, simile in tutto a quella dell’avaro per il suo tesoro, se egli non si fosse poi dimostrato tanto ingordo di lei; oh sì, come se su lei volesse saziare una lunghissima fame, di cui ella sentiva orrore, ripensando ai baci che le aveva dato da bambina.
Origine e destino, la circolarità, vittima dell’origine, vittima del destino. Emerge qui l’idea del pagamento di un debito: lei lo sposa per pagare il suo debito. E come viene pagato il debito? Viene pagato con la carne:
…le carni ancor quasi acerbe e già offese e condannate a rimanere per sempre ignare…
Sembra quasi la riedizione di Shakespeare nel Mercante di Venezia.
Mentre Bebè è presa da questi pensieri foschi e torvi, il marito lavora, lavora sempre di più per assicurare condizioni economiche migliori, perché attualmente le condizioni finanziarie non sono laute e cosa succede? Decide di partecipare a un concorso a Roma, vince e deve trasferirsi a Roma per un corso di perfezionamento. Quindi, si comincia a preparare il trasloco, le varie cose vengono messe in ordine, chiuse nelle casse e mentre rimette in ordine la casa, cosa trova Bebè in una cassetta? Trova le lettere di quel ragazzo di cui si era innamorata e che aveva dovuto partire per Roma per perfezionarsi nell’arte della pittura, lettere che mai le erano giunte a destinazione, perché la nonna le aveva requisite. Ebbene sono lì, custodite in una cassettina.
A questa scoperta, Bebè sentì strapparsi le viscere e il cuore. Allibì dapprima, poi l’ira, lo sdegno le fecero un tale impeto nello spirito ch’ella, con le mani tra i capelli e gli occhi sbarrati e ferocemente fissi, si vide quasi impazzita nello specchio di quello stipetto.
Quindi, Bebè si vede quasi impazzita. Prima si pensa e poi si vede, c’è una rappresentazione insistente che Bebè ha di sé.
Come, con quelle lettere sottratte, aveva potuto la nonna assicurarla che quel giovine, appena arrivato a Roma, s’era dimenticato di lei? Quelle lettere riboccavano di passione, gridavano e piangevano e scongiuravano. Ed ella aveva creduto alla nonna! E quel giovine aveva potuto pensar di lei tutto il male che ella aveva pensato di lui! Ma sì, ecco, nell’ultima lettera disperata, la dichiarava indegna del suo amore, e fatua e spergiura e civetta e senza cuore.
Ah, che infamia! che infamia! Si erano dunque messi d’accordo la nonna e Marco; d’accordo avevano commesso un tradimento così vile? Ma già! Non doveva pagare? Non doveva pagare? Il sacrifizio della sua persona non bastava; anche con il sacrifizio di quell’amore doveva pagare le cure, il mantenimento che le avevano dato.
Questa è la rappresentazione di Bebè: ha ricevuto la vita, ha ricevuto il mantenimento, ora deve pagare; quel che le sta accadendo è il pagamento di quel che ha ricevuto. Cioè, Bebè ritiene di potere pareggiare i conti, questo è il punto. Bebè ritiene che ci sia un atto tale per cui possa pareggiare i conti, ha ricevuto e ora deve espiare e espiando pareggia i conti.
Ma a Roma – ah! a Roma, adesso, si sarebbe vendicata. Ecco come pareggiare i conti: la vendetta! Il modo più comune di ritenere che si possano pareggiare i conti, fare pari, è la vendetta.
Avrebbe rintracciato quell’altro, a ogni costo. Anche a costo di perdersi si sarebbe vendicata.
Dunque, importa non tanto il valore di quello che fa, ma importa la vendetta. Ma per chi può porsi la rappresentazione in cui non conta quel che si fa, ma la vendetta? Per chi si crede vittima.
Vediamo intanto se ci sono domande intorno a quanto abbiamo detto questa sera, perché la cosa prosegue, però, per andare avanti bisogna capire che lo svolgimento della novella non è lo svolgimento dei fatti. Non c’è nessun fatto! Per apprezzare veramente questo testo occorre procedere da questo: non ci sono fatti! È questa la coerenza che collega lo svolgimento della vicenda e che indica il valore del testo. Non è unicamente un testo di fantasia, c’è una coerenza logica straordinaria.
Cecilia Maurantonio C’è anche l’elemento della conoscenza, perché Bebè quando viene a sapere dalla nonna in punto di morte, e le racconta…
R.C. Questo non l’abbiamo letto adesso.
C.M. Come no?
R.C. La nonna in punto di morte era prima.
C.M. Lì interviene un’idea di tempo come durata. Bebè diviene vittima conoscendo, per un pensiero retroattivo, e pensa di giustificare e di pareggiare con la vendetta.
R.C. Quindi, qual è la domanda?
C.M. Quindi, c’è il sapere che va avanti e indietro, e il sapere la rende vittima o c’è la probabile soddisfazione del pareggiamento con la vendetta. C’è questa sua apparente capacità che determina il fatto, pensando a ciò che era avvenuto, ma che lei non aveva vissuto, dei baci di bambina e…
R.C. Non ci sono baci. Non c’è nessun fatto.
C.M. Appunto, è quello che sto dicendo.
R.C. La questione che lei solleva è importante, perché pensarsi non comporta conoscersi. Pensarsi non comporta conoscersi e conoscersi è impossibile.
Maria Antonietta Viero L’espiazione è l’espiazione di una colpa. Qual è la colpa che avrebbe innescato il debito? Perché, se l’espiazione è il modo della vendetta per pareggiare i conti, c’è una colpa che non ha nome, per così dire.
R.C. Certo, la questione della vendetta presuppone la colpa e la pena. La vendetta è l’amministrazione personale della colpa e della pena. Come gestire la colpa e la pena? Con la vendetta!
M.A.V. Questa colpa sembrerebbe essere uguale a ciò che ha ricevuto. E ciò che ha ricevuto è la colpa che deve espiare.
R.C. No, la colpa è stata commessa.
M.A.V. Ma in che modo viene assunta la colpa? Se è stata commessa, come viene assunta e pensata e fatta propria per pareggiare i conti?
R.C. L’idea di colpa è la stessa idea d’origine. E non è una questione così straordinaria. Aristotele dice che noi siamo tutti mortali, mentre la Bibbia dice che noi siamo tutti morti, nasciamo morti perché nasciamo macchiati e possiamo solo salvarci! Avete mai sentito parlare del peccato originale? Ognuno nasce macchiato, ognuno nasce colpevole. E ognuno questa colpa, questa macchia, se la può rappresentare in svariati modi.
Pubblico Ma c’è questa macchia, è un fatto per chi ci crede.
R.C. Per chi ci crede è un fatto! Senza analisi diventa un fatto. Ecco, allora, che la credenza nella colpa avvia il sistema della colpa e della pena, dunque il sistema della vendetta. Per chi ci crede c’è una coerenza assoluta. Però, come notavo prima, non basta dire “voglio morire” perché ci sia l’idea di morire; così noi potremmo anche dire che non basta dire “non ci credo, io non la sento”, per scongiurare l’ipotesi che quest’idea agisca. Non lo sappiamo, non è così scontato.
Pubblico Ma questo solo se non ci sono i fatti! Lei si sente di respingere l’idea dell’assenza del fatto? Lei crede che il padre fuggito in America non sia un fatto? Che la ragazza abbia sposato poi lo zio non sia un fatto? Indipendentemente da come ciascuno lo vive.
R.C. Certamente, altrimenti non avrebbe scritto una novella.
Pubblico Perché è interessante come ciascuno lo vive, ma questo non vuole dire che il fatto non esista, che non sia stato celebrato il matrimonio. È un modo soggettivo d’interpretare il fatto.
R.C. Lei sta convertendo il fatto nell’evento. Invece, l’evento non è l’altro nome del fatto. Qualcosa giunge all’evento proprio in quanto non c’è fatto. L’evento è il compimento di qualcosa, cioè come la qualità si scrive. Non è il fatto. L’evento si attua sulla dissipazione del fatto, dell’idea del fatto e della fattualità.
Pubblico Non sono in grado di distinguere il fatto dall’evento. Ci sono tante differenze sfuggenti. Quello che io riesco a capire è che ci può essere una differenza tra ciò che può essere considerato lo stesso evento. Ciò che accade ciascuno lo vive a modo suo, nella relatività del modo di viverlo, chiamiamolo fatto o evento.
R.C. È un’ipotesi che mi sentirei di dire un po’ riduttiva, perché “ciascuno a suo modo” non vuole dire che tutto è relativo, cioè non è un modo del relativismo, anzi, è un modo che marca la questione dell’assoluto! Questa formula, se vogliamo, è indicativa della logica, non del soggetto. Se noi traduciamo “ciascuno a suo modo” nella libera soggettività di viverla e sentirla, noi facciamo una traduzione soggettivistica dove si tratta del soggetto che vive a suo modo. Se facciamo un passo in più, senza soggetto, quindi cogliendo la particolarità e la struttura di quel che accade, allora possiamo cogliere l’evento. L’evento è senza soggetto, per questo non è un fatto. Nel momento in cui viene soggettivizzato diventa un fatto. Non abbiamo questa necessità di soggettivarci, cioè di trovare il soggetto a fondamento di quel che accade. Non è una questione percettiva è una questione narrativa, è una questione di avvenimento, di divenire, di evento, non di soggettività. La soggettività che qui ci viene narrata è quella che produce la vendetta, la colpa e la pena: questa è la soggettività! Ma neanche questo giunge a diventare fatto, non è necessario.
Pubblico La vendetta non è un fatto?
R.C. Se la vendetta giunge al punto di effettuarsi, siamo in assenza totale d’analisi, siamo in presenza della soggettività e allora può darsi che lì ci sia un fatto. Ma noi leggiamo non per consacrare il fatto, bensì per cogliere la logica e la struttura narrativa per cui non c’è il fatto. Per esempio, prendiamo il testo di una fantasia, il testo di un sogno. C’è una struttura narrativa, ci sono nomi, significanti, immagini, scene per cui sembra che accada un fatto, ma non è accaduto.
Pubblico È immaginato.
R.C. Sì, e logicamente è uguale! Nel senso che, parlando e facendo, la struttura è onirica.
Pubblico. Dove lo trova lei questo assoluto dell’onirico?
R.C. Nella parola.
Pubblico Io non ci credo alla virtù magica della parola.
R.C. Infatti, non è magia, è parola. Occorre avere l’umiltà d’indagare la parola. L’indagine sulla parola non è l’indagine sul discorso, non è l’indagine sulla filosofia, sulla sociologia, sulla psicologia; è un’altra cosa. L’indagine disciplinare è un’indagine che pone al suo fondamento il soggetto e tutto ciò che può consentire al soggetto di esercitare la sua padronanza. Per ciò la logica della disciplinarizzazione è binaria, perché sembra consentire l’esercizio della scelta. Ma l’onirico esige un’altra logica che non è più binaria, è singolare-triale e non consente più di esercitare una scelta alternativa o esclusiva, perché non c’è più da scegliere tra due, ma c’è la molteplicità, dove nulla resta escluso.
È un’altra scena, un altro panorama, un’altra materia: è la parola che non conosciamo! Questo è il terreno della nostra ricerca. Quando diciamo analisi, è analisi che procede dalla constatazione della particolarità della parola che mette in questione la soggettività, il soggetto, non per magia, ma perché riguarda il modo del due, il modo del tre, il modo del tempo. Allora, da quest’integrazione, la parola.
È chiaro che può intervenire uno smarrimento: “Ma allora non ci raccapezziamo più, non abbiamo più un fondamento a cui aggrapparci”. Certo, è per questo che è sorta la filosofia, è per questo che sono sorte le discipline, per dare un fondamento, per consentire il governo delle cose. Però la parola è un’altra cosa.
Pubblico Ha un significato la parola o è una cosa puramente sintattica? […] La parola che ci scambiamo tra di noi?
R.C. Ebbene sì.
Pubblico. Adesso c’è la proliferazione delle logiche, anche nel campo delle logiche matematiche.
R.C. Quello che conta è l’esperienza della parola, fare l’esperienza della parola.
Pubblico L’esperienza è qualcosa di soggettivo, sembra che anche gli esperimenti scientifici non riescano a esulare da questa soggettività.
R.C. Sì, questa resta una scommessa, è la scommessa. Noi la chiamiamo la scommessa intellettuale perché non pone la conoscenza di un limite. Lei sa che ogni consesso umanistico, scientifico, consente di dire: “Noi sappiamo che”. Come “noi sappiamo”? Ecco, con la parola, noi non sappiamo già, però si produce sapere, c’è produzione di sapere. Noi non sappiamo già, ma c’è sapere effettuale che ci sorprende talvolta e questo è il bello dell’esperienza della parola. C’è produzione di sapere e di senso, effetti di verità, cioè non ci sono verità già date, ma c’è effetto di verità e questo è lo straordinario della cosa.
M.A.V. Riflettevo sul “richiamo al programma”. Ritengo che è il pensarsi che, sospendendo il tempo, avvia la rappresentazione. Perché, se ci fosse il fatto, questo non raccoglierebbe nessun racconto e non ci sarebbe modo di parlare. Non ci sarebbe modo, per così dire, di accedere al racconto. Il passo mi sembra che sia l’attenersi o l’enunciare il programma che, facendo, scioglie la fantasmatica, attraversa la fantasmatica, attraversa questo “non fatto”.
Già il pensarsi, in ogni caso, ha esigenza della parola nella sua descrizione rappresentativa. Se accedesse al fatto, il fatto non coglie la parola, il fatto non ha bisogno della parola. Se c’è parola è perché del fatto non c’è fatto. Ciascuno si coglie nel tempo in cui si trova nella sua indagine, nella sua ricerca, nella sua vita, nel suo modo. Altrimenti avremmo il fatto consacrato e non avremmo accesso alla parola. Quindi, pensavo che il passo successivo è l’esigenza, parlando, del programma, perché solo attenendosi al programma e ai suoi appuntamenti c’è modo, facendo, di non accedere al fatto, di non consentire al fatto d’attuarsi nella sua rappresentazione estrema.
R.C. Ma non c’è da evitare nulla, neanche il fatto.
M.A.V. Ma non era in questo senso, dicevo che se il fatto esistesse in quanto tale…
R.C. Ma non esiste.
M.A.V. Appunto, non ci sarebbe parola.
R.C. La constatazione che c’è l’esigenza di parola indica anche l’esigenza dell’ascolto, dell’intendimento, di capire, perché non sappiamo già. Capire è un seguito della complessità e occorre giungere a constatare la complessità per capire, perché fino a che si pensa e si crede che le cose “sono”, cosa c’è da capire? Non c’è nulla da capire, ma già il “come” dissipa l’ontologia.
Pubblico Le cose sono, ma poi c’è il problema di come sono.
M.A.V. C’è un’ulteriore cosa che mi veniva in mente. L’esigenza di parola attua ciò che non è ancora avvenuto, ciò che non è mai stato, l’esigenza di parola indica che il tempo la fa da padrone per così dire.
R.C. Neanche il tempo è padrone perché, se c’è padrone, c’è sempre chi si dà come schiavo.
M.A.V. Con il tempo…
R.C. Neanche il tempo è padrone, nessuno è schiavo del tempo.
M.A.V. Non era in questo senso, è che l’esigenza di parola avvia…
R.C. Non voleva essere in questo senso, ma talvolta la volontà s’incrina nel lapsus.
C.M. C’è solo l’evento.
R.C. Non c’è la padella o le braci. Abbiamo appena detto che ciascuna cosa esige l’integrazione. C’è la complessità. Lei dice che c’è solo l’evento. No! Le cose sono tante, innumerevoli, le pare che ci sia solo quello?
C.M. Rispetto all’idea del fatto. Era perché uno che pensa…
R.C. Non c’è l’uno che pensa se c’è analisi. Però, per capire come ciò avvenga bisogna proseguire la lettura della novella, che noi speriamo di concludere la settimana prossima.
La famiglia senza più edipismo (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Il vezzo di elencare indica che non si tratta dell’originario, ma di ciò che deve venire giustificato. L’originario è senza giustificazione: è originario. Che bisogno c’è di giustificare l’originario? Ciò che esige giustificazione è proprio ciò che originario non è. A che vale fare l’elenco? Per dire di conoscere già i mali? Per sapere riconoscerli?
Pubblico Per cercare di prevederli, forse. Per evitarli.
R.C. Perfetto, la previsione. Quindi, prevedere il male. Ma ciò è come dire di sapere, presumere di sapere che la base è il male, che il fondamento è il male e che è da evitare, per cui il male diventa il timone.
Evitare il male, ossia il modo migliore di sbatterci addosso perché la rotta va verso il male. Provate a evitare qualcosa e quella cosa, che è sempre davanti, a un certo punto costituirà il bersaglio.
Ma, nell’originario, non importa il male previsto, catalogato, classificato, da combattere, da evitare. Importa l’unicità del caso, che nell’itinerario diviene caso di qualità. In che modo? Senza il canone, con il gerundio. Non per conoscenza, ma provando e riprovando diceva qualcuno, tenendo conto delle istanze, delle esigenze, del progetto, del programma, trovando il modo opportuno.
E quindi importano l’oralità, il transfert, la lingua, la scrittura, la ricerca e l’impresa, il compimento, la conclusione, la qualità, la comunicazione. Non la resa, ma anzi la lotta, lo sforzo fino al compimento del programma. E l’attuazione di quei dispositivi che sono essenziali al programma. Quali dispositivi? Non sono già noti.
“Io non ho un progetto!”. “Io!”. “Ma io non ho un progetto!”. C’è chi dice così. “Io non ho un progetto, io non so qual è il progetto. Non lo so”. Altri, sull’altra riva rispondono “Io non ho un programma”. Da dove viene il programma? Chi lo assegna? È un programma che arriva con la teleferica? È un progetto che arriva per illuminazione? O è qualcosa che esige il calcolo, il disegno, l’ipotesi, l’audacia di formulare un’ipotesi? Ipotesi anche onirica?
Il progetto non è scritto nelle stelle. Non è scritto nemmeno nei geni. Non è già dato, non è predestinato. E il programma si scrive man mano, non è dato una volta per tutte. Eppure, c’è chi asserisce di non avere un progetto o di non avere un programma. E così si enuncia la sfida edipistica e fatalistica, nonché vittimistica, rivolta al presunto colpevole del misfatto di mancata assistenza.
“Mostrami cosa devo fare”, oppure “Mostrati e dimmi cosa debbo fare”, o anche “Mostrati e fammi fare quel che debbo fare, quel che voglio fare, quel che posso fare, quel che non so fare”. “Mostrati!”, e come si mostra, tiro al bersaglio. “Se sei veramente mio padre, se sei veramente mia madre, mostrati, aiutami, allontana da me questo calice!”. “Fammi fare. Liberami!”.
La famiglia originaria s’instaura in assenza di fantasma di morte, di fantasma d’origine, di debito della vita, di pena di morte. La famiglia originaria e senza più l’idea di famiglia di origine come localizzazione dell’itinerario e del destino. Ogni idea di sé, ogni idea dell’Altro è razzista, ossia è rappresentativa di un personaggio che dovrebbe giustificare la differenza e, addirittura, giustificare la giustificazione.
Questo per indicare dove ci troviamo, dove si trovano i personaggi della fiaba che stiamo leggendo. Si tratta di personaggi della fiaba! Nessun riferimento a cose e sopra tutto a persone reali. Certo, può accadere talvolta che qualcuno si rappresenti personaggio di una fiaba. Questo può accadere e non è la fine del mondo. Occorre analizzare la fiaba, analizzare il personaggio. Allora, analizzando la fiaba il personaggio si dissipa, si dissipa sopra tutto se, come notava Pirandello, trova l’autore. Il personaggio che incontra l’autore o, meglio, trova l’autore, non è più personaggio della fiaba, perché con l’autore e con ciò che gli sta attorno, la fiaba non c’è più.
Adesso, per capire bene ciò, leggiamo. È una cosa semplice, ma può risultare impegnativo capire come accade che il personaggio non c’è più e non c’è più nemmeno la fiaba; e dissipandosi la fiaba, s’instaura la fabula, s’instaura la saga, s’instaura un’altra scena, s’instaura lo statuto intellettuale e lo statuto temporale, cioè senza riferimento al passato, ai ricordi, all’idea di origine e sopra tutto all’idea di fine, che sono idee micidiali. Cosa vuole dire micidiali? Che riguardano o il suicidio o l’omicidio. Adesso vediamo come.
Siamo a Roma, tre mesi dopo le vicende di cui abbiamo parlato poco fa, in una sera d’inverno nel quartierino dove hanno trovato sistemazione Bebè e Marco Perla, qui trasferitisi. Una sera d’inverno alla porta bussa un vecchietto. Chi sarà questo vecchietto? Ebbene, è Corrado Tranzi, che avevamo incontrato proprio all’inizio della fiaba. Suona. E mentre aspetta che gli venga aperta la porta ha:
…le ciglia aggrottate e gli occhi torvi che palesavano un’ansia spasimosa.
Era un po’ ansioso. Non diciamo inquieto, ma ansioso. La serva gli apre, Tranzi si presenta e dice – Il signor Perla? La serva risponde: Non sta bene. – E la signora? Neanche. Tranzi insiste – Io sono medico. Capita proprio a fagiolo. tizio sta male, tizia pure, io sono medico, sono qua. E quindi Corrado Tranzi entra.
Marco Perla gli va incontro, aiutato dalla serva e… Restarono per un momento entrambi, di fronte, come precipitati l’uno verso l’altro a guardarsi dal tempo remoto, in cui per l’ultima volta si erano veduti.
Si vedono e praticamente è una visione, non è un incontro. È una visione del passato. Si vedono a partire dall’ultima volta.
In un attimo, con tutte le memorie balenanti di quanto era loro accaduto – Non è che si vedono, s’incontrano, si parlano. No, si vedono e in un attimo tutti i ricordi ce li hanno davanti. Perché questi ricordi –dovevano colmare il vuoto di tutto quel tempo per riconoscersi così cangiati.
Devono riconoscersi cambiati. Però devono riconoscersi, quindi sono cambiati ma sono loro. Devono riconoscersi per riconoscere tutti i ricordi, in modo che tutti i cambiamenti siano ricondotti all’identità del personaggio. Passati gli anni è successo di tutto, ma loro sono loro, sono gli stessi, sono quelli.
Oppresso di stupore, ansimante, Marco Perla credette di scorgere negli occhi del Tranzi l’animo con cui questi gli si rifaceva incontro. Non doveva pensare il Tranzi ch’egli avesse voluto prendersi una rivincita sposando sua figlia, poiché da lui aveva avuto tolta la madre? – Si vedono dopo tanti anni e il primo pensiero è “Lui, cosa penserà di me? Che cosa penserà lui di me?” – E non doveva a un tal pensiero essere pieno d’odio e d’orrore?
Si sentì mancare, sprofondare – Eh certo: “Cosa penserà lui di me? Ma penserà…”. – Ma si ritrovò invece tra le braccia di lui, sorretto premurosamente; udì invece la voce di lui che gli diceva: –Tu… così… Ma stai male davvero! – Si sente accolto, consolato, lui pensava che l’altro lo odiasse, invece no, gli vuole bene.
E provò un sollievo, un refrigerio, un conforto, tanto più vivo e dolce, quanto più inatteso e insperato. Prese a singhiozzare, a gemere tra i singhiozzi, mentre quegli, insieme con la serva, lo riconduceva alla poltrona, nello stanzino:
– Ti manda Iddio! ti manda Iddio.
Corrado Tranzi lo informa che l’ha cercato a lungo, poi gli chiede:
– Tu hai sposato mia figlia?
– Non lo avessi mai fatto!
– Non dovevi farlo, Marco! – rispose pronto il Tranzi, con una voce strana, che voleva parer di rimprovero e di rammarico soltanto, ma in cui vibrava un furore a stento contenuto. – Come, come hai potuto farlo?
– Te la puoi riprendere, ora! Te la puoi riprendere… – disse allora affrettatamente il Perla senza togliersi le mani dal volto. – Te la puoi portar via…
E gli spiega che ha in mano una lettera dell’amante di lei: buttò in faccia all’antico rivale – antico rivale – tutto il male che da lui aveva sofferto, tutto il bene che in cambio aveva fatto, per riceverne poi in premio questo tradimento.
Quindi Tranzi ne ha combinate di cotte e di crude, gli ha portato via la ragazza, l’ha sposata, ha abbandonato la figlia. Lui invece ha accudito la figlia di lei e di lui, l’ha addirittura sposata, l’ha allevata. Tutto il bene. E lei l’ha tradito. Quindi, c’è una sorta di bilancio tra il premio che doveva avere per il bene fatto e la pena che invece ne è scaturita. Un’ipotesi di bilancio tra il bene e il male. Premio, pena, colpa, merito. Lui aveva fatto tanto bene e in premio ne riceve il tradimento. Mentre sarebbe stato giusto che quello che aveva fatto tanto male ricevesse la sua pena. L’idea di vendetta è questa, il premio e la pena. Chi applica, chi commina la pena, chi somministra il premio? A chi appellarsi?
A quel punto si fa avanti Bebè, ossia Ebe, che era chiusa in camera e sente questi schiamazzi; accorre e si affaccia alla porta.
Lo accolse spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, come già sua madre la prima volta lo aveva accolto in quel lontano mattino di primavera, quando lui, giovane medico, era stato chiamato per caso in una farmacia.
Era lei! Era lei! la sua Ebe che lo riaccoglieva così come si può accogliere un estraneo in un momento d’improvviso, supremo bisogno! E ben chiaramente nello sguardo ostile le si leggeva, che se ella non si fosse trovata in quel tremendo frangente, non lo avrebbe accolto, non avrebbe voluto vederlo.
E allora lui tenta di abbracciarla ma lei lo respinge.
– Non mi abbracci? … Oh, figlia mia! /…/ Tu hai ragione. Ma tutto il male, tutto il male lo fece tua madre con la sua morte!
Loro sono salvi. Tutto il male lo fece sua madre morendo!
– E chi l’ha scontato? disse Ebe, guardandolo con dura freddezza negli occhi. E a quel punto ammette: Sì, sono stato colpevole verso di te…
– Comprendo… comprendo perché lui t’ha sposata… Tu non sai, tu non puoi sapere…
Rabbrividì; – a quel punto, Ebe rabbrividisce – Comprese; domandò anche lei a bassa voce, inorridita:
– La mamma… Lui?
– Sì, sì…
E in questo riconoscimento provarono, l’uno, una rabbia feroce, come per un tradimento infame che colui, profittando vigliaccamente della sua assenza, gli avesse fatto con la madre; l’altra il ribrezzo, l’abominazione come per un incesto che quegli avesse perpetrato su di lei.
Altro che personaggi! Qui ognuno si situa al posto di un altro in una fantasmagoria, in una fantasmatica di rapporti attraverso cui si inscrivono in una genealogia. E che cosa consente questo inserimento nella genealogia? Al Tranzi una rabbia feroce. Il vantaggio di inscriversi in una genealogia? Una rabbia feroce. All’altra il ribrezzo, l’abominio, come per un incesto. Veramente l’infernale.
Si ritrassero tutti e due nella camera; ne serrarono l’uscio e parlarono a lungo tra loro.
Lui le racconta tutti i patimenti, le vicende, le vicissitudini, le peripezie, le lotte. La disperazione negli anni, la difficoltà. E le comunica come
…il pensiero di lei, sì, gli era stato dapprima odioso, perché non riusciva a staccarlo da quello della morte della madre; gl’inacerbiva la piaga e lo rendeva feroce.
Colpa/pena. La madre muore, di chi è la colpa? Ecco il pensiero odioso verso il presunto colpevole. Questo pensiero – gli inacerbiva la piaga e lo rendeva feroce – feroce, dunque animale. Fino a che non avverte una pietà verso la figlia abbandonata. Pietà, non rimorso. Perché pensava che i nonni avrebbero sempre provveduto a lei. E pensò che, avendola lui abbandonata così, avrebbe dovuto compensarla di questo abbandono. E come? Facendola ricca, per compensarla, per ripagarla. E infatti tornava da ricco per chiudere i conti!
– Troppo tardi?
Troppo tardi, sì. Il tradimento – gli spiegò Ebe – non lo aveva commesso lei, lo avevano commesso la nonna e Marco, prima.
Cioè, quando le avevano nascosto le lettere del suo amato artista.
Dunque, c’è un risarcimento. Questa è la questione. C’è l’idea di un risarcimento da fare, c’è un debito contratto e un risarcimento da fare per cancellare il debito. C’è l’assunzione della colpa e questa colpa esige un risarcimento, deve essere pagato lo scotto. Come pagare lo scotto? Come cancellare il debito? L’idea di un debito morale che può essere cancellato, perché solo il debito morale può esserlo. Ma, in effetti, per ognuno si tratta del debito morale. In che modo l’idea del debito morale preclude l’andamento, preclude l’impresa, preclude l’economia e la finanza? Perché prima bisogna pareggiare i conti? E come? Come pareggiare i conti? Tranzi lo capisce subito come si fa a pareggiare i conti!
Non era provvidenziale, che lui, fin da quella sera, appena arrivato, si potesse avvalere della sua qualità di medico?
Come pareggiare i conti? Avvalendosi della sua qualità di medico!
Un brivido gli percorse la schiena.
La qualità di medico. Un brivido gli percorse la schiena. E comincia a camminare per la stanza mangiandosi le dita, stropicciandosi i capelli, la testa fra le mani. Insomma, ha qualche pensiero.
Da anni e anni gli erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso, che non potevano avere altra conclusione che in un atto estremo. Conosceva il ribrezzo per questo atto, il tumulto di tutte le energie vitali insorgenti a impedirlo, la volontà che le domava, lo sfogo che allora si davano quelle, nell’immaginare la vita che sarebbe rimasta per gli altri, dopo la sua morte.
Dunque, Corrado Tranzi da anni pensa al suicidio. Se venisse a saperlo uno psichiatra immediatamente lo prenderebbe in cura per evitarglielo, ignorando che il fatto di pensare non comporta nulla. I pensieri sono tanti. Ma lo psichiatra pensa che solo quelli negativi devono essere presi in considerazione. Dunque, da anni pensa al suicidio. Ma quella sera no. Quella sera non pensa al suicidio. Quella sera…
Ma qui l’atto violento da compiere non era più contro se stesso;
E cosa cambia? Niente. Se stesso, l’Altro. Di che si tratta nella struttura del suicidio o dell’omicidio? Suicidio e omicidio hanno la stessa direzione di togliere l’Altro. Suicidio e omicidio si dirigono verso l’Altro, verso l’idea dell’Altro rappresentato ora da sé ora da un altro.
…e la vita che sarebbe rimasta per gli altri, non gli si rappresentava più come in una triste inutile successione di casi press’a poco invariabili. Qui, gli altri non erano più estranei indifferenti. Egli vedeva sua figlia; e la vita che gli si rappresentava, dopo l’atto violento da compiere, era quella di lei.
Dunque, si rappresenta la vita. Il dramma è questo: rappresentarsi le cose! Rappresentarsi la vita, rappresentarsi la morte, rappresentarsi il nemico, rappresentarsi il bene, rappresentasse il male. Così, ognuno pretende di dovere somministrare il rimedio. Il suo rimedio, l’atto estremo che costituirà il rimedio, l’atto estremo che costituirà la giustizia, l’atto estremo della ghigliottina.
Non avrebbe esitato un momento, se avesse dovuto agire contro se stesso.
Noi constatiamo che non è vero. Da anni e anni gli erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso. Da anni e anni. Altro che non avrebbe esitato un momento.
Ma agire contro un altro, e a tradimento – a tradimento – gli rendeva il ribrezzo invincibile.
Quindi ci pensa su tutta la notte.
Altri aveva allevato sua figlia, altri la aveva finora mantenuta, per altri ella era ancora in vita. Egli non aveva mai fatto nulla per lei.
C’è una partita doppia. Deve pareggiare la partita doppia.
Doveva far questo, ora. Non aveva più altro da fare.
Non c’è più altro da fare. Non c’è più l’Altro. Quando l’Altro è abolito, allora c’è l’alternativa. E il modo opportuno è il modo dell’alternativa, o bianco o nero. Non c’è più la gamma, non c’è più la serie delle sfumature, non c’è più l’infinito delle sfumature entro cui trovare il modo. Tolto l’Altro, tolto l’irrappresentabile, tolto ciò che esige il calcolo, tolto ciò che esige la strategia, resta l’alternativa. O vita o morte. O bene o male. Per pareggiare i conti. Per essere pari. La parità. Terribile l’idea di parità. Assurda la parità.
L’idea di parità è antica. Il pareggiatore per antonomasia era tal Procuste che pareggiava i viandanti, pareggiava le differenze. Chi era corto veniva allungato, chi era lungo veniva accorciato perché occorreva essere pari, tutti pari, in quanto la differenza sarebbe discriminante; invece no, tutti uguali. Anzi, di più: pari! Pareggiati!
Le aveva portato la ricchezza; – per pareggiare i conti – ma a che poteva valere per lei, ormai legata com’era a quel vecchio – ricca ma legata al vecchio. Che se ne fa? – dopo il sacrifizio del suo amore? – il suo amore ha sacrificato – Perché avesse valore per lei quella ricchezza, perché ella potesse dire di dover veramente la vita a suo padre –
ah, ecco la questione: come metterla in debito! Lui che era in debito, come mettere in debito il creditore?
Attenzione, perché si tratta di questo nei rapporti sociali. Come mettere in debito colui al quale qualcosa è dovuto. Che non abbia a pretenderlo! Come fare in modo che Ebe possa dire di dovere veramente la vita a suo padre? Ecco il progetto: come fare tornare in debito per affrancarsi dal proprio debito. Astuto. Molto astuto. Banale, ma in realtà questa è la prassi. Chiunque riceverà qualcosa di non richiesto si chiederà “Ma allora sono in debito! Gliela farò pagare”! “Ha voluto mettermi in debito? Gliela farò pagare”! Banale, ma ognuno può riscontrare socialmente se questa è o no la procedura, il compromesso sociale.
Perché Ebe possa dire che gli deve la vita – bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli altri.
Ella è in debito con gli altri della vita? Eh no, solo al padre può dovere la vita. Ecco il pareggiatore dei conti. Lui la renderà ricca. Lui rimetterà il suo debito restituendole l’unico debito morale ammesso: il debito della vita al padre. Ma questa è la genealogia. Questo non è il padre originario. Questo è un personaggio della fiaba che regge la genealogia, che regge il debito morale sociale. Questa è la fiaba.
…bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli altri; e il debito che aveva pagato con la propria persona. ‒
Lei aveva pagato un debito con la propria persona. Vi ricordate? Aveva consentito al matrimonio in quanto così pagava il debito del suo mantenimento. Nulla di progettuale in questa vita. Tutto un pagamento di debiti. Tutto un debito dietro altro. Ora faccio questo, così pago questo debito e poi faccio quello, così pago l’altro debito. È tutto un pagamento. Si pagano solo debiti, ci sono solo debiti e più si pagano più i debiti aumentano, perché sono tutti debiti morali che non ammettono che altri debiti, altri debitori. Infatti, la religione lo sa bene. Dice che solo lui può rimettere i nostri debiti. Che quindi ci sono però! Ognuno ha i suoi debiti, se lo ricordi bene!
Senza esitare, poiché così provvidenzialmente il caso lo favoriva…
Dunque, è favorito del caso, c’è una predestinazione positiva, il caso lo favorisce. Fatalismo e vittimismo vanno sempre insieme. Moralismo, fatalismo, superstizione vanno sempre insieme a braccetto. E dato che provvidenzialmente il caso lo favoriva, egli, ormai plenipotenziario:
…egli doveva sopprimere chi aveva fatto per la figlia tutto quello che avrebbe dovuto far lui.
Così si libera, si purga. Si libera da questo peso, da questo debito, siccome lui è in debito. E questo debito è intollerabile. Come assolvere questo debito? Come pagarlo? Facendo fuori il creditore! “Mi hai messo in debito? Te la farò pagare”. “Ti sono in debito? Te la farò pagare”. Perché con tutte le sue colpe, con tutte le sue magagne, Perla aveva fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare lui verso la figlia e quindi doveva sopprimerlo.
…sopprimere chi aveva voluto in tutto sostituirlo, ripigliandosi anche la madre nella figlia. – Impacchettamento totale, no? – A questo solo patto poteva dirsi padre. – A questo solo patto. Cioè, come? – Liberandola da tutti i legami contratti dal tempo in cui egli per lei non era esistito, le avrebbe ridato, con questa libertà e con la ricchezza, la vita.
Praticamente è Atena che nasce dalla testa di Zeus. Non c’è nessuna madre qui. La figlia deve la vita al padre. Atena nasce dalla mente di Zeus, dalla testa di Zeus. Atena è un’idea di Zeus in assenza di madre, in assenza del mito della madre e infatti Atena sarà vergine non madre. Ebe è uguale. Zeus genera, dunque Atena è in assenza di madre. E Atena gliene sarà grata, no? Vergine non madre.
Balenò a Ebe il sospetto della truce decisione del padre, nel vederlo la mattina dopo tutt’intento e premuroso nella cura del malato, – premuroso eh! Lo sta per guarire. Lo guarisce per sempre! Ebbe questo sospetto, Ebe? – dopo quanto tra loro era stato detto, la sera avanti? Forse sí; ma si vietò d’assumerne coscienza.
Si vietò di assumerne coscienza. E che importanza può avere vietarsi di assumerne coscienza? Ebbe questo sospetto, anzi ne ebbe la certezza.
Troppo chiaramente però, in fine, parlò lo sguardo di lui, quando, disfatto, curvo sul letto a spiare l’ultimo respiro del moribondo, si rialzò e si volse verso di lei, che gli stava accanto convulsa, atterrita.
Dunque, si vietò di prenderne coscienza, ma gli stava accanto, convulsa e atterrita. Come dire, complice, anzi di più.
Le diceva con quello sguardo di non aver paura perché egli doveva fare così. – Per salvarsi, per renderla debitrice doveva fare così – Se la strinse al petto, le sussurrò tra i capelli:
– Sei libera. Puoi vivere ora.
Le dà la vita “Sei libera. Puoi vivere ora”.
Ma ella sentì che non poteva più, ora, sapendo. E s’appoggiò a quel petto per non scorgere sul letto la vittima.
E così si conclude la fiaba. Perché questa è la fiaba. Fiaba terribile, infernale, macabra, tragica, cruenta. Nefasta. Ma come sarà veramente andata la storia? Questa è la fiaba, ma la storia? Perché nella fiaba abbiamo i personaggi, ma i personaggi sono infernali perché devono esercitare la padronanza sulla vita e sulla morte e trovandosi in questo contesto infernale, nefasto, in questo scenario del male devono liberarsi verso il bene.
Ma quella della storia è un’altra scena. La storia è da costruire. La storia cui la fiaba allude è da costruire. È la storia che giunge per costruzione una volta dissipati i personaggi, cioè una volta che s’instaura non già il fantasma di fine, il fantasma di genealogia, il fantasma di morte, il fantasma di padronanza, ma lo statuto intellettuale che consente di cogliere la struttura fantasmatica e di reperire i termini della storia, non più della fiaba.
Facciamo un esempio e prendiamo la fiaba di Cappuccetto Rosso. Nella fiaba Cappuccetto incontra il lupo. Il lupo muore, la nonna muore, muoiono tutti, poi si salvano. Lei entra nel ventre del lupo, poi ne esce. Tutto ciò è la fantasia di una bambina sulla nascita. La storia è la storia della nascita, mentre la fiaba è quella di Cappuccetto Rosso. C’è una differenza.
Pubblico Sì, se si riuscisse a vedere la storia della nascita.
R.C. Intanto non c’è niente da vedere. C’è da capire.
Pubblico Sì, intendevo con gli occhi della mente.
R.C. Ma per capirlo bene basta che lei legga il libro che uscirà prossimamente in merito. Questo lo abbiamo già esplorato in passato, così come peraltro la fiaba del brutto anatroccolo. È la fiaba dell’ambiente ostile: tutti ce l’hanno con me, tutti mi vogliono male e questo qui, e quello là, e la mamma mi picchia, il papà non mi vuole bene, i fratelli qua, gli amici là, e guarda che razza di casa, e guarda che ambiente. E questo non lo posso fare, quello non sono in grado, lo steccato, lo stagno; tutta una maledizione. La storia invece è quella del cigno. Ossia di chi? È la storia di chi non si pensa, non si vede, ma fa quel che occorre fare per cui non si trova più nella palude. Perché la palude è solo l’idea che ha dell’ambiente! Ma più mantiene l’idea dell’ambiente più è impantanato, più mantiene l’idea di sé più sta nel pantano. Ma se invece segue l’occorrenza, ciò che l’occorrenza esige e attua il dispositivo, nessun impedimento.
Pubblico Nella storia non ci sono impedimenti, ci sono solo nelle fiabe.
R.C. Esatto. Se lei legge le fiabe trova che gli impedimenti si possono superare solo per via magica. Le fiabe sono terribili, insegnano le cose più turpi.
Pubblico Però noi non viviamo nella fiaba.
R.C. È auspicabile proprio di no!
Pubblico Perché lei pensa che si possa non vivere nella fiaba. Questa è la sua scommessa intellettuale.
R.C. Certo, anzi, nessuno vive nella fiaba. Tutti sì. Vivono nella fiaba tutti coloro che si credono ognuno e non tengono conto del progetto e del programma di vita, per cui si pensano e si producono come animali anfibologici, ossia come rappresentanti del segno del bene e del male.
Ma l’analisi consente di dissipare la fantasmagoria della negatività e consente di attraversare la negatività che altro non è se non una struttura fantasmatica che attinge a varie rappresentazioni, per lo più del genealogico, dell’idea di origine, dell’idea di morte. Ecco cosa c’insegna questa novella di Pirandello, di cui adesso, data l’ora, noi non riusciamo a costruire la storia, ma che sarà l’argomento della prossima volta: come dalla fiaba si costruisce la storia.
E il viaggio intellettuale è di non vivere nella fiaba, ma di costruire la storia e la storia è ricerca. E accanto alla storia l’impresa. E questo è l’avvenire, mentre la fiaba è tutta rivolta al passato. Infatti, l’insistenza, qui, è di dovere la vita a qualcuno, di dovere pareggiare i conti con il passato; è tutta una sorta di elogio del passato e l’avvenire è solo a condizione di avere un debito da contrarre. La storia. Come costruire la storia?
Pubblico E il lupo, chi è in questa fiaba?
R.C. Qui non c’è il lupo.
Pubblico Perché allora Pirandello ha dato questo titolo?
R.C. È tra virgolette. Si riferisce a Fedro: Superior stabat lupus. Qui non c’è il lupo.
Pubblico Tuttavia c’è un legame, no?
R.C. Certo. È la fiaba del vittimismo. Anche la fiaba di Fedro è la fiaba del vittimismo. Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. E il lupo, vittimista professionista, che cosa gli dice? “Mi stai sporcando l’acqua, disgraziato!”. “No – dice – veramente io bevo dopo che hai bevuto tu”. “Sei mesi fa hai parlato male di me”. “Ma no, non ero ancora nato”. “Allora è stato tuo padre!”, e se lo mangia. Chi è il vero vittimista? Chi è che deve giustificare i suoi atti con un debito morale altrui? Il lupo. Il lupo è il vittimista della fiaba. Qui c’è proprio il vittimismo applicato alle varie circostanze. È questo che induce a un ulteriore sforzo per cogliere…
Pubblico È difficile trovare l’agnello in questo testo di Pirandello, sembrano tutti lupi.
R.C. Sì, sembrano. Ma qui addirittura occorre andare oltre l’agnello, perché c’è il lupo vittimista e l’agnello vittima. Quindi, occorre andare oltre questa sorta di coppia vittima-carnefice o vittimista perché in questo caso il lupo è un carnefice vittimista. Si fa vittima per applicare la giustizia, la sua giustizia. Come Corrado Tranzi, che deve pareggiare il conto, per cui deve indurre in debito la figlia, che non ha avuto nulla da lui, con la ricchezza, in modo che possa dire che gli deve la vita.
È compito dell’ascolto, della lettura cogliere la struttura fantasmatica per giungere allo statuto intellettuale, perché i cedimenti stanno dove il fantasma prevale sullo statuto intellettuale. Il bello sta nella storia, nel caso clinico, nel caso di cifra. Quindi nella cifratura.
C.M. Volevo chiederle, prima leggeva a proposito di Marco Perla, che […] il premio viene scambiato con la pena.
R.C. Sì, la pena è l’altra faccia del premio e viceversa. La logica è la stessa.
C.M. Mi è venuto in mente il rinfacciare. Il rinfacciare le cose si trova in questa struttura binaria?
R.C. La rivendicazione. La rivendicazione è vittimista.
C.M. Perché rinfacciare rende più evidente l’esclusione del terzo, dell’Altro. Cioè, rinfacciare implica una specularità.
R.C. Certo, è un’ideologia della vendetta dove ci sono la vittima e il carnefice, la vittima che si ribella al carnefice per cui si fa carnefice. Una rivoluzione circolare, un modo di pareggiare i conti, di fare pari.
La questione del terzo impedisce di fare pari, ma non perché sia un impedimento alla parità; è che nell’infinito non c’è parità possibile. La stessa nozione di grande o piccolo – più grande, più piccolo – nell’infinito non ha senso. Allora, la questione è quella dell’infinito, non della logica binaria, ma dell’infinito e della logica singolare triale, dove il terzo non si può abolire. E, dato il terzo, è impossibile Procuste, non ce n’è nemmeno più l’esigenza. Non c’è più il fantasma di rivalità che esige il pareggio, non c’è più nemmeno l’ostilità, questa è la questione. Si tratta, dove la logica binaria introduce il nemico, l’hostis, di reperire l’ospite e l’ospitalità, il dispositivo dell’ospitalità.
Verificheremo fra 15 giorni se nonostante le apparenze anche in questa fiaba non ci sia traccia e qualche elemento del dispositivo dell’ospitalità.
L’ascolto
Ruggero Chinaglia Ci sono domande? Qualcosa non è stato capito?
Patrizia Ercolani. Pensavo a Ebe. Ciascuno, cominciando dal padre, vede in lei una che non è: la madre, la figlia, la fidanzata, la vicina… Mi chiedevo se questo è per via dei ricordi di altri. Anche quando il padre ritorna ci vede ancora un’altra persona.
R.C. Un’altra persona?
P.E. La va a trovare a Roma e in quell’occasione ancora una volta ci vede la moglie morta, il ricordo di sua moglie, la mamma di lei. Ebe, rispetto a questi ricordi, a queste proiezioni di altri, cosa poteva fare?
R.C. Sono ricordi di altri o di Ebe?
P.E. A me è parso che i ricordi siano di altri.
R.C. E di chi sono i ricordi?
P.E. Del marito, dei nonni che in lei vedono la loro figlia morta, del padre che ci vede la moglie morta quando lei è nata, il cugino che ci vede l’amore non corrisposto della cugina. Ebe che ricordo ha?
R.C. Bebè che ricordo ha?
P.E. A me sembra che sia rimasta al gioco, in qualche modo, ha prestato il fianco. Sì, la vittima.
R.C. Quindi c’è una vittima.
P.E. Sì. Ma ho detto che non ho capito.
Pubblico Forse tutti credono di essere stati vittime, sopra tutto il padre si sente vittima: vittima delle circostanze, di essere stato costretto a fare il padre, non c’è dubbio. Adesso non ricordo bene il testo, perché lui non poteva fare diversamente da come ha fatto, però adesso sentiva la necessità.
R.C. È stato costretto dalle circostanze?
Pubblico Sì, è stato costretto dagli eventi, è stato vittima delle circostanze, è quello che si sente più vittima di tutti.
R.C. È autorizzato a fare la vittima?
Pubblico Sì, è autorizzato e anche poi è autorizzato a compiere il delitto perché lo vede come una necessità di agire in quel modo, non si sente colpevole.
R.C. Quale vittima non si sente autorizzata? Come ne usciamo?
Pubblico C’è questo racconto che si svolge. A me è parso che ci sia l’aspetto pulsionale di Ebe da cui parte…
R.C. Anche lei si appunta su Ebe.
Pubblico È la storia nel racconto. C’è l’aspetto pulsionale che viene raccontato già da quando Ebe accarezza la testa del cuginetto.
R.C. Mi sembra più complessa.
Pubblico Lo svolgimento è rispetto a una pulsione che non si può manifestare, non si può raccontare per il padre, per la questione del padre, per amore del padre, e quindi c’è sempre il matricidio che aleggia nel racconto. Però, in conclusione non c’è l’uccisione del padre da chi l’ha messa in atto. Mi è venuto in mente come mai si avvia il parricidio, invece, che è proprio verso la conclusione della storia.
R.C. C’è molto interesse per Ebe!
Pubblico Diciamo che è il personaggio protagonista.
R.C. Ebe è personaggio?
Pubblico Beh sì, è il personaggio protagonista, ma protagonista è la questione che si snoda.
R.C. E chi è il cifratore?
Pubblico Il cifratore? Eh, non ho scritto io quel testo. Non lo so. C’è l’autore?
R.C. C’è un cifratore o ci sono solo personaggi? Ci chiediamo se c’è, intanto. Poi ci porremo anche la questione se ci deve essere. Se ci deve essere allora lo troviamo per forza.
Pubblico Lo scrittore non è il cifratore? Che caratteristiche deve avere il cifratore?
R.C. Bella domanda. Chi è il cifratore? Il cifratore è il testimone degli effetti della parola, dell’esperienza della parola, il testimone dell’itinerario. C’è un itinerario, si sta svolgendo un itinerario e il cifratore è testimone di questo itinerario e in quanto testimone non crede ai guai, non crede al male o al bene, non crede alla fine del tempo, non crede a tutte le rappresentazioni del negativo che invece il personaggio assume e rappresenta. Brutta cosa il personaggio! Sono cose noiose queste, però…
Pubblico Volevo dire che non c’è un cifratore in questa novella.
R.C. Non c’è? Lei parte in quarta. Per quale ragionamento?
Pubblico Perché ciascuno dei personaggi, da Ebe agli altri, segue una certa fantasmatica che non viene mai elaborata né ascoltata.
R.C. Lei vuole proprio pane al pane e vino al vino.
Pubblico Da quello che ho ascoltato io dalla lettura. Può darsi che abbia ascoltato malissimo.
R.C. E quindi lei pone la questione dell’ascolto. Però lo pone in modo personalistico “Io ascolto”, “Io ho ascoltato”, il soggetto dell’ascolto. In effetti, la fiaba dell’ascolto è questa.
Pubblico Che il soggetto ascolta?
R.C. Sì. “Mi metto in ascolto”, “Sono in posizione di ascolto”. Qual è la posizione di ascolto? “Adesso mi concentro così ascolto proprio benissimo”. L’ascolto per lo più è frainteso e scambiato con lo stare a sentire, prestare orecchio, avere la pazienza di lasciare sfogare. “Lasciamo che si sfoghi”! E quello sarebbe l’ascolto? Questo non ha nulla a che vedere con l’ascolto: è origliare, non è l’ascolto. L’ascolto è senza soggetto, senza personaggio. Non è come l’auditel che è un indice di ascolto.
L’ascolto si situa nella procedura, nel processo di qualificazione, cioè nel dispositivo della parola e non ha agente, l’agente dell’ascolto. Altrimenti si crea immediatamente la rappresentazione della coppia: c’è chi parla e c’è chi ascolta, c’è chi parla e chi è ascoltato. E chi è ascoltato poi vorrà sapere cos’ha detto e pretenderà che glielo si dica visto che lui ha parlato e altri ha ascoltato. Cioè, siamo nella solita rappresentazione dicotomica dell’agente, agente attivo e agente passivo, l’agente che sa e l’agente che non sa, il trattante e il trattato; siamo nella coppia. L’ascolto è un frutto del dispositivo. Dove sta questo frutto? Sta nell’io, sta nel tu, sta nel lui, sta nell’Altro? Dove sta? Dove sta Zazà? Però, giustamente, lei dice che qualcosa ha capito.
Pubblico Non ho capito niente.
R.C. Non ha capito niente e quindi ci dà prova di non avere capito niente?
Pubblico No, lei dice che non è questione di soggetto, allora io dico che non ho capito niente.
R.C. Quindi lei dice che non c’è cifratore. Allora siamo a livello giudiziario: c’è un fatto, ci sono più fatti e le cose sono andate così. Questo è il resoconto dei fatti, punto!
Pubblico Non è proprio così.
R.C. Ci sono solo fatti?
Pubblico No, c’è un racconto.
R.C. Di fatti?
Pubblico Non è detto che siano fatti, c’è un racconto.
R.C. Ma lei dice che non c’è nessun cifratore. Quindi, il racconto da dove viene? Non c’è nessuna cifratura, ci sono solo fatti: Ebe ha ucciso la madre nascendo, il padre l’ha abbandonata, ha tradito il marito, ha lasciato che il marito venisse ucciso, una vita di merda. Proprio “una cosa” direbbero a Napoli. Una fetenzia! Quindi, è andata proprio così. Altro che vittimismo, qui siamo nel realismo apocalittico: non c’è parola e ci sono i fatti. Siamo sulla scena del realismo politico, quel che è detto è detto e non ci sono altre eventualità. E allora?
Pubblico Ci sono fatti interiori che hanno portato…
R.C. Ecco, i fatti interiori! Altra bella domanda, vediamo se riusciamo a rispondere a queste belle domande, ma intanto raccogliamo materiale, ipotesi. Ne abbiamo sentite alcune, sentiamone altre. Per esempio, Fornasier, lei cosa dice, che ipotesi fa?
Giorgio Fornasier Sono rimasto sorpreso a sentire le persone che si ricordano la trama. Non mi ricordo nulla del testo.
R.C. Ah, non l’ha letto? Noi siamo qui da un mese su questo testo e non l’abbiamo ancora convinta a leggerlo? Lei vuole trincerarsi dietro la sincerità. Crede di cavarsela così?
G.F. No, ero triste perché non ricordavo nulla. Chi ha ucciso chi?
R.C. Ecco, a pagina 109 c’è questo dettaglio:
Balenò a Ebe questo sospetto della truce decisione del padre, ma si vietò di assumerne coscienza. E lui le dice: “Sei libera, puoi vivere ora”. Ma ella sentì che non poteva più ora sapendo, e si appoggio a quel petto per non scorgere sul letto la vittima.
Ambientazione straordinaria, ma questo non basta a trovare il fatto. Bravo Fornasier! Forse un’idea più precisa ce l’ha Novaretti.
Fernanda Novaretti Mi viene in mente di avere letto della liberazione.
R.C. O riscatto o vendetta, queste sono le due facce della liberazione. Il soggetto liberato è il soggetto riscattato. Liberato da cosa? Ci sono tanti movimenti di liberazione: liberazione del paese, dall’oppressione, delle donne, Comunione e Liberazione, liberazione dalla schiavitù, teologia della liberazione, tante liberazioni. Un solo sport dice che la liberazione è vietata: nell’hockey si chiama liberazione vietata quando un giocatore dalla propria area manda il disco nell’area avversaria, ma non si può fare, non si può liberare così. Allora, Moda, lei che ha capito qualcosa d’importante, qui ci sono i personaggi? Ci sono i protagonisti? C’è il cifratore? Sono tutti personaggi? Sono tutti fatti? C’è una storia?
Fabrizio Moda Non ho individuato il cifratore.
R.C. Nessuno ha individuato il cifratore.
Pubblico Cosa ci interessa d’individuare il cifratore nella vicenda? È una provocazione. Il cifratore ce l’abbiamo, è lei.
R.C. Il cifratore è il testimone dell’esplorazione di una vicenda per cui non resta la mitologia del fatto ma c’è uno svolgimento.
Pubblico A me cosa interessa di trovare il cifratore?
R.C. Ma è decisivo!
Pubblico Dove lo dobbiamo cercare questo cifratore?
R.C. Nella storia, nella differenza tra fiaba, fabula e saga, quindi nella differenza tra la fiaba che rappresenta alcuni fatti, alcune cose date come fatti che sarebbero fondanti uno stato d’essere, mentre è una vicenda che risulta fantasmatica.
Pubblico Lei dice che questo c’è già in Pirandello o è una sua lettura? Perché questo cambia completamente le cose. Se lei mi dice che è nella sua lettura, ok, ma se c’è in Pirandello vuole dire che è un precursore.
R.C. Se c’è nella mia lettura c’è anche in Pirandello, lo attingiamo dal testo, la lettura è lettura del testo dove c’è una coerenza interessante. Noi facciamo una lettura cifrematica.
Pubblico La lettura cifrematica è una delle tante interpretazioni che penso sia senz’altro molto interessante ma…
R.C. Noi facciamo una lettura cifrematica, ossia una lettura clinica che indica qualcosa d’importante, indica che con la parola non si può assimilare l’idea di qualcosa a qualcosa. Qualcosa non è l’idea di qualcosa, mentre ognuno parla delle cose e dell’idea che ha delle cose come fosse la stessa cosa, ma non lo è, non è lo stesso registro. La questione clinica marca il varco tra quel che tizio, caio, sempronio crede di essere, crede di avere, crede di potere accampare con la giustificazione delle cose e ciò che, svolgendosi la qualifica di queste cose, si snoda come un’altra cosa, un’altra vicenda, un altro modo, un’altra storia.
Pubblico L’autore…
R.C. L’autore è nel testo e è proprio ciò che ci consente la lettura. Se non ci fosse autore nel testo non potremmo leggere, avremmo i fatti incontrovertibilmente tali, che noi leggiamo ‒ e lei dice “interpretare” ‒ perché nel testo c’è l’autore e ciò comporta equivoci. L’autore è ciò che introduce l’equivoco perché, funzionando l’autore, ci sono gli equivoci. È tra un equivoco e un altro equivoco che si pone l’interpretazione, così come la sfumatura sta tra una differenza e un’altra differenza. Allora, equivoci, differenze, malintesi. La lettura si avvale di questo. Occorre però capire, intendere che c’è il funzionamento: qualcosa introduce un equivoco per cui la cosa non è così; qualcos’altro introduce un malinteso per cui la cosa non è così. E nell’intreccio, nell’intersezione di equivoci, sfumature e malintesi avviene la lettura.
Pubblico E cosa ne fa della lettura…
R.C. Niente, la lettura consente d’intendere che la cosa non è così com’è, ma è altra, diviene altra cosa leggendo. Parlando c’è questa procedura, l’oralità introduce questa procedura della parola che non è tale ma si qualifica.
Pubblico Tanto per capire qualcosa, ma poco-poco, questo dovrebbe superare in qualche modo l’equivoco?
R.C. No, l’equivoco non può essere espulso e non c’è nemmeno la finalità di espellere l’equivoco per arrivare al nucleo solido. Questo è un miraggio. Il nucleo finale è un miraggio della filosofia, del discorso filosofico.
Pubblico Questo non significa che in realtà la storia non esiste e che ci sono solo gli equivoci e che sono proprio quelli che dobbiamo accettare.
R.C. Perfetto, ma gli equivoci introducono la vicenda, la vicenda pulsionale. Nessuno è vittima di un destino, nessuno è vittima di una predestinazione, nessuno è vittima della propria origine, ma c’è una vicenda. Certo, occorre non farsi vittima dell’idea di destino, dell’idea di predestinazione, dell’idea di origine, perché facendosi vittima non c’è più la vicenda.
Pubblico Riportando un fatto della così detta cronaca, della vicenda di cui si parla in questi giorni, quella di Cucchi che è morto in carcere pare per…
R.C. Il ragazzo che pare sia stato picchiato.
Pubblico Dov’è il racconto e dov’è la vicenda?
R.C. Intanto noi non abbiamo ancora il racconto della vicenda, abbiamo un caso giudiziario. Non è che dobbiamo sovrapporre i registri. Se tizio viene bastonato e muore, non è che allora facciamo l’analisi dell’avvenimento e tizio non muore più. Qui è una questione analitica, abbiamo un testo, una fiaba, il racconto di una vita, un’ipotesi di vita e chi si reca dallo psicanalista per affrontare questioni della sua vita, comincia raccontando episodi della sua vita, comincia a raccontare episodi dicendo che a lui è successo questo, ha fatto questo, ha fatto quell’altro, è andato tutto malissimo e che è stato disgraziato perché, se invece di nascere lì, nasceva là, sarebbe andato tutto in altro modo. Poi, pian piano, lungo il racconto qualcosa si articola, si aggancia differentemente, qualcosa di quello che sembrava proprio cristallino s’incrina perché interviene un equivoco, un altro episodio che sfalsa il ricordo, lo combina differentemente e in ogni caso incrina la credenza che quella cosa giustifichi il suo essere. C’è un’altra procedura che si avvia, per cui quello che sembrava assolutamente impossibile perfino da formulare, addirittura si enuncia come ipotesi e magari si avvia pragmaticamente perché è intervenuto un altro statuto, lo statuto intellettuale delle cose. La materia narrativa, la materia analitica non è più sostanziale, non è più quel che si riteneva una sostanza ma diviene materia intellettuale. È una sovversione di una credenza dell’idea di sé. Questo è frutto dell’itinerario analitico, è frutto delle acquisizioni che avvengono, è frutto dell’ascolto, è frutto dell’intendimento, è frutto di ciò che interviene nell’esperienza di parola. Solo così ci si accorge della parola, solo così la parola interviene. Prima c’è un’idea di discorso, un’idea sistematica. E è proprio la dissipazione del sistema, dell’idea sistematica che consente un altro modo. È qualcosa che può sembrare letteralmente assurdo, però è quel che accade con la parola che nessuno può padroneggiare. È solo con la parola che nessuno può dire “Io sono fatto così”. Perché con l’analisi questo enunciato si altera. “Io”, l’io dell’enunciato, non è più l’io di riferimento. Ci si accorge che c’è uno scarto, che c’è un varco, che nessuna parola è identica a sé e quel che interviene alimenta il cammino e il percorso, alimenta le acquisizioni, alimenta la trasformazione, che è intellettuale.
A un certo punto di questo percorso interviene quello che chiamiamo la clinica, cioè la piegatura che consente di fare altre ipotesi. Non c’è più la talità, ma l’intervento della piegatura apre a differenti sezioni, differenti lezioni, qualcosa produce un’eco, qualcosa si ode differentemente, la stessa storia che si racconta si ode in altro modo.
Si aprono dei varchi, c’è un’apertura e ciò ha conseguenze incalcolabili, imprevedibili sia sul registro narrativo sia su quello pragmatico. La stessa negatività di dire: “Questo non lo posso fare”, “Questo non potrò mai farlo”, a un certo punto svanisce e interviene un’altra domanda: “Come faccio a fare questa cosa?”. Anziché dire: “Io questa cosa non la posso fare, non la potrò mai fare”, a un certo punto interviene un altro modo, un’altra domanda: “Come fare questo?”. Prima era: “Questa cosa, no”, poi questo “no” trova una sospensione, questa rigidità e drasticità della negazione trovano una sospensione e allora: “Ma come si potrebbe fare questo, come posso fare, come fare per…”. Ben altro atteggiamento tra la negatività assoluta e formulare un’ipotesi per fare ciò che occorre fare. A un certo punto dico: “Questo è decisivo per me, questa cosa è decisiva, allora come faccio?”. Tra: “Impossibile fare questo, non lo voglio proprio fare”, e “Come fare per” è tutta un’altra posizione Sorgono ipotesi e dispositivi per fare, e questa è la questione della clinica.
Pubblico Non sarebbe bello riuscire a riconoscere che ciò che credevo fosse necessario non lo è affatto?
R.C. Oppure non lo è affatto, certo, ma questa è un’altra cosa.
Pubblico E quindi accetto che non posso farlo.
R.C. Un conto è stabilire una negatività su un pregiudizio e un altro conto è formulare un progetto, un programma e svolgerlo, compierlo perché è qualcosa di decisivo per la vita. È differente tra una posizione che dice: “Io ho determinati limiti e questa cosa non la posso fare”, e invece svolgere un’ipotesi, formulare un progetto di vita e poi trovare la direzione perché il progetto si compia; è un’altra cosa.
Pubblico È una cosa positiva.
R.C. È una cosa salutare!
Pubblico Può essere salutare cambiare i progetti anziché ostinarsi a fare ciò che uno…
R.C. Non ci sono tanti progetti. Il soggetto pensa di potere provare vari progetti, ma di progetti e programmi di vita non è che ce ne sono tanti. Non è che “Adesso provo questo, poi provo quello”.
Pubblico Può essere salutare cancellare un progetto.
R.C. Ma non si tratta di averli i progetti, io non so quale sia! A un certo punto si precisa, ma nell’itinerario, non nella farneticazione tra me e me: “Ora provo questo, ora provo quello”.
Pubblico Quindi, non siamo noi che li facciamo i progetti.
R.C. Esatto, non siamo noi che li facciamo, ma sorgono nel dispositivo intellettuale, nella traversata, nell’itinerario, nell’esperienza di parola. Se l’esperienza non c’è, non sorge neanche il progetto. Non è che sia una cosa immanente per cui ognuno ha il suo progetto in testa e a un certo punto gli cade addosso. Non è così, è un frutto dell’esperienza, altrimenti di cosa stiamo parlando?
Pubblico Volevo chiedere dell’equivoco, che è come una cosa negativa, perché non si capisce bene una cosa che invece si vorrebbe capire. Invece, non è per questa ragione ma perché l’equivoco produce qualcosa di settario, fa sì che la verità non sia riversata, ma a un certo punto si avverte che la verità non è universale.
R.C. C’è chi pretende di avere la verità in tasca e di dovere servirla, per cui quando questa verità fosse messa in pericolo da una qualche acquisizione, si allarma, si ritrae, non ne vuole sapere. La drasticità procede da questo, con le sue figure della rigidità e quant’altro.
Pubblico Quando lei prima ha detto che l’autore è nel testo, volevo chiederle di quale testo parla.
R.C. Del testo che stiamo leggendo, che stiamo considerando, di cui si sta dicendo.
Pubblico Quindi non è già stato scritto?
R.C. Eh no! Reperire l’autore è un primo passo, l’autore procede dall’autorità, tutto un altro capitolo che affronteremo un’altra volta. Adesso dicevamo dell’ascolto che s’instaura proprio perché c’è il funzionamento del nome, del significante e c’è anche, oltre al nome e al significante, l’Altro, la differenza assoluta, la funzione vuota; Altro, funzione di Altro. Non ci sono solo due funzioni, ce ne sono tre e questo introduce il tre, cosa che per il discorso occidentale è uno sconvolgimento: non c’è più da scegliere tra due possibilità! Non si può più scegliere. Impossibile scegliere. Il tre comporta che non si può più scegliere, che non c’è più il soggetto della scelta. E allora intervengono gli effetti della parola, il modo con cui la parola agisce: con il senso, con il sapere, con la verità e non con il proprio pregiudizio da affermare per padroneggiare le cose. E senza più questa idea di padronanza allora gli effetti, il cui ascolto procede dall’umiltà e non dalla soggettività. Questa è l’umiltà: la disposizione all’ascolto.
Sono tutte cose abbastanza incomprensibili ai più perché esigono la parola e la parola non è dappertutto; il discorso filosofico è senza parola, è un discorso, ha una verità da dimostrare e non da trovare. Nella parola la verità si produce come effetto. Dove la verità è già data non c’è parola, sembra che ci sia ma non c’è parola. La parola è il dispositivo in cui si tratta di capire e intendere quello che si dice perché ciò non è già chiaro prima.
Detto questo, che cosa è accaduto sulla scena di questa vicenda? Chi narra la storia? Chi sono i personaggi? Corrado Tranzi è personaggio o è il cifratore? E Marco Perla? E Ebe/Bebè? Corrado Tranzi, chi è e cosa fa? Lei ha letto la storia? Non ha letto, si è guardata bene dal farlo, era pericoloso! Quindi, Corrado Tranzi cosa fa? È un medico ma non è il medico di campagna di Kafka, è un medico, un personaggio che compie ogni sorta di orrendi crimini: abbandona la figlia e uccide Marco Perla. Un personaggio spregevole: abbandona la figlia e poi, appena torna, uccide il marito della figlia. E Marco Perla è personaggio o è cifratore? Cosa fa Marco Perla? Vede morire la madre, perde la fidanzata, perde la moglie e perde la vita. È proprio la vittima per antonomasia, perde tutto, è un disgraziato, ogni cosa che fa è un disastro. È una vittima eccellente. E Ebe? Ebe è abbandonata dal padre, poi uccide la madre nascendo, è tradita dalla nonna che mente a proposito del fidanzatino, del primo fidanzato, è costretta a sposare Marco Perla in clima d’incesto e poi rivede il padre che torna proprio per uccidere suo marito; quindi, rivede il padre che sta per compiere l’omicidio che la renderà libera, sta per compierlo. Ma questo misfatto avviene? C’è una fiaba in cui abbiamo l’assenza del padre e l’assenza della madre. La fiaba poggia su questo, il registro della fiaba poggia sulla negazione della famiglia, del padre, del figlio, dell’Altro e della madre. Solo così, con questa negazione, il fatto è tale e c’è il misfatto. Chi, tra questi personaggi, risponde a questi requisiti? È Ebe, questa è la fiaba di Ebe che nascendo uccide la madre e viene abbandonata dal padre. Questa è la fiaba di Ebe, ma nella fiaba di cosa si tratta in termini clinici? Perché è così importante l’espunzione del padre e della madre? Perché la fiaba si regge su questa espunzione? Consideriamo i termini clinici, logici.
Questa fiaba è senza amore e senza sessualità. Sì, c’è l’amore di Marco Perla ma è un ricordo che si protrae; lui pensava alla prima Ebe, poi ne vede un’altra e allora c’è questo ricordo. È invaghito, ma non c’è amore, l’amore è un’altra cosa, e non c’è neanche la sessualità, cioè la politica del tempo per cui le cose si fanno e si concludono, la politica del programma. Qui non c’è nessuna politica, c’è una serie di fatti che sembrano accadere per casualità.
Pubblico L’amore di Corrado per Ebe, per lei non esiste?
R.C. Amore? Quale amore? Lui era invaghito della mamma di Ebe, poi la rivede e dice “Ah, ma è lei, è uguale, guarda quanto ci somiglia!”.
Pubblico L’amore proprio per lei come madre, non era amore.
R.C. Era amore, poi lei si è sposata con Corrado Tranzi.
Pubblico Sì, con Corrado, amore per lo meno da parte di Corrado, l’autore ci dice che è stato così impetuoso.
R.C. Non era amore. L’autore dice che era “ingordo”, ingordo di lei, ma di amore qui non ce n’è, di amore che dà quel che non ha non c’è traccia. L’amore è la struttura in cui non c’è risparmio o sostanza da erogare, da elargire, perché l’amore dà quel che non ha. L’amore non è un’attività che dispensa e che dice: “Guarda, posso darti questo o quello”. No, non è amore, qui non c’è amore.
Pubblico Quando all’inizio dice che si è innamorato, che disprezzava le donne.
R.C. Bravo! Corrado Tranzi, disprezzatore di tutte le donne.
Pubblico Prima. Quindi non c’è stato, secondo lei, questo mutamento?
R.C. Sì, disprezzatore, questo è il suo statuto. Abbandona la figlia e la moglie muore.
Pubblico Ma l’abbandona dopo che è morta la moglie proprio per amore, per l’impossibilità di mantenere la figlia. Ciò che lo ha fatto scappare non può essere l’effetto dell’amore, di un grande amore che può anche giustificare la sua fuga?
R.C. La storia è la storia di Ebe, non è la storia di Corrado Tranzi.
Pubblico Perché lei la vuole vedere così. Che può essere interessante, basta che non sia una cosa categorica che lei dice che debba essere la storia di Ebe. No, la storia è di Corrado.
R.C. Ora, Freud lo aveva capito in maniera precisa, lo aveva capito perché lo aveva constatato, era un elemento della sua esperienza, com’è riscontrabile nelle conversazioni di analisi: “Per ognuno” diceva Freud “è più facile confessare una colpa, confessare un delitto, che non raccontare una fantasia”. E è così. La soggettività è la difesa che protegge e impedisce il racconto delle fantasie e preferisce confessare le colpe, anche quelle non commesse, anche quelle che sono fantastiche ma che sono raccontate come colpe. L’evitamento della supposizione, dell’ipotesi dell’elemento fantastico, viene giustificato come ricorso alla genealogia, all’origine, alla realtà dei fatti. Questo ci consente di dire che la fiaba è una fantasia di Ebe. Ebe, a un certo punto, ha una fantasia intorno all’origine, alla propria origine, alla propria famiglia di origine e fantastica di essere senza madre e di essere stata abbandonata dal padre. È una fantasia di origine, una fantasia di peccato che costituisce una macchia indelebile, una fantasia d’incesto, una fantasia di abbandono, una fantasia di vittimismo, una fantasia di assassinio. Tutto ciò ha una coerenza in termini fantasmatici, ha una coerenza che comporta per Ebe la negazione dell’avvenire, Ebe è senza avvenire. Ma, lungo questa fantasmatica, interviene a un certo punto il padre, cioè lo zero, e questa fantasmatica trova un’altra vicenda. Ebe non è più abbandonata, non è più senza madre, non è più nell’incesto, il padre non è più assassino, la fantasia si dissipa come i personaggi della fiaba che sono animali fantastici di Ebe, ideati da Ebe per reggere la fantasia grazie a cui l’origine e il destino sono segnati. Fino a che regge la fantasia in cui la madre è negata, il padre è negato, l’avvenire è negato, il tempo finisce, ci sono solo mali, eventi negativi, non ci sono dispositivi rivolti all’avvenire. Ma, appunto, la fiaba termina senza cadaveri, senza morti, con un’ipotesi di avvenire “Puoi vivere ora”, sapendo che non potrebbe, “sapendo”; se l’impalcatura del fantasma creasse una conoscenza di sé, lei non potrebbe vivere e ci sarebbe per sempre il marchio della vittima. Ma proprio perché la conoscenza non può instaurarsi, il tempo non finisce, l’itinerario prosegue, da cui l’ipotesi di vita.
Pubblico Questo condizionale non c’è nel testo, ce lo mette lei.
R.C. Noi lo leggiamo.
Pubblico Questo ce lo mette lei, questa qui non è la parola, ma la sua parola, perché lei è psicanalista.
R.C. Benissimo.
Pubblico Ah ecco, non è l’analisi del testo, non mi dica che questa è un’analisi del testo per questo motivo. Vabbè, è veramente…
R.C. Questa è la mia analisi del testo.
Pubblico Ecco, è la “sua” analisi del testo, un’analisi estremamente soggettiva come quando…
R.C. La vedo molto accalorato, ha qualcosa da difendere?
Pubblico Eh sì!
R.C. Che cosa ha da difendere?
Pubblico Il buonsenso.
R.C. Ah ecco, il buonsenso. Certo!
Pubblico E poi mi piace interrogarmi per mio gusto. L’analisi del testo che lei ha svolto stasera è anche…
R.C. È una ipotesi che è sorta nel nostro dispositivo. Ora, questa ipotesi che è sorta non è negabile e non è l’unica ipotesi. Noi accogliamo volentieri altre ipotesi, ma questa intanto è una ipotesi, una lettura.
Pubblico Non mi sembra che venga dal testo.
R.C. Perbacco, viene proprio dal testo. Ma la chicca di Pirandello è di dare questo titolo al testo, Superior stabat lupus, a indicare il materiale fantastico, fiabesco. Qui c’è una fiaba, ma la fiaba non finisce qui, non finisce mai; la fiaba è da svolgere e da leggere. Noi non creiamo la morale dal testo, facciamo una lettura che è senza morale. Ciò può risultare inquietante, certamente può anche contraddire il buonsenso, ma questo non c’impedisce di farlo.
Pubblico È lo spunto che si complica: cos’è che abbiamo ascoltato?
R.C. Sopra tutto è impossibile dire che cosa abbiamo ascoltato, impossibile elencare le pieghe che si producono parlando, però, accanto a questa domanda possiamo dire perché abbiamo ascoltato, com’è accaduto che abbiamo ascoltato, che qualcosa ha rilasciato un’eco per cui il testo conclude a Altro. Perché? Perché possiamo farne la lettura e coglierne varie sezioni, vari aspetti? Più che “che cosa” chiediamoci “perché”. Perché, Novaretti? Se lo sta chiedendo, perché? Qual è quel dispositivo in cui c’è la libertà che Altro intervenga? Certamente non nell’apparato disciplinare, dove se qualcosa d’Altro interviene c’è l’eresia, c’è l’espulsione, c’è la bollatura perché contraddice la linea, la norma, il buonsenso. Dove qualcosa d’Altro può intervenire liberamente senza che questo evento debba essere sanzionato?
Pubblico Nel sogno.
R.C. Nel sogno, benissimo. Dunque, nella struttura della parola. Dunque, parlando! E questo ci pare prezioso; dirò di più, salutare.
Provi ciascuno a leggere senza dovere consacrare nessun personaggio, e provi a scrivere qualcosa, un’altra storia che vada oltre la fiaba.
La famiglia come traccia e la clinica (Sei personaggi in cerca d’autore Dramma di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Leggiamo l’introduzione di Luigi Pirandello al suo testo I sei personaggi in cerca d’autore. È un testo che consiglio vivamente di leggere, come anche la pièce, che non può essere effettivamente intesa senza la prefazione. Ci sono alcuni spunti di grande interesse. Pirandello scrive:
Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo esagitato, ciascun d’essi ‒ parla dei sei personaggi ‒ per difendersi dalle accuse dell’altro, esprime come sua viva passione e il suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito, l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole, la molteplice personalità di ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi, e infine il tragico conflitto immanente tra la vita, che di continuo si muore e cambia, e la forma che la fissa immutabile. Due soprattutto, fra quei sei personaggi, il padre e la figliastra, parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma ‒ atroce inderogabile fissità della loro forma ‒ nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre, immutabilmente, la loro essenzialità che, per l’uno, significa castigo e, per l’altra, vendetta.
Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi, appunto perché manca l’autore che essi cercano, e si rappresenta invece la commedia di questo loro tentativo vano, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati
È preciso qui Pirandello. Dice: Il dramma non riesce a rappresentarsi, appunto perché manca l’autore che essi cercano… Non già l’autore, ma l’autore che essi cercano.
Ma si può rappresentare un personaggio rifiutandolo? Evidentemente, per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi esprimerlo. E io, difatti, ho accolto e realizzato quei sei personaggi; li ho però accolti e realizzati come rifiutati, in cerca d ‘altro autore. Bisogna ora intendere che cosa ho rifiutato di essi: non essi stessi, evidentemente, bensì il loro dramma, che, senza dubbio, interessa loro soprattutto, ma non interessava affatto me per le ragioni già accennate. E che cos’è il proprio dramma per un personaggio? Ogni fantasma, ogni creatura d ‘arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d ‘essere del personaggio; è la sua funzione vitale, necessaria per esistere ‒ per il personaggio ‒. Io, di quei sei, ho accolto dunque l ‘essere rifiutando la ragion d’essere; ho preso l’organismo affidando a esso, invece della funzione sua propria, un’altra funzione più complessa e in cui quella propria entrava appena come dato di fatto. Situazione terribile e disperata specialmente per i due, il padre e la figliastra, che più degli altri tengono a vivere e più degli altri han coscienza di essere personaggi, cioè assolutamente bisognosi di un dramma e, perciò, del proprio, che è il solo che si possano immaginare a se stessi e che intanto vedono rifiutato. Situazione “impossibile”, da cui sentono di dover uscire a qualunque costo per questione di vita o di morte. È ben vero che io di ragion d’essere, di funzione, gliene ho dato un’altra, cioè appunto quella situazione impossibile, il dramma dell’essere in cerca d’autore, rifiutati. Ma che questa sia una ragion d’essere, che sia diventata per essi che avevano già una vita propria, la vera funzione necessaria e sufficiente per esistere, neanche possono sospettare. Se qualcuno glielo dicesse, non lo crederebbero; perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile.
Poi si addentra nella descrizione di due personaggi in particolare, il padre e la madre, che ciascuno può leggere per proprio conto. Quello che m’interessava rilevare, e che Pirandello coglie con molta precisione, è che, in assenza di autore, ognuno si rappresenta personaggio di un dramma, di cui il dramma stesso fornisce la ragione d’essere. E l’autore non è quello che ognuno cerca, cioè che ognuno crede che sia. L’autore che ognuno crede di potere trovare sarebbe quello che conferma la natura e la ragione del dramma. E allora qui c’è una notazione molto interessante:
…li ho però accolti e realizzati come rifiutati, in cerca d’altro autore…
Cioè un accoglimento dell’istanza ma non del personaggio in quanto tale. È accolta l’istanza ma non il dramma. È accolta l’istanza giusto per favorire l’avvio della ricerca dell’autore, l’incontro con l’autore, perché l’autore, funzionando, dà modo di svolgersi alla storia non già al dramma. È rilevabile in queste note, come per altro anche nel testo della pièce, la finezza clinica straordinaria di Pirandello, nel cui testo non c’è traccia di gnosi, non c’è traccia di psicologismo; infatti riceveva dai critici l’accusa di non produrre personaggi umani, quindi di essere uno scrittore un po’ strampalato che produceva personaggi bizzarri, strani, non veri “tipi umani”. E, a proposito di questo, lui nota che il personaggio della madre, qui nella pièce, non è stato affatto inteso dalla critica. Dice:
Questo personaggio mi ha dato una soddisfazione di nuovo genere, che non va taciuta. Quasi tutti i miei critici, invece di definirlo al solito “disumano”, che sembra sia il peculiare e incorreggibile carattere di tutte indistintamente le mie creature, hanno avuto la bontà di notare, «con vero compiacimento», che finalmente dalla mia fantasia era uscita una figura umanissima. La lode me la spiego in questo modo: ché essendo la mia povera madre ‒ la madre della pièce ‒ tutta legata al suo atteggiamento naturale di madre, senza possibilità di liberi movimenti spirituali, cioè quasi un ciocco di carne compiutamente viva in tutta le sue funzioni di procreare, allattare e amare la sua prole, senza appunto bisogno per ciò di far agire il cervello, essa realizzi in sé il vero e perfetto “tipo umano”. Certo, è così, perché nulla pare che sia più superfluo dello spirito in un organismo umano.
Allora, se il tipo umano è contraddistinto dal fatto di potere non usare il cervello, c’è da interrogarsi se sia il caso di diventare umani o di essere umani e sulla portata dell’umano, che è poi la questione dell’essere normali.
Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale. La vita che s’è fissata per essere nella nostra forma corporale, a poco a poco uccide la sua forma.
Come dire che il personaggio, per essere compiutamente personaggio deve rinunciare a vivere. È semplice!
Chi è il personaggio? Il personaggio è chi ritiene di conoscersi, di dovere conoscersi e essere se stesso. Quello è il personaggio. E il dramma sta in questo essere se stesso che abolisce il movimento vitale, come dice Pirandello:
…nella atroce inderogabile fissità della loro forma in cui vedono espresse per sempre immutabilmente la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo, per l’altra vendetta.
Questo è svolto molto bene nella pièce, che è veramente educativa. Se c’è un testo educativo da leggere, è questo. Da leggere, però, non per seguirlo ma per attraversarlo, non prendendolo come un vademecum. Anche nella funzione dell’insegnante sta la scommessa di avviare la ricerca dell’autore per chi si creda personaggio e, sopra tutto, per chi fa del suo essere personaggio la ragione d’essere del suo dramma, ossia chi fa della sua vita un dramma, togliendo dalla vita la parola. Il dramma è la fissazione dell’origine. È questo a produrre il personaggio: la credenza nell’origine comune, credenza che noi possiamo anche qualificare come fantasma d’incesto. Per chi si trova nella credenza nell’origine comune e, quindi, nel fantasma d’incesto, che è l’altra faccia del fantasma di morte, la vita si configura come dramma, come atroce inderogabile fissità della forma dell’essere. Ma, come dice Pirandello, tutto ciò è da accogliere come materiale per la commedia e, poi, per la storia. Non è uno stato di essere delle cose, perché la questione è quella del fantasma, della fantasmatica, quindi della logica del fantasma che occorre non trascurare, senza per altro coltivarla, perché possa articolarsi e svolgersi. Il dramma sta anche nella credenza che il fantasma sia l’essere. Pirandello sottolinea che è essenziale allo svolgimento della storia, perché il dramma giunga alla commedia e poi a dissiparsi come dramma, il dispositivo di accoglimento, il dispositivo di ascolto. Dice: Questi personaggi li ho accolti, ma rifiutati nella loro ragion d’essere.
Non ho accolto il fantasma. Ho accolto il personaggio con la sua istanza di ricerca dell’autore; ho accolto il personaggio, non la sua ragione d’essere, cioè non ciò che era addotto come la ragione d’essere del dramma. Quello no! Non ci mettiamo a argomentare sulla ragione d’essere del personaggio, se ha torto o ha ragione a essere personaggio, se è vero o non è vero. C’è un dispositivo entro cui occorre che l’istanza della ricerca dell’autore avvenga, si svolga, giunga a compiersi, non argomentando sulla ragione d’essere. È una lezione assolutamente straordinaria, tenendo conto che questo testo è stato scritto all’inizio del ventesimo secolo, intorno al 1920. Come dire che la situazione attuale della psicologia e della psichiatria in Italia è precedente a Pirandello; è il meno che si possa dire. Non c’è traccia di dialogo in Pirandello, ma di dispositivo di parola; c’è traccia della logica e della struttura della parola, non della gnosi. Nessuna sudditanza, nessuna mitologia o ideologia della coscienza, ma l’istanza di qualità, l’istanza di intellettualità che è l’istanza che lui chiama quella di fare agire il cervello. Non di “usare il cervello”, ma di fare agire il cervello: vuole dire istanza di fare agire la parola, di fare agire il dispositivo intellettuale. Questo è il cervello. Non già l’organo che ognuno pensa di avere e di dovere usare in un certo modo, ma il dispositivo artificiale, il cervello come cervello artificiale, come dispositivo artificiale in quanto intellettuale. Anche la base della questione della scuola, la base della questione della formazione di ciascuno sta qui: nel bisogno di fare agire il cervello. E è curioso che questa puntualizzazione intorno all’istanza intellettuale, che sta alla base di questi personaggi, quindi come istanza intellettuale che sta alla base della sua produzione di scrittura ‒ perché si tratta poi di Pirandello, in realtà ‒, è curioso che sia posta come prefazione a questa pièce in cui la questione rappresentata è quella dell’incesto e della prostituzione, cioè della famiglia naturale. Come dire che dove non sia posto in atto, non avvenga questa istanza di fare agire il cervello, quel che accade è la rappresentazione naturalistica dell’incesto e della prostituzione, non come casi particolari, ma come naturale avvenimento dei tipi umani, naturale modo di avvenimento delle relazioni umane. È la questione di questo testo, la lezione che ci indica.
Le così dette relazioni umane sono riproduzioni del fantasma d’incesto e riproduzioni delle modalità di rappresentarlo, la cui forma eminente è la prostituzione. La prostituzione non è solamente rappresentata da quel che avviene per le strade, quella è la punta; è rappresentata dalle relazioni umane, dove cioè, per l’uno, si tratta del castigo, per l’altro, della vendetta. E dove non si tratta ora del castigo e ora della vendetta nelle relazioni umane? Solo nella santità! Ma non è per tutti. Occorre sottolineare l’importanza d’instaurare un dispositivo dove il dramma non riesce a rappresentarsi perché manca l’autore che ognuno si rappresenta, cioè l’agente del castigo e l’agente della vendetta, perché, dove ognuno può rappresentarsi questo agente, è sicuro che non c’è cervello che agisca. Si tratta del dispositivo della parola, dell’Altro irrappresentabile, della causa irrappresentabile, delle cose e dell’Altro irrappresentabili, la condizione dell’itinerario e l’altro tempo.
La prostituzione è un caso molto comune di dispositivo conformista. La famiglia naturale è la base della prostituzione. Basta leggere i Sei personaggi per intendere che la prostituzione nient’altro compie nel suo atto che la vendetta contro l’agente della relazione ritenuta incestuosa, ora il padre, ora la madre, ora il fratello, cioè la vendetta contro il soggetto che riassume in sé l’agente dell’incesto, l’agente dell’origine comune, che è anche l’agente che prescrive, nello stesso tempo, la morte. E è su questo che si fonda l’alternanza della colpa e della pena. L’istituto della vendetta ha come suoi pilastri l’istituto della colpa e l’istituto della pena. L’elaborazione della questione famiglia è assolutamente essenziale per l’avvenire di ciascuno. Qual è la famiglia di ciascuno? Qual è la famiglia in cui ciascuno si trova, quale quella in cui crede di trovarsi? È una famiglia costituita da personaggi, e i personaggi sono sempre personaggi del dramma dell’incesto o è una famiglia in cui sono rappresentati statuti differenti a partire dall’autore, dall’autore irrappresentabile, quindi dal funzionamento delle cose? O è una famiglia non rappresentata dallo stare o dall’essere delle cose, ma dal loro funzionamento, non ammesso il quale, ognuno si trova nel cerchio nella morte, nel cerchio della prescrizione, nel cerchio della soggettività, nel cerchio del suo credersi se stesso, nel cerchio del suo credere di conoscersi o di dovere conoscersi. Questa è la prigionia: credere di conoscersi, oppure credere di dovere conoscersi, dove allora l’Altro non c’è più, non c’è più la vita, ma c’è il personaggio. C’è l’immobile, inderogabile, atroce fissità del personaggio. Nessuno può sopportare di vivere come personaggio, questa è la questione intellettuale, per ciascuno.
Maria Antonietta Biotta Può essere un esempio di questo il fatto che nelle famiglie, a volte, ci sono dei cliché, tipo la pecora nera? Questo può essere un esempio della fissità del personaggio che ogni famiglia crea all’interno di se stessa?
R.C. Esatto! Brava, questo è preciso. La “pecora nera”, “l’ultima ruota del carro” sono formulazioni che indicherebbero la gerarchia rispetto all’origine. Ogni gerarchia è rispetto a una linea. Di questa linea esistono poi tante rappresentazioni. Non solo per l’aspetto negativo, anche per l’aspetto positivo; tanto la prescrizione a essere il primo, tanto quella a essere l’ultimo, la logica è la stessa, sono due facce della stessa questione. Poi, tutto questo ha come elemento di riferimento l’animale, un animale fantastico: può essere la pecora, che può essere nera, può essere altre cose. “Ho una memoria da elefante”, “sano come un pesce”, “intelligente come un’aquila”, “furbo come una volpe”. Tutti questi animali, animali fantastici, formano una sorta di araldica, per ognuno, che rimanda a una genealogia: chi ce l’ha nello stemma di famiglia, chi ce l’ha nella testa. Magari chi ce l’ha nello stemma di famiglia non ne tiene neanche conto; chi ce l’ha nella testa si adegua a questo animale fantastico che ritiene di essere o di dovere essere. Questo animale fantastico si caratterizza per l’anfibologia, cioè per la sua duplicità, nella sua versione buona e versione cattiva, versione positiva e versione negativa e, in ciascun caso, può accadere tanto l’una quanto l’altra. È un grosso impiccio, sopra tutto se il destino è vincolato all’immagine di sé. Allora, se uno si sente uno straccio, una pecora nera, un verme — “oggi mi sento…” —, quello che farà, come potrà riuscire? Non potrà riuscire. Il destino delle cose che si fanno è vincolato a questa anfibologia, a questa zoologia fantastica, a questa immagine di sé che ognuno ritiene di dovere avere e che comunque ha al di fuori del dispositivo in cui si tratta di fare agire il cervello. Perché il cervello non ha bisogno di questa zoologia fantastica. Questa zoologia fantastica prende il posto del cervello, questa è la questione, purtroppo! Dove c’è questa zoologia fantastica, non c’è più il cervello, c’è l’animale fantastico, c’è la paura dettata da questo animale fantastico, dalla sua anfibologia. “Vedi di conoscerti!”, “Bisogna conoscersi, conoscere se stessi, tutto l’animale. Vedi di scoprire l’animale che è in te!”. Bene! Cosa fanno gli animali? Procreano, al massimo. È dato qualcosa che resti della vita dell’animale? È dato che l’animale giunga alla qualità? No. Non è nelle istanze dell’animale, questo. Nelle istanze dell’animale sta giusto vivere per morire, procreare per garantire la continuità della specie e basta. Questo è il dramma. Dove non c’è l’istanza della qualità, l’istanza pragmatica, l’istanza di vita.
Consideriamo ora qualche brano dell’opera Sei personaggi in cerca d’autore. Voi sapete un po’ la trama? È un’opera che pone l’accento sulla questione della famiglia, sullo statuto della famiglia, sul fantasma materno; in particolare, su come il fantasma materno giunga a impedire l’instaurazione della famiglia. Si tratta qui di sei personaggi. C’è una rappresentazione teatrale in atto, Il gioco delle parti e, mentre si stanno allestendo le prove, arrivano sul palcoscenico sei personaggi in cerca d’autore. E questi sei personaggi, allora, interrompono le prove della commedia che si stava programmando e cominciano a raccontare la loro vicenda, per trovare l’autore che possa scriverne il testo, per potere rappresentare l’opera, perché loro sono personaggi e per questo non possono anche fare gli attori, perché l’attore attua una trasformazione, una differenza, un’alterazione del personaggio; il personaggio, invece, è inalterabile nella sua realtà.
Questi personaggi sono il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il ragazzo, la bambina. La figliastra, che è figlia della madre e il cui padre è morto; il figlio, che è figlio del padre e della madre; poi ci sono la bambina e il ragazzo: anche la bambina è figlia del padre e della madre, mentre il ragazzo è fratellastro. Quindi, ci sono due fratelli e due fratellastri: due sono fratelli fra loro e due sono fratellastri, la madre e il padre, che è padre a due. Ma che cos’è per gli altri? Allora leggiamo alcuni passi.
Il padre: Ma se è tutto qui il male, nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai. Guardi la mia pietà: tutta la mia pietà per questa donna è stata assunta da lei come la più feroce delle crudeltà.
Tutta la mia pietà è stata assunta da questa donna come la più feroce delle crudeltà.
Ma se m’hai scacciata? dice la madre; e il padre: Ecco, la sente? Scacciata. Le è parso che io l ‘abbia scacciata?
E la madre: Tu sai parlare, io non so; ma creda, signore, che l’ha fatto, dopo avermi sposata, chissà perché. Ero una povera, umile donna.
Il padre: Ma appunto per questo, per la tua umiltà ti sposai, che amai in te credendo… No. Vede? Dice di no. Spaventevole, signore, creda, spaventevole la sua sordità, sordità mentale. Cuore, sì, per i figli, ma sorda; sorda di cervello, sorda, signore, fino alla disperazione. Se si potesse prevedere tutto il male che può nascere dal bene che crediamo di fare. Veniamo al fatto, veniamo al fatto, signori miei. Queste son discussioni. Ecco, sissignore, ma un fatto è come un sacco: vuoto non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrare dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato.
E qui la figliastra comincia a raccontare qual è la questione, “il dramma che si porta dentro”, e cioè di avere incontrato il padre nella casa di madama Pace. Casa equivoca, casa di appuntamenti, dove andava per portare le cose che la madre cuciva e che madama Pace, anziché accogliere benevolmente, criticava e diceva: “Ma sono fatte malissimo”, per cui lei doveva pagare il fatto che la madre faceva male queste cose. E come pagava? Con alcune prestazioni, incontrando alcuni clienti di madama Pace.
Là, lei, un giorno, incontrò lui, “vecchio cliente”.
“Sissignore”, dice la figliastra indicando il padre.
Il padre dice: Vedrà che scena da rappresentare. Superba. Lei si immagini la situazione mia e la sua, una di fronte all’altro: ella così come la vede, io che non posso più alzarle gli occhi in faccia.
La figliastra: Buffissimo! Ma possibile, signore, pretendere da me, dopo, che me ne stessi come una signorinetta modesta, ben allevata e virtuosa, d’accordo con le sue maledette aspirazioni a una solida sanità morale?
E il padre: Il dramma per me è tutto qui, signore, nella coscienza che ho che ciascuno di noi, veda, si crede uno. Ma non è vero. È tanti, signore; tanti, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi, uno con questo, uno con quello. Diversissimi, e con l’illusione intanto d’esser sempre uno per tutti. È sempre quest‘uno che ci crediamo in ogni nostro atto. Non è vero, non è vero, ce ne accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi. Ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto e che, dunque, una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenersi agganciati e sospesi alla gogna per un’intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto. Ora, lei intende la perfidia di questa ragazza? M’ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei, e mi vuole dare una realtà quale io non potevo mai aspettarmi che dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso della mia vita. Questo, questo, signori, io sento soprattutto. E vedrà che da questo il dramma acquisirà un grandissimo valore.
Ma c’è poi la situazione degli altri. Qui, parla la figliastra: Forte, già, che forte. Non son mica cose che si possono dir forte. Le ho potute dir forte io per la sua vergogna ‒ indicando il padre ‒ che è la mia vendetta.
Prima, il capo comico dice: Bisogna che lei si contenga, signorina, e, creda, nel suo stesso interesse, perché può anche fare una cattiva impressione, glielo avverto. Tutta codesta furia dilaniatrice, codesto disgusto esasperato quando lei stessa, mi scusi, ha confessato di essere stata con altri, prima che con lui da madama Pace, più di una volta.
La figliastra, abbassando il capo, con profonda voce, dopo una pausa di raccoglimento: È vero, ma pensi che quegli altri sono egualmente lui, per me.
Il capocomico: Come gli altri? Che vuol dire?
La figliastra: Per chi cade nella colpa, signore, il responsabile di tutte le colpe che seguono non è sempre chi per primo determinò la caduta? E, per me è lui, anche da prima che io nascessi. Lo guardi, e veda se non è vero.
E, per me, è lui, ancor prima che io nascessi; è lui il responsabile, è lui il soggetto agente della colpa. Dunque, prima, cosa avviene? La madre si lamenta che la figlia si è perduta e che lei, quindi, vive in uno strazio perenne.
Dice il padre: Il momento eterno, come io le ho detto, signore. Lei è qui per cogliermi, fissarmi, tenermi agganciato e sospeso in eterno alla gogna, in quel solo momento fuggevole e vergognoso della mia vita. Non può rinunziarvi e lei, signore, non può veramente risparmiarmelo.
La figliastra: Non importa. Quanto più danno per noi, tanto più rimorso per lui.
E poi sorge una questione tra gli attori e i personaggi su chi abbia titolo per rappresentare questo dramma, e il padre dice:
Il personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è, perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo, non dico lei adesso, un uomo così, in genere, può non essere nessuno. Soltanto per sapere, signore, se veramente lei, come adesso si vede, come vede per esempio a distanza di tempo quel che lei era una volta, con tutte le illusioni che allora si faceva, con tutte le cose dentro, intorno a lei, come allora le parevano. Ed erano, erano realmente per lei. Ebbene, signore, ripensando a quelle illusioni che adesso lei non si fa più, a tutte quelle cose che ora non le sembrano più come per lei erano un tempo, non si sente mancare? Non dico queste tavole di palcoscenico, ma il terreno, il terreno sotto i piedi, argomentando che ugualmente questo, come lei ora si sente, tutta la sua realtà d’oggi così com’è, è destinata a parerle illusione domani.
Ebbene ‒ dice il capocomico ‒ che vuol concludere con questo?
Oh, niente, signore ‒ dice il padre ‒, farle vedere che se noi ‒ indicando di nuovo sé e gli altri personaggi ‒ oltre l’illusione, non abbiamo altra realtà, è bene che anche lei diffidi della realtà sua, di questa che lei oggi respira e tocca in sé, perché, come quella di ieri, è destinata a scoprirlesi illusione domani.
Quindi, dice, per voi, per voi uomini, per voi attori, ciò che è realtà adesso, un domani sembrerà illusione, cioè incontra un’alterazione, incontra un percorso, un itinerario: questa realtà si svolge.
Il padre continua: Ma la nostra, no, signore. Vede, la differenza è questa: non cangia, non può cangiare. Per noi personaggi la realtà non cangia. Non può cangiare, né essere altra, mai. Perché già fissata. Così questa, per sempre, è terribile, signore, realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell’accostarsi a noi.
Qui c’è la questione della predestinazione, della genealogia che sancisce il personaggio; non già l’attore, non già il divenire, ma il personaggio, la cui realtà e immutabile. Una volta che si è inscritto nella genealogia, per chi si crede personaggio, quella è la prescrizione. E dunque il personaggio cerca l’autore per incontrare lo svolgimento della storia, per sfuggire a questa fissità della storia, a questa condanna all’immutabilità, è l’autore che introduce nella storia la vicenda, un altro modo.
Il padre: Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può essere da tutti immaginato in altre situazioni in cui l’autore non pensò di metterlo, e acquistare anche a volte un significato che l’autore non si sognò mai di dargli.
Quindi, se c’è autore, non c’è personaggio stabile. In assenza di autore, c’è la predestinazione.
Il padre rivolto al figlio: Per Dio, obbedisci, obbedisci! Non senti come ti parlo? Non hai viscere di figlio? Devi obbedire, devi obbedire!
Il figlio, colluttando con lui e alla fine buttandolo a terra presso la scaletta, fra l’orrore di tutti:
No, no. E finiscila una buona volta. Ma cos’è codesta frenesia che ti ha preso? Non hai ritegno di portare davanti a tutti la tua vergogna e la nostra? Io non mi presto, non mi presto, e interpreto così la volontà di chi non volle portarci sulla scena.
Il figlio non si presta a essere riconosciuto “figlio di”, figlio di mamma; interpretando così la volontà dell’autore, ossia, ammettendo l’autore, il figlio non è figlio di mamma, non è inscritto nella genealogia, non obbedisce al dettato della vergogna. Quale vergogna? La vergogna del padre che ha incontrato nel postribolo la figliastra, ossia la figlia, commettendo l’incesto con la figlia. Questa è la questione: “avvenuto” l’incesto tra il padre e la figlia, che cosa accade? La degradazione della realtà: la bambina annega, il bambino si suicida, la figliastra impazzisce. È la rovina, la rovina globale.
Questo testo è assolutamente straordinario, perché pone la questione dello statuto delle cose, della non “talità” di ciascuna cosa, ma della qualità, dello statuto, del funzionamento, del modo delle cose. Postulato che questo modo non c’è, che lo statuto non c’è, che l’autore non c’è, abbiamo i personaggi nella loro eternità, nella loro immutabilità, nella loro rovina assegnata, quindi nella predestinazione. Qui, l’assenza di autore comporta l’origine localizzata, l’origine fissata e, quindi, la relazione intesa familiare o sociale comporta l’incesto e, come suo corollario, la prostituzione.
La prostituzione diventa il sigillo, il marchio, il segno della genealogia e dell’incesto che ne consegue. Allora, dalla parte della donna che si prostituisce, abbiamo la fantasia di fare da mamma al padre; da parte dell’uomo che va dalla prostituta c’è il fantasma di farsi svelare il segreto di mamma, il segreto della sessualità, il segreto della morte, il segreto dell’origine. L’uomo che va dalla prostituta va a chiedere che gli sia svelato il segreto della sua origine, quindi va a verificare l’incesto. Presa nel fantasma dell’incesto, ogni decisione risulta impossibile, perché risulta finalizzata o a prevenire o a preservare dall’incesto o a confermarlo, in entrambi i casi a confermarlo.
Sia che sia per evitarlo, sia per sancirlo, è una consacrazione dell’incesto, viene confermata la credenza nell’incesto, la credenza in questa origine e nella immutabilità della realtà che da questa origine è assegnata, cioè una realtà senza itinerario, senza svolgimento, senza racconto, senza mito, senza nemmeno la fiaba, perché la fiaba avvia il racconto. Introducendo gli elementi della fiaba, il racconto avvia il mito. Già ammettere il racconto, lasciare che le cose entrino nel racconto, è un modo di mettere in questione la credenza nell’incesto, è un modo di non aderire, perché quel che entra nel racconto trova l’autore, non è senza autore. Quel che non entra nel racconto è impossibile trovi l’autore. Non entrando nel racconto non entra nella fiaba, non entra nemmeno nella saga, cioè non trova gli elementi della storia nella loro alterazione, li lascia nella credenza immutabile; li lascia personaggi senza autore. E lo schifo si enuncia come sentinella del fantasma d’incesto. Quante volte sentiamo dire: “Questo mi fa schifo, quello mi fa schifo, questo mi dà fastidio, quello…”. Questo fastidio, questo schifo non elaborato, che non entra nel racconto ma resta a significare qualcosa, è la traccia nella credenza nell’incesto. Se è accolto come traccia e, quindi, diventa la base per l’analisi, ha l’eventualità di incontrare un altro statuto, di incontrare l’autore, di dissipare l’incesto come fantasia. Se non è accolto come traccia, ma come cosa in sé, allora conferma il personaggio. Il fantasma d’incesto si doppia così sulla prostituzione, e la prostituzione diventa il dispositivo conformista per dimostrare che la relazione non c’è se non come riproduzione dell’incesto. La relazione allora è solamente relazione incestuosa, relazione simbolica, non già originaria, non già modo dell’apertura, non già corpo e scena, ma “relazione con”, relazione con l’amico, con l’amica, con il padre, con la madre, con il figlio, con la figlia. Relazione come modo di riproduzione dell’origine, cioè dell’incesto, cosicché la prostituzione, ogni volta, compie, nell’atto ritenuto di prostituzione, in quell’atto che sarebbe il segno della prostituzione, la vendetta contro l’agente: ora padre, ora figlio, ora madre, ora dio, cioè contro il soggetto che riassume in sé l’agente. L’istituto della vendetta ha come riferimento la morte, come accade per la colpa e per la pena. Nella rappresentazione della vendetta c’è già l’anticipazione della pena.
Allora, come intendere la famiglia? È quella dei Sei personaggi in cerca d’autore o è quella che procede dall’autore? Qual è la famiglia di ciascuno? Qual è la famiglia in cui ciascuno si trova? È quella così detta di origine, in cui ciascuno presume di essere nato e quindi di dovere portarne il segno senza autore, o è quella che s’instaura a partire dall’analisi della traccia di questa famiglia presunta originaria, quindi dove il padre, la madre e il figlio sono statuti e non personaggi?