- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA REALTÀ DELLA PAROLA
- L’inconscio trascorre in un film
- Babadook e la fantasia dell’uomo nero
- Il delirio e la clinica
- La famiglia. L’amore, l’odio e il fantasma d’incesto
- La famiglia, il diritto, la sessualità
- L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo
- La morsa dello psichismo tra demonologia e organicismo. Ma c’è la parola, che non si può togliere
- La madre, il suo mito, la sua rappresentazione
- Sessualità e mimetismo
- La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre
- Il padre debole e il figlio ribelle
- L’amore e l’odio La famiglia, il diritto, la sessualità
- La famiglia e l’altra famiglia
- Il mito della famiglia
- L’amore del padre e il matricidio
- L’avvenire e l’idea dell’avvenire
- La realtà dell’esperienza
- La città della differenza Dove vivere, come vivere, senza vergogna
- L’invito
- L’invito alla battaglia
- Noi, qui
- La voglia e la realtà della cifra
L’inconscio trascorre in un film
Ruggero Chinaglia Cominciamo questa sera una nuova avventura, l’équipe la Realtà intellettuale, dove alterneremo conferenze, questioni, racconti, a proiezioni di film con dibattito, per l’esplorazione e l’elaborazione analitica e clinica, considerando ciascun film come materiale clinico da leggere e da cui trarre la lezione.
“Clinico” è nell’accezione specifica che indica l’unicità di una combinatoria, dove ciò che si racconta non partecipa più della fantasmatica materna, ma va in direzione della qualità, della cifra del racconto. Non si tratta di denominare caso clinico, o questione clinica, l’appartenenza di un dettaglio, di una storia, di un caso a un settore psicopatologico, anzi, tutt’altro! Si tratta, invece, di cogliere come a partire da una fantasia che potrebbe far inscrivere qualcosa in una negatività, la vicenda e il racconto traggano invece alla dissipazione di questa fantasia di negatività, di male, di morte, di psicopatologia. La psicopatologia altro non è che il catalogo, o un catalogo convenzionalmente accettato da alcune comunità, delle fantasmatiche sul negativo, sul male, sul danno applicato a sé o all’Altro, per costituire una realtà stabile, una realtà nosografica. Qui si tratta invece della realtà intellettuale e, quindi, la lettura del film è lettura del caso clinico. È lettura di ciò che il film offre nella sua combinatoria di testo, immagini, sceneggiatura, scenografia, narrazione, cogliendo anche ciò che il film non presenta esplicitamente, ma offre nello svolgersi della vicenda e soprattutto nella sua conclusione.
L’aspetto clinico di un film spesso sfugge e non è clinico ciò che riguarda la classificazione psicopatologica. Non ci sono film clinici in quanto raccontano di vicende patologiche: ci sono film sulla paranoia, film sulla schizofrenia, film sul delirio, sul male dell’Altro… Ecco, non è questo che fa di un film un film clinico. Clinica è la lettura. Il film non è già clinico di per sé, perché affronta un tema psicanalitico, psichiatrico o psicologico. Un film tipo Qualcuno volò sul nido del cuculo sarebbe un film clinico perché affronta la realtà psichiatrica di una certa epoca? Non è ancora clinico, non lo è solo perché affronta una certa questione. Bisogna vedere come l’affronta, come la svolge, se giunge con il suo materiale a dissipare il fantasma di negatività, il fantasma di male, il fantasma di padronanza, il fantasma di soggettività e le credenze relative a questo.
La soggettività è qualcosa di molto appiccicoso, non è che trova assoluzione con l’uso di un solvente, trova assoluzione per via di analisi. E l’analisi è laboriosa. Laboriosa è il meno che si possa dire. Noi abbiamo fatto, in altri momenti, in altre circostanze l’analisi di testi letterari, per esempio, di fiabe: dei fratelli Grimm, di Andersen, di Perrault e di altri e quindi abbiamo esplorato come il fiabesco, per via di analisi, giunge alla dissipazione della fantasia d’incapacità, d’impossibilità, di negatività relativa a sé o agli altri, collegati alla famiglia, all’origine, a chi ci sta attorno. E il materiale di questa analisi è contenuto in una dispensa che s’intitola La lettura delle fiabe, che offre alcune indicazioni su come non credere alla fiaba in quanto tale, e su come cogliere nel materiale fiabesco il pretesto per la dissipazione della credenza che viene presentata.
Così abbiamo fatto con alcuni testi di Pirandello, nella serie d’incontri Pirandello e l’amore, che non ha ancora trovato edizione e che sarà opportuno avvenga al più presto, perché è materiale che è ormai di qualche anno fa. Non ha perso nulla della sua freschezza, eh! E è ora che giunga all’edizione.
Si tratta qui di una équipe analitica e clinica, perché trovi modo di affrontare, grazie agli interventi di ciascuno, alcuni nodi che esigono assoluzione, non già con la spada di Alessandro per tagliare il nodo gordiano, ma l’assoluzione, il modo dell’assoluzione, cioè l’analisi. L’analisi che avviene, come dicevo, per via di lavoro, con la messa in questione di alcune credenze. In particolare, della credenza della sostanza, della credenza dell’essere, della credenza dell’identità e della propria personalità, cioè della credenza di essere fatti in un certo modo, di avere un certo carattere e di avere un bagaglio ereditato, che, quindi, impedirebbe, condizionerebbe o favorirebbe determinate cose.
L’analisi procede da una scommessa, che è la scommessa di non essere più rappresentati da una certa soggettività, cioè da una propria idea di essere, da una propria immagine, o di essere, per forza di cose, connessi a un’idea dell’Altro o degli altri o a un’idea di appartenenza a una società, a un clan, a una casta, a un ambiente. Tutto ciò occorre sia messo in questione.
Non è automatico che qualcosa giunga a assoluzione, giunga al suo teorema. Fino a quando si crede che qualcosa sia tale, sia fatto in un modo che non può essere scalfito, fino a che qualcosa non entra nel racconto e di questo racconto non è udita e accolta la struttura linguistica, con faglie, varchi che comportano controsensi, effetti di sapere, un altro modo di collegare le cose, fino a quando ciò non si produce, beh, ognuno resta nella sua credenza di sé o nella credenza dell’Altro fatto in un certo modo, cioè ciascuno resta nella sua convinzione. Non va da sé che le convinzioni si dissolvano, non è automatico, c’è un lavoro da fare. E occorre anche accogliere l’ipotesi dello statuto intellettuale della parola, dello statuto intellettuale della lingua, dello statuto intellettuale delle cose.
Occorre mettere in gioco la domanda.
C’è chi si vanta di non avere domanda; né domanda, né domande e tuttavia magari pretende di avere dei frutti differenti dal mantenimento della propria identità. È una bella pretesa. Si chiama rivendicazione. Un indice che c’è analisi è dato proprio dalla dissoluzione delle rivendicazioni, che sono sempre pretesto per la denigrazione e la degradazione.
Le credenze sono innumerevoli. C’è chi crede che una smorfia, un gesto di qualcuno sia un segno. Un segno di malevolenza o di benevolenza e che questo significhi una disposizione, una persecuzione, una propensione fino a fondare una visione persecutoria, negativa o positiva, della presunta realtà. C’è chi presume di essere fortunato, chi invece di essere sfortunato e questo per nascita o per frequentazione o per benevolenza o per malevolenza divina, insomma, ognuno ha modo di credere tante cose. E finché queste credenze non sono messe in discussione, la realtà non s’instaura, quanto meno non s’instaura la realtà intellettuale.
L’analisi esige che vi sia formulazione della teorematica, che indichi che un’acquisizione è avvenuta dissipando l’idea di sostanza. Senza che vi sia la formulazione di un teorema, quindi che l’idea di un male, di una negatività, di un’idea di fine imminente, di una propria incapacità, di un proprio essere non c’è più e non c’è più perché non c’era neanche prima, ma era creduta, ebbene, senza la formulazione di questa teorematica, di cosa stiamo parlando? Del mantenimento della propria idea di sé; è constatabile l’analisi se questa idea è scalfita. Se non è scalfita vuol dire che non c’è analisi.
E chi la deve fare l’analisi? Non è lo psicanalista che deve fare l’analisi. Lo psicanalista è condizione perché il candidato faccia l’analisi, e il candidato la deve fare mettendosi in gioco, con l’elaborazione, l’articolazione delle fantasie, delle credenze, dei pregiudizi su di sé, sugli altri, sulle cose.
È qualcosa d’immane tutto ciò. Immane. Non è uno scherzo, ma la posta in gioco è pure rilevante. Chi si attesta sul proprio pregiudizio e sul pettegolezzo non ha fatto l’analisi di quel pregiudizio e di quel pettegolezzo e anzi ne fa un elemento fondante della propria rappresentazione.
Quindi, si tratta di dissipare le rappresentazioni di sé, le abitudini, le credenze, i pregiudizi e ogni idea convenzionale su ciò che viene chiamato, per esempio, realtà. Così come si tratta di dissipare ogni rappresentazione positiva o negativa di sé o dell’Altro, perché si tratta di accogliere ciò che viene dall’esperienza, non di mantenere ciò da cui si è partiti. Si tratta di accogliere ciò che viene, il nuovo che avviene. E quindi ci vuole umiltà, disponibilità, indulgenza, intelligenza, disposizione a ascoltare anche quelle variazioni che avvengono nella sfumatura. L’analisi non procede a colpi di accetta, avviene per variazioni impercettibili, per l’intervento del tempo anche, e il tempo è impercettibile. Il tempo non è ciò che noi pensiamo sia e ciò che continuiamo a pensare sia, nonostante sia stato messo in questione ormai da due secoli dalla fisica, per esempio dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica. Ebbene, ciò nonostante, del tempo ognuno mantiene una rappresentazione assolutamente superstiziosa, che fa riferimento al mito delle Parche, senza tenere conto che ogni idea di durata non è un’idea del tempo, ma della sua fine. Ora si tratta di accogliere il tempo, non l’idea della sua fine o della sua negativa, perché allora ognuno s’immagina guai.
Noi ci siamo decisi a affrontare questo tema della realtà intellettuale sia tenendo conto della congiuntura dell’esperienza in corso, sia di ciò che è in atto sulla scena civile, e anche di ciò che avviene sulla scena cosiddetta scientifica, dove costantemente avviene la negazione della questione intellettuale, la negazione della parola, la negazione dell’esperienza analitica. Oggi, il discorso scientifico è un discorso organicista, è un discorso improntato alla sintesi, quindi all’unificazione, non all’analisi e all’apprezzamento e alla valorizzazione del dettaglio, ma a una visione sintetica, totalizzante, comune. Questo è anti intellettuale. Occorre rendersene conto!
Avremo modo di analizzare proprio questo nell’attualità, per esempio a proposito del film Inside Out che affronta una questione molto trascurata, ritenuta a torto acquisita, che è la questione della cosiddetta psiche. La psiche, banalmente ritenuta psiche umana e, in quanto ritenuta umana, uguale per tutti. Eh, no! La psiche non è qualcosa di comune e ogni discorso che si fonda sull’organicismo, sull’evoluzionismo, sull’idea di conoscenza, come qualcosa di comune e totalizzante, è da mettere in questione intellettualmente.
Allora cominciamo con la realtà.
La realtà è una nozione comunemente data per scontata, ritenendo che la realtà sia ciò che si vede, che “cade sotto i sensi”. Quella sarebbe la realtà. Ciò che esiste effettivamente senza possibilità di dubbio. Questa è la realtà? No! Questa è la realtà c o n v e n z i o n a l e, ciò che è ritenuto realtà comune, perché vista, considerata, e non letta, con le superstizioni e i pregiudizi di ognuno, con la morale comune, con la grammatica comune, prescindendo dalla questione linguistica. Perché se accade che questa presunta realtà ognuno prova a raccontarla, non è mai lo stesso racconto, dunque non è mai la stessa realtà. Invece, sulla realtà vige una sorta di pregiudizio, di conformità, di stabilità, di certezza.
C’è poi una sorta di sovrapposizione tra la realtà e il reale e non è considerato lo scarto tra la realtà presunta e la rappresentazione che ognuno ne ha. Nulla di più fallace che la realtà sia reale. Ma per giungere a questo non c’è la necessità di fare un atto di fede, occorre accogliere la parola, la sua logica, la sua struttura, i suoi modi. Quali sono i modi della parola? Questo è ciò che per lo più sfugge, non è accolto, è dato per scontato, perché vige la prescrizione all’idea, alla convinzione di parlare tutti la stessa lingua. Nessuno parla la lingua di un altro.
E se qualcuno crede di capire cosa altri dice perché fa la traduzione nella sua lingua, ebbene, non capisce di che cosa gli si sta parlando. Occorre dire che talvolta la nozione di realtà è sovrapposta a quella di normalità e c’è chi è molto attaccato alla nozione di normalità. L’importanza di essere normale, no? C’è la paura di non esserlo e, quindi, l’attaccamento a questa “esigenza” di essere normali.
La normalità, occorre dire, è un’idea purista. È un pregiudizio purista, che nasce da una credenza sull’impuro. Posti a fondamento l’impurità, il male, il negativo, il purismo esige che l’impuro sia evitato e, quindi, ecco come si afferma l’esigenza di essere normali e di porre dei limiti alla normalità, chiarendo che cosa sta dentro e che cosa sta fuori la normalità.
Questo purismo della normalità sfocia nell’intolleranza, sia che lo chiamiamo razzismo, sia che lo chiamiamo pulizia etnica; le varianti sono molte, ma si tratta sempre del purismo, si tratta sempre dell’intolleranza. Si tratta di una rappresentazione dell’Altro che dev’essere conforme a un canone, ai requisiti posti dal canone. Il purismo, che è una forma dissimulata d’intolleranza, poi neanche tanto dissimulata, ma accreditata e supportata, procede dall’idea che c’è un male fondamentale che occorre purgare. Credenza peraltro ben accreditata anche dalle religioni. Nemmeno il cristianesimo fa eccezione.
C’è un crimine originale che occorre emendare, di cui occorre pentirsi, rammaricarsi, fustigarsi fino alla rigenerazione. Questa credenza nel male originale, oltre a essere diffusa, condiziona il vivere di chi l’accoglie senza analizzarla. Questa credenza fonda la relazione sociale, fonda la comunità; questa credenza, che espelle la contraddizione, perché pone l’alternativa fra il bene e il male, con tutto ciò che ne consegue, è micidiale. E se non è dissipata, costituisce il timone della vita, che viene così orientata a evitare il male e a perseguire il bene. Ma quali siano il male e il bene è sempre questione di pregiudizi.
Che ne è della domanda, della sua direzione verso il compimento di ciò che ne costituisce i termini, fino a che vige la credenza nel male da purgare e nel bene da inseguire? Questa è appunto la questione.
Se la vita è improntata a questa alternativa, il tempo è bandito e ne abbiamo un esempio oggi, in maniera molto pressante, con la questione del velo. Velo sì, velo no. Velo da mettere, velo da togliere. Il velo come copertura, il velo come scopertura. La questione del velo è una questione antica. Lo svelamento. Anche per i greci il velo era da togliere. Aletheia era la verità svelata, senza più velo. Ma appunto questo velo originario, che non è né da mettere né da togliere, in che modo si pone, senza rappresentazione? Il contesto religioso non è giunto all’elaborazione sul velo, quindi non è giunto all’ elaborazione sul tempo e infatti pone l’alternativa fra la vita al di qua e la vita al di là, quindi la morte come timone della vita, anziché rilevare la paradossalità di questa alternativa.
La religione propone la conciliazione fra la vita e la morte. E cosa fa la scienza, la presunta scienza, in osservanza e in ossequio a questa idea religiosa? Raffina i metodi di buona morte come esempio di civiltà. Forse che sta nella civiltà morire bene? E che ne è del vivere? Bene è vissuto chi muore bene? Eh! Questioni che si pongono all’attenzione, no? Che vengono accettate però, accettate volentieri. Accettate! Perché ne parla bene Francesco I, perché ne parla bene la medicina tanatologica, perché il business costruito sulla morte è fiorente e quindi diventa una questione di civiltà. Ma che civiltà è quella che fiorisce sulla buona morte, anziché sulla vita di qualità? Anziché sulla realtà intellettuale, che non è la realtà convenzionale fatta di questi pettegolezzi e pregiudizi?
E un’altra convenzione sulla realtà, pedissequamente condivisa, è che vi sia una realtà obiettiva e una realtà soggettiva: in entrambi i casi siamo alle prese con una realtà convenzionale. La realtà non è oggettivabile, ne è soggettivabile. Presumere che vi sia una realtà soggettiva è quindi consacrare il soggetto, l’agente, togliendo la parola, togliendo l’astrazione, la distrazione, la sottrazione, cioè togliendo i modi della lingua che costituiscono le sfumature del racconto. Metafora, metonimia, catacresi, sfumatura, tutto ciò è abolito da questa rappresentazione della realtà come realtà oggettiva o soggettiva, che dipenderebbero quindi dall’agente, il soggetto che se le rappresenta.
E l’aspetto linguistico? Sta nella parola con cui si enuncia la realtà, ma non come realtà in quanto tale, realtà che deve essere partecipata, realtà la cui visione deve essere comune, no! È la realtà che entra nel racconto in cui la combinatoria è imprevedibile. Se accogliamo la parola, non c’è più l’alternativa tra l’osservazione della realtà che dovrebbe darcene la rappresentazione vera e un’allucinazione della realtà, che sarebbe la conseguenza di una patologia o di una visione distorta della realtà stessa. In entrambi i casi c’è una sostanza chiamata realtà, rispetto a cui c’è chi si discosta e chi invece vi appartiene. E chi si discosta, che cos’è? È anomalo, anormale, è malato, è delirante? È! Comunque è! È fuori dalla visione comune. E non è questa un’epurazione, non è pulizia etnica, non è intolleranza? Non è una chiusura rispetto a capire, a ascoltare cosa si sta dicendo di questa visione, di questa realtà, di qualcosa che si dice?
La realtà non è, ma entra in ciò che si dice. La questione della realtà intellettuale procede da questo. È realtà senza il pettegolezzo rispetto a ciò che ne ha detto Tizio, che ne ha detto Caio come prova di conformismo, di una conformazione o meno al dato oggettivo; la realtà intellettuale esige piuttosto la prova di realtà.
In che cosa consiste la prova di realtà? Nella scrittura della ricerca, nella scrittura di ciò che giunge a formularsi. Non è la prova di realtà come prova di adeguamento all’esistente. No, è prova di realtà nel senso che la realtà, che è data dalla combinatoria dei termini, dei modi delle cose che entrano nel racconto, giunge a scrittura, giunge a formularsi, giunge alla formula della qualità.
Non è un’adesione a una credenza, ma è piuttosto la formalizzazione di un’acquisizione. Questa è la prova di realtà, per cui nessuno è tenuto a condividere nulla, ma è tenuto a formalizzare le acquisizioni che giungono dalla realtà intellettuale della domanda. Senza più pettegolezzo, senza più sostanzialismo, senza più adesione a una convinzione, a un moralismo, a una superstizione, ma con la chanche di portare a valore ciascuna acquisizione. È l’avviamento del processo di valorizzazione della vita stessa.
Tutto ciò è detto molto rapidamente. Questa è la traccia di un cammino, di un percorso da fare, come dicevo prima, di un’avventura che incominciamo questa sera ignorando dove ci condurrà. Procedendo quindi dalla parola, dal film come tessitura tra il linguaggio, la sembianza, la materia, dalla tessitura fra i significanti e le immagini – il cinema è l’arte della semovenza delle immagini – per approdare alla cifra di ciascuna cosa. È questa la scommessa: che vi sia cifra.
Ciò che nel titolo di questa sera è posto come “l’inconscio” è questo: è la logica, la particolarità della parola in direzione della cifra. Questo è l’inconscio. Non è un organo. Non è neanche un’entità. Non è una profondità. Non è un codice da scoprire. Non è qualcosa che sta sotto il velo, o sopra il velo, si avvale del velo in quanto velo del tempo, per cui non c’è nessuna operazione di scoperta o copertura.
Ecco, direi che intanto sono queste alcune delle questioni. Se ci sono domande o aspetti da chiarire o notazioni, evocazioni o pensieri che sono sorti ascoltando… l’équipe è per questo, perché è senza spettacolo.
Maria Antonietta Viero Qualcosa che riguarda la nozione di formalizzazione. Cioè, come si formalizza l’acquisizione. Se già l’acquisizione, come dire, è il modo in cui giunge la testimonianza e l’acquisizione è già in un percorso di scrittura, e quindi d’intendimento di qualcosa che si scrive, allora mi chiedo cosa voglia dire formalizzazione dell’acquisizione, se un processo è già avviato lungo la valorizzazione. Perché, l’acquisizione è un effetto di questo processo di valorizzazione che non termina, ma che comporta un momento…
R.C. Un’acquisizione non è un effetto. Il senso è un effetto, il sapere, la verità…
M.A.V. Sì, sì.
R.C. Ma l’acquisizione, no. L’acquisizione è acquisizione. Qualcosa cioè che giunge come acquisto.
M.A.V. Ha a che fare con l’effetto di verità?
R.C. E quindi di arricchimento. È qualcosa che arricchisce, l’acquisizione.
M.A.V. Certo, ma ha a che fare con gli effetti di senso, di verità e di sapere?
R.C. Non solo. Non basta all’acquisizione che vi sia un effetto di senso. Freud diceva che c’è bisogno dell’elaborazione, e poi della perlaborazione, e poi della costruzione. È una cosa complessa.
M.A.V. Ma, come dire, post acquisizione, allora?
R.C. Né pria né post. Senza prima e senza poi, perché è nel gerundio. Che vi sia la formalizzazione è interessante, perché indica che il gerundio si è instaurato, che non c’è più il prima e il poi, che non c’è più il soggetto agente del tempo, padrone del tempo, che decide cosa sta prima e che cosa sta poi. Non c’è più il prima e il dopo.
M.A.V. Allora la formalizzazione è data dalla testimonianza? Investe la testimonianza, di scrittura in scrittura?
R.C. C’è questo e c’è quello. Non è che si possa stabilire il protocollo. È senza protocollo questa cosa. Non è un’operazione protocollare, né protocollata. È libera.
M.A.V. Un’altra questione riguarda un’ulteriore distinzione tra la fantasmatica e la fantasia. Allora, nel dissolvere la fantasmatica, la fantasia non smette, diciamo così. Perché altrimenti sembrerebbe che dissolta la fantasmatica, fosse quella a implicare un nodo, ma la fantasia non è dissolvibile. Cioè, sembrerebbe che la fantasmatica sia il modo con cui si costruisce un fondamento che poi va fino al disagio, alla sua rappresentazione, al realismo. La fantasmatica si dissolve, ma la fantasia prosegue, è per via di fantasia che c’è il modo del racconto, no?
R.C. Beh, certo. Dissipare una fantasmatica non vuol dire che allora non interviene più una fantasia nelle cose. Certo, ma può essere interessante che anziché esservi una fantasia distruttiva rispetto a qualcosa, vi sia una fantasia costruttiva, anzi, che vi sia una serie di fantasie rivolte alla costruzione di qualcosa e non solamente alla stigmatizzazione, alla denigrazione, alla degradazione e alla distruzione, e alla negatività; e dire che tutto va male, che Tizio, Caio, Sempronio sono contro, e che quindi… ecc. ecc. Osare la formalizzazione è una bella cosa, è come dire giungere alla formula di qualcosa, la formula non è mai definitiva. Per lo più, sono state apprezzate nei secoli, e inseguite, le formule magiche, ma ci sono anche formulazioni non magiche e ciascuno può cogliere quali sono le formule del proprio itinerario, le acquisizioni, la combinatoria di queste acquisizioni che sfocia in qualcosa d’Altro. Tutto ciò è una bella cosa.
Patrizia Ercolani La differenza tra la realtà e il reale. Mi domandavo la differenza intorno a questo.
R.C. Ecco appunto, se lo domandava. Qual è l’ipotesi?
P.E. Che la realtà sia convenzionale, d’accordo, c’è una costruzione fantastica, che entra in una rappresentazione, verosimile o inverosimile.
R.C. Ecco, la realtà non è né verosimile, né inverosimile.
P.E. Pensavo che prende radice, prende spunto, quantomeno, da qualcosa di reale.
R.C. Sì, può accadere, dove il reale…?
P.E. Eh, è invisibile, non si sa qual è. Non è dato di sicuro, altrimenti non si rappresenta.
R.C. Ma qual è la proprietà del reale, qual è una proprietà del reale?
P.E. Che esiste.
R.C. Allora c’è il fondamento. Non lo chiamiamo più realtà, ma lo chiamiamo fondamento, e il reale che abbiamo fatto uscire dalla finestra entra trionfalmente dalla porta.
P.E. Non so se intendevo questo, quando pensavo alla metafora, alla metonimia, al nome, al significante e all’Altro. Mi domandavo se sia materia reale, nel senso che esistono in quanto operano, funzionano.
R.C. Ecco, questa è una bella connessione: qual è la materia del reale, per esempio, a proposito di… Qual è la materia del reale?
P.E. Una rappresentazione, una mitologia per esempio.
R.C. Eh no, senza rappresentazione e senza mitologia.
P.E. Il reale. E allora non c’è più realtà.
R.C. Non confliggono. Non si escludono. Non sono alternativi.
P.E. Allora, c’è il reale e la realtà.
R.C. Certamente, e non sono equivalenti, non sono sovrapponibili.
P.E. Non ho colto comunque la differenza tra le due cose. Che sono adiacenti? Sì, se non si escludono, non si oppongono, non sono in relazione fra loro, allora sono adiacenti.
R.C. Certo.
P.E. Ah, e dopo, rispetto alla lettura: lei diceva all’inizio che la clinica e l’elaborazione dissipano una fantasmatica. Allora, mi domandavo, così per chiarire, cosa entra nell’elaborazione per cui una fantasmatica si dice che si dissolve, cioè non ci si crede più? Il dissolvimento di una fantasmatica, penso voglia dire anche che non è più creduta, quindi non è più una credenza, non è più un pregiudizio, non è più.
R.C. Chiaro.
P.E. E non credendola più, non diventa più la premessa di qualcosa per cui qualcuno fa o non fa, agisce o non agisce. Però, mi domandavo a quale punto si dissolva.
R.C. Con l’analisi.
P.E. Sì certo. Analizzando interviene qualcosa per cui a un certo punto raccontando, dicendo… non so se ha a che fare con il tempo, con il taglio… È come dire, cosa distingue la fantasia dalla realtà, dal reale.
R.C. Eh, sono cose che hanno caratteristiche, proprietà differenti. Si tratta di qualificarle. Quale può essere l’idea per cui c’è un Tizio che crede che non può lavorare insieme a suo padre? Cosa fa sì che, a un certo punto, questo impedimento non ci sia più? È l’analisi dell’impedimento presunto, che trae a dire che non c’era neanche prima. Se si dissipa come impedimento reale, non c’era neanche prima, no? Era un impedimento presunto, quindi quell’impedimento che non c’è più, strutturalmente non c’era neanche prima. Però ce n’era l’idea, ce n’era la credenza che lo fondava come impedimento. Ora, qual è lo specifico, qual è la caratteristica, quali sono i termini per cui si è fissata questa credenza? Perché può accadere che ci sia chi, convinto di non potere lavorare o collaborare con il padre, non può fare nient’altro, perché se facesse anche mille altre cose riuscendo, sarebbe cosa da poco. Non può collaborare con il padre, ma non può fare nient’altro.
Altre domande?
Daniela Sturaro Per me è un enigma la questione che l’analista è la condizione dell’analisi e che l’analisi deve essere fatta dal candidato.
R.C. È un enigma per lei. Lo chiamiamo candidato, in questo caso.
D.S. A cosa?
R.C. All’analisi. A che cosa? Alla cifratura. Candidato.
D.S. Candidato vuol dire che c’è una prova da superare per…
R.C. No, che c’è una domanda in atto. E per via di questa domanda c’è una scommessa. Quindi la candidatura è la candidatura che questa scommessa si compia. Nulla di automatico, no? Nulla di scontato. Lacan lo chiamava l’analizzante, psicanalista e psicanalizzante, ma è una formula che costituisce sempre una rappresentazione di ruoli, quindi di una sorta di coppia che dovrebbe funzionare, come medico–paziente, insegnante–studente, ecc. Qui si tratta invece di un dispositivo, dove occorre che vi sia lo psicanalista e anche il candidato, che non fanno coppia, ma un dispositivo.
D.S. Per l’amor del cielo.
R.C. Per carità…
D.S. Avevo sentito invece dire l’analista come direttore di ricerca. Allora, se c’è una ricerca e c’è chi dirige la ricerca, non si lascia annaspare il candidato.
R.C. No, non deve annaspare il candidato. Cosa deve fare il candidato? Camminare sulle acque? E gli si sostiene il piedino, in modo che cammini sulle acque, invece di annaspare?
D.S. Eh no. Bisogna mettere la pulce nell’orecchio, no?
R.C. Eh certo. Perché no? Certo. La pulce nell’orecchio ci sta. E poi?
D.S. E poi, la prossima volta c’è il dibattito sul film.
R.C. Ok. Lei aveva alzato la mano.
Fabrizio Moda. Sì, era sorta la curiosità del velo. Va qualificato come qualcosa che ha a che fare con il tempo?
R.C. Voleva indossarlo?
F.M. Era su questo argomento, che è stato solo accennato come proprietà del tempo e quindi in un’accezione totalmente diversa da quella di morale, di costume, di segregazione e quant’altro che è discussa in questi tempi.
R.C. Eh, no. Il modo in cui se ne discute attualmente è sempre il modo dell’erotismo. Velo da indossare, velo da togliere, velo per non mostrare, per non esibire, per nascondere, per purezza. È sempre in nome di un erotismo, sempre in vari erotismi occorre dire. Forse anche in un antropomorfismo di Dio, no? Bisogna avere il capo coperto per non mancare di rispetto a Dio, sennò si arrabbia, cioè un dio proprio più banale degli uomini, no? Per alcuni il capo deve essere coperto, per altri dev’essere scoperto, le donne devono avere il capo coperto, verso Dio, verso gli uomini, cioè sempre comunque in una rappresentazione in nome del purismo, del rispetto, dell’impuro e del puro. Qual è la proprietà del velo, una volta che è sgombrato il campo da questo erotismo? Occorre fare l’analisi del velo, non è che sia automaticamente già bella e fatta no? C’è chi l’ha fatta e chi no, quindi occorre farla. Vero? Lei cosa dice?
Pubblico Stavo pensando di fare una domanda per quanto riguarda la percezione della realtà nella realtà virtuale.
R.C. Ecco. Lei subito ha colto. Infatti avevo anche un appunto sulla realtà virtuale. Lei cosa dice esattamente?
Pubblico Eh, è una domanda che rivolgo a lei perché non so contestualizzarla, onestamente.
R.C. Lei come la formula esattamente?
Pubblico Come cambia la percezione della realtà nella realtà virtuale.
R.C. Percezione, lei dice. Sì, anche quest’accezione di realtà, di per sé, non l’affranca dal pregiudizio e dalla convenzione. Lei mi può fare un esempio di realtà virtuale?
Pubblico Beh, un esempio estremo potrebbe essere il visore VR, che è quella maschera che si mette e con cui si vede un’altra realtà. Oppure, come realtà virtuale, mi viene in mente quella dei social network, con cui abbiamo un approccio quotidiano.
R.C. Ma è virtuale per modo di dire, perché in realtà cosa comporta? Che alcune modalità, che sono ritenute fondanti nella realtà sociale, vengono applicate a una realtà che è più ampia, non localizzata, che però ha le stesse prerogative di quell’altra. Cioè il concetto che consente la rappresentazione della realtà, come realtà convenzionale, non è in realtà dissipato o articolato dal fatto che intervenga questa formula di “realtà virtuale”. È mantenuto, quindi la realtà virtuale non è un’analisi della realtà, non fa sì che giunga alla realtà intellettuale, perché la soggettività di chi vi si rivolge è mantenuta, con in più l’idea di anonimato applicabile a sé o all’Altro, anziché al nome.
Ciò che è prerogativa del nome viene attribuito a sé o all’Altro e è considerato uno strumento “per”; per evitare qualcosa, non come mezzo strutturale, originario, ma come evitamento, in quanto io nell’anonimato posso fare cose che altrimenti non mi sentirei di fare. Per esempio, anche l’uso dei vari social è indicativo, in moltissimi casi, proprio di questo. È un esempio, ma è una cosa che dobbiamo affrontare in modo più preciso. È una bella domanda questa. Il fatto che vi sia una realtà virtuale non porta a articolazione, per esempio, l’idea che sia una realtà da scoprire, anziché da inventare. La questione della realtà intellettuale è che si tratta dell’invenzione della realtà, reperendone i termini nel racconto, nell’atto, nel fare, ecc. Lì si mantiene invece la credenza della scoperta, cioè di un velo da togliere. Nella cosiddetta realtà virtuale questo è ancora più marcato. C’è l’idea che questo velo possa fare da copertura.
F.M. Rafforzamento della credenza, diciamo.
R.C. Si, certo. Cioè, non è un’articolazione, ma è solamente un frutto della tecnologia. Non è un avanzamento dell’elaborazione sulla realtà.
F.M. Cioè l’alibi dell’alta tecnologia…
R.C. L’alibi o il mezzo che attraverso la tecnologia “consente di”, ma non è un attraversamento o una elaborazione sulla questione della realtà. Anzi, rafforza il fatto che c’è una rappresentazione che può essere allucinatoria e quant’altro, cioè mantiene determinati capisaldi fantasmatici. Sì, la domanda è bella. Lei cosa fa?
Pubblico Sto lavorando attualmente come video maker, però mi piace molto la tecnologia quindi…
R.C. Quindi, lei lavora nella costruzione di video?
Pubblico Sì, nel cinema.
R.C. Cinema. Noi abbiamo presentato alcuni video, alcuni corti diciamo così, qualche anno fa di Rocco Cosentino. Lo conosce? Un regista di Cittadella, bravo. Ha prodotto alcuni bei corti e ne abbiamo fatto la lettura clinica, come faremo con i prossimi film. Lei dove ha visto la notizia di questi incontri?
Pubblico Su DAMS news di Padova, mi sembra.
R.C. DAMS news, quindi è attraverso…
Pubblico L’università di Lettere e Filosofia di Padova.
R.C. Che ha inserito la notizia nella sua newsletter. Ah, bello questo. Non so se gliela abbiamo mandata. Forse l’hanno recepita attraverso…
Pubblico So che c’è Maria Salvatore che è laureata in Cinema per Psicologia e è insegnante al DAMS.
R.C. E quindi diciamo per via digitale, insomma. Bene, bene. Infatti, sono strumenti di cui avvalersi. Ci sono altre domande?
Allora per oggi terminiamo qui e ci vediamo giovedì prossimo con il dibattito sul film Babadook. C’è chi ha già visto Babadook? È stato distribuito l’estate scorsa, è un’opera prima di una regista australiana. Il film, a torto inserito, a mio parere, nel filone horror è molto interessante. È stato distribuito in questa categoria dei film horror, ma è un’etichetta che non dà nessuna qualifica a un film che invece è interessante. E giovedì capiremo perché.
F.M. Sthephen King dice che è profondamente disturbante, non horror.
R.C. Disturbante? Perché l’ha visto, ma non l’ha letto. L’ha visto e ne è stato disturbato. Credeva di fare un complimento, ma va bene.
Babadook e la fantasia dell’uomo nero
Ruggero Chinaglia Cominciamo questo secondo appuntamento dell’équipe analitica e cifrematica che è un’occasione di lavoro, di ricerca, d’indagine per capire i termini, la struttura, il modo con cui avviene la clinica, con cui si struttura il caso clinico.
Caso clinico è in un’accezione di caso intellettuale, dove si tratta di non appiattire ciascuna formulazione sulla scorta di quelle che sono le formulazioni correnti e vigenti di stampo medico, psichiatrico, psicologico, convenzionale o quant’altro, che fanno parte di un gergo acquisito. Occorre andare verso la novità della glossa, la novità del dizionario, la novità che propone l’esperienza analitica e cifrematica in particolare.
Clinica è qui intesa in un’accezione differente da quella che avviene nella medicina. Non è la clinica ospedaliera o la clinica universitaria, né il luogo dove le persone si mettono a letto; perché la clinica viene intesa così anche dove si tratta di problemi che non hanno la necessità dell’allettamento, nel senso della messa a letto. La clinica medica, ospedaliera, universitaria, esige che vi sia la messa a letto del paziente. Non è questa la clinica che intendiamo noi.
Non si tratta del letto, dello stare a letto, della cura fatta a letto, ma si tratta della clinica come piegatura, arte e cultura della piegatura, di come le cose, dicendosi, articolandosi, analizzandosi, cifrandosi incontrano la piega, più pieghe, la molteplicità, per cui il senso, il sapere, gli effetti del parlare non sono già dati e contribuiscono a introdurre Altro.
Altro, perché la piega, la piegatura delle cose che si dicono, delle parole, è una proprietà dell’Altro. Non di qualcun altro, no! Dell’Altro, che costituisce la differenza assoluta, parlando.
È qualcosa che non è presente, non è visibile. Interviene! In che modo intervenga, non è prevedibile. Ma, la piegatura è una proprietà dell’Altro, che è una struttura. È funzione e struttura. Funzione di Altro, quella che Freud chiamava il sogno.
Freud chiamava onirico il sogno, quello che poi, specificandosi, ha preso il nome di funzione di Altro.
Quando Freud parla del sogno non parla dei sogni. È stato convertito nel fatto di dovere sognare – i sogni, l’analisi dei sogni – ma si tratta più propriamente del sogno che interviene nella parola, parlando. Non è che bisogna sognare per incontrare questa struttura.
Gli americani hanno inteso così e, infatti, ricordo la sorpresa di alcuni psicanalisti americani che intervennero a varie giornate di studio che organizzammo a Milano, ancora negli anni ’70-’80, quando emergeva dal nostro racconto che, nel nostro itinerario analitico, poteva accadere di fare più sedute nella stessa giornata. Oooh! Sorpresa! Come? Senza fare i sogni? Senza dormire? Sì, non c’è bisogno di dormire perché s’introduca l’onirico nella parola: l’onirico sta nella parola. Il sogno è una struttura che avviene parlando e è la struttura dell’Altro.
Freud agli albori non è entrato nei dettagli, però se voi leggete L’interpretazione dei sogni, si tratta di frasi, analizza frasi, frasi prese dal racconto. Il sogno è pretesto per il racconto, in Freud. La questione è il racconto.
Ogni racconto ha il suo pretesto. Freud ha trovato in quel momento che il sogno dava materiale ricco e ha accolto di rivolgersi al sogno, ma non come questione essenziale, cioè che solo dal sogno, dai sogni che si fanno alla notte o dormendo viene questo materiale, perché questo materiale è materiale narrativo. Questa è la vera novità che Freud introduce: analizza il materiarle narrativo.
Se leggete i casi clinici, se leggete La psicopatologia della vita quotidiana, se leggete Freud, troverete che la base dell’analisi è il materiale narrativo, sono parole, frasi, sintassi. Da lì si articola l’analisi.
In questa circostanza, noi prendiamo pretesto dal racconto che avviene in un film, in alcuni film.
Cominciamo con Babadook, un film australiano, di una regista australiana che con questo film ha debuttato, un debutto molto interessante, che vedrete tra poco. Narra qualcosa che, diciamo, calza proprio bene con il titolo generale dei nostri incontri, La realtà intellettuale, e questo viene ribadito nel film in vari modi. Certo, non con questa formula, ma ciascuno avrà modo di coglierlo, di capirlo.
Si tratta di capire qual è la vicenda che è raccontata dal film, non la realtà ontologica rappresentata nel film, ma la realtà che è narrata nel film. Si tratta di fare lo sforzo di non vedere il film, ma di leggerlo e ascoltarlo, ricavando dalla combinatoria di testo e immagini il testo della vicenda, per capire qual è la vicenda, chi è il protagonista della vicenda. Può sembrare in un modo e può trattarsi, invece, di qualcosa d’Altro. Questo è il bello della lettura del film, perché si vedono delle cose e si tratta di capirne delle altre.
Dicevo di questa regista australiana e del titolo americano che è The Babadook, Il Babadook, perché Babadook è un anagramma. Lo vedrete nel film quale sia l’anagramma. Vediamo se si arriva a capirlo. È una vicenda a mio parere molto interessante, che apre numerose riflessioni sulla questione dell’educazione, sulla questione del cosiddetto bambino difficile, su quali strumenti usare per capire qual è la difficoltà di un bambino che si rappresenta “difficile”, ma che evidentemente pone una domanda in un altro modo da quella esplicita.
Però non vorrei fuorviarvi, perché i registri di intersezione sono numerosi. Si tratta di farne la lettura. Lettura analitica, lettura clinica, perché lo scopo non è quello di ricavare un’adesione a una concezione psicopatologica, non è quella di confermare uno status di malattia o di negatività delle cose, per assegnare diagnosi o etichette, ma eventualmente proprio il contrario.
Da ciò che, apparentemente, sembra un ottimo pretesto per l’assegnazione di etichette, ricavare invece i termini di ciò che va in direzione differente, non del male, non del negativo, non della malattia, ma di un’altra istanza. La questione della clinica è questa: cogliere l’istanza che è in atto in una vicenda.
Il caso non è la fotografia di qualcosa, ma è il caso clinico. Il caso clinico indica di una vicenda, un percorso, un cammino, un’articolazione. La clinica non è una etichetta, ma qualcosa che spalanca alla qualificazione delle cose.
Dico questo, giusto per introdurre brevemente, per capire in quale contesto ci troviamo, perché adottiamo il film come pretesto narrativo per capire qualcosa d’altro.
Allora passiamo al film e poi facciamo il dibattito attorno a ciò che leggeremo. Occorre cogliere i dettagli più che la totalità.
R.C. Allora, di cosa si tratta in questo film Babadook? Chi osa prendere la parola? Dicevamo che è un anagramma, un anagramma del libro di cui si tratta: The Babadook. E intanto Babadook sta in un libro, ma questo è giusto per dire che c’è un libro lungo la vicenda. E ci sono dei personaggi. Qual è la vicenda? Qual è la storia? Di cosa si tratta? C’è qualche ipotesi? Nessuna ipotesi? Cosa avete ascoltato fino adesso?
Fabrizio Moda La prima questione riguarda il libro, nel senso che, una ventina di anni fa rimasi sorpreso quando un mio amico mi disse di avere saputo di un qualche libro la cui sola lettura poteva creare suggestioni davvero terribili, e obbligare il soggetto a dati comportamenti contro la sua volontà, idea che non contraddissi, stetti zitto, perché mi sembrava, come credenza, fuori moda, nel senso che, il mondo è pieno di credenze, però questa mi sembrava proprio arcaica, ecco. E vederla qui, nel libro, mi ha fatto venire in mente l’episodio e considerarlo sotto un altro aspetto.
R.C. Ah sì?
F.M. Cioè, è forte questa credenza, che non tiene tanto conto del libro, ma come una parola particolare può anche suggestionare, al di là della credenza del soggetto, insomma. Personalmente mi pare di vedere specularmente la mia vicissitudine come papà mostro, papà cattivo, papà che doveva morire o papà morto. Dal mio punto di vista, è un film già visto.
R.C. Ecco, occorre non avere mai visto quel che si vede, né mai sentito quel che si sente, né mai ascoltato quel che si ode. Occorre mai ricondurre qualcosa che si ode al già visto, al già sentito, al già fatto, ma cogliere che cosa si sta dicendo, a cosa si sta alludendo, anche se sembra un déjà vu, una ripetizione o quant’altro. Quindi, qual è la vicenda, qual è la storia, chi è il protagonista del film?
Daniela Sturaro La mamma.
R.C. La mamma è la protagonista?
D.S. È lei che ha problemi.
R.C. La mamma ha i problemi. Quindi, che ci siano problemi è fuor di dubbio!
D.S. Certo.
R.C. Ho capito. E quali sono i problemi della mamma?
D.S. Il problema è che la mamma non ha elaborato il lutto per la perdita del marito e accusa il figlio di avere provocato la perdita del padre. Non so, vede nel figlio qualcuno che ha reso possibile la morte del padre.
R.C. Sì, e quindi?
D.S. E, quindi, in quanto colpevole, vede in lui il male. Il bambino è colpevole, il male sta in lui.
R.C. E…?
D.S. E così questo bambino risulta essere fuori dalla norma, e la mamma trova tutti i motivi per non amarlo. E lo fa rientrare nella categoria dei bambini che non si possono amare. Cioè, che va male a scuola, che fa cose strane. È preoccupante perché produce ansia. Proietta su di lui questa immagine del bambino problematico.
R.C. E invece?
D.S. E invece sono tutte ombre che ha lei, cioè, è ciò che lei, non so, il termine tecnico sarebbe psicosi, che modifica la realtà per cui il bambino che sarebbe causa di…
R.C. Quindi è lei che è malata.
D.S. Non dico che è malata. Non sto dicendo che è malata.
R.C. Ha i problemi!
D.S. Sì, non ha accettato la condizione di madre con il padre che è morto.
R.C. E quindi cosa bisogna fare?
D.S. Bisogna fare… Cioè ha dovuto attraversare questa sua paura attraverso Babadook, questa sua non accettazione del figlio, questo suo sentirsi sola, questa visione della realtà un po’ distorta, l’ha dovuta attraversare con Babadook.
R.C. Quindi Babadook è una chance.
D.S. È qualcosa che non può scacciare. Non può buttarlo nell’immondizia, non lo può bruciare, né stracciare o eliminare. Deve essere affrontato.
Pubblico Non lo elimina mai perché rimane lì, sotto.
R.C. Rimane lì.
Sabrina Resoli C’è anche una battuta che la mamma dice alla festa della nipotina, quando la sorella le dice che deve andare avanti, che sono passati sette anni dalla morte del marito. E lei risponde: “Io sono andata avanti. Non ne ho mai parlato. Non ne parlo mai”. E di questa morte del marito, della morte del padre, di cui non si parla, permea tutta la vita sua e del bambino. Cioè il bambino ha paura, il film inizia così, ha paura. Guarda sotto il letto, dentro l’armadio, ha paura del mostro e dice alla mamma: “Io non voglio che tu vada via, che tu muoia. Io ti proteggerò”.
Quindi, questo mostro è la morte, il fantasma di morte. Però, non se ne può parlare e questo fantasma cresce e si realizza nel libro. Perché poi, anche nel libro, a un certo punto, lei legge: “Io divento sempre più forte. Tu mi neghi e io divento sempre più forte”. Sì, lo sto capendo adesso.
R.C. Certo.
S.R. E cresce…
R.C. E quindi chi ha paura?
S.R. La mamma.
R.C. La mamma. E Samuel?
S.R. È cresciuto in questa paura. È stato educato alla paura.
R.C. E quindi?
S.R. E quindi Samuel fa quello che fa perché sta reagendo a questa paura.
R.C. Sì. Altri?
Barbara Sanavia Io mi sono chiesta perché Samuel ha paura. Inizialmente la colpa è sua, di rimanere. Il protagonista per me è Babadook, cioè l’idea della mamma che il figlio è la causa della morte del marito. E non riesce a amare il figlio per quel motivo. Per me Babadook rappresenta, ho avuto l’impressione che rappresenti questo. Per cui la paura di Samuel era di non sentirsi amato dalla mamma, perché lui poteva essere, veniva visto, come la causa della morte del padre. E, appunto, quando si ripresenta il libro dopo che la madre lo aveva stracciato, e diceva più o meno, non mi puoi lasciare quanto più mi neghi; cioè lei nega questa cosa, anche festeggiando il compleanno del bambino quel giorno lì, che non è quello della sua nascita, il bimbo rileva ancora di più la colpa della sua nascita, in un certo senso.
R.C. Sì.
B.S. Per cui, anche il ritornare del libro fa riemergere che il problema stava nella mamma. Poi, alla fine, insomma tutta la vicenda, sembra che la mamma attraversi questa idea che aveva. E, però, non se ne libera del tutto. Sembra che la tenga addomesticata, che non l’abbia attraversata del tutto.
R.C. Sì certo.
Pubblico È suo figlio, per cui continuerà a pensare a quella data, quindi…
B.S. Cioè, mi dà l’impressione che col figlio l’idea resta, non scompare, ma qualcosa risolve col figlio. Non del tutto. Non è concluso. La traversata non è conclusa.
R.C. Anche perché la traversata occorre farla qui! Cioè, il film offre il pretesto per la traversata. Non c’è da pretendere che la compia, così sarebbe facile. Non ci sarebbe bisogno della lettura che, invece, è necessaria, perché il film ci dà degli elementi, ma chiaramente il caso è da costruire. Non è già dato.
Qui viene proposta una fiaba. E occorre andare oltre la fiaba. Gli elementi per andare oltre ci sono, perché il film, nel suo testo e nelle immagini che fornisce, dà indicazioni.
Innanzitutto occorre non prendere la fiaba come reale. La fiaba non è reale, ma resta fiaba. Che cosa caratterizza la fiaba? Un fantasma materno, un fantasma che si ricava da una serie di fantasie, fantasticherie, enunciazioni. Che cosa racconta, qui, la fiaba? Che il padre è morto. Questo dice la fiaba proprio all’inizio. All’inizio della fiaba che cosa si pone? L’idea che il padre di Samuel sia morto. L’idea che Oscar, il marito di Amelia, sia morto. Ma, Oscar, è morto? C’è effettivamente questa alternativa tra il padre e il figlio?
La fiaba dice che se nasce il figlio, il padre muore! È come Kronos che fa fuori i figli perché altrimenti i figli farebbero fuori lui. È una sorta di riedizione del mito di Kronos, del mito dei Giganti, dei Titani, del mito di Zeus, questo mito dell’alternativa; del mito, se vogliamo, dell’orda primitiva di cui parla Freud in Totem e tabù.
Allora, o il padre o il figlio. Il film si apre con questa alternativa, che è ribadita dalla lettura del bad book. Ma qual è il bad book? Qual è il bad book che viene letto all’inizio del film? Non è il Babadook con l’uomo nero. Quel Babadook arriva dopo.
S.R. I tre porcellini?
R.C. La fiaba dei Tre porcellini! Dove si tratta dell’alternativa fra il buono e il cattivo. Posta questa alternativa, segue un certo andamento della storia, segue la serie delle alternative. Tolto l’Altro, allora è tutta un’alternativa tra positivo e negativo, tra bene e male e l’idea di fine impera. Tolta la madre, l’Altro è la morte. Tolto l’Altro, la madre è la morte. Tolto l’Altro, l’idea di fine è l’idea gestionale, è l’idea preponderante. Quel che si presenta è pericoloso, può essere pericoloso, può essere letale, può essere male.
E allora ogni cosa è gravata dall’idea di male, per cui occorre la protezione, l’idea materna della protezione contro il male. Occorre proteggere il figlio. Se il padre è morto, il figlio ha bisogno di protezione.
Ogni figlio che procede dall’idea della messa a morte del padre ha bisogno di protezione, in quanto sarebbe senza padre. Ogni figlio presunto senza padre è bellicoso. È bellicoso perché la sua vita è animata da mostri. Se l’Altro è tolto, se il padre è morto, la paura è sicura, è garantita. Non c’è che paura! Ma è necessario che il padre muoia perché questa paura s’instauri? È necessario far fuori il padre, mettere a morte il padre perché la paura sorga? O è sufficiente l’idea, la fantasia che questo sia accaduto o che possa accadere?
La fiaba dice che è necessario, ma il film dice di no. Il film dice che basta l’idea, perché il film dice esattamente dell’idea! E lo dice chiaramente, dall’inizio, che tutta la vicenda narrata è onirica. È un sogno di Amelia.
Amelia, all’inizio del film, è sbalzata dal sedile dell’auto – con cui si sta recando nella clinica per partorire – al suo letto. Amelia si sveglia nel suo letto. Anzi, non si sveglia affatto. È nel suo letto e sogna. Sogna cosa sarebbe la sua vita “se”… Se non ci fosse Oscar.
Quante volte la moglie pensa che se il marito morisse…, cosa accadrebbe, cosa ne sarebbe di lei, dei figli? Anche il marito può pensare questo della moglie. Qui è considerato il caso della moglie. La moglie che mette a morte il marito.
Se è tolto il padre, indice dello zero, allora tutta la costruzione inerente la sua vita sarebbe soggetta a questo fantasma di messa a morte, e sorge il mostro.
Tutto il film è giocato sull’alternativa tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra il dentro e il fuori. Babadook, che è entrato, deve uscire. C’è un’alternativa tra il dentro e il fuori, tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo; c’è l’alternativa, una serie di alternative.
È qui che sorge l’orrore, dalla negazione del due, dalla negazione della contraddizione. Se la contraddizione è negata allora sorge l’alternativa alla contraddizione, e ogni cosa entra nella possibilità di essere o positiva o negativa; entra nella paura, perché la paura è questa: paura del male, della malattia, della negatività, della morte. Morte sempre considerata come l’alternativa alla vita.
C’è un’ampia panoramica di come sarebbe la vita tolto lo zero, tolto il padre. Chiaro che, tolto il padre, anche l’Altro è abolito, non c’è più la trialità del padre, del figlio e dell’Altro, non c’è più la trifunzionalità della parola. C’è la logica binaria.
La logica binaria è la logica dell’alternativa: “o – o”. E ciascuna eventualità è gravata dal pericolo. Questa è la rappresentazione della famiglia per Amelia, una volta posta l’eventualità che Oscar sia fatto fuori. Ma non è necessario che Oscar sia effettivamente morto. Basta l’idea. Basta l’idea di mettere a morte il padre, o il marito, perché si rappresenti questa famiglia, società, scuola, gravata dalla prevalenza del negativo, del male.
Quindi Babadook chi è? Chi è Babadook per Amelia?
Patrizia Ercolani Non può essere che il marito sia stato fatto fuori?
R.C. Quello è ciò da cui procede la faccenda. È un sogno, ma è come se fossero due sogni. Ci sono due sequenze in cui Amelia viene sbalzata sul suo letto. Come se il primo sogno tendesse a concludersi, ma immediatamente riprende e la vicenda prosegue con l’acme.
Se ricordate il film, Babadook, che è appollaiato sul lampadario, entra nella sua bocca. Tanto è vero che Samuel dice: “Ah, lo hai fatto entrare, lo devi fare uscire”. E, infatti, poi lei vomita. Scenografia magica e stregonesca, in omaggio alla mitologia del Malleus maleficarum, attenendosi alla faccenda che, se l’apertura è tolta, se è praticata la sezione dell’apertura, c’è l’alternativa. Non può più esserci l’ossimoro dentro/fuori, ma l’alternativa o dentro o fuori. E ciò che è dentro può uscire e quando è uscito, il male entra, poi esce, sta sopra, sta sotto. È come la fiaba di Barbablù, in cui c’era una stanza dove non si poteva entrare. Poi la sposa entra e cosa trova? I cadaveri di tutte le altre spose. Anche qui, nel sotterraneo, in basso, sotto, si annida il male.
Fino a che vige l’abolizione dell’Altro, fino a che vige il taglio del taglio, fino a che l’apertura è tolta favorendo la dicotomia – bene da una parte, male dall’altra – c’è questa rappresentazione della vita, delle cose, del pericolo di morte. Ognuno può morire, ognuno può essere portatore di morte, portatore di fine, può essere l’assassino, può essere il pericolo.
È molto preciso il fatto che Samuel reagisce sempre quando viene contrapposto al padre morto! Ma quest’idea che Samuel c’è, che Samuel è fortunato perché è vivo, mentre il padre è morto, di chi è? È di Samuel o di chi? Nel film è una fantasia di Amelia.
Che ne è, quindi, della madre quanto alla famiglia? Che ne è della moglie nel dispositivo del matrimonio, della famiglia come dispositivo, se questa famiglia, questo dispositivo è sottoposto all’idea dicotomica, dove l’apertura è tolta, dove il tre è tolto, dove l’Altro non c’è più e tutto è soggetto all’alternativa?
Allora il bambino va male a scuola, il bambino sta male, è un pericolo per le amichette, gli amichetti, i cugini, le cuginette. E l’avvenire è fosco! Questa è la fiaba.
Così, ci vogliono le pasticche per dormire, per sopravvivere, per lavorare, ecc. ecc. Ma tutto ciò non produce la dissipazione dell’idea che esige chiaramente un attraversamento, una traversata, l’analisi di quest’idea, di questa fantasia, e il testo è proprio preciso. Quando Amelia vede l’immagine del marito dice: “Pensavo che fossi morto”. Esatto, pensava! Non è necessario che sia morto, giustamente, basta averlo pensato. “Pensavo fossi morto”.
Il fantasma di morte non è una bazzecola, il fantasma di assassinio nemmeno, il fantasma di sparizione neanche, il fantasma di negatività nemmeno.
Persistendo questa fantasmatica di alternativa esclusiva, il film ci fa vedere che cosa accade nella vita di chi è soggetto a questa credenza. In questo senso, il film è di un grande interesse per la coerenza del testo e delle immagini.
La conclusione può risultare ambigua, come notava Sanavia. Se il fantasma non è dissipato la credenza permane, magari in un angolino, nello scantinato. Dissipare la fiaba rispetto cui x, y o z si crede “segno dell’origine”, esige un lavoro, non è che avviene automaticamente. Esige propriamente il lavoro analitico.
Interessante anche, a un certo punto, che intervenga la differenza tra Samuel e il bambino. Gli insegnanti dicevano “il bambino” e Amelia dice: “Si chiama Samuel”.
Certo, Samuel e il bambino, il bambino e Samuel, senza l’alternativa. Non necessariamente la vicenda narrata è reale. Anzi, costantemente il film dice che non è reale. Il mago cosa dice? “Nulla è come sembra”!
Si tratta di leggere, ascoltare, capire, combinare, collegare e non dare per scontato che ciò che si vede sia reale, ciò che si ode sia reale. Soprattutto che sia tale.
Ci sono altre domande?
Maria Antonietta Viero Persistendo l’alternativa, la fantasia può essere attribuibile a ciascun personaggio del film, della fiaba, quindi non c’è protagonista.
R.C. Ah certo. Qui abbiamo un’indicazione però, che protagonista del sogno è Amelia. Amelia sogna e si rappresenta come sarebbe la sua vita “se”. In assenza di padre, di marito, di Altro.
D.S. Perché si toglie il dente?
R.C. Perché le faceva male. Le faceva male e se lo toglie! Eh, eh.
D.S. Cioè, c’è un’insistenza in questa immagine, che dà fastidio, la mandibola… Poi nel momento cruciale si toglie il dente.
R.C. Sì, tolto il dente, tolto il dolore. È così? Ora non si tratta di far significare ciascun fotogramma del film.
D.S. Però c’è un’insistenza su questa cosa. Vorrei un po’ capire.
R.C. Certo, sì. Lei cosa…
D.S. Non lo so, devo pensarci.
R.C. Ci deve pensare.
D.S. Sì. In questo momento tirerei a indovinare, quindi ci vuole un po’ di tempo.
R.C. Però, oltre a questo dettaglio del dente, il film ci offre tanto altro materiale per ragionare e per cogliere quello che è il messaggio e cioè, che la società normale, così come viene rappresentata, con l’alternanza di bene o di male, poggia su un fantasma di messa a morte, di negazione del padre e di negazione dell’Altro.
Questo è il messaggio e allora sorge l’orrore come negazione dell’apertura. Se l’apertura è tolta, se è tolto il sotto-sopra, il dentro-fuori, senza alternativa, sorge l’orrore. Sorge il mostro e il conseguente orrore.
D.S. Sì, spiega benissimo che il bambino costruisca armi. Nella prima parte del film non fa altro che costruire balestre e varie armi perché vuole colpire il mostro e il mostro…
R.C. No, il bambino non vuole. Occorre partire da questo: il bambino non vuole!
D.S. Cerca di uccidere il mostro.
R.C. Non cerca. Quel bambino, così come è rappresentato lì, è una fantasia di Amelia. È chiaro? Il bambino non vuole. Quel bambino lì è la rappresentazione, è la significazione che si produce da questa fantasia materna di possibile messa a morte del padre.
Così come Atena sorge senza madre, da un’idea paterna, qui abbiamo un esempio di che cosa si costituisca presumendo tolto il padre! Questa è l’indicazione che viene dal film. Questa è l’indicazione, come suggerimento, di quale questione può porsi per un bambino il cui il rendimento a scuola è assolutamente insufficiente o inefficace.
Qual è la fantasia? Di cosa si tratta? Che ha un disturbo dell’attenzione? Che è un bambino difficile? Che è un bambino depresso? Che è un bambino disturbato? Sì, disturbato, ma da quale fantasia? Da quale fantasticheria? Da quale imbrigliamento fantasmatico?
E non va sottoposto a interrogatorio perché confessi il suo imbrigliamento, perché fornirà eventualmente metafore, metonimie, figure retoriche, fantasticherie. Non può dire ciò di cui si tratta, che è ricavabile invece da un lavoro che procede dall’ascolto dei suoi racconti, in cui cogliere le fantasie. Questo sì, perché se questo lavoro non c’è, non è che automaticamente il problema si articola.
M.A.V. Un altro elemento è dato da una puntualizzazione veloce della maestra di sostegno, quando la madre dice rispetto all’intervento della scuola. Dice che c’è bisogno di una…
R.C. Quello lo dice la maestra.
M.A.V. La madre risponde che cosa? Cambia scuola, perché il bambino non si sente affatto…
R.C. Lì la madre reagisce in misura simmetrica e contraria a quello che è l’atteggiamento dell’insegnante. C’è un problema, c’è un pericolo per gli altri e occorre un insegnante di sostegno. La madre dice no, è la scuola che non capisce niente.
M.A.V. Ma il film mette in discussione radicalmente l’insegnante di sostegno.
R.C. Sì, però poi va dal medico, perché vuole le pasticche. Un paradosso no?
Quindi è ricco, è un film molto ricco di spunti, di elementi, che c’introduce a quello che è il tema della settimana prossima Il delirio e la clinica, in cui ci sarà il dibattito, senza film. Mentre tra 15 giorni ci sarà un altro film Gli amici del bar Margherita. Ma, per arrivare agli Amici del bar Margherita occorre passare dal Delirio e la clinica, alcuni elementi dei quali il film già questa sera ce li ha consegnati.
Bene, grazie e concludiamo qui. Buonasera.
Il delirio e la clinica
Ruggero Chinaglia Ci sono domande riguardo a cose che abbiamo affrontato negli altri appuntamenti, in direzione di questa sera? Trattandosi di un’équipe si tratta di un lavoro che procede, man mano.
Patrizia Ercolani Io mi chiedevo se il delirio è un debordamento.
R.C. Sì, cioè?
P.E. Se il debordamento è qualcosa che va fuori dal bordo… Non so se si può dire che la fiaba è una proliferazione di fantasie…
R.C. È una proliferazione…
P.E. Sì, da una fantasia a un’altra fantasia. Un racconto di fantasie.
R.C. La fantasia prolifera? Dà prole. Produce prole. Proliferazione vuol dire questo, che c’è prole, una proliferazione di prole, qualcosa che è considerata come prole, con una genealogia che…
P.E. In una fantasmatica, per esempio.
R.C. Lei dice che una fantasia è una prole. Ha un’origine e una fine.
P.E. Non necessariamente. Una fantasia accanto a un’altra fantasia, senza discendenza.
R.C. Senza proliferazione.
P.E. Sì. E se questo “regno dei fantasmi” possa dirsi un delirio. Non so se la questione della connessione dei fantasmi concerne un debordamento, e dire debordamento vuol dire che c’è un bordo, qualcosa esce, sborda, va…
R.C. Casca? Va fuori? E dove va se va fuori dal bordo? Se deborda?
P.E. Appunto, in un delirio, in una fantasia.
R.C. Va in un delirio… Altrimenti sarebbe preservato.
P.E. Non so, perché questa nozione di bordo non so se è esatta. L’ho sentita, l’ho letta, ma non l’ho chiara.
R.C. Sì, ma soprattutto è il termine delirio che occorre qualificare.
P.E. Sì, ma mi era venuta in mente la storia del debordamento, per quello che avevo detto prima, come proliferazione, come troppo, come tanto, come eccedenza. Quello che non capisco è se l’eccedenza, questo “di più”, è rispetto al funzionamento, se è funzionale. M’interrogavo se il delirio è un termine che indica un funzionamento e quindi certo non è patologico, quantomeno.
R.C. Ecco, perché siamo a una questione nodale, in effetti.
P.E. E poi mi chiedevo se il delirio si pone rispetto al punto. Se c’è un punto che produce delirio. Non so se il delirio sia strutturale, quindi non sia il male nel senso moralistico, psichiatrico e psicologico. Se è strutturale è perché c’è funzionamento. Ecco, m’interrogavo intorno a questo.
R.C. Bene. Altri?
Fabrizio Moda Il film di giovedì scorso poneva il caso di una donna che aveva dei deliri, delle allucinazioni particolari. Però, deliri, in pratica, simili, tipo i deliri sul pericolo giallo, sui pericoli per cui bisogna premunirsi, chiudere le frontiere e quant’altro, sono diffusissimi. Eppure non sono meno micidiali di quelli della protagonista. Sembra quasi che l’unica differenza che si può notare tra queste due forme di delirio, è che quella dell’interprete era particolare, fuori dalla consuetudine, dalla media, mentre i deliri comuni sono considerati normalità, e quindi non possono svolgere quella funzione, né dare quella possibilità d’indagare sul delirio. Cioè, se il delirio è comune va bene, tutti lo accettano. Questo delirio – di volta in volta ce n’è uno – essendo comune, tutti si considerano normali, mentre per la protagonista c’è una chance, un modo di elaborare questa fantasia e magari giungere a una certa qualità a un certo percorso di parola.
R.C. Una “certa” qualità?
F.M. A seconda della fantasia, tutto sommato, la protagonista manteneva una certa fantasia, mi è parso. Ma, d’altronde, o questo è inevitabile, cioè fa parte di una struttura logica per cui, nel tenere conto che la struttura della parola è così, bisogna darsi da fare, o l’alternativa sarebbe, per forza di cose, la malattia mentale del singolo o del gruppo.
R.C. Beh, se è ammessa per il singolo poi può essere ammessa per il gruppo e viceversa.
F.M. Certo.
R.C. Bene, però occorre considerare qualche ulteriore elemento di questo film, Babadook, che certamente ci fornisce il materiale per affrontare il tema di questa sera.
Non è casuale che, dopo l’incontro dedicato alla lettura di questo film, intitoliamo Il delirio e la clinica, che è giusto un cenno questa sera, perché è un tema effettivamente di ampie proporzioni su cui si potrà tornare. Però, il film ci fornisce del materiale, delle indicazioni.
Intanto, per esempio, la versione originaria del film è uscita con il titolo The Babadook, invece in italiano è Babadook. “The” Babadook, sta a indicare che c’è qualcuno o qualcosa di cui si tratta: un termine, un personaggio, un qualcosa, una questione, un significante, un nome che interviene in una scenografia, in una vicenda, in una storia, in un racconto e che si tratta di capire come interviene. Di cosa si tratta e come interviene. Non qualcosa che è, ma come qualcosa interviene in una vicenda, in una storia.
Questo ci avvicina al modo della lettura delle fiabe che, nella maggior parte dei casi, sono considerate non già racconti, ma stati di fatto, come se la fantasia che nella fiaba si racconta non fosse da leggere, ma da prendere così com’è e riproporla nel suo realismo, quasi confrontandola con quella realtà convenzionale da contrapporre a una realtà fiabesca. Questo modo della contrapposizione non è lettura.
Il film indica, con la combinatoria delle immagini e del testo, qualcosa che non è la realtà dei fatti, non è nemmeno la realtà convenzionale, è qualcosa che si racconta. E si racconta avvalendosi del mezzo che, differentemente da un libro, si avvale anche delle immagini. Non solamente delle immagini che il lettore si produce da sé, ma delle immagini che sono importanti nella loro combinatoria con il testo. La lettura è lettura di questa combinatoria.
Che ci sia l’esigenza di leggere il film indica che ciò che il film ci mostra non è reale. Ciò che viene raccontato non è reale. È racconto. Il racconto non è reale.
La storia che viene raccontata, ciascuna storia, non è reale. Non è mai reale!
Se fosse presa come reale, sarebbe la negazione della storia. Non è più storia. È una cosa! La storia sarebbe cosificata, cioè sarebbe in assenza di varchi in cui può prodursi il senso, il sapere, la verità “leggendo”, cioè ascoltando in maniera differente da una modalità giudiziaria in cui si tratterebbe del fatto e del suo realismo. Sia il film, sia il romanzo, sia la storia, sia il racconto, sia la fiaba, sia la novella non sono mai da intendere come reali.
Si tratta di trovare, invece, i varchi in cui c’è Altro, in cui s’istituiscono la differenza e la variazione rispetto a un presunto realismo rappresentato. Ma, se la cosa viene assunta realisticamente, allora il racconto è vanificato: non c’è nessuna lettura, non c’è nessuna comunicazione, non c’è parola. Che vi sia parola è dato proprio dalla dissipazione del realismo giudiziario e dall’instaurazione dell’ascolto per cui si produce Altro quanto all’immagine, ai nomi, ai significanti che intervengono nel racconto.
È perché ci sono questi varchi nella parola che è possibile leggere il testo, analizzare il testo, il racconto e giungere alla legge, all’etica e alla clinica della parola. Non la legge, l’etica e la clinica del discorso disciplinare per cui c’è il codice, la legge codificata, l’etica come comportamento e la clinica come patologia. Qui si tratta della legge, dell’etica e della clinica come compimenti di una struttura linguistica: la legge come compimento della Sintassi, l’etica come compimento della Frase, la clinica come compimento del Pragma.
Queste sono strutture linguistiche in cui si tratta di nomi e significanti che funzionano e che variano e della loro combinatoria, e anche di Altro. Occorre innanzitutto accorgersi e ammettere che la parola sta in questa struttura. Senza questa struttura non c’è parola. C’è, forse, convenzione. C’è qualcosa di monolitico. Ma non c’è parola.
È grazie a questa struttura mobile, temporale – non una struttura formale, ma temporale – che non è postulata ma è in atto, che quel che si dice non è mai detto, non rientra in un codice comunicativo già dato, e esige l’ascolto.
Non ci sarebbe nessuna esigenza di ascolto se quel che si dice fosse già codificato e rientrasse nella casistica del già detto.
Basterebbe fare il formulario dei detti e avremmo un codice interpretativo valido a tutti gli effetti. Ma non è così. Per accorgersene, basta parlare. Basta provare a tradurre in una significazione stabile ciò che si dice: si aprono varchi costantemente! E quel che si dice non rientra mai in un già detto che possa contenerlo.
Questo è costatabile nel film Babadook, in cui si tratta di un libro malvagio: A bad book. Questo è il protagonista del film. Un libro malvagio. Cioè, un libro che è preso nella dicotomia tra il bene e il male. E questa dicotomia che investe il libro investe, poi, ciascuna cosa, perché nel momento in cui è ammessa questa alternativa esclusiva tra il bene e il male, tra il fine di bene e il fine di male, ogni cosa viene gravata da questa significazione e non entra più in un processo di qualificazione, perché è presa nell’alternativa: o è bene o è male! Non c’è più niente di Altro. Non ci sono più varchi, almeno apparentemente.
Il film ci dice questo, che interviene a bad book, cioè la rappresentazione dell’alternativa fra il bene e il male, che vale sia per la mamma sia per il bambino, sia per Amelia sia per Samuel, che, dunque, non sono le stesse persone. Un conto è il bambino e un conto è Samuel e Amelia ci tiene a precisarlo: “Non lo chiami ‘il bambino’, si chiama Samuel”. E non è una banalità linguistica. È il modo con cui un significante non corrisponde al nome. E, analogamente, la mamma non è uguale a Amelia.
Nel film intervengono vari personaggi. Ma, in che modo avviene, a un certo punto, la dissipazione dell’incubo, per cui Babadook non sovrasta più ogni gesto, ogni circostanza? Perché a un certo punto Babadook svanisce? Come mai? Che cosa interviene nel film a giustificare che Babadook non c’è più? Ve lo siete chiesto e avete risposto?
Barbara Sanavia Perché ha buttato fuori questa cosa che le premeva e che rappresentava il male. L’ha espressa e se ne è liberata. L’ha affrontata. L’ha fatto uscire.
R.C. L’ha fatto uscire? Quella è una conferma!
B.S. Però l’ha riconosciuta.
R.C. Non si tratta di quello. Anzi. Babadook non sparisce perché viene vomitato fuori, rispondendo alla prescrizione che ciò che entra deve poi uscire. Questa è una modalità molto umana. Quello che entra deve poi uscire. Banale. No, non è quello. Ah, ecco chi la sa lunga.
Sabrina Resoli A un certo punto dice: “Non sei niente”.
R.C. Sì.
S.R. Forse sto sbagliando, però…
R.C. Sono elementi. Ma, cosa interviene, a dissipare la struttura dicotomica? Questa alternativa tra bene e male, fra un buon libro e un cattivo libro, fra la buona madre e la cattiva madre, fra il buon bambino e il cattivo bambino, fra la realtà buona e la realtà malefica, che cosa interviene?
B.S. Ha riconosciuto quest’idea che aveva. L’ha ammessa. L’ha compresa.
R.C. Ah! È stata brava! Ha portato alla coscienza ciò che cosciente non era!
B.S. Ciò che negava, forse.
R.C. No, c’è qualcosa che proprio il film indica chiaramente e, apparentemente, la cosa è inspiegabile. Non è per buona volontà, o per buona condotta.
Perché a un certo punto interviene?
Pubblico Il marito.
R.C. Il marito?
Pubblico So che non era morto.
R.C. È chiaro che il marito non è morto. Interviene il grido. Il grido. Interviene la voce! Il grido come accento posto sulla voce, quale punto vuoto. Il punto di astrazione. Interviene non più l’alternativa tra il bene e il male, ma il punto di astrazione che marca la trialità, la trialità dell’oggetto. E con la trialità s’instaura anche l’Altro, che prima era negato, espulso in nome di questa dicotomia.
Non è che prima la trialità non ci fosse, non è che l’Altro non ci fosse, ma era negato. Non è un intervento farmacologico o pedagogico o magistrale o terapeutico. Non è per azione di qualcosa o di qualcuno che intervengono la voce e l’Altro, perché sono strutturalmente nella parola. E per quanto la parola possa essere negata, c’è qualche varco attraverso cui questa economia, questo contenimento della parola fallisce e la sua logica e la sua struttura passano, s’instaurano, accadono.
Cosa sospende il grido? Sospende la significazione. La significazione postulata che, quel che accade deve essere o di segno positivo o di segno negativo. Cioè, preso in un’alternativa, in una dicotomia, in una significazione che viene rappresentata nel positivo o nel negativo, nel libro buono o nel libro malvagio, nel personaggio buono o nel personaggio malvagio, nel bambino buono o nel bambino cattivo.
Un conto è se quel che accade deve rientrare a tutti i costi in questa significazione, un altro conto se, a un certo punto, interviene la tripartizione del segno: nome, significante, Altro. E questa tripartizione non è più possibile economizzarla, contenerla, non è più possibile espellerla in nome della dicotomia. Non riesce più l’espunzione dell’apertura, che è senza alternativa fra alto-basso o dentro-fuori. E non è o dentro o fuori, così che quel che entra “dentro” poi deve uscire “fuori”. Questa è ancora una rappresentazione della circolarità, dell’uroboro, del cerchio che si alimenta del positivo e del negativo per circolarizzare le cose, per la significazione.
La questione è come avviene la sospensione, la dissipazione della negazione della trialità, della logica singolare triale e della logica diadica.
La diade è senza dicotomia.
L’apertura è la diade su cui non può essere praticata la dicotomia e grazie a cui ciascuna cosa può entrare nel processo di qualificazione per via della logica singolare triale. Questo è l’accesso alla parola: la sospensione della logica aristotelica!
L’interesse del film sta in questo, sta nel fatto che non stabilisce chi ha ragione e chi ha torto, non dà una versione purgata della realtà. Lascia a ciascun lettore interpretare e capire qual è il seguito, come proseguirà la faccenda. E, peraltro, non dà nemmeno la verità o la realtà dei fatti narrati. Propriamente non narra fatti. È senza fatto! Non ci sono fatti. Ci sono parole, immagini, vicende, un racconto. Chi ha ragione e chi ha torto nel film?
Il film lascia che ciò che è raccontato, narrato, rappresentato trovi lettura, cioè lascia che si possa leggere la struttura onirica del racconto, perché di questo si tratta. È un racconto la cui struttura onirica non è tolta. E ciò è indicato con due fotogrammi. Che si tratti di un racconto onirico è accennato, è alluso. Ma chi lo capisce, lo capisce, e chi non lo capisce… pazienza.
La lettura è libera, per cui non possiamo neanche dire che la regista voleva o non voleva qualcosa. D’altronde, non interessa nemmeno cosa volesse o cosa non volesse. C’è la realtà intellettuale del racconto che si lascia leggere. È un caso di generosità intellettuale notevole, senza la verità ultima, senza la versione ufficiale dei fatti. È un film che lascia la struttura delirante del racconto. De-li-ran-te!
Delirante, che cosa indica, qui? Non l’alternativa al corretto resoconto, ma la struttura delirante, cioè viaggiante. Il delirio è questo: erranza, vagabondaggio, svolta. Qualcosa di non uniforme e non predefinito il cui andamento non è predeterminato. Delirio. Il delirio nella parola.
C’è uno sforzo da fare, per cogliere questa accezione di delirio, perché l’accezione più comune è certamente differente. L’accezione comune di delirio ha una significazione ben precisa che lo ghettizza e è questa: “Stato psicopatologico caratterizzato da una alterata interpretazione della realtà, anche se percepita normalmente sul piano sensoriale, per una attribuzione acritica di significati abnormi a percezioni, ricordi, idee”.
“Stato”. Uno stato, un’entità che indica uno stato, un morbo. E questa accezione ci spiega da dove deriva questo termine e, nonostante questo, viene ribadita questa accezione di stato.
L’accezione di delirio viene dal latino, dal termine lira, de-lira. Lira è il solco e de-lira è il deragliamento, l’uscita dal solco. E come avviene questo che i latini chiamavano l’uscita dal solco, a dire che non basta un solco a imprigionare quel che si dice? Per indicare il binario? Il ghetto del vocabolario psicopatologico che cosa precisa? Uscire dal solco, ossia dalla diritta via della ragione, perché la ragione deve avere una diritta via. La diritta via della ragione. Ma nel termine lira non c’è la diritta via della ragione. C’è il solco.
Allora, il delirio indica, anche etimologicamente, questa uscita, questo deragliamento, questo debordamento, questo andare fuori, andare in giro. Andare in giro, soprattutto. Fuori dal solco e in giro, dove va? Fuori! E non è fuori dalla diritta via della ragione. È fuori dal solco. Cioè fuori da qualcosa di rigido, di prescritto, fuori dalla significazione.
Ricorrendo all’etimo non si può trascurare l’indicazione linguistica di questo termine che dice di un modo dell’erranza della parola. La parola erra. Non che è sbagliata. Erra, cioè se ne va di qua e di là. È presa in una erranza dei nomi, in una deriva dei significanti, in un vagabondaggio della differenza e della varietà. Nulla di stabile, nella parola. Tantomeno il delirio. Certo, non uno stato ma un modo. Una bella differenza!
È una bella differenza che si tratti di un modo e non di uno stato, perché il modo è il modo dell’accadere e lo stato è lo stato dell’essere. Non è la stessa cosa! Soprattutto se teniamo conto che dal delirio procede l’effetto artistico, perché riguarda la variazione. E procede un effetto di sapere che segue alla variazione. Questo è il delirio.
Delirio come debordamento, in quanto procede dal bordo pulsionale, dal bordo della variazione. E come si chiama questo effetto di debordamento? Si chiama insegnamento. L’insegnamento è l’effetto artistico del debordamento della parola, perché le cose variano, non sono stabili, non rispondono a una epistemologia. Rispondono a un effetto artistico, anzi non rispondono affatto, lo instaurano.
Il delirio è un processo strutturale che non trae origine dalla realtà per stravolgerla. “Alterata interpretazione della realtà”, dice la definizione canonica. No! È il debordamento! Debordamento rispetto a cosa? Si tratta di capire.
Che poi intervenga un’alterazione, un’alterità è chiaro, ma come e perché? Non per un processo morboso, ma per una particolare combinatoria, il cui perché e come sono da capire.
Purtroppo, il delirio è considerato incurabile.
Certo, è incurabile il delirio! Anche con gli psicofarmaci può attenuarsi, ma non scompare. Ma per forza, ciò ha un suo perché, ha una sua coerenza! È vano confutarlo o negarlo. Come si può negare un processo? In nome di che cosa? Di una verità canonica? Di una verità prestabilita? Di una verità assegnata? E no! Il delirio non procede dalla verità, procede per debordamento. È un debordamento strutturale.
Non è delirio solamente ciò che nega ogni canone, ma è delirio anche ciò con cui si racconta qualcosa. Il racconto non è esente da delirio. La storia è delirante. Il racconto è delirante. La narrazione è delirante.
Dove va questo delirio? Nell’itinerario intellettuale, il delirio, dove si rivolge? Si rivolge al processo costruttivo, di costruzione della realtà intellettuale.
Negando la parola, negando la realtà intellettuale, interviene una rappresentazione della realtà e chiede ascolto. Ciascuna rappresentazione chiede ascolto ma, certamente, negata la parola la faccenda si fa drammatica, come dice il film, come ci mostra il film. Negando la parola, ogni avvenimento è drammatico, perché è o a fine di bene o a fine di male. E ciò è drammatico. Questa alternativa è drammatica! Non perché è delirante, ma perché è tolto il delirio! È tolto il viaggio! È questo il drammatico. Cioè, s’istituisce il sistema. È questo che è drammatico: l’inserimento in un sistema. Il dramma comincia lì.
Il sistema è senza parola, perché la parola non è sistematica, non è sistemica. È in assenza di sistema. Il sistema risponde a uno o più postulati, cioè nega la parola e diventa prigione, diventa gabbia, diventa rappresentazione del finito e della fine. È solamente ipotizzando un sistema che possiamo presumere un elenco dei deliri.
E come può intervenire l’articolazione di una visione drammatica della realtà, in quanto sistematica, per chi pone il sistema come fondamento del suo stesso apparato? È paradossale. Sarebbe paradossale che potesse avvenire questo, che potesse riuscire. Infatti non riesce.
La questione che il delirio pone è la sua struttura. Si tratta, in ciascun caso, di un processo costruttivo. Il delirio è un modo della costruzione che si avvale della svista, dello sbaglio, della dimenticanza. E già questo Freud l’aveva indicato. Freud qualificava il delirio come la via della terapia. Ma non è stato ascoltato, proprio per niente! E a proposito di chi dice che è superato, beh, magari si può proporgli di leggere qualche saggio. A proposito del delirio, provate a leggere La Gradiva. È straordinario. Chi l’ha letto? Lei? Bene. Non lo trova un saggio straordinario? Nuovo, nuovissimo? Una novità assoluta?
F.M. Poco, l’ho letto pochissimo. Quasi per niente.
R.C. Ah! Quindi per cogliere qualcosa del delirio dove interviene, dove può essere stigmatizzato o dove apparentemente non c’è – ma il delirio non è eludibile da ogni racconto, storia, vicenda, narrazione, fiaba, novella, romanzo – occorre tenere conto della sua struttura linguistica, della sua natura debordante, in cui si tratta della variazione artistica rispetto a qualcosa.
È chiaro che se il delirio non è attribuito alla parola, ma è attribuito a qualcuno, al soggetto, alle idee, diventa inascoltabile, diventa assolutamente impossibile capire di cosa si tratti. Ma non è l’idea a essere delirante, non è qualcuno a essere delirante. Sono i nomi, i significanti che delirano. È il racconto. Non qualcuno.
Non è una malattia. È un modo. È un modo per di più costruttivo, togliendo il quale cessa la costruzione. Possiamo anche dire, cessa la terapia.
E la clinica si avvale del delirio. La clinica come compimento del Pragma, cioè della struttura dell’Altro. Clinica che non è una tassonomia, non è l’elenco dei mali. La clinica è un compimento. Il caso clinico è il caso intellettuale, è un caso in cui è rilevato l’unicum, l’unicità di un dettaglio, di una combinatoria e s’intravede la qualificazione di quel caso, come si rivolge alla cifra.
Non è la diagnosi di malattia, la clinica. Sarebbe la pietra tombale. La clinica è il compimento di un processo che indica la direzione. Per questo è caso clinico, perché indica la direzione verso cui sta andando. L’intervento clinico è l’intervento che marca questa direzione, differentemente dall’intervento analitico o dall’intervento cifratico. Sono i vari modi dell’intervento, che non è mai salvifico. Non è l’intervento che assicura, assegna la salvezza rispetto alla morte certa o al morbo o al male. Non c’è l’agente della salvezza, come non c’è l’agente del male.
C’è chi può credere questo, ma questo è ciò che occorre si disponga all’analisi, perché la credenza nell’agente salvifico o malefico nega la parola. È una credenza che esige di trovare un varco. Esige di trovare non già la normalità, ma l’anomalia e la sua scrittura.
Ci sono altre domande? Mi pare di avere risposto a alcune delle cose che erano intervenute all’inizio. O no? In quanto all’idea di malattia mentale, abbiamo detto già.
Giampietro Vezza Nel film il protagonista, tra i protagonisti, è un bambino. Mi domandavo se sia possibile la lettura anche con un bambino, perché il film essendo vietato – Babadook è vietato ai minori – questo intervento della censura mi faceva pensare al fatto che, nonostante il protagonista sia un bambino, ai bambini sia vietata la visione, e quale sia o quale possa essere il modo di affrontare l’eventuale visione e la lettura del film, con un bambino. E mi domandavo se rientrasse in quella che è stata detta una forma del delirio, e cioè di anticonvenzionalità, in qualche modo un’educazione alla non fissità dell’immagine – in quanto il divieto fermerebbe il film alla realtà –essere portato nel racconto, nell’interpretazione del racconto, anche per un bambino.
R.C. Che cos’è un bambino? Chi è un bambino? Di chi si tratta? Di quale bambino si tratta? Non è che possiamo stabilire in maniera standard se un bambino può vedere o no questo film. C’è bambino e bambino e non in quanto bambino, ma a seconda del punto in cui si trova in merito al suo viaggio, alla sua elaborazione.
È importante cogliere che queste immagini non propongono una realtà reale. Se c’è un bambino che è in grado di fare questa integrazione può vederlo, altrimenti non è necessario. Può vederlo più avanti. Cioè, “un bambino” esiste solo per la pedagogia.
“Un bambino”. E chi è? Com’è? Ci sono queste entità ideali che valgono per la pedagogia, la psicologia, la sociologia: il cittadino, l’uomo medio, il bambino, l’adulto, il ragazzo. Ogni età avrebbe un suo esponente medio standard che rappresenterebbe tutti gli altri. Anche l’adolescente. Chi sarebbero costoro? Chi li ha mai visti? Lei ha mai incontrato l’adolescente? Il bambino? Un bambino standard? Certo, sono domande a cui la televisione risponde volentieri ciascun giorno, no? Ma la televisione!
Nadia Vidale Lei ha detto: “Come avviene la dissipazione del realismo dalla realtà”. Ma come avviene?
R.C. Il film ci dice che avviene con l’urlo, con il grido. Cioè con la voce. Con l’instaurazione della voce come punto vuoto.
N.V. Lì, in quel racconto lì. Facciamo un altro esempio?
R.C. Questo è l’esempio che abbiamo dinanzi. Poi, per quel che riguarda altri casi, giovedì prossimo consideriamo quello degli Amici del bar Margherita, in cui si tratta del fantasma di genealogia.
Anche quello è un fantasma in cui la trialità è quantomeno sospesa, se non negata, e possiamo considerare anche lì, come e se ciò accada. D’altronde, lei può darci un bel contributo a questo proposito, per generosità. Non è che ogni cosa sia prevista o prevedibile no? Cioè, la parola ci indica proprio questo, che non c’è prevedibilità, calcolabilità, previsione degli accadimenti. Solo après coup noi possiamo capire, cogliere, constatare come qualcosa sia avvenuta, non capire come avverrà.
N.V. Non capisco. Ho presente questa cosa. È già stata detta e l’ho presente.
R.C. Non c’è uno schema mentale, psichico a cui potere attenersi.
N.V. Quindi la dissipazione non può avvenire mai.
R.C. Ma lei proprio fa il caso più ottimistico!
N.V. Perché dire che non è calcolabile, non è nemmeno garantito.
R.C. Ma i varchi sono numerosi.
N.V. Eh, appunto. Facciamo un esempio.
R.C. Per stasera abbiamo questo. Se però lei ne ha un altro…
N.V. No, lo chiedo.
R.C. Ah, ecco. A lei il delirio non va bene!
N.V. Non ho visto il film, quindi non sono in grado di dire, non mi dice nulla.
R.C. Ah, non ha visto il film. Vede? Invece occorre vedere il film.
N.V. Quindi lei, per generosità, può fare un altro esempio.
R.C. Prossimamente possiamo anche farlo. La settimana prossima; tenga conto che del film, parleremo anche la settimana successiva, con il titolo La famiglia, il diritto, la sessualità, attinente al materiale del film. Sì?
Daniela Sturaro La differenza tra grido e urlo.
R.C. Ecco.
D.S. E poi come entra il delirio nell’insegnamento.
R.C. L’insegnamento è un effetto del delirio. Non è che entra. L’insegnamento è l’effetto artistico del delirio, del debordamento, della memoria, dell’esperienza.
Abbiamo per un verso l’insegnamento e per un altro verso la tradizione, che sfocia nell’invenzione. È una struttura complessa. Non è che le cose accadono a caso. Ciascuna cosa che accade, accade con una struttura e interviene in una struttura che non è predeterminata, in quanto è temporale. Ma gli elementi di cui è costituita si possono indagare.
D.S. Ma, l’insegnamento è inteso come un passaggio di qualcosa, di non so cosa, tra qualcuno che parla e qualcuno che ascolta?
R.C. Non è necessario questo travaso. Nulla è travasato da chi a chi. Einstein ha avuto bisogno, per la sua teoria della relatività ristretta, dell’osservatore. Aveva bisogno dell’osservatore che vedesse che il treno passava e, ecc. ecc.
La parola agisce con i suoi effetti non da A a B, ma già in A. La parola agisce parlando, capisce? Agisce parlando. Non c’è soggetto agente. È la parola che agisce.
D.S. Non c’è quest’idea di atterraggio di qualcosa sulla piattaforma, ma c’era l’idea che la parola deve essere detta e deve essere ascoltata, sia da chi parla e sia da chi ascolta.
R.C. Ecco, non c’è questa dicotomia tra chi e chi. Il dispositivo di parola non segue la prescrizione platonica della coppia schiavo e padrone. Per Platone è necessario che vi siano il padrone e lo schiavo. Il padrone interroga lo schiavo e lo schiavo risponde. E questo dimostrerebbe come il discorso proceda dal padrone allo schiavo e poi torni indietro.
Nella parola questa copula, questa copulazione non c’è. Non è in questi termini. Non c’è questa coppia.
D.S. Non è necessario pensare a questa coppia.
R.C. Esatto, non è necessario pensarlo.
D.S. Non deve stare per forza nel retroscena. Può darsi che non ci sia questa visione ma, come ha raccontato lei, il delirio mi fa pensare ai romanzieri. Però, in quel caso il delirio è costruttivo perché articola il racconto. In Pirandello si capisce chiaramente che è un delirio quando nelle sue novelle, che poi diventano opere teatrali, c’è questa costruzione come lei ha descritto, ma, nel caso di qualcuno che invece di costruire distrugge?
R.C. E qui parla Amelia.
D.S. Non solo lei.
R.C. Chi è in grado di stabilire dove sta la distruzione? Distruzione, da de-struěre. La distruzione è una costruzione secondo un modo anomalo. Chi può giudicare?
D.S. Dagli effetti, per esempio. Dalla rinuncia a vivere per esempio, grazie a questa distruzione.
R.C. Eh, la cosa è complessa. Capisco ciò che sta dicendo, ma è una questione molto complessa.
D.S. Questo è certo. Si può affrontare però, la complessità è la cosa più affrontabile.
R.C. Non può essere abolita. Certo.
P.E. Senta, prima parlava dei varchi. In un racconto realistico, preso realisticamente, occorre trovare dei varchi per far sì che la cosa si ponga in altri termini e non venga presa realisticamente. Allora, mi domandavo intorno a questi varchi, a quali varchi si riferisce? Al paradosso, all’assurdità per esempio, all’ironia? Sono varchi? Aprono a qualcosa d’altro? Mi veniva in mente anche un taglio, per esempio, o alla distruzione come un tentativo di una rappresentazione, di un taglio differente per trovare Altro. O varco come trovare un punto vuoto, un silenzio. E poi l’intervento è trovare il varco o a che punto intervenire per aprire questo varco? Non capisco se il varco, l’apertura c’è in una fantasia.
R.C. Più che aprirlo si tratta di non chiuderlo, di non chiuderli, dato che non è uno solo. Perché, data l’apertura, i varchi si spalancano. Occorre non chiuderli, in quanto è questa la cosa che più spesso avviene, la chiusura: l’apertura è originaria, la chiusura no. La chiusura è attuata dall’agente, cioè dal soggetto. Qual è lo sport preferito dal soggetto? Chiudere i varchi.
Bene, allora proseguiamo giovedì prossimo.
Grazie e arrivederci.
La famiglia. L’amore, l’odio e il fantasma d’incesto.
Ruggero Chinaglia Il dibattito della settimana scorsa rilascia un’acquisizione, cioè che il delirio è una proprietà della parola; è una proprietà della memoria e della sua struttura, secondo il funzionamento e la dimensione della parola. Si tratta di un’altra accezione di delirio rispetto a quella proposta dal discorso psichiatrico e giudiziario; in quest’accezione, che procede dalle nostre acquisizioni, dall’esperienza della parola, il delirio è ciò da cui procedono l’insegnamento e l’effetto artistico dell’itinerario. “Delirare” vuol dire, girovagare, senza dover sottostare al postulato che dovrebbe dirigere il percorso e essere dimostrato e confermato dal percorso.
Il cammino artistico è il cammino la cui direzione non è già assegnata; è questo propriamente che si chiama delirio: l’andare senza un solco che debba indirizzare il discorso. Quel che si dice deve essere capito, ascoltato, inteso, senza che ciò che si dice, ciò che si narra, ciò che si racconta debba rispondere a un discorso convenzionale, alla realtà convenzionale.
L’insegnamento e la tradizione rispondono a questa caratteristica delirante della parola. Un teorema di questa constatazione è che non c’è più realtà convenzionale. Ognuno occorre capisca, ascolti, intenda quel che si dice della sua domanda, perché quel che si dice non è già significato, non appartiene a un discorso convenzionale, a un senso già dato, non appartiene a un sapere già acquisito: è qualcosa che va in direzione della qualifica. Occorre quindi che questa qualifica avvenga.
L’analisi e il processo di qualificazione non sono qualcosa di scontato, non avvengono in modo naturale, non avvengono in modo inerziale, esigono lo sforzo. La questione che si pone è la realtà intellettuale, che non è la realtà dimostrata dai fatti, anzi, il delirio indica che non c’è più fatto. Il delirio fa lo scacco del discorso giudiziario, che si fonda sui fatti da dimostrare. Ciascun racconto produce questo scacco: non c’è fatto! Nulla è già fatto, perché quel che si dice non giunge mai al fatto. Il racconto non si conclude nel fatto, la narrazione non si conclude nel fatto. Quel che si dice, si narra, si racconta entra in una struttura che non è mai finita, e che quindi non giunge al fatto comune e dimostrabile. Questo comporta, a differenza del discorso psichiatrico e giudiziario, l’impossibilità di compiere una classificazione di quel che si dice, incasellandolo nei limiti entro i quali sarebbe assicurato il discorso “normale” rispetto a un discorso che sarebbe delirante, quindi patologico.
La questione della parola fa sì che ci sia un altro modo di considerare quel che si dice, un altro modo per capire quel che si racconta. Allora, di cosa si tratta nel racconto, anche in quel racconto che sembra contraddire ciò che comunemente è chiamata la realtà convenzionale? In ciascun caso, occorre considerare la domanda e quel che si oppone al suo corso. La domanda non è naturale e il suo corso nemmeno. L’analisi non è naturale, il processo di qualificazione non è naturale, la questione intellettuale non è naturale; non va per inerzia, non va da sé, non è un automatismo. Non basta la buona volontà perché l’analisi avvenga.
Quali sono i postulati cui si appella ogni discorso che voglia mantenersi fedele alle sue ragioni, alle proprie credenze, cioè ogni discorso che mira a mantenere l’impostazione soggettiva?
Come dicevamo la settimana scorsa, non esistono idee deliranti, perché l’idea è coerente, l’idea è operativa. Delirante è quel che si dice, ma esistono una o più ideologie, che presumono che l’idea, anziché essere operativa − cioè che operi per il progetto e per il programma − sia invece agente, cioè debba agire per realizzare qualcosa. Che l’idea possa o debba agire è l’ideologia su cui si regge ciò che è chiamato la “malattia mentale”. La cosiddetta malattia mentale altro non è se non credere che l’idea possa agire in nome del postulato, che deve essere mantenuto e dimostrato, istituendo la circolarità del percorso, senza la domanda. Può sembrare difficile posto così, un po’ astratto credere nell’idea agente, invece è la modalità più diffusa e più comune. Basti pensare a come ogni devoto religioso si rivolge al suo dio chiedendo di avere qualcosa, che faccia qualcosa, che dia qualcosa. Questa è l’idea agente: che ci sia un ente che possa sostituirsi alle vicissitudini della domanda, per realizzare un accorciamento del percorso in nome dell’idea agente. Ognuno è ben disposto a chiedere qualcosa al suo dio, per avere, per essere, perché sia fatto ciò che non riesce a fare, ciò che presume di non riuscire a fare: questa è l’idea agente! L’idea agente che abolisce la realtà intellettuale in nome di una realtà convenzionale, che ha come convenzione di base l’idea agente.
Come questa idea agente, trasposta dall’ideale religioso all’apparato sociale, caratterizzi i cosiddetti rapporti sociali, è materia di ragionamento, e anche ciò che ci può far ragionare leggendo il film di questa sera, Gli amici del bar Margherita, di Pupi Avati, in cui si tratta propriamente di questo, certamente non nella forma della dichiarazione esplicita, ma di un racconto. Occorre leggere fra le righe questo racconto, occorre leggere il film, non secondo un discorso sociologico o psicologico, ma con il modo analitico e clinico, cogliendo la questione nodale della domanda, della vicenda della domanda, che si snoda lungo il film, cogliendone le svolte e dissipando la fantasmatica che sembra confermare il postulato e assicura le convenzioni e le relazioni sociali. Importa lo scacco che giunge a conclusione del film.
Ecco, su questo avremo modo di ragionare ulteriormente, per capire, nel racconto di ciascuno, gli elementi di qualità; non quelli che sembrano gli elementi di denigrazione e degradazione, gli elementi che sembrerebbero confermare il personaggio che ognuno crede di dover rappresentare in nome dell’origine, ma qual è la tensione che, nonostante questo, trae la domanda verso Altro e verso la sua cifra.
Questo film è straordinario rispetto a ciò. E poco importa se questo non sia nelle intenzioni del regista o di chi l’ha fatto, certamente sta nel suo testo, sono elementi che emergono dal testo, che è ciò che occorre dunque leggere e interrogare. Il testo è ciò che si racconta e anche ciò che è dato dalle combinazioni delle immagini.
Detto questo, passiamo a vedere il film, o meglio, più che a vederlo, passiamo a leggerlo, ponendo attenzione a non rimanere affascinati dai fatti, che non ci sono, ma ascoltando il racconto che avviene, come si svolge questo racconto, dove poggia, come si articola.
Allora, di cosa si tratta in questo film? Chi vuole rispondere? La vicenda è chiara, no? Non è chiara? Allora, cosa avviene? Cos’accade, cos’avviene in questa vicenda? Qual è la vicenda?
La vicenda è evidente. Si tratta di Taddeo, Taddeo Osti, detto Coso. Si tratta della fiaba di Taddeo, della famiglia di Taddeo e, possiamo dire, anche della sua fiaba sessuale. Fiaba, tuttavia, che non trova conferma nel suo epilogo, anzi, trova la sua dissipazione. Come ci accorgiamo di questo? Attraverso un espediente narrativo straordinario: Coso non partecipa più al gruppo cui sentiva di appartenere, dalla famiglia d’origine al gruppo; Coso non è più “Coso”. Coso non è più il personaggio ritenuto anche da se stesso, per via della sua origine e dei postulati dell’origine indicati dalla famiglia d’origine, così come ritiene sia, e dalle prescrizioni che da questa famiglia d’origine seguono, in direzione del gruppo che la rappresenta. Il gruppo è il raddoppiamento, la replicazione, la rappresentazione del fantasma d’origine, così come Coso se lo rappresenta. Dunque, com’è, qual è la famiglia di Coso, cos’è caratteristico di questa famiglia?
Daniela Sturaro Non c’è il padre.
R.C. Esatto, non c’è il padre. Però c’è il nonno, o quantomeno una sua rappresentazione, “che chiameremo per comodità ‘il nonno’”, questo è il personaggio. Più che il nonno c’è il personaggio del nonno. Cosa fa il nonno? Muore. Quindi, qui la vicenda del mito del padre proprio non s’instaura. Il padre è dato per morto e rappresentato come morto, anche dal nonno che muore. Che implicazione ha questo nella fiaba?
D.S. Considerevole.
R.C. Ah, bene. E cioè?
D.S. E cioè, forse, la ricerca del padre in Al. Al diventa un po’ la figura che potrebbe sostituire il padre, è considerato quello “più mitico”.
R.C. Sì, e cosa fa questo mitico sostituto del padre?
D.S. Attira su di sé tutte le attenzioni di questo ragazzo che gli paga…, lo accompagna, cioè accetta da lui qualsiasi richiesta, cioè, c’è devozione verso Al.
R.C. Sì, certo, ma questo personaggio, quindi, è caratterizzato da che cosa?
D.S. Dal sarcasmo.
R.C. No, è uno scroccone. E le donne le sposa perché?
D.S. Per lasciarle.
R.C. Ecco. Dice infatti: “ il bello del matrimonio è…”.
D.S. È la fine.
R.C. Ecco, questa è l’ideologia di questo mitico personaggio. Al è la celebrazione dell’idea di fine. Da due a cinque mogli che ha lasciato, che siano due o cinque, comunque, lui dice la verità, cioè le ha lasciate perché “il bello del matrimonio è che finisce”. Infatti la madre è vedova. E Al partecipa dell’ideologia per cui il matrimonio è finito. Poi? C’è qualche altra caratteristica che emerge da questa vicenda?
D.S. Se posso dire una cosa, anche se ho parlato troppo, però mi sembra che tutti rivestano un ruolo e che resti tale dall’inizio alla fine. C’è la ragazza bionda che continua a fare la sua vita, che sembra abbia la strada segnata e può far solo quello, non può decidere. Cioè, c’è una specie di predestinazione, un pregiudizio sulla vita. Io sono questo e rimango così, lui invece è così, e nessuno cambia, a parte Coso.
R.C. Eh, ma il film narra la vicenda di Coso, dunque narra la vicenda di una trasformazione, perché Coso, al termine della storia, al termine della fiaba, non c’è più. Non c’è più Coso. Nella foto che rappresenta il gruppo con la sua ideologia, la vicenda costruita sull’ideologia illustrata dalle regole del bar e dai vari personaggi, non c’è più. È la vicenda di una trasformazione: Coso non c’è più e tutto il gruppo non c’è più per Coso, quindi la mitologia su cui si regge questo gruppo si è dissipata.
Qual è questa mitologia, quali sono i postulati di questa mitologia, di questa ideologia, che comporta l’idea agente per ciascun personaggio, cioè di essere la conferma, la dimostrazione, la rappresentazione del postulato da cui parte? Postulato che s’instaura, come tale, a partire dall’assenza dello zero, dall’assenza del padre. Tolto il padre cosa segue? Dalla fantasia che il padre sia tolto, sia morto, non ci sia, cosa segue? Segue il regolamento del bar Margherita, il regolamento del gruppo.
Qual è il regolamento del gruppo? È il regolamento del gruppo, che doppia la famiglia postulata sul padre morto. Che ne è della donna, tolto lo zero? Che ne è della sessualità, tolto lo zero? Tutte le donne cosa sono? Prostitute.
D.S. “Penne”.
R.C. “Penne”, esatto. Il mito della donna è assolutamente assente, tolto. Il mito della verginità, il mito di Maria, abolito. Il mito della carità, il mito della grazia sono aboliti. Tutte le donne sono “penne”. E tutte le attività sono degradate: c’è chi vive di espedienti, chi di furti, chi coltiva l’idea che diventerà un grande cantante, ma in assenza di una effettiva formazione che vada in quella direzione e Taddeo indica che l’unica ragazza pura è perduta, morendo il padre. Morto il padre/nonno, cioè il padre, che non a caso muore con una prostituta, cosa segue? Che non c’è più la donna con cui possa instaurarsi il dispositivo non conforme all’ideologia del bar Margherita, all’ideologia del gruppo. L’affare, tolto il padre, è malaffare, la negatività sovrasta ogni cosa. Tolto il padre, è negato il suo mito e è negato anche il mito della madre, ma nonostante la mitologia dell’idea agente, nonostante il gruppo, nonostante le prescrizioni del gruppo, qualcosa per Taddeo avviene, per cui la fiaba sfocia in qualcosa d’altro e il gruppo cui sentiva di appartenere, che rappresenterebbe la mitologia dell’origine, della famiglia disastrata, disastrosa e quant’altro, a un certo punto si dissipa: Coso non c’è più. S’instaura Taddeo, che non partecipa all’apoteosi celebrata nella fotografia. E questo è un espediente incredibile, straordinario. Nella fotografia non c’è Coso. Il regista avrebbe potuto indicare meglio di così che Coso non c’è più? È fuori dalla foto, non partecipa, non è più nel gruppo di “come eravamo”, di “come avremmo dovuto essere”, partecipando, e quindi mantenendo l’ideologia dell’origine in assenza di padre.
Questa è, diciamo così, la storia che narra Taddeo, la fiaba. La fiaba di Taddeo, potremmo dire il delirio di Taddeo, che giunge non alla conferma della fiaba, ma alla dissipazione della fiaba, che sfocia invece in qualcosa d’altro. Al termine della fiaba, qualcosa d’altro comincia. Non sappiamo in questo caso che cosa, ma quello che è indicativo è che la fiaba non conferma e non è confermata dall’ideologia che la presume. Nel racconto della fiaba, nella sua narrazione qualcosa accade per cui la fiaba si dissipa.
Questa è la vicenda del film che, sotto tale aspetto, mi pare di grande interesse. Non tanto perché rappresenta, come si potrebbe facilmente dire, uno spaccato della società italiana o provinciale dell’immediato dopoguerra, ma perché, propriamente, indica lo svolgersi di una vicenda fantasmatica, legata al fantasma d’origine e che sfocia invece nella sua dissipazione.
Ci sono domande?
Patrizia Ercolani Io non riesco a capire quando dice che qualcosa accade per Taddeo per cui nel film si spinge fuori dal gruppo, cioè se ne esce. È possibile intendere quel “qualcosa accade per Taddeo?”
R.C. Cosa?
P.E. Se si può intendere quel “qualcosa accade” per cui Taddeo se ne esce, capendo che non appartiene più al gruppo, non è più il personaggio “Coso” del gruppo, ma Taddeo. C’è un nome.
R.C. Ecco, esatto, l’instaurazione del nome. Taddeo dice: “È il nome che mi hanno dato quando sono nato”, e di questo nome non tiene conto nemmeno la mamma che lo chiama Coso.
P.E. E deficiente.
R.C. Esatto, quindi attraverso una significazione del personaggio. Taddeo è di volta in volta “Coso”, “deficiente” e quant’altro nella mitologia che nega la famiglia come interdizione linguistica e ne fa invece la rappresentazione del fantasma d’origine, quindi come famiglia d’origine, di appartenenza.
L’appartenenza è appartenenza a un’ideologia che caratterizza il regolamento del bar come regolamento del gruppo, dove vige il fantasma di malaffare, il fantasma di prostituzione, il fantasma di omosessualità, cioè la negazione della sessualità, il fantasma di fine. Ciascuna cosa è esaltata perché finisce; in particolare il matrimonio, ma anche le varie attività che vengono svolte. Non c’è qualcosa che accomuni gli appartenenti al gruppo: c’è chi finisce in galera, chi va al festival di San Remo e torna indietro, chi vende impermeabili in modo truffaldino, chi si deve sposare e non giunge al matrimonio perché la protezione mafiosa del gruppo giunge a “salvarlo”. Questa è la cappa fantasmatica sotto cui vive Coso. Però è una cappa che a un certo punto si dissolve.
È un film, non è che deve dire per filo e per segno cosa e come, ma indica, con questo espediente filmico, che la realtà è quella indicata dalla fiaba, ma c’è un’altra realtà ripresa dalla telecamera, che è un altro film, c’è un altro film che si doppia su quello rappresentato da Coso. E in quest’altro film, Coso non c’è più. Non c’è più il personaggio su cui si basa la fiaba, se c’è parola, quindi se c’è conversazione, narrazione, racconto. Se c’è lo sforzo di capire, per sospendere l’ideologia dell’idea che agisce, qualcosa accade. Come? A ciascuno capire come. Non è per via comune o per via standard. Ciascuno ha il suo itinerario. A ciascuno il suo modo, a ciascuno la sua logica, a condizione che vi sia parola, instaurando con la parola la realtà intellettuale, non la realtà convenzionale. La realtà convenzionale è quella rappresentata dal gruppo con le sue relazioni sociali, con i compromessi rappresentati dal gruppo, mentre la realtà intellettuale è altra cosa. E non è rappresentabile né in positivo, né in negativo, né in modo convenzionale, né anticonvenzionale.
Occorre che la vicenda abbia corso, non solamente lungo le prescrizioni e le circolarità del presupposto fantasmatico, cioè dei postulati ideologici che ognuno si assegna con le sue convinzioni, assegnandosi le sue ragioni. Ognuno ha le sue ragioni per confermare il personaggio della sua idea di origine.
Questo bisogna capire: in che modo ognuno crede di essere “qualcuno”. Quel qualcuno è la sua condanna. Semplice. Questo, il film lo indica chiaramente. Il film in cui Coso è condannato nel suo personaggio, cosa fa? Fa l’autista di Al, il suo mito, lo porta a spasso, lo porta di qua e di là, gli paga il conto e vede le nefandezze degli altri. Ognuno ha le sue nefandezze, ogni cosa ha la sua schifezza. Tutto schifo, tutto brutto: chi vive di malaffare, chi vive di prostituzione, chi vive di negatività. Non c’è cosa che indichi qualità.
D.S. Nel suo piccolo.
R.C. Ognuno sta “nel suo piccolo”. Nessuna audacia, in assenza del nome. Nessuna audacia, senza il mito della madre. Quale destino può avere l’impresa? Nessuna impresa, se non l’impresa che fallisce, l’impresa truffaldina. Il fallimento è il marchio dell’assenza della madre, dell’assenza della sessualità, del postulato della morte dello zero, cioè della sua negazione.
Questa è la vicenda clinica di Taddeo. La fiaba di Coso e la vicenda clinica di Taddeo sono due cose differenti. Per Coso c’è lo schifo dappertutto, per Taddeo, a un certo punto, non c’è più lo schifo, non c’è più il male, non c’è più il peccato, non c’è più la negatività, non c’è più la fotografia che possa inquadrarlo nel gruppo che sancisce l’ideologia del gruppo di appartenenza. E questo per via di parola, per via della combinatoria tra le parole e le immagini e la loro vicenda, per via della domanda. Si tratta di questo. Perché, paradossalmente, nessun personaggio indica ciò a cui si è rivolto, se non Taddeo.
D.S. Posso chiedere una cosa?
R.C. Prego.
D.S. La mancanza di realtà intellettuale e la convinzione di agire, forse, è emblematica in quella corsa d’automobile a occhi bendati. La mancanza di realtà intellettuale, cioè la corsa in macchina può essere considerata una bravata, però c’è il fatto che è a occhi chiusi.
R.C. Ma non è a caso. No, adesso non costruiamo significazioni, non c’è da fare la morale, ma è chiaro dove conduce la negazione del padre come mito e della madre come mito: porta allo scherzo con la morte. Come chi si scola una bottiglia di cognac, ma è salvato all’ultimo momento. Lo scherzo con la morte ha questa caratteristica, che poi diventa lo scherzo della legge, lo scherzo dell’etica, lo scherzo di qualunque cosa. Questo è un altro aspetto interessante: il fantasma di morte incombe e va quindi “scherzato”, per confermarlo.
D.S. Ma per un tentativo di gabbare o di…
R.C. Per esercitarlo, anziché attraversarlo e coglierne i criteri.
Altre domande? È semplice, basta guardare il film per accorgersene. C’è qualche aspetto che non abbiamo considerato?
Maria Antonietta Viero Questa radice dell’idea di origine sembrerebbe indicare un’identità che lungo il viaggio si inidentifica. Sarebbe togliere questa radice dell’origine, cioè è paradossale la questione, mi sembra. Allora ognuno pensa di parlare, di vivere, di agire “rispetto a”; sa chi è e quindi a partire da un “so chi sono”, la radice dell’idea di origine, che è così difficile da dissipare, perché è difficilissimo lo sforzo di togliere questo limite, cioè questo osare a fare. Osare l’inindentità è una cosa orribile, mi viene da pensare, è il vuoto che si pone davanti, per cui anche il non parlare, il n-o-n, lo sforzo analitico, lo sforzo di fare il viaggio, probabilmente, è dato da questa radice di idea di origine, ma che è difficilissima da togliere perché c’è questa àncora…
R.C. Non è necessariamente difficilissimo. Se i postulati ideologici dell’origine non debbono subire incrinatura, allora risulta una missione impossibile, ma se c’è la disposizione a accogliere ciò che sorge dalla ricerca, perché dovrebbe essere difficilissimo?
Né facile, né difficile, nel senso che occorre innanzitutto ritenere di non essere legati al personaggio che si chiama soggetto, un personaggio che dovrebbe sostantificare l’origine creduta. Se voi notate, ciascuna fiaba comincia proprio da questo, dall’idea di sé. Se voi leggete le fiabe più famose, queste cominciano con la definizione del personaggio. Poi, se questo personaggio sfuma, si articola e si dissipa, allora il tragico, il drammatico della fiaba non c’è più.
M.A.V. Cioè, si può dire che è come se il lavoro del nome portasse all’inidentificazione col soggetto del nome, cioè toglie questa radice di provenienza, di origine, se c’è il nome del nome.
R.C. Non è che la toglie, non c’è più. È creduta, a condizione che la mitologia, l’ideologia dell’idea agente, quindi dell’ente a cui attingere, sia messo in discussione. Perché di questo si tratta in un modo o nell’altro. In molti casi, anziché dell’itinerario con il suo cammino, con il suo percorso, viene ritenuto doversi trattare della dimostrazione della significazione dell’origine, quindi negando sistematicamente ogni cosa che emerga lungo il cammino, lungo il percorso e contraddica questa idea agente postulata. E questo non è raro.
Non basta dire di “essere in analisi” perché ci sia analisi, anzi, questa formula è significativa, il culto del soggetto viene mantenuto. L’idea di “essere in analisi”, l’avete mai sentita? “Quello è in analisi”, “Io sono in analisi”, “Essere in analisi”. Essere. Già questo è indicativo di quale chance abbia quella vicenda: quella di mantenere l’essere. Anche questo può essere un programma per l’essere.
M.A.V. Mi viene da fare anche un ulteriore avvicinamento tra come il gruppo doppi, sancisca, è sempre un’opportunità, però possa sancire questa idea di origine. Quindi non sposta nulla, se non a raddoppiare questa idea di origine, di famiglia, di appartenenza a un gruppo e come ci sia invece, nella realtà intellettuale, la chance dell’associazione, cioè associazione come occasione di soluzione di questo gruppo che non fa che mantenere tutte queste idee, cioè l’idea di origine, di appartenenza e anche la stessa idea di fine, di morte.
R.C. L’idea di incesto, l’idea di destino, certo. L’idea del male.
M.A.V. E anche sottolinea la questione delle regole, del regolamento quindi…
R.C. L’idea di alternativa, l’idea di trovarsi sempre a un bivio, l’idea di non essere in grado, l’idea di essere o di non essere. Tutto ciò è fiabesco. Tutto ciò è materiale della fiaba.
M.A.V. Ma anche di essere dentro o essere fuori.
R.C. Esatto. Bene, allora proseguiamo su questo registro anche la settimana prossima, in cui il dibattito ha per titolo Il diritto, la famiglia, la sessualità. Avremo modo di riprendere e proseguire alcuni aspetti e anche di avventurarci ben oltre la fiaba.
La famiglia, il diritto, la sessualità
Ruggero Chinaglia Questa sera il titolo del dibattito è La famiglia, il diritto, la sessualità tenendo conto anche di quanto è emerso la settimana scorsa, in cui abbiamo letto il film Gli amici del bar Margherita. Abbiamo considerato alcune questioni che in questi giorni hanno dato seguito all’elaborazione per ciascuno, per dare un contributo all’équipe, come occorre che sia. Perché questa è una équipe! L’abbiamo denominata così: équipe analitica e cifrematica. Perché équipe? Perché non ci piaceva più la denominazione di conferenze, lezioni, dispositivo? Perché équipe? Perché ci piace il francese e allora abbiamo fatto ricorso a un termine francese? Per questo? Perché équipe? Équipe analitica e cifrematica. Adesso voi sperate che risponda a questa domanda togliendovi le castagne dal fuoco.
Abbiamo dato il titolo di équipe a questi incontri perché è essenziale il contributo di ciascuno per l’avanzamento, per il proseguimento, perché nessuno possa coltivare il proprio compromesso con se stesso. È una équipe “diretta da”, ma non “rappresentata da”, diretta! Dove ciascuno gioca una partita, la partita dell’équipe.
Qual è il contributo, questa sera, di chi si trova qui? Quali notazioni, quali ragionamenti ha prodotto e sono avvenuti sin qui? Quali ragionamenti in vista del mese prossimo? Quale programma per l’équipe?
Sì, prego, chi vuole dare il “la” all’équipe di questa sera, il cui titolo potrebbe essere a questo punto C’è vita nel pianeta?
C’è vita, qui, nel pianeta? Lei? È sicura? Allora dica.
Daniela Sturaro Esattamente, dovrei dire sul proseguimento o porre una domanda?
R.C. Dica lei.
D.S. Trovo che i film visti, le questioni affrontate siano stati molto interessanti. E quindi io sono dell’idea che quest’esperienza potrebbe proseguire. Dal mio punto di vista è molto interessante.
R.C. Potrebbe… Quindi, lei è possibilista. “Potrebbe anche proseguire”.
D.S. Cioè, non sono assolutista, questo no, perché qualora vi siano altri…
R.C. Ecco, non è decisa, determinata, dicendo che assolutamente non se ne può fare a meno. No, potrebbe anche proseguire. Potremmo anche far sì che prosegua.
D.S. Io sono favorevole al fatto che prosegua, perché attraverso i film vengono rilevate questioni che altrimenti potrebbero essere meno incisive.
R.C. Ecco, la questione che va elaborata qui questa sera, qual è per esempio?
D.S. Non certo sapere se c’è vita nel pianeta, ma la questione della famiglia.
R.C. E qual è?
D.S. È qualcosa che vorrei affrontare, anche se sono molto incerta su come farlo, perché mi sfuggono gli elementi sufficienti. Questa è una cosa che io dico senza essermi documentata, ma la dico perché una delle questioni importanti di Freud è la questione edipica. Nella sua ricerca c’era questa tensione a mostrare che l’evoluzione, nello sviluppo di ciascun individuo è un percorso inesorabile, inevitabile.
È possibile, invece, la distanza che c’è con la visione, non dico visione, ma con la ricerca della cifrematica, che invece riconosce nella famiglia qualcosa di differente dallo scenario del complesso edipico, variamente definito e denominato. C’è una interpretazione più costruttiva della famiglia, per quel che ho capito, per quel che in questi anni ho potuto ascoltare: non viene messa in primo piano la questione tra il padre e il figlio come necessità che uno dei due muoia. C’è uno spostamento verso una struttura: la famiglia potrebbe essere una struttura costruttiva, per quanto noi possiamo riconoscere nella realtà, che questi elementi si possano verificare; ma occorre andare oltre.
Probabilmente, con l’apertura che deriva dalla ricerca cifrematica, forse la famiglia potrebbe davvero diventare una costruzione che incontra la qualità. Non glielo so dire molto bene, perché non ho avuto tempo e modo di riflettere o ragionare su questo, ma questi sono soltanto spunti e impressioni.
Mi veniva in mente il personaggio di Al, con il suo disprezzo verso le donne, riferibile o riconducibile all’edipismo, perché c’è come l’incapacità di liberarsi della figura materna. Non lo so, potrebbe essere una fantasia, come mille altre che potrebbero aggiungersi. Voglio dire che, attraverso i film, le questioni prendono più il volto dell’esperienza, perché ci viene mostrata una storia, un racconto; il racconto orale e il racconto per immagini, che fornisce più forza forse, ma anche questo non so se sia vero. Vorrei dire che, almeno con altri tre film si potrebbe continuare. Continuo con questo “si potrebbe”.
R.C. Ecco, sì, che non la tiriamo tanto in lungo! Altri tre, però, potrebbero starci; ma, senza esagerare.
D.S. No. Io esagererei proprio. Mi piacciono e mi interessano.
R.C. Bene. Altri? Altre notazioni?
Maria Antonietta Viero Se il gruppo costituisce un’occasione di attraversare le fantasie che ci si porta dietro rispetto alla famiglia d’origine, mi chiedo dove stia la funzione di padre nel cosiddetto gruppo. Cioè, se il gruppo costituisce questa occasione di doppiare in qualche modo la famiglia d’origine, di portarsi dietro le fantasie e anche ciò che non si è analizzato, attraversato, come reperire la funzione di padre?
R.C. Sì, bene. Quindi, il gruppo. Poi?
Barbara Sanavia Il parricidio, cosa comporta? Perché è necessario?
R.C. Sì, ma adesso, più che al quiz, giochiamo all’équipe. Questo gioco cosa comporta? Che ciascuno, anziché formulare quiz, racconta qualcosa di ciò che ha inteso, di un dubbio che è sorto.
B.S. Questo.
R.C. No, questa è la richiesta di un chiarimento, per sapere. È una richiesta per sapere. Ora, il gioco all’équipe è il gioco a raccontare qualcosa, a partire dal dubbio, non a colmare la lacuna di una presunta ignoranza. Questo è il gioco all’équipe.
B.S. Dunque, nel film dell’altra volta il padre non c’è, e questa mancanza del padre io l’ho vista come una mancanza di valori, per cui il film non mi è piaciuto. Quello che avveniva nel film per tanti aspetti, questa assenza del padre la intendo così. Poi veniva negata pure la madre.
R.C. Ma, fino a un certo punto.
B.S. E poi Taddeo si salva.
R.C. Ecco, no. Da cosa ha arguito che Taddeo si salva?
B.S. Io ho pensato che non gli piaceva più quel gruppo. Non gli piaceva farne parte, perché non gli interessava più. Perché?
R.C. Eh già, perché? Come e quando a Taddeo non interessa più quel gruppo? Questa è una bella domanda.
B.S. Eh, non ho presente il momento in cui non gli interessa più, perché non è solo alla fine quando non voleva, è qualche passaggio prima, però non ce l’ho ben chiaro. Dovrei rivederlo.
R.C. Vuole prendere tempo… Diciamo che è proprio alla conclusione del film. Alla conclusione, Taddeo non è più nel gruppo. Questo non è automaticamente da tradurre nel fatto che Taddeo sia salvo o sia stato salvato, perché altrimenti questo comporterebbe il deus ex machina, cioè metterebbe Taddeo come un soggetto che è stato salvato da un agente del bene, mentre prima è stato dannato dall’agente del male. C’è alla base di questa questione proprio qualcosa di essenziale.
Bene, qualcun altro che vuole giocare all’équipe? Indicando di prendere seriamente la questione dell’équipe? Non come formalità, indicando di non essere soggetto della sufficienza?
La sufficienza, l’ideologia della sufficienza è nota no? Non è nota? L’ideologia della sufficienza per cui non è mai il momento, non è mai il caso, meglio stare nella copertura anziché nell’apertura. L’ideologia della sufficienza.
M.A.V. Dicendo ancora il termine famiglia, prima diceva la famiglia d’origine, dando quasi per scontato che ancora oggi si possa dire famiglia presupponendo di sapere quale sia questa famiglia e come renderla presente: mamma, papà, figlio. Lì abbiamo una famiglia dove c’è il narratore, il nonno e la mamma, però ora mi chiedo di quale famiglia si tratti. E se in quest’epoca in cui viviamo, in questo momento con una certa rivoluzione che sta avvenendo per quanto riguarda i ruoli…
R.C. Rivoluzione?
M.A.V. Perché no? Questa faccenda dei “gender”, c’è qualcosa che viene messo in discussione quanto a una rappresentazione dei ruoli, quindi, quanto a quale famiglia si tratti.
R.C. Più che di quale famiglia, di cosa si tratti quanto alla famiglia, forse.
M.A.V. Ecco, oppure al termine famiglia.
R.C. Bene. Chi? Moda.
Fabrizio Moda Oggi pomeriggio stavo leggendo una dispensa e c’era la questione dell’autorità rappresentata e quindi la questione del padre, con la distinzione tra genitori e bambini, tra mamma, papà e bambino, tra madre, padre e figlio. Quest’autorità è rappresentata come precisione linguistica, quindi non come un fare autoritario, severo e di prestanza, cioè di confronto/scontro, dove c’è, dovrebbe esserci, il papà severo che in qualche modo impone qualcosa, ma appunto padre come effetto della precisione linguistica. Io ho avuto l’impressione che fosse il punto centrale della famiglia, per quanto riguarda la figura del padre.
Per quel che mi riguarda è stata un’acquisizione ulteriore che mi era sfuggita nelle precedenti letture e che è essenziale. Per me è stato essenziale il modo d’intendere la famiglia presentato dalla cifrematica. E d’altronde notavo come sia molto frequente che i diversi modi d’intendere abbiano delle conseguenze gravi nelle persone che ho incontrato.
Mi sembra di notare un grande interesse rispetto a questo e, però, anche un arrendersi prima di affrontare la questione, che pure nel film è presentata, perché mi sembra che la questione rappresentata dal padre fosse stata delegata a una specie di gruppo che dovrebbe in qualche modo formare un clan di personaggi, un clan fisso, che desse sicurezze; una conferma anche nelle cose più triviali, oppure un rifiuto come quello del signor Walter e che in qualche modo confermavano il personaggio. Quindi, mi è sembrato l’opposto di quello che la cifrematica indica.
R.C. Sì, bene. Chi ancora?
Patrizia Ercolani Mi domandavo, se ha senso la domanda: “Cosa ha indotto Taddeo a cercare qualcosa del padre?” Perché ha voluto conoscere il gruppo all’inizio?
Mi domandavo se fosse un’esigenza, un’istanza di qualcosa intorno al padre, che poi magari trova una rappresentazione nel gruppo, in Al.
Lei, nel titolo, se non ricordo male, parlava dell’interdizione, c’era la questione dell’interdizione. Quando s’instaura l’interdizione linguistica, la questione del padre c’è. Provavo a capire questo, a partire dalla sequenza delle immagini del film. La storia parte con la sequenza del padre, di quale padre, però? Di un’istanza del padre, padre per dire, non so, autorità, oppure, ma mi pare azzardato, qualcosa che si leghi, o che rompa un certo tipo di relazione con la madre.
Non lo so, non mi pare che nel film ponesse questioni. Sì, va bene, Taddeo voleva piacere a quella ragazza e quindi instaurare una relazione, come si dice, magari differente da quella che conosceva all’interno della famiglia, quella con la madre. Non so, non mi pare che si ponesse la questione di un tipo di lavoro. A un certo punto conosce quelli lì e vuole farsi notare. Insomma è intorno a una sessualità altra. Non so se è connessa a qualcosa del padre e anche a una sessualità differente.
R.C. “Una sessualità”. Quindi, “una sessualità altra”. Perché c’è una sessualità invece corrente?
P.E. Erotica.
R.C. Ah ecco, questa mancava. La sessualità erotica mancava all’appello. Bene, ancora qualcuno. Lei?
Vanni Francescato Taddeo si rende conto che forse il gruppo non aveva risposto alla sua domanda. Quando è stato integrato nel gruppo, comunque continuavano a chiamarlo Coso. Lui era nel gruppo perché voleva farsi la foto che sanciva proprio l’entrata in questo gruppo, ma comunque rimaneva Coso.
Quel bar era di poche persone, magari a quei tempi, ora c’è la rete e molti si trovano, fanno parte di gruppi all’interno della rete, sono più numerosi e rafforzano anche personaggi, dove risulta più difficile rendersi conto e trovare risposte all’interno.
R.C. Bene, molto interessante. Ancora chi?
M.A.V. Ancora una questione. Il regolamento e le regole. Il regolamento è dato per dar modo che il gruppo esista, mentre le regole non sono imposte, ma sono da trovare, cioè sono in costruzione, non già date. Quindi, da un lato c’è il tempo, dall’altro lato c’è il gruppo e quindi il tempo è tolto.
R.C. Bene. È constatabile che la mitologia greca non ha consentito il sorgere del mito della famiglia, e ogni riferimento alla famiglia è riferimento all’anfibologia sociale, cioè alla famiglia come luogo campione della società, entro cui può svolgersi l’anfibologia dei vari personaggi. Anfibologia del padre, anfibologia della madre, anfibologia del figlio, anfibologia della famiglia come rappresentazione.
Famiglia è diventata rappresentazione di un luogo dove può accadere il bene e il male, il positivo e il negativo. Un luogo rispetto a cui poter stare fuori o andare dentro, dove vige l’alternativa tra fuori e dentro, tra alto e basso, in quanto questo luogo è inteso come luogo dell’origine, rappresentazione dell’origine che a sua volta risente di questa possibilità alternativa, di essere una buona origine o una cattiva origine.
Ma, la famiglia non è un luogo, né può essere la rappresentazione di un luogo se non come fantasma, fantasma di genealogia, fantasma di origine, fantasma di anfibologia.
La famiglia sorge precisamente con la domanda. Non c’è famiglia senza la domanda. O, quantomeno, c’è qualcosa che è allucinato, che è chiamato famiglia allucinando il luogo di origine, ma la famiglia, nella sua portata, si istituisce con la domanda, quindi non c’è famiglia fuori dalla parola. C’è una fiaba della famiglia, una rappresentazione sociologica, psicologica, antropologica della famiglia, ma sempre rappresentando questo termine come un sito archeologico. La famiglia non è un sito archeologico. E non è nemmeno rappresentabile, se non nei termini della mitologia greca, quindi dell’anfibologia di quei personaggi chiamati papà, mamma, figlio che starebbero a indicare proprio l’archeologia, il discorso dell’origine.
A partire da questa ideologia familiare, cioè della famiglia come luogo archeologico, ognuno si trova a giustificare il segno che la propria fantasmatica assegna a quell’origine. Più che di famiglia, in questo senso, nel solco della mitologia greca, del discorso greco, noi possiamo parlare di ideologia familiare, ma non di famiglia. Ideologia familiare dove, di volta in volta, possiamo avere la famiglia come luogo della realizzazione proletaria o luogo della realizzazione dell’ideologia borghese o piccolo borghese o luogo inteso come rifugio o come bene, la famiglia come bene-rifugio, fino all’impresa significata dall’ideologia familiare, la cosiddetta impresa “a regime familiare”. In un caso è la prole a dover significare la famiglia, nell’altro caso è la produzione di beni, in altri casi qualcosa d’altro, ma sempre lungo un discorso dove vige l’anfibologia, e dove quindi la famiglia è il luogo d’origine dell’anfibologia.
La famiglia, cioè, è intesa come ciò che darebbe la giustificazione alla fiaba della propria origine, quindi anfibologia del padre, anfibologia della madre, anfibologia del figlio; una famiglia fortunata, una famiglia sfortunata, una famiglia buona, una famiglia cattiva, buona famiglia. “È di buona famiglia”, “Com’è quella persona?” “È di buona famiglia”. “E quell’altro?” “È di una famiglia un po’ così”, quindi ognuno è significato dalla famiglia come luogo dell’origine, è significato dall’anfibologia e ognuno si rappresenta come segnato da questa origine, da questa anfibologia.
La famiglia come sito archeologico è un luogo di paura, perché in questa anfibologia ideologica l’Altro non c’è, non c’è più. È espulso per poter mantenere il discorso della significazione, e questo discorso si mantiene dalla presunta famiglia come sito archeologico, al gruppo, alla società, al clan, dove poter riprodurre l’ideologia da cui si crede di provenire. Questa ideologia è l’ideologia dell’ordinario, è l’ideologia della sufficienza, è l’ideologia del minimo sforzo necessario, del minimo male necessario, del minimo risultato possibile, è l’ideologia del possibile, è l’ideologia del sangue, dell’economia del sangue, è l’ideologia dell’appartenenza, è l’ideologia dove non c’è la parola. C’è l’ontologia, c’è l’origine e la genealogia, c’è la rappresentazione della discendenza, dell’ereditarietà. Non c’è la parola.
Con la cifrematica, la famiglia entra nella parola, non è più l’altro nome dell’origine. Esige quindi la parola e la lingua. In questo senso esige l’analisi. Non più una concezione antropologica, sociologica, filosofica, psicologica in cui poter ricostruire l’archeologia dell’uomo, ma l’analisi dei termini che indicano e caratterizzano la famiglia, quindi nella parola. Non si tratta più dei personaggi: il papà buono, il papà cattivo, la mamma buona, la mamma cattiva, il bambino buono, il bambino cattivo, il papà ricco, il papà povero, la mamma santa, la mamma puttana o la matrigna. Non si tratta più di questo. Si tratta degli elementi del racconto, che non sono più anfibologici, ma sono elementi di valore. La famiglia è la traccia degli elementi di valore del racconto della domanda. La famiglia sorge così, con la domanda, dove gli elementi non sono più anfibologici, quindi non rientrano più nella possibilità del positivo e del negativo, nell’alternativa fra bene o male, sopra o sotto, dentro o fuori, ma nella costruzione che gli elementi di valore comportano.
Questo esige innanzitutto l’analisi, che non è da confondere con una pratica o un rituale magico che possa comportare la catarsi, cioè la purificazione: c’era una volta l’elemento negativo che poi, per effetto magico, diventa positivo. No. Questa è la fiaba che ognuno ha di sé, questa è la fiaba che ognuno ha del sito archeologico, che a un certo punto, per catarsi, per effetto purgativo di qualcosa, da male diventa bene. Nessun male può diventare bene e nessun bene può diventare male, nessun alto può diventare basso. Alto-basso vanno insieme, non sono mai nell’alternativa.
La famiglia s’instaura quando l’anfibologia non c’è più, quando la dicotomia non c’è più. Non c’è più perché non c’è mai stata, non per effetto del purgante che a un certo punto toglie l’imbarazzo e fa diventare buono il male. No!
Analisi è teorema. Il teorema per cui la matrigna, la strega cattiva non c’è più! Il patrigno, il mago cattivo non c’è più! Ma non perché è stato emendato, non c’è più perché non c’è mai stato, se non come rappresentazione archeologica lungo un’ideologia che la sostiene: l’ideologia della dicotomia.
La famiglia originaria sorge quando la soggettività non c’è più, sorge in assenza di soggetto, e questo trae con sé che non c’è famiglia litigiosa. La famiglia sorge, s’instaura, quando il litigio non c’è più. Non c’è più la polemologia, non c’è più la polemica, non c’è più il duello fra i soggetti alternativi. Finché permane questa ideologia della dicotomia, non c’è famiglia, c’è una concezione dell’origine dicotomica.
Questo comporta che ognuno ha di sé la peggior idea possibile, o la migliore, che è sempre minore e sempre peggiore di quella che può istituirsi con la messa in atto della domanda. La soggettività assegna limiti, colpe, pecche, negatività, vergogna e quant’altro. Tutto all’insegna del negativo, perché l’ideologia della ragione sufficiente, la ragione del minimo male necessario, l’ideologia del sito archeologico diventa mentalità in cui vige la significazione, mentalità in cui l’Altro è tolto. È mentalità senza la realtà intellettuale. È mentalità del realismo negativo.
Ognuno è personaggio significato dalla negatività, dalle proprie idee, dalle proprie ragioni. E ognuno ha le proprie idee, le proprie ragioni. Per controbatterle, per contrastare le ragioni altrui, le idee altrui, quindi per fomentare la litigiosità, ognuno deve far prevalere le sue buone ragioni, le sue buone idee, le proprie idee di sé. E è tolto l’Altro. Sono tolti la ragione dell’Altro e il diritto dell’Altro, che non sono rappresentati da nessuna normativa, da nessun testo di legge. Stanno nella parola, dove interviene l’interdizione linguistica.
Quel che si dice non deve corrispondere a nulla di rappresentato. Si dice, quindi entra nella lingua. Non deve corrispondere, non deve essere conformato al canone, all’ideologia vigente. Allora c’è la chance che s’instauri la famiglia senza personaggi.
Ognuno con la sua buona idea di sé aderisce a una mentalità. È una mentalità impediente in cui l’impedimento è rappresentato da un agente, l’agente dell’impedimento. L’Altro come agente dell’impedimento.
Ognuno, grazie a questa mentalità impediente, può riferire la sua vita infernale, dove ognuno che incontra impedisce qualcosa: il marito impedisce la moglie, la moglie impedisce il marito, il padre impedisce i figli, il figlio impedisce la madre, la madre impedisce… e è tutta una catena di impedimenti dove l’infernale si rappresenta. Questo inferno è senza rimedio. Chi crede a questo inferno è senza rimedio, perché non c’è esorcismo che possa trasformare l’inferno in paradiso. L’inferno, l’infernale ognuno se lo attribuisce, se lo assegna e se lo tiene. Ognuno che crede all’infernale se lo tiene tutta la vita. Se crede che possa esistere una trasformazione dell’inferno nel paradiso può solo sperare di morire, perché solo dopo morto può avvenire questa trasformazione. Non è mai dato in vita, che l’inferno si trasformi in paradiso.
L’analisi non è un processo di conversione del negativo in positivo. È chiaro? Non è un processo di conversione, l’analisi. È un processo di teorematizzazione degli elementi intellettuali del proprio racconto, quindi della domanda. L’analisi non è un’impresa di pulizie. Esige il processo di costruzione, il disegno, l’individuazione di un progetto da cui sorge la domanda e l’articolazione con il programma della domanda nella direzione del suo compimento.
La dissipazione dell’infernale sta già nella domanda. Se c’è chi si coltiva l’inferno, vuol dire che lì non c’è domanda, la domanda non è ancora sorta, perché è sotto la cappa della credenza della propria origine. E occorre sia dissipata perché l’analisi possa avvenire.
L’analisi procede dissipando l’origine presunta. Occorre capire la differenza tra l’analisi e la psicoterapia: la psicoterapia è la coltivazione di ogni fantasia possibile sulla propria origine, l’origine del mondo e sulle possibilità che il mondo possa diventare buono eccetera, niente di intellettuale. La psicoterapia è l’iterazione della fiaba. La psicoterapia è senza famiglia. È la rivisitazione del sito archeologico da cui ognuno pensa di provenire, e il film che abbiamo visto la settimana scorsa ce lo mostra chiaramente.
Taddeo non sta lì a smenarla tanto: a un certo punto nella fotografia non c’è. Non entra nella foto. Perché non entra nella foto? Perché i personaggi che ha descritto nel suo prologo non ci sono più. Ma, non c’erano neanche prima! A un certo punto interviene per Taddeo il padre come indice del nome, e Coso non c’è più. C’è Taddeo. E Taddeo non è figlio di puttana. Non ha più dubbi. S’instaura il mito della madre, s’instaurano le donne, s’instaura la sessualità. E il padre non è più morto. Questo dice la distanza fra Taddeo e il gruppo, perché si è instaurata la famiglia e quindi non c’è più la necessità di raddoppiarla nel gruppo che ne faccia la caricatura. Non c’è più la ragione sufficiente. Interviene a quel punto la decisione.
Taddeo non è salvato. Taddeo a un certo punto comincia a vivere. E non c’è più la mitologia della salvezza, perché non c’è più l’idea di fine. Non c’è più l’alternativa tra vivere o morire. Non c’è più l’alternativa se fare o non fare. S’instaura, eventualmente, la necessità di un dispositivo in cui si tratta di capire come fare, ma non di mettere in dubbio se fare o non fare. Si tratta di fare. Come?
Questo si tratta man mano di chiarirlo, ma senza l’alternativa nefasta e mortifera. A un certo punto per Taddeo non ci sono più le “penne”, ma s’instaura la donna, s’instaura il mito della madre e il padre non è dato per morto. L’infernale si è dissipato. Non per magia, ma perché la domanda non ammette indugi sulla possibilità dell’infernale. Non ammette adesioni all’ideologia della ragione sufficiente, alla mentalità del possibilismo. Tutto ciò è materia del sostanzialismo e del mentalismo, non è materia intellettuale. È materia antropologica e l’Edipo s’instaura in questo contesto, nella realtà intellettuale, non nell’infernale.
Nell’infernale abbiamo la Sfinge che pone gli indovinelli. La Sfinge sarebbe la conferma dell’incesto, la conferma della messa a morte del padre, la conferma della malattia che colpisce la città. Ma, l’instaurazione della famiglia avviene con l’instaurazione della questione intellettuale, dove l’infernale non c’è più, non è accettato.
Questa è la questione dell’inaccettazione della morte bianca. Non “io accetto”, o “io non accetto che tu…”, “che su, che giù”. No. È senza soggetto. È inaccettazione senza soggetto. Non c’è il soggetto che accetta o no. La non accettazione comporta già la dissipazione del soggetto e quindi la domanda, non viceversa. La domanda è senza l’infernale. La domanda è senza l’incesto. La domanda è senza il fantasma di morte. La domanda è senza la malattia mentale e le sue rappresentazioni.
Occorre distinguere la famiglia dai vari dispositivi con cui attuare il programma di vita.
Il programma di vita non è in nome di qualcosa o di qualcuno, perché allora diventa una religione, diventa un’ideologia, diventa sostanziale o mentale. E allora occorre giustificare passo passo, perché sì, perché no, perché su, perché giù. La domanda non esige la giustificazione! Esige invece la scommessa rispetto a cui non c’è recessione. La scommessa è che la domanda si compia. Senza recessione. Senza recedere. Senza indugio. Senza quindi la soggettività. Questa è l’esperienza della parola.
Si tratta di indagare sulla mentalità e sull’adesione che ognuno fa alla mentalità impediente, adesione attraverso il luogo comune, il pettegolezzo, il pregiudizio, l’idea di sé, l’idea dell’Altro, l’ideologia della ragione sufficiente, l’ideologia dello standard, l’ideologia del luogo comune, del conformismo, del probabile. Questa cosa è fattibile? Sarà fattibile? È probabile. Ah, bene. E chi può dare il permesso? Bisogna trovare l’agente del permesso allora. Un dio disponibile a dare il suo assenso.
Le formule ricorrenti in cui si tratterebbe di “metter su famiglia”, “fare una famiglia”, in che direzione vanno? Adesso poi la famiglia è diventata “multicolor”. Ma questa multicolorazione della famiglia, della famiglia iridescente, la famiglia arcobaleno trae effettivamente verso la dissipazione del fantasma di origine e del fantasma d’incesto o invece è un modo per introdurre sempre di più la conferma, la giustificazione alla negazione della sessualità per via del fantasma d’origine e del fantasma di incesto? Questo occorre indagare.
La questione essenziale è semplice: ciascuna cosa procede dall’apertura e quindi è elemento intellettuale. In questo senso è elemento di valore, che può trovare la valorizzazione senza più l’anfibologia che dovrebbe assegnare all’elemento, invece, una significazione negativa, sperando poi che si possa convertire nel suo contrario.
La realtà è intellettuale, ma il realismo no. La realtà della parola è intellettuale, il realismo anfibologico non lo è, perché è senza parola. Non è in alternativa. È proprio fuori dalla parola. Presentare o rappresentare la propria famiglia è paradossale: impossibile conoscere la famiglia, impossibile presentarla, se non volgendola in una fiaba che indica quali sono le anfibologie a cui si presta credenza. Senza più questa credenza, senza più quest’aderenza all’ideologia, allora la famiglia è la traccia dell’interdizione linguistica. Però occorre la scommessa e occorre l’analisi.
Ci sono domande? Nessuna domanda? Tutto chiaro? Tutto chiarissimo?
Maria Casella Io le volevo chiedere: qualunque cosa succeda la colpa è sempre della famiglia, perché il ragazzo va male a scuola o un matrimonio sbagliato o “la colpa è di mio padre che non mi ha dato un modello di valore”. Come mai questo? Spesso avviene, addirittura si protrae a lungo, cinquantenni, sessantenni, settantenni. Si muore ancora con l’astio verso i genitori. Questo dato non viene elaborato, come mai?
R.C. Perché c’è l’adesione a questa mentalità conformista. C’è l’adesione a questa ideologia dell’agente per cui il padre è l’agente, la madre è l’agente, anziché il padre essere indice del nome che funziona, la madre essere indice del malinteso. Ognuno si rappresenta il padre come Cronos, Zeus che vuole mangiarsi i figli, che ce l’ha a morte con questo, con quello. Se è negata la madre, nell’anfibologia è la strega, la matrigna, la santa. C’è chi ha come madre la santa donna e chi invece proprio la strega…
M.C. La vita diventa infernale.
R.C. Certo.
M.C. Se non si rielabora questo dato. Poi effettivamente si trova la pace se si accetta ciò che il padre ha saputo dare, la vita ce l’ho io in mano, sono protagonista; ma forse, io insegno, questi ragazzi in difficoltà, non si lavora sul ragazzo, ma prevalentemente sui genitori. Il ragazzo va in analisi, il ragazzo va dallo psichiatra, dallo psicologo e ci fermiamo con i genitori. Sembra quasi che il ragazzo venga subordinato. È lui che sta male. Non capisco…
R.C. Il problema è questo. Bravissima. Dunque un ragazzo sta male. Perché sta male? Perché avverte in qualche modo, in qualche misura che questa ideologia familiare, questa ideologia della ragione sufficiente, questa mentalità dell’anfibologia applicata alle cose non gli sta più bene. Avverte questo e quindi, chiaramente, a seconda dei mezzi che ha, cerca di rivolgere questo disagio in qualche direzione per indicare che c’è un disagio, ma non sa come affrontarlo.
Il problema si raddoppia se questo suo disagio, che è rivolto a questa mentalità da cui è avviluppato, sfocia invece in una diagnosi di malattia. Quello è finito. Per tutta la vita è segnato. E non ci sarà verso, perché avrà il marchio “scientifico” della sua malattia. E chiaramente non può essere convinto che non è vero il disagio che avverte. Avverte il disagio proprio nei confronti dell’apparato e l’apparato vuole convincerlo invece che va bene così. Non è questo il modo della cura, ma è così che avviene con la diagnosi di qualche malattia, e con l’assenza di ascolto.
E non cambia molto a livello degli adulti, perché un disagio può essere avvertito anche in un’altra età. Uno lo avverte da ragazzo, un altro lo avverte in un’altra età per tanti motivi, ma l’apparato non accetta di essere messo in discussione: chi avverte un disagio è perché è ammalato. Questa è la traduzione che è data.
E non c’è ascolto, perché l’ascolto s’instaura dove non c’è più la dicotomia tra il bene e il male, tra il sopra e il sotto, fra l’alto e il basso, quindi dove l’elemento del racconto non è preso per significazione, ma è preso per valorizzazione, quindi è lasciato andare verso la valorizzazione. Non immediatamente contenuto per dire “No, hai sbagliato”, “No, no, no, questo è sbagliatissimo”.
M.C. Se è un processo.
R.C. Per questo dico che non c’è nessuna prossimità tra l’analisi e la psicoterapia: la psicoterapia è uno strumento dell’apparato in cui si tratta del bene contrapposto al male, del sopra contrapposto al sotto, del fuori contrapposto al dentro, per cui il sistema deve essere mantenuto, senza la parola, solamente con la significazione del sistema. Questa è la demarcazione. Questa è la questione intellettuale, che certamente investe in modo assoluto chi lavora nell’apparato. Certo, può esserci chi lavora nell’apparato per conformarsi all’apparato, oppure lavora nell’apparato perché solo l’apparato offre posti di lavoro, ma non per questo è costretto o è necessario debba condividere l’ideologia dell’apparato. Questo non è necessario. Questa è la scommessa intellettuale.
M.C. Questo è l’isolamento. Non sei con me. Sei isolato, non fai parte del gruppo.
R.C. Ecco. Ma già questo ricatto, intellettualmente, non ha presa. Ha presa se c’è la paura dell’inferno e la speranza nel paradiso. Se invece la vita procede nel gerundio, la soddisfazione sta lì, non nella promessa del gruppo o dell’apparato, perché sta nella soddisfazione della domanda.
Certamente le faglie di questa ideologia hanno minori chance di trenta, venti, dieci anni fa perché l’omogeneizzazione comunicativa dell’apparato è molto più ingente. L’omologazione della comunicazione da parte dell’apparato è molto più forte di come era anni fa. Dieci, venti, trenta anni fa c’erano i cosiddetti mass-media, però c’erano qua e là luoghi di incontro, di extraterritorialità all’interno delle istituzioni stesse, dove avvenivano cose. Adesso l’omologazione, attraverso internet, attraverso i messaggi è molto più diffusa e avvolgente. Uno può credere che, siccome ha più libertà di ribadire la sua fantasmatica dieci, venti volte al giorno, è più in fase di elaborazione, ma non è così! Perché, in realtà, l’idea di essere messi fuori dal gruppo è fortissima, anche attraverso i vari social. I social sono social di omogeneizzazione. Non sono social di dissidenza, contrariamente a quello che può sembrare.
Per cui la questione è importante e è importante la non accettazione dell’apparato, che non vuol dire scendere in piazza con le bombe, vuol dire che ciascun elemento che si ode nel racconto deve essere inteso nella sua portata intellettuale e non di significazione.
Certo, esige una ginnastica. Non è che, improvvisamente, ognuno fa da sé: esige una ginnastica, esige un dispositivo, esige una équipe dove sia possibile che questo sia affrontato, discusso, analizzato e volto in attualità, cioè in attuazione.
Daniela Sturaro Questa settimana ho avuto la fortuna di recarmi in una comunità per ragazzi con “problemi psichiatrici”, così definita.
R.C. No, no, ragazzi con problemi. Che poi è gestita da psichiatri, ma non ci sono problemi psichiatrici. Sono altri problemi.
D.S. Se ne occupano gli psichiatri e la psichiatria offre questa struttura. Mi sono trovata di fronte a qualcosa che richiede umiltà molto spesso, perché chi si occupa di questi ragazzi? Questi ragazzi trovano una casa, un posto dove stare perché sono rifiutati dalla famiglia. La famiglia non li vuole. Chi li vuole? Non li vuole nessuno. E l’unico spazio dove possono fare una vita, non diamo significato alla vita che fanno, però c’è un po’ di socialità fra di loro, ci sono operatori, hanno uno spazio, un luogo naturalisticamente gradevole. E io a un certo punto, parlando con questa psichiatra, ho trovato qualcosa di umiltà, che non avevo prefigurato potesse mai esistere.
R.C. Perché no?
D.S. Cioè, occuparsi di questi ragazzi ogni giorno, avere a che fare con loro…
R.C. È un’impresa. Certo. Chiaro, soprattutto se non ci si riduce alla sola somministrazione farmacologica. Se c’è lo sforzo di cogliere la domanda, di cogliere la questione in cui ciascuno si trova, questa non può essere certamente essere sottovalutata. Chiaro. Bene.
Altre cose? No? Allora terminiamo qui. Mi pare che abbiamo dato risposta alle varie domande, ma la questione nodale è quella che poneva Vanni Francescato: la domanda, la questione della domanda. Importantissima. Chiaro che, lungo questo, si pone anche la questione del parricidio. Ne parleremo in maniera precisa man mano.
Intanto, per cercare di capire qualcosa di questo, si può leggere Totem e tabù di Freud, che certamente non è proprio facile, però è un saggio importante per cominciare a capire la questione del padre non come personaggio della sociologia o dell’antropologia, ma come indice nella parola. Questo è essenziale: cogliere questa differenza.
Poi ci sono le dispense su Aladino, La lampada di Aladino, con materiale che, ancora a distanza di qualche anno è proprio validissimo, quindi forse occorre ristamparne qualche copia, per leggerla. Lei l’ha letta? Aladino, La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione. Lungo la lettura della fiaba contenuta nelle Mille e una notte, che è Aladino e la lampada delle meraviglie. Lei ha letto le dispense? Qui non le ha lette nessuno. Disponiamo di cose meravigliose, che a confronto la lampada impallidisce, e nessuno le ha lette. E allora lo facciamo. Lei l’ha letto? Vezza? Neanche lei. Moda sì, forse. Vanni no. Lei no e Sturaro neanche. Allora facciamo sette copie così leggiamo. Quella è una lettura essenziale,quanto alla questione della famiglia.
L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo
Ruggero Chinaglia Stasera leggiamo il film Inside Out. È un film recente, che è stato in programmazione nelle sale più importanti, in città e in tutta Italia e è stato promosso come film rivolto per lo più ai bambini. Invece, è da considerare in altro modo, perché questo film si rivolge soprattutto agli adulti; è un film per adulti e si rivolge agli adulti, con una sorta di alibi costituito dai bambini, dai ragazzi. Ritengo che, per lo più, i ragazzi non siano in grado di cogliere il messaggio di questo film, perché è un messaggio complesso.
Attraverso il cartone animato, è proposto un modello di cervello che è impostato sulla prevalenza delle emozioni. Come mai un’operazione così estesa, così importante, attraverso un film promosso dalla Disney, che è una delle case cinematografiche più importanti, su un tema come questo?
Anche questo è un argomento del nostro dibattito, che ora non anticipiamo, però sicuramente è una cosa su cui si tratta di porre attenzione, anche tenendo conto che questo modello di cervello, che prende lo spunto da una ragazzina, che è la protagonista del film, in realtà non è proposto solo per i ragazzi, i bambini, i giovani, ma diventa il modello per tutti, e quindi è un modello di cervello proposto come modello generale. Su questo, si tratta di porre attenzione, non accogliendo tutto quello che si vede nel film come oro colato, ma interrogandosi su ciò che si vede e si sente.
Ogni film può essere guardato e contribuire, come si dice, al relax. E è un’occasione persa. Guardare il film per rilassarsi è sicuramente un’occasione persa, cioè è persa l’occasione di un contributo che un film può dare alla nostra vita, perché anche il film apparentemente più banale, apparentemente più rilassante, più divertente, in realtà propone qualcosa, una combinatoria di immagini e di testi che dicono, comunicano qualcosa.
Che cosa comunica? Che cosa propone rispetto alla realtà, alle cose, rispetto a quello che può essere una mentalità? Oppure propone qualcosa che contrasta con la mentalità? Qualcosa di differente, di nuovo? Ecco, questo è da cogliere in ciascun film.
Proponiamo questo film perché ci sembra che, nonostante la sua pubblicità, nonostante la sua apparente banalità, invece diffonda un messaggio. Allora proviamo a cogliere il messaggio, che cosa propone, perché lo propone. Un messaggio non è che sia da condividere o rigettare, non è in questa alternativa. Si tratta innanzitutto di accogliere e poi valutare. Occorre non respingere o accettare in blocco, ma valutare i vari aspetti, le varie cose, capire. L’importante è capire.
Anche per quel che riguarda la scuola, l’importante non è sapere, per sapere basta documentarsi un po’, così si apprende e le cose “si sanno”. L’importante non è questo, è capire. Capire come ciascuna cosa che giunge e si aggiunge, quindi si integra, contribuisce a un ragionamento. Non per l’accettazione supina, ma per il ragionamento. Il ragionamento è sempre in atto, perché ciascuna cosa che si aggiunge mette in questione quel che c’era prima. Questo non è un problema, anzi, è un contributo.
Credo che, per i ragazzi e per ciascuno, sia davvero importante considerare che nulla è mai definitivo e ciascuna cosa che giunge, si aggiunge. E non c’è mai fine a quello che può aggiungersi, perché il cervello (poi ritorneremo sul significato di questo termine), non è un sacco che può riempirsi e a un certo punto non ci sta più niente. No. È infinito. E quindi ciascuna cosa può aggiungersi all’infinito.
Questa è innanzitutto una cosa da considerare: il cervello è infinito.
Seconda cosa da considerare è la distinzione tra cervello e encefalo. Abbiamo dato come titolo questa sera, L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo. Titolo che può sembrare difficile, ma ci aiuta a ragionare. Non siamo per le cose facili, banali. Siamo piuttosto per capire ciò che sembra difficile, o che lo è.
Abbiamo posto una distinzione tra encefalo e cervello. L’encefalo, come dice la parola stessa, è ciò che sta nella testa. L’encefalo è contenuto nella testa e è noto come sistema nervoso centrale e quant’altro. Il cervello invece è un’altra cosa, non è l’encefalo; quello di cui parliamo questa sera non è l’encefalo, ma il cervello, che non è qualcosa che si ha, ma è qualcosa che si instaura.
Intanto guardiamo il film, anzi, più che guardarlo suggerisco di leggerlo. Leggerlo e ascoltarlo, cogliendo nella combinazione tra immagini e testo quel che il film comunica, e poi ne parliamo. C’è qualche domanda già adesso, da parte di qualcuno?
Patrizia Ercolani Se il cervello è infinito e l’encefalo è quello che abbiamo, non c’è uno spruzzetto di luce divina in questo, che…
R.C. Non possiamo né escluderlo, né assicurarlo.
P.E. Dal momento che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza non possiamo escluderlo.
R.C. Ecco, questa è un’ipotesi, tuttavia. È un’ipotesi che pone delle questioni di cui possiamo parlare. Non può essere che l’ipotesi diventi un postulato.
P.E. Ah, no, no, era una domanda.
R.C. È un’ipotesi di cui teniamo conto. Bene. Questi ragazzi sono di una stessa classe? Una gran parte, quindi non sono di una stessa classe. E che classi sono qui rappresentate? Una prima scientifico e un’altra prima. Quindi, siamo a livello di prima superiore. Bene. C’è chi ha già visto questo film?
Ah, perfetto. Giova rivederlo, perché la prima volta può sfuggire qualcosa. In particolare, suggerisco di ascoltare prima che si illumini lo schermo. C’è qualcosa che si dice prima che compaiano le immagini del film. L’avete notato, voi che avete già visto il film? C’è una frase che giunge a schermo ancora buio. Quella frase è rilevante. Ma, in molti casi è sfuggita a chi ha visto il film. Cerchiamo di non farcela sfuggire questa sera. Poi vedremo perché è rilevante. È rilevante rispetto al film che segue e al modo in cui può essere letto e ascoltato.
Procediamo con il film.
Adesso passiamo al dibattito. Ci sono domande? Chi vuole formulare la prima domanda? Prego. Chi si è chiesto come mai abbiamo lasciato scorrere tutti i titoli di coda? I titoli di coda dei film danno spesso molte informazioni: sulle musiche, sugli autori della sceneggiatura, della scenografia, sulla regia, sulle consulenze tecniche, che in certi casi possono essere pleonastiche, in certi casi utili. In questo caso sono utili, danno l’informazione che serviva. Certo ci vuole pazienza, lasciare scorrere i nomi, leggere le informazioni. Anche questo fa parte della lettura del film.
Dunque, questo film cosa ci presenta, che cosa ci fornisce, qual è il contributo che ci dà? È un film molto gradevole. Che cosa racconta questo film? C’è chi ha un’idea di cosa racconta questo film?
Protagonista è Riley, ragazzina che ha dodici anni, quindi è un po’ più giovane di voi studenti, mooolto più giovane di altri qui.
C’è chi azzarda un’ipotesi sul film? C’è Riley, che cosa fa? Si trasferisce dal Minnesota alla California, come dire da Milano va in Sicilia. È una trasformazione notevole: cambiano il paesaggio, le usanze ecc. E in questo viaggio Riley ha un dubbio, ha quantomeno un dubbio, che diviene una fantasia, formula una fantasia. Quale può essere questa fantasia di Riley, per cui scappa di casa, o meglio, arriva a pensare di scappare di casa?
Perché? Certo, lì non ha amici, non c’è l’hockey, gli amici del Minnesota, ma soprattutto la fantasia per cui decide di fare questo gesto, qual è? Che i genitori non le vogliano più bene: l’hanno portata lì e non si curano di lei, non le vogliono più bene, per cui dice, a questo punto, me ne vado.
Poi, però, questa fantasia si dissipa e Riley non fugge più di casa, anzi, trova confermata la famiglia, i genitori in un certo contesto, gli amici, altre cose. E questa è la storia narrata. Ma, la storia narrata indica non già fatti accaduti, ma una fantasia di Riley: come Riley vede accadere certe cose.
Attraverso il pretesto del viaggio dal Minnesota alla California, cosa è proposto al pubblico?
P.E. Il sistema delle emozioni
R.C. Il sistema delle emozioni, lei dice. Infatti. C’è la proposta di un cervello in cui hanno sede solamente le emozioni. Ci sono cinque emozioni di base: la gioia, la paura, il disgusto, la rabbia e la tristezza. È proposto un modello di cervello fondato sulle emozioni. E queste emozioni da dove vengono? Come si costituiscono queste emozioni che sono importanti nella vita di Riley, al punto che sembrano decidere ogni suo gesto?
Ogni suo gesto sembra dipendere, da quanto è proposto nel film, dalla prevalenza di un’emozione sull’altra, quindi c’è un cervello emotivo!
Cosa viene meno in un cervello fondato sulle emozioni? Cosa sembra venire meno?
P.E. Il ragionamento
R.C. Il ragionamento, giusto. Riley non si pone questioni, non ha dubbi, ma agisce sulla scorta delle emozioni che prevalgono nel “quartiere generale”. Non c’è il cervello propriamente detto, c’è il “quartiere generale”, rappresentato da una consolle e, a seconda delle emozioni, e quindi delle relative reazioni alle emozioni, accade qualcosa.
Riley, più che ragionare, reagisce alle emozioni che intervengono al quartiere generale. Chi sarebbe contento di aver un cervello così, dove non interviene la valutazione rispetto al da farsi, con un calcolo, un conto, ma solamente la spinta delle emozioni? Emozioni non poste in una gamma, e quindi con le varie sfumature che possono presentare, ma, rigorosamente, gioia, tristezza, rabbia, disgusto, paura.
Possiamo veramente credere che la vita si fondi sulla reazione a queste emozioni? Possiamo veramente credere che ciò che accade sia predeterminato dalla dominanza di queste emozioni? È questo il modello di cervello che il film propone. In una cornice molto ben curata, simpatica, a cartoni animati, una storia ora commovente, ora umoristica, a lieto fine. Bello, ci viene da dire. Tutto ciò è molto apprezzabile. O no?
Non è per nulla apprezzabile, perché ci dà un modello di condotta del tutto indipendente dal calcolo, dal ragionamento, dalla valutazione, da istanze culturali, artistiche, scientifiche. Solamente emozioni e ricordi, che sarebbero “ricordi guida”, quindi “ricordi base”, che si acquisirebbero nella prima età e che condizionerebbero tutto ciò che segue.
L’avete notato? Persi i ricordi base è lo sfacelo. Accade di tutto, negativamente.
È vero che, poi, nella fiaba c’è modo che le cose si ricostituiscano, però, persi i “ricordi base”, l’isola della famiglia crolla, l’isola dell’amicizia crolla, l’isola dell’onestà crolla, l’isola della “stupidera” crolla, crolla tutto. La vita sarebbe “a rischio crollo”.
Un pregio del film è di non dare a questa immagine del crollo un’interpretazione patologica, l’inscrizione in una patologia. Questo è un merito apprezzabile in questa epoca dove ogni cosa è invece patologizzata. Infatti, se accade un problema è facilissimo che questo problema venga convertito in deficit, malattia o patologia. Nel film c’è questo merito, se non altro: non c’è una conversione aperta in patologia. Però, dove si accenna “all’esaurimento”, lo specialista interpellato dice che no, non è esaurimento, Riley non è esaurita, “è solo stress”.
Cioè, se non è zuppa è pan bagnato, però, in questo caso, il pan bagnato è meglio della zuppa, nel senso che, se non altro, la mitologia dell’esaurimento nervoso non viene avallata dal film. È una mitologia invece tuttora in voga, non solamente nelle zone rurali o sperdute del nostro paese, ma dappertutto. L’“esaurimento nervoso” è un’etichetta che ancora è usata persino nelle diagnosi mediche, ma l’esaurimento nervoso non esiste, il cervello non si esaurisce mai, può solo acquisire, e non c’è pericolo di esaurimento.
Questa è una cosa da tenere presente in modo assoluto, per non costituirsi alibi rispetto alle difficoltà che si possono incontrare. Non c’è esaurimento nervoso. È una mitologia, una storiella come quella della befana, di babbo natale, dell’uomo nero o quant’altro. L’esaurimento nervoso non ha ragione non solo di essere, ma nemmeno di essere creduto. Qui non viene dato l’avallo alla mitologia dell’esaurimento, ma viene dato l’avallo alla mitologia dello stress. È una moda. Sullo stress si regge un’industria che è quella del benessere. Anche questo non va accettato a scatola chiusa: qual è l’uso che si fa di questo termine? Uno è stressato, quell’altro è stressato. Stressato vorrebbe dire che è esaurito, praticamente. È stressato e quindi deve rilassarsi. Ma la parola stress, che è una parola inglese, che cosa vuol dire?
P.E. Sollecitare.
R.C. Sì, anche. Stress è tensione, ma anche forza. È tensione che dà forza, nulla si fa per inerzia. Questo s’impara sui banchi di scuola, fin dai primi anni. Per inerzia cosa avviene? Nulla. Perché avvenga qualcosa ci vuole una spinta, una forza. E quella forza consente di organizzarsi, di affrontare le cose, di elaborare i progetti. In tedesco si dice trieb, in inglese si dice stress, noi la traduciamo pulsione.
La pulsione è quella spinta, quella forza per cui, a partire dal desiderio, qualcosa si mette in moto. A partire dall’istinto qualcosa si mette in moto, anche un dispositivo pragmatico. Per fare qualcosa c’è bisogno della spinta, altrimenti che si fa? Nulla. Ma la spinta non è meccanica, non c’è qualcuno che ti dà una spinta e allora tu fai qualcosa. È la spinta che viene dalla curiosità, è la spinta che possiamo tradurre anche con il termine “domanda”. Nulla avviene senza la domanda.
Ecco uno degli aspetti discutibili di questo film: non compare la domanda, se non nella forma della nostalgia di Riley. Parte un po’ da lontano ma, attraverso la nostalgia, Riley si pone una questione che ha a che fare con la domanda. Nulla accade senza la domanda. E la domanda non è innata, non c’è “a prescindere”.
La domanda si costituisce per integrazione di varie cose e soprattutto “per fare”, per andare in direzione della qualità. Questo film ci ha mostrato, invece, una concezione meccanicistica, innatistica del cervello: le emozioni avrebbero la caratteristica di essere innate.
Non è proprio così, ma la proposta fatta qui è questa. E da dove viene la proposta di questo tipo di cervello? Ve lo chiedo e vorrei sentire la risposta; ho lasciato scorrere i titoli di coda, perché aveste gli elementi per rispondere a questa domanda.
P.E. Dalle neuroscienze.
R.C. No, viene dall’Istituto Zuckermann di scienze comportamentali. Precisamente dal Columbia University’s Mortimer B. Zuckerman Mind Brain Behavior Institute. Le neuroscienze sono qualcosa che abbracciano tante cose.
Qui c’è un modello molto specifico, che viene dal comportamentismo, secondo cui non c’è ragionamento, c’è condizionamento. Non c’è intellettualità, ma c’è condizionamento. Avete notato che alla fine, per gentilezza del regista e della Pixar, c’è un’equiparazione tra il cervello dei bambini, degli adulti e degli animali? Lo avete notato? Non vi ha quantomeno sollevato una curiosità? Ma sarà proprio così? Cioè il cervello del gatto, del cane e del topo è uguale al cervello mio, tuo, suo, nostro? Funziona allo stesso modo? Un gatto sente l’odore del cibo e dice: “Procuriamoci del cibo” e insegue quello che ha il cibo per prenderselo. Anche gli umani fanno così? Sentono odore di cibo: “Chi ha il cibo?” “Lui”. “Andiamo a prenderci il cibo”. Tutti addosso. È questo il criterio? Può questo essere un criterio accettato di cervello? È quantomeno avvilente. Però non è un caso che questo modello sia proposto e non è nemmeno un caso questa equiparazione.
Avete mai sentito mai parlare del cane di Pavlov? Voi, ragazzi, il cane di Pavlov, il riflesso di Pavlov? No? Il riflesso pavloviano è una delle basi del comportamentismo. Cosa accade nel 1900, a un certo punto del 1900? Alcuni studi in Russia erano speciali per tentare di escludere ogni ragionamento e istituire il condizionamento. Eravamo all’epoca dell’Unione Sovietica. Quindi accertarono che, ponendo un cane davanti a una fetta di carne, questo cominciava a agitarsi un po’, a salivare, finché gli veniva la voglia di mangiare la fetta di carne; e se col tempo gli si faceva ascoltare una musichetta, ripetendo l’esperimento, il cane associava la musichetta con la fetta di carne. Per cui, a un certo punto, ripetendo l’esperimento, non occorreva più esibire la fetta di carne: bastava suonare la musichetta e il cane salivava, perché “pensava” alla carne, e invece ascoltava la musichetta. Questo si chiama condizionamento: associati due stimoli, la risposta è data come se ci fossero entrambi, quando invece ne basta uno.
Questa cosa constatata nel cane, venne ritenuta bella, tanto che venne applicata agli umani. E questi studi arrivarono poi al tentativo di superare paure e cose varie, sempre con l’ipotesi del condizionamento.
Occorre dire che questa cosa è miseramente fallita, perché non viviamo di condizionamento. Le nostre istanze sono molto più raffinate e elaborate di quelle dell’animale, per cui il condizionamento non ha presa, perché c’è un piccolo trascurabile dettaglio che il comportamentismo non considera: la parola.
Per gli umani è essenziale la parola. E ciò che accade, accade per via di parola. È attraverso la parola che la domanda si formula, si articola, si svolge, e tutto ciò da luogo alle vicende della vita di ciascuno. E ciò esige una nozione di cervello molto complessa, complicata e, soprattutto, praticamente ingestibile.
Come gestire i desideri, le curiosità, le speranze che ciascuno coltiva e che giungono a costituire un progetto e poi a dar luogo a un programma e a una direzione della vita stessa? Tutto ciò non è prestabilito, non è preordinato. Esige vari processi. Questa idea di cervello va molto per le spicce. Taglia corto su questo. Bastano le emozioni. “Si, vabbè, dai, questi la pensano così.” E non è così banale la cosa. Tutto ciò dà luogo a un cervello basato sulla trasmissione. Quelli che sono i ricordi, le vie dei ricordi, avete presente nel film? Ci sono i vari tubi che portano ai vari depositi, quindi c’è la rappresentazione locale, spaziale, di quello che potrebbe configurarsi come un organo fatto un certo modo, l’organo chiamato cervello. E quindi per funzionare di cosa necessita? Di determinate sostanze.
Dunque questa è una concezione organicista: un cervello che diventa praticamente un organo, quindi l’encefalo. Una rappresentazione dell’encefalo, di ciò che sta dentro la testa, come di ciò che è sufficiente a spiegare e significare quello che accade invece nei nostri pensieri, nelle nostre idee, nelle nostre fantasie, nei nostri desideri, nella curiosità e che necessita della domanda, della ricerca, della tensione. Non va tutto in via automatica, anzi, nulla in via automatica. Questa ideologia di un cervello automatico è invece proposta in questo film. Già c’è la consulenza delle scienze comportamentali, per le quali quindi non si tratta di valutare la domanda, le idee, i pensieri, le fantasie, quelle che, insomma, per ciascuno costituiscono la sua ricchezza, ma tutto è in automatico: c’è un’emozione, avviene questo, c’è un’altra emozione, avviene quello e quindi sembra che sia valore il comportamento. Se hai quel comportamento sei ok, se ne hai un altro sei out.
Le ragioni di questo o quel comportamento non interessano a nessuno. C’è questo comportamento e questo va bene, c’è quel comportamento e quello non va bene. E allora vuol dire che c’è un deficit. Dove sta il deficit? Beh, che discorsi, nell’encefalo! Quindi occorre somministrare all’encefalo la sostanza di cui è deficitario. Questo è lo schema. Questo offre la concezione comportamentistica.
Beh, più che accettarla così com’è, si tratta di valutare, di discutere, informarsi. È proprio così? Oggi si sa che la cosiddetta scienza medica è fatta di mode, soprattutto di mode, perché non è una scienza e non può esserlo, però tutte aspirano al titolo di scienza, ve ne siete accorti? Tutte vogliono avere il riconoscimento di scienza, quando invece oggi ciò che passa come scienza è mera statistica.
Cioè, se qualcosa accade più spesso di un’altra diventa scientificamente rilevante. Ma non è scienza, è statistica. E non bisogna confondere la scienza con la statistica. Sono due cose tra di loro molto differenti, perché se possiamo chiamare scienza qualcosa che indaga sul perché qualcosa accade, non possiamo confonderla con la statistica, che ci dice invece quante volte accade, nulla di più.
Quindi, che qualcosa accada più spesso di un’altra è statisticamente rilevante, ma non scientificamente rilevante. E non è detto che sia socialmente rilevante, anche se viene presentato così. Siccome è più frequente, allora è più socialmente rilevante e diventa una prescrizione. Ciò che è più frequente diventa una prescrizione.
Allora, quindici giorni fa abbiamo avuto in parlamento la votazione sulla legge per le unioni civili e i diritti delle unioni civili. Avete fatto caso che c’è stato questo dibattito importante, con tutto il dibattito su omofobia, omosessualità, eterosessualità e quant’altro, famiglie in cui la composizione può essere varia, quindi con una reinvenzione o quantomeno un tentativo di reinvenzione dello stesso termine di famiglia. Bene. Nel 1950, avete presente il 1950, cioè sono 70 anni fa neanche, l’omosessualità era considerata una malattia, ok? Siete al corrente di questo? Era considerata malattia e come tale si cercava di curarla. Dove? Nei manicomi. Era considerata una malattia mentale. Oggi, in seguito a un processo civile, politico, culturale, artistico e quant’altro, non è più così. Anzi, viene ritenuto che c’è il diritto all’inclinazione sessuale come uno meglio preferisce. Bene, ma come la mettiamo col fatto che 50 anni fa era una malattia proclamata dall’OMS?
Che cos’è l’OMS? È l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quindi non un qualunque organismo di provincia, ma un organismo mondiale, che decretava l’omosessualità malattia mentale. Altre malattie cosiddette “mentali” sono ancora tutt’oggi riconosciute come tali, disturbi della personalità.
Le isole della personalità, avete presente? Le isole della personalità che ogni tanto crollano e quindi danno origini a disturbi della personalità, a malattia. Disturbi del comportamento, disturbi della condotta, disturbi, malattie. Fino a due anni fa sentire le voci… Vi è mai capitato di sentire che alcune persone ogni tanto odono delle voci? Non è che lo vanno a dire in giro spesso perché, se si sparge la voce, si dice che tizio è matto. E dove si curano i matti? E uno non vuole finire lì dove stanno i matti, anche se magari sente le voci. Cosa che è più intellettuale che patologica, cioè capire queste voci cosa dicono, da dove vengono, perché ci sono. Indicano che c’è qualcosa che probabilmente non è ascoltato, non è attuato, diviene voce, come dall’esterno, ma sono invece istanze interiori. Bene, ma fino a due anni fa anche le voci erano considerate uno dei sintomi maggiori di psicosi. Poi da due anni a questa parte non è più così. Perché non è più così? Perché la frequenza, la percentuale delle persone che sentono le voci nel mondo supera il 15%. Allora siamo tutti matti? Nooo. Non è più sintomo di psicosi, con l’avallo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Quindi le cose vanno così. Occorre non cedere alla tentazione di affibbiare facili etichette a qualcosa che accade. E la questione intellettuale, che è anche la questione della tolleranza e dell’accoglienza, non vale solamente verso i profughi o verso gli omosessuali, vale per ciascuna cosa che accade, che accada a me, che accada a un altro. Ciascuna cosa che accade esige di non essere immediatamente etichettata, inscatolata e trattata come un bene o un male in maniera aprioristica.
Con un cervello a consolle, come quello che abbiamo visto nel film, come instaurare la tolleranza, l’accoglienza, l’accoglimento della differenza? Diventa praticamente impossibile, perché azione – reazione, emozione – comportamento, tac – tac. Non c’è scampo. Quindi ci sono i comportamenti accettabili e quelli inaccettabili. La tolleranza va a farsi friggere. Questo cervello è un cervello intollerante.
Queste le prime considerazioni attorno al film e il suo messaggio. Si sarebbe mai detto che un cartone animato poteva proporre tutta una serie di questioni così ricca, così impegnativa, così essenziale? Perché è un cartone animato. Apparentemente ci dice cose banali, una storiella familiare che poi va a lieto fine, cose che possono capitare a tutti. Sì, può capitare a ciascuno di avere una delusione, di provare tristezza, avere disagio. Sì, è chiaro. Ciascuno può incontrare questa questione. E il film ha il pregio di non patologizzare questa cosa, questo è l’unico pregio che ha. Non è poco, perché in milioni di altre parti, a fronte di un’idea di tristezza scatta subito l’idea di depressione. Non è più lecito parlare della tristezza. Diventa un sintomo negativo per cui va nascosto. Sei triste? Sei malato. No, sono triste. Può capitare un’idea di tristezza. Sì, bene. Ma vallo a spiegare a chi dice che basta una notte di tristezza, una notte d’insonnia di un bambino per poterlo diagnosticare depresso. Vaglielo a spiegare che esiste la tristezza insieme con la gioia, insieme con tante altre cose. Ma la patologizzazione dei comportamenti è una cosa diffusa.
Oggi un ragazzo che ha un periodo di difficoltà diventa un ragazzo difficile. Non è un ragazzo che probabilmente va ascoltato per un disagio che avverte. Diventa un ragazzo difficile, se non peggio. Siccome questa catalogazione comincia dalle scuole, comincia in età sempre più precoce, occorre anche accorgerci di questo e non prestarsi a queste facili categorizzazioni.
Ho qualche cosa d’altro da dirvi, ma ora voglio sentire qualche domanda perché fino a ora ho parlato solo io. Doveva essere un dibattito e allora una domandina? C’è qualche elemento che ritenete utile di tutto ciò? Qualcosa che vi ha sorpreso? Era già chiaro tutto ciò nel film?
P.E. Tra le emozioni c’è anche il disgusto.
R.C. Sì. Il disgusto impedisce di essere avvelenati, no?
P.E. Ci sono quattro emozioni negative e una positiva.
R.C. Sì. La paura protegge dal pericolo, la gioia protegge dalla tristezza, la rabbia protegge dall’essere vittima di soprusi. Dunque c’è innanzitutto che tutto ciò contraddice al titolo. Il titolo è un bellissimo titolo, l’avete notato? Si, sennò non sareste qui. Il titolo Inside Out è bellissimo. Inside, dentro, out fuori, quindi dentro-fuori.
È vero che, nell’economia del film, ci fa vedere come è il dentro e come è il fuori, quindi dentro c’è la consolle e attraverso la consolle vedi il fuori. Però, nonostante questo impiego funzionale all’ideologia che il film propone, il titolo resta bello, perché inside out è una contraddizione che non viene tolta. Cioè inside out è un ossimoro che in italiano è dentro-fuori. Non è la proposta alternativa o dentro o fuori, che è il solito ricatto: o sei con noi o sei contro di noi, o sei dentro o sei fuori, o fai così oppure no. È senza alternativa, inside out, dentro-fuori.
È una cosa che non può essere rappresentata, mentre l’alternativa può essere rappresentata, c’è il dentro, c’è il fuori, o – o, secondo il principio aristotelico del terzo escluso, o dentro o fuori, o alto o basso, o bene o male. Ecco, il titolo non ci propone l’alternativa, ma invece l’esistenza di una contraddizione aperta. Questo è molto bello! Guardate, se c’è una cosa che è veramente essenziale è l’apertura. E l’apertura è questa: l’assenza di alternativa, l’assenza quindi di ricatto, perché ogni alternativa porta al ricatto, alla rivendicazione. Invece questo ossimoro è modo dell’apertura, è modo della contraddizione aperta. C’è una contraddizione che mai può diventare o – o, resta e – e.
Questa è la cosa più interessante da intendere: l’assenza di alternativa, l’apertura, a partire da cui le varie cose possono venir qualificate, e quindi valorizzate. Perché, se esiste l’alternativa, c’è valore e c’è disvalore. Quindi alcune cose avranno già un valore positivo, altre cose avranno già un disvalore negativo. Il mondo è già fatto, diviso in due e non c’è da fare un granché se non rispettare questa divisione algebrica tra il positivo e il negativo, tra il bene e il male, tra il dentro e il fuori. E nascono le etichette, così! Non c’è tolleranza.
Allora, il film che parte da questo titolo non mantiene poi le promesse che fa nel titolo, perché giustamente lei rileva che ci sono quattro elementi negativi, uno positivo, quindi offre già dalle prime inquadrature che c’è questa dicotomia, questa separazione tra il positivo e il negativo. A un certo punto dice: “Su, pensa positivo”, che è come dire “sii idiota”. Come si fa a pensare positivo? Il pensiero viene dalla contraddizione, quindi dall’inside out, non tutto positivo, perché poi, allora, sarà tutto negativo. L’integrazione non è più ammessa, c’è solo la prescrizione. Invece l’intellettualità è una cosa complessa che esige questa apertura. Il film ci mostra che c’è una prevalenza e ci sarebbe il fine di bene. C’è la gioia che ha il compito di assicurare il fine di bene alle azioni, le altre invece hanno il compito di proteggere dal male. Quindi fuori è una giungla: c’è bisogno di protezione contro l’avvelenamento, contro il pericolo, contro la tristezza.
Però poi c’è un rovesciamento: la gioia senza la tristezza sarebbe nera. A un certo punto, cosa accade nel film? C’è una traversata dei motivi per cui Riley vuole scappare di casa proprio attraverso la tristezza. Cosa dice l’elefantino Bing Bong? “Ho pianto. Adesso mi sento meglio.” E se ci avete fatto caso c’è una postilla che è subito coperta dal rumore del treno e dice: “Mi ha fatto bene essere ascoltato.”
È quasi una cosa istantanea, poi il rumore del treno prevale perché non sia mai che sia data importanza alla questione dell’ascolto! Ci devono essere i disturbi, i ricordi primari, la memoria a lungo termine. Tutta una rappresentazione organicista questa! Ma se voi scavate nell’encefalo, voi, il centro della psiche non lo trovate, la mente non la trovate. Tutto ciò che è intellettuale, nell’encefalo non c’è. E quindi è impossibile tradurre organicisticamente qualcosa che organico non è. Però il tentativo di questo film è questo: di avallare l’impostazione organicista.
Occorre dire che l’organicismo prevale nei periodi culturalmente più bui. Tenete conto di questo. L’organicismo prevale nel momento in cui arte e cultura sono sottovalutate, sottostimate. Infatti, cercate voi, oggi, in Italia, intellettuali di valore: ne vedrete ben pochi. Intellettuali che non avvallino la concezione organicista del mondo. L’idea che una notte di insonnia si traduca in una malattia da curare con gli psicofarmaci per tutta la vita è una pazzia. Questa sì è una pazzia, però è avallata. Se voi cercate nei social, c’è in questi giorni un’intervista a un neurologo americano, il quale dice che l’uso degli psicofarmaci per curare alcune malattie del cervello è una truffa. Andate a cercarlo, lo troverete.
E questo è un capitolo che meriterebbe tante parole perché l’uso dello psicofarmaco è una condanna già in età adulta, in età precoce è ancora peggio. Non c’è psicofarmaco che fornisca risposte alle domande rispetto cui si avverte un disagio. E quindi occorre trovare le risposte e cercarle. Ma volevo darvi un’ultima informazione: da dove viene questa equiparazione tra uomo e animale, al di là di Aristotele che diceva che l’uomo è un animale mortale con il suo famoso sillogismo. Non occorre credere a questa favola che l’uomo sia animale, l’uomo non è per nulla animale. E ciascuno può trovare motivi perché non sia equiparato.
Ma volevo darvi questa notiziola, su come mai nel 2000, quindi non tantissimo tempo fa, sedici anni fa, è stato assegnato un premio Nobel per la medicina a Eric Kandel. Kandel è uno scienziato di quell’istituto Zuckermann, che ha dato la consulenza al film, che ha vinto il premio Nobel, o meglio non ha vinto, non è un concorso, gli è stato assegnato il premio Nobel per i suoi studi sulla memoria neuronale. Caspita, ha fatto degli studi sulla memoria dei neuroni, studi che hanno fatto sì che vincesse il premio Nobel. Come ha fatto questi studi? Cosa ha studiato, per giungere alla conclusione che la memoria è fatta di memoria a lungo termine, a breve termine? Avrà fatto studi condotti sull’uomo. No, ha fatto degli studi condotti su una lumaca. Sia chiama Aplysia californica. È un mollusco. Perché condurre degli studi sul tessuto nervoso umano, sui neuroni umani sarebbe risultato impossibile perché sono numerosi, dell’ordine di miliardi e miliardi. Allora è stato rilevato che questo curioso mollusco ha un sistema nervoso simile a quello umano, però con un numero di neuroni molto inferiore. Basta. Allora è stato preso come modello, è stato fatto uno studio sulla Aplysia californica e le conclusioni sono state attribuite all’uomo. Premio Nobel per la medicina.
Ciascun premio Nobel va indagato, va capito. A cosa è dato questo Nobel? A un effettivo riscontro che costituisce per l’umanità un significativo contributo o invece è una concessione al luogo comune? Anche ciò che può sembrare più qualificato, più scientifico talvolta costituisce un cedimento a un luogo comune, a un’ideologia. Per questo occorre stare all’erta, intellettualmente dico, e non accontentarsi delle fiabe. Le fiabe sono una bella cosa, ma occorre capire di cosa si tratta nella fiaba. Bene, capisco che l’ora è tarda, non ho avuto il piacere di sentire una domandina da parte di nessuno di voi, ragazze e ragazzi, però sono sicuro che qualche domanda c’è. Magari necessità di qualche ora in più per formularsi. Ma noi siamo qui, non la settimana prossima, neanche quella successiva, ma riprendiamo dal sette aprile per discutere anche di quella cosa che oggi è considerato lo psichismo.
Ci sono questi modi di dire: la psiche, la mente, che poi sfociano nella mentalità. Uno pensa di dire chissà che cosa dicendo: “Questa è cosa psichica.” Che cosa sarà? Ecco, cerchiamo di capire questi termini cosa indicano e dove conducono, come elaborarli perché risultino effettivamente un contributo intellettuale per ciascuno alla sua ricerca e al suo viaggio. E poi proseguiremo con altri film di cui adesso non vi dico i titoli, ma verrete informati.
Se c’è chi è interessato a altri film, a altri dibattiti può lasciare la sua e-mail per essere informato. Comunque penso che attraverso i vostri docenti la cosa può accadere ancora. Bene, allora io vi ringrazio, conto che ci vediamo presto. Arrivederci.
La morsa dello psichismo tra demonologia e organicismo.
Ma c’è la parola, che non si può togliere.
Ruggero Chinaglia Forse non lo abbiamo ancora pubblicato, ma il programma c’è. E dopo questa sera, cosa annovera il programma? La settimana prossima, cioè il 14 aprile, ci sarà la lettura di Tutto sua madre, con un primo dibattito al termine del film. Il 21 aprile prosegue il dibattito che s’intitola Mimetismo e sessualità. Giovedì 28 aprile interviene la lettura del film Dio esiste e abita a Bruxelles, con il dibattito al termine, che poi prosegue il 5 maggio con il titolo Il padre debole e il figlio ribelle, indagando le questioni che procedono dal film con altri elementi.
Questa sera, credo sia noto, il titolo è La morsa dello psichismo tra demonologia e organicismo. Ma c’è la parola, che non si può togliere. E questo dibattito procede dalla lettura del film Inside Out che abbiamo fatto il 17 marzo.
Intorno a Inside Out, occorre dire, ci siamo intrattenuti altre volte, perché si tratta di un film che, attraverso varie complicità e varie combinatorie, persegue un’ideologia ben precisa: sostituire alla questione intellettuale la questione di uno psichismo universale, comune, confezionato, che oggi trova l’avallo di istituzioni e parrocchie varie, che va sotto il nome di comportamentismo e neuroscientismo.
“Comportamentismo” è un termine specifico, che addirittura si tenta di evitare per non dare l’idea di passatismo. Oggi si chiama neuroscienza tutto ciò che annovera questa ideologia dello psichismo, e che è la riedizione del comportamentismo, né più né meno, attraverso l’elogio delle emozioni. Non c’è più ragionamento, non c’è più calcolo, non c’è più questione: c’è emozione. Emozione come reazione allo stimolo. Al posto del cervello c’è un apparato molto semplice, che è un apparato di riflessi. Una volta si chiamava apparato spinale, arco spinale, riflesso spinale: botta e risposta. E questo è quanto viene proposto attraverso una enfatica denominazione di intelligenza emotiva, di neuroscienza, di qualsivoglia terminologia venga usata, che ha solamente lo scopo di riproporre la base organica, sperimentale di ciò che accade. E tutto ciò negando la parola, negando la particolarità e proponendo invece un mero apparato che possiamo indicare, intanto provvisoriamente, come psichismo.
Non è negato che ci sia una componente psichica, ma cosa viene a indicare il termine “psichico”? Viene a indicare un presunto “apparato psichico” indefinito, indefinibile, vago, ma che deve avere la sua base di localizzazione in un posto ben preciso, nell’encefalo. E il suo funzionamento è dettato dalle modalità del funzionamento organico.
Intellettualmente parlando, si tratta di mettere in questione, di analizzare, di elaborare, di non accettare questo funzionamento organicistico.
La non accettazione intellettuale non è il respingimento di un’ipotesi, di una proposta. Non si tratta di essere d’accordo o in disaccordo. Non si tratta di essere dissenzienti perché, così come nei confronti di un regime o di una ideologia, ogni dissenso ha una funzione conservatrice.
Quindi, c’è qualcosa da fare, e si tratta di capire cosa e come.
Se ci sono questioni o domande attorno a questo, possiamo raccoglierne qualcuna, tenuto conto che è un dibattito già in corso, nello specifico della questione, già da dicembre e, nella sua varietà e vastità, da una quarantina d’anni. Non è che la questione si ponga solo ora.
Quando un’operazione di tale vastità, che ha chiaramente il disegno di proporre come messaggio universale il cervello come consolle, come “quartier generale”, il cervello come abitato da quattro, cinque emozioni che indicherebbero come e quando avviene un atto nella sua complessità, quando tutto ciò dilaga, non si può rimanere indifferenti! Soprattutto non si può non considerare che evidentemente la vastità di questa proposta è planetaria.
Com’è noto la Walt Disney Company è una delle case cinematografiche – vorrei dire farmaceutiche – maggiori nel pianeta, unitamente alla Pixar che è il suo “braccio armato” digitale e con la consulenza che è stata offerta dall’Istituto per il comportamentismo di Boston, questa collaborazione incrociata la dice lunga. Quel che ne risulta non è un film di puro divertimento. È un film che apparentemente si rivolge ai bambini e ai giovani, in quanto cartone animato, ma è chiaro che il messaggio vale per tutti. I bambini non vanno al cinema da soli, sono accompagnati dai genitori. Questo è evidente.
Se ci sono notazioni o domande è il momento di farle, altrimenti andiamo avanti. Capita spesso di sentire il termine “psiche”, il termine “psichico”, come pure quello di “funzioni psichiche”. E in linea di massima, ognuno è d’ accordo che, sì, ci sono funzioni psichiche che indicherebbero cosa? Che c’è un’attività della mente. E quindi c’è qualche cosa che si contraddistingue per avere una funzione direttiva rispetto a altre azioni, e questa sarebbe la funzione psichica. Ma come avviene la funzione psichica, dove sta, a che cosa si rivolge? Se cercate nei manuali, trovate che l’attività del cervello così come viene studiata dalle neuroscienze, dalla psicologia, dalla psicobiologia, dalla psiconeurologia, dalle tante branche della “scienza” epistemologica, produce le funzioni cognitive superiori e quindi attiene a tutto ciò che consente di sentire, avere sensazioni, percezioni, addirittura avere pensieri. Tutta questa attività cerebrale deve essere regolamentata dall’apparato, da un sistema di controllo che è esercitato dai mediatori chimici, in modo che risulti conforme a un apparato di genere.
Nei manuali, ciò che è psichico, e quindi fa parte di psiche e mente come apparato di controllo del comportamento, della condotta umana, costituisce l’attività del sistema nervoso. Questo trovate nei manuali, nei dizionari, nei libri attorno a ciò che inerisce allo psichico. Anche Freud è incorso in questa formula: l’apparato psichico. E se andiamo a scorrere la letteratura psicanalitica, quasi ogni autore che abbia caratterizzato la storia della psicanalisi ha indicato un suo modello di apparato che doveva indicare come avviene il funzionamento psichico. Quindi un modello sistematico.
La questione che in qualche modo accomuna la storia della psicanalisi con la storia della psichiatria è proprio questa: l’idea di un sistema che possa giungere a un sistema psicologico, quindi a far sì che l’attività psichica umana sia prevedibile.
Ci eravamo lasciati il 17 marzo proprio con la questione posta da una frase che in Inside Out interviene prima che comincino a scorrere le immagini del film stesso. Una voce narrante a cui quasi non si dà ascolto, come accade che raramente si dia ascolto a qualcosa che proprio non sia a chiare lettere. E cosa dice questa voce narrante? Dice che ha incontrato Riley, una bambina, e si chiede: quando incontrate qualcuno vi siete mai chiesti che cosa passa per la testa a quella persona? Ebbene, io lo so, dice la voce narrante. Perché lo sa? Perché è un’emozione che sta alla guida del comportamento. È un’emozione governata dal modello stimolo-risposta che rende prevedibile la condotta, il comportamento, quello che accadrà. È questo il miraggio di ogni scienza o disciplina che confluiscano nel modello scientistico di rendere riproducibili gli atti.
Dove sta il carattere scientifico, oggi riconosciuto tale? Sta nella possibilità di riprodurre qualcosa che è accaduto prima. In questo si riassume l’esperimento: ciò che è ripetibile, date le condizioni in cui è avvenuto. Questo è ciò che esige il sistema, perché al di fuori del sistema nulla è ripetibile. Manca propriamente la possibilità di una rete di coordinate che possa rendere ripetibile qualcosa nel contesto infinito.
Intanto, l’ipotesi è questa: c’è un contesto finito in cui le cose sono prevedibili e ripetibili. Questo è il modello dello psichismo vigente. In questo contesto, ognuno ha il diritto di avere le sue idee, di attenersi alle sue idee, alle sue credenze, ai suoi principi per non contraddire la propria identità. Ognuno ha il diritto alla propria identità. Cos’è questa identità cui ognuno ha diritto? È l’idea di sé, che procede dall’origine, dalla sua idea di origine e da cui si prefigura un’idea di destino. Ognuno ha la sua identità rappresentata da questo cerchio, in cui l’idea di origine e l’idea di destino vengono a coincidere.
Ognuno è questo, ognuno ha la sua identità; ognuno si attiene a questa identità e crede che in questa identità stia la sua libertà, che sarebbe, come ricordava recentemente in televisione un noto opinionista sportivo, che adesso è diventato tuttologo per via delle origini da cui proviene, coincidente con l’idea che ognuno ha il diritto di fare quello che vuole. Ognuno ha il diritto di fare quel che vuole perché questa è la sua identità, altrimenti verrebbe contraddetta la sua identità, la sua libertà, la sua soggettività.
Questa è la base dello psichismo: la soggettività. Ognuno, in quanto soggetto, si attiene ai postulati della sua origine, di ciò che ritiene essere la caratteristica dell’origine. Questi postulati non sono reali, ma fantasmatici e ognuno se li pone innanzi, a costituire la rotta del suo cammino. Quindi, non c’è più bisogno di una bussola, non c’è più bisogno di un programma, non c’è bisogno di un disegno, di un progetto: la rotta è già tracciata dal postulato dell’origine da cui consegue il destino perché la via è retta. Questi postulati tuttavia non è detto che siano conosciuti, che siano coscienti, che siano noti per volontà, ma sono rappresentati, sono ben rappresentati dall’idea di sé e dall’idea dell’Altro, cioè dalla negazione di sé e dalla negazione dell’Altro. E occorre che non siano smentiti da ciò che questo soggetto dice e fa. È qui il cerchio della soggettività.
Possiamo chiamare questa circolarità il compromesso sociale, che segue il compromesso fantasmatico tra l’origine e il destino. Cosa occorre avvenga perché questo compromesso sia mantenuto? Occorre avvenga il contenimento della domanda. Non c’è domanda nello psichismo. C’è comportamento, c’è reazione rispetto a uno stimolo. Oggi si chiama input, tecnologicamente. All’input segue la risposta come reazione. E tutto ciò occorre sia contenuto dalla negazione del sé, quindi dalla negazione dell’oggetto, dalla negazione dell’ostacolo e dalla negazione dell’Altro, cioè dalla negazione della differenza assoluta a favore di una intersoggettività che regola la relazione. Questa costruzione nega assolutamente la parola, perché la relazione, qui, è il prodotto di un compromesso, anziché essere ciò da cui procede la domanda stessa. La domanda procede dalla relazione, cioè procede dall’apertura. Non si costituisce in relazione, a seguito di un processo.
È il rovesciamento rispetto alla parola, alla sua natura, alla sua struttura, ma questo è funzionale all’ideologia vigente, che è l’ideologia della vendetta basata sul capro espiatorio. Solamente togliendo l’apertura può trovare sostegno questa ideologia che nega la tolleranza, nega l’indulgenza, nega la necessità di capire come e perché qualcosa avviene, attribuendo invece alla natura del soggetto il motivo, la ragione per cui qualcosa avviene. Stante questo rovesciamento che toglie la ricerca, l’indagine su come e perché accade qualcosa, assistiamo giorno per giorno all’elogio della vendetta attraverso i media, dove apparentemente attraverso la riprovazione comune, collettiva, viene diffusa l’informazione che Tizio ha ucciso Caio, che Caio ha ucciso Sempronio, che Caio e Sempronio hanno ucciso Felicino, che tutti e tre hanno ucciso chi la moglie, chi il marito, chi l’amante, perché all’interno della coppia vittimista qualcosa si è prodotto come variazione non articolabile, non articolata, non analizzata, tale da produrre l’idea della fine del tempo, intesa come rottura.
Rottura che però non può restare impunita, ci deve essere pure un colpevole. Questo colpevole va punito. E ognuno si promuove esecutore della condanna.
Ma ciò non avviene per caso. Ciò avviene a seguito della negazione della parola, cioè della particolarità, della dissidenza e della struttura. La struttura è imprevedibile, incalcolabile, non può essere colta che apre-coup. Certamente, non prima che qualcosa accada.
Questa negazione della parola la potete cogliere, in atto, quando per esempio vi sentite dire che occorre fare qualcosa per evitarne un’altra. Non per fare qualcosa, per giungere da qualche parte, per compiere un disegno, un progetto: no, per evitare che ne accada un’altra, che possa costituire un problema, un inghippo. La negazione della parola avviene, in molti casi, per evitamento, per evitare qualcosa, per evitare il male, perché potrebbe accadere qualcosa di male, costituendo un impedimento a un’altra cosa. Questa è già la negazione della parola. Non è che bisogna andare in chissà quali mondi strani. È qualcosa dell’ordine, non dico del giorno, ma del minuto, del secondo. “Non posso fare questo perché altrimenti…”. Così, si nega la parola.
Ci si erige come soggetti, cioè come affezioni psichiche. Il soggetto è un’affezione psichica, è affetto da psichismo. Il soggetto è questo: l’affezione di psichismo. Quindi, ognuno si assegna uno psichismo già nel momento in cui crede di dovere o potere evitare qualcosa. E poi l’evitamento ha varie forme, vari modi: dall’astensione, alla dimissione, alla rinuncia. “Devo rinunciare a questo, altrimenti…”. Anziché l’altrove, l’altrimenti. Cioè ognuno è sottoposto al ricatto da se stesso. Non posso fare questo né quello, perché altrimenti… Altrimenti l’Altro. Interverrebbe qualcosa di Altro, che assolutamente bisogna evitare.
Quindi, la rinuncia, l’abdicazione, la sparizione rispetto alla domanda. Piuttosto che discutere, me ne vado. Piuttosto che intervenire, piuttosto che…, mi astengo, rinuncio. Faccio come se questo non ci fosse, non mi interessasse, non mi importasse. Ognuno si astiene. E qui c’è la negazione. Cioè non è formulabile nel modo: io nego questo. No. Questa è la negazione di fatto della particolarità, della dissidenza della parola a favore di una concettualità, di una rappresentazione, di una presentificazione di qualcosa cui attenersi. Che cos’è questo qualcosa? Un pregiudizio, un fondamento, un postulato non analizzato, che supporta l’idea di origine.
Negare la parola vuol dire anche negare i suoi indici, negare il padre, negare la madre, negare l’Altro, negare l’amore, negare l’odio e volgerli in soggettività e transitività. E allora, fantasma di genealogia, fantasma di appartenenza, fantasma di violenza, fantasma della transitività dell’amore e dell’odio e presumendo di diventare oggetto d’amore, oggetto di odio, senza cogliere la struttura.
Indagare sulla struttura, cosa comporta? Accorgersi che non c’è conoscenza, quindi che il presupposto dell’identità si dissipa e che ognuno, se bada alla struttura, certamente non può conoscersi. E se giungesse a conoscersi sarebbe rovinoso, perché vuol dire che il cerchio della morte si è compiuto.
Domanda finita. Tempo finito. Tempo scaduto. Allora tutto ciò che sta attorno a questo compromesso, che si avvale dell’idea di conoscenza e di competenza, e che quindi mira al compromesso gnostico di una coscienza delle cose, tutto ciò contribuisce allo psichismo, e se ne avvale! Ma potrebbe ancora sembrare una cosa di un certo interesse, perché, “psichismo” sembra una funzione nobile, una funzione superiore, perché in questo sistema, chiaramente, qualcosa sta sopra, qualcosa sta sotto. L’importante sarebbe stare sopra.
Ma cosa indica il termine psichismo nella terminologia cosiddetta scientifica, giusto per dissipare le residue speranze di chi ci tiene a appartenere a questo contesto? Lo psichismo sarebbe ciò che caratterizza quel che è comune agli animali, quindi funzioni accomunanti l’uomo con gli animali. Oppure, nel caso più eclatante e specifico, la dotazione di chi soffre di minorazioni mentali. Lo psichismo sarebbe quella funzione primordiale che non si nega nemmeno a chi soffre di minorazioni mentali: “funzioni psichiche scarsamente differenziate che caratterizzano gli animali e le persone mentalmente minorate, cioè riflessi, reazioni, psichismo”.
Questo trovate se esplorate dizionari, enciclopedie, manuali. Il manuale è fatto della copiatura di altri 3 manuali, ma sempre quello è, altrimenti che manuale sarebbe? Il manuale serve a dare prescrizioni e quindi l’ideologia su cui si sostiene, è comune. Ogni manuale si sostiene su un’ideologia comune. E non ci sarebbe psicologia, senza lo psichismo. Impossibile. Non ci sarebbe nemmeno la psichiatria. Non ci sarebbe tantomeno l’antropologia criminale, la criminologia, perché lo psichismo prescrive qualcosa: l’ontologia e l’innatismo. Semplice.
È solo a partire da questo che allora può sorgere la domanda popolare che chiede: “Ma in una circostanza così, cosa bisognerebbe fare? In un caso come questo, cosa dovrei fare?”. Allora sorgono i “casi così”, le circostanze simili a questa, che implica il processo per analogia.
“Cosa dovrei fare in un caso del genere?”: qui l’analisi, non diciamo che non se ne parla, ma proprio non può entrare, non trova non dico accoglienza, ma neanche sede possibile, in questo discorso universale e universalistico, dove ognuno sta nel caso altrui! “Ma gli altri cosa farebbero in un caso così? Cosa farebbero gli altri al mio posto?” Complimenti! “Oh, gli altri che starebbero al mio posto, chissà cosa farebbero.” Questi enunciati ricorrenti ndicano l’ideale di normalità cui ognuno, ogni soggetto, tende, per rimanere invischiato nella soggettività, nella intersoggettività.
Nessuno si chiede: “Ma perché in quella circostanza ho fatto così? Perché è accaduto così? Per quale giro?”No! “Cosa dovrei fare in un caso così! Quale sarebbe il giusto comportamento in un caso così?” Come se esistessero i casi così! Come se potesse riprodursi o accadere un’altra volta un caso così, per cui potrei avvalermi di quanto accaduto prima, per non sbagliare ancora. Quale chiusura più ermetica di questa? Nessuna. Questa è la chiusura. E in seguito a questa chiusura, è possibile chiedere il vademecum del comportamento. E la cosa triste è che c’è chi lo fornisce. Quindi, lo psichismo soddisfa il fantasma di padronanza e di possessione: come padroneggiare le cose, come padroneggiare la domanda, la risposta, il modo, il tono, come sapere come fare. Lo psichismo dovrebbe sapere come fare. Non capire il da farsi, ma sapere cosa fare nei casi così. E questa è l’ideologia vigente, questa è la scuola di pensiero vigente, questo è prodotto nella scuola, è propalato nella scuola, è insegnato nella scuola. Ivi compresa l’università. Questo è insegnato in ogni apparato burocratico, dove non c’è la domanda, non c’è la parola, perché è espunta. Non è dato il caso della parola. È dato il caso per analogia. È data la pluralità dei casi, cioè la clonazione, il principio di clonazione, abolendo la differenza. Non c’è molteplicità. C’è la clonazione. Quindi pluralità. E ogni cosa deve entrare nel generico, nel caso mentale, nel caso spirituale, nel caso ideale, perché non c’è lingua. Non c’è parola e non c’è lingua. Quindi, lo psichismo è extralinguistico. È per soggetti muti, in quanto parlano una lingua muta, una lingua che deve essere normale, normalizzata, senza parola, senza afasia: la lingua comune, la “nostra lingua”, la lingua “de noantri”, la lingua della condivisione: bisogna condividere le emozioni. Bisogna condividere lo psichismo.
La condivisione è la modalità con cui si produce il suddito della verità extralinguistica. L’idea di condividere qualcosa è un’idea che espunge il tempo, espunge l’Altro, espunge la differenza e rende possibile, attraverso queste varie espunzioni, condividere, cioè togliere la divisione, il tempo.
Tolta la divisione diventerebbe possibile comprendersi, condividere, apprezzare allo stesso modo le stesse cose che quindi diventano cose comuni, senza comunicazione, ma cose della comunità. Una comunità che ha abolito la lingua in nome dello psichismo. Ciò che caratterizza lo psichismo è non avere varchi, quei varchi di cui si avvale il transfert: i varchi della metafora, i varchi della metonimia, i varchi della struttura.
Lo psichismo insegue un continuum senza varchi, perché il varco diventa una complicazione. Nella metafora, non vige più il principio di genealogia, ma c’è una sostituzione che non può essere significata per analogia, una sfumatura che non può essere assimilata a un’altra. L’interpretazione non è accomunante: indica che dopo un varco se ne fa un altro. Anche cercando di suturare il varco, l’interpretazione ne apre un altro. E così la ripetizione.
I buchi, i varchi. Anche nel cosmo, i buchi nell’universo sono più importanti delle stelle e dei pianeti. Adesso attraverso i buchi giunge la conferma che non c’è continuum, non c’è sistema, non c’è un movimento costante. Anche l’universo si espande e si contrae, la teoria del big-bang è fasulla.
Le fantasie, una volta entrate nel racconto, incontrano la parola, quindi la particolarità, la specificità, la distinzione, l’eventualità della cifratura. Nulla è ontologico, nulla è dato, nulla è tolto. Non c’è senso standard delle cose, sapere standard, conoscenza, valore standard. È incredibile questo paradosso dei valori comuni. Gli assoluti comuni, l’ assoluto relativo. No. Il valore è assoluto. È valore assoluto. Non c’è un valore condiviso, partecipato. No, è la questione del qualis!
Il valore è ciò che risponde alla questione del qualis, quindi della qualità estrema. Non possono esserci due estremi dello stesso qualis, due versioni dello stesso qualis. In ciascun caso il qualis è assoluto. Non può essere relativizzato. Il meno che si possa dire è che lo psichismo è purista, sia esso pertinente all’apparato medico, medico-legale, giudiziario, psichiatrico, politico, sociale. In breve lo psichismo è fondamentalista. Psichismo cristiano, psichismo islamico, psichismo ebraico. Psichismo. Si tratta sempre di un caso di fondamentalismo perché è tolta la domanda. Tolta l’apertura, tolto il funzionamento, la distinzione, la dimensione, cosa resta? Una rappresentazione sostanzialista.
Si può notare che l’adozione dello psichismo avviene dove c’è il riferimento alla psicopatologia. Ogni riferimento psicopatologico è un riferimento allo psichismo, cioè a un sistema regolato dall’alternativa fra il bene e il male, fra il positivo e il negativo, il sopra e il sotto, il dentro e il fuori.
C’è una sorta di paradosso riscontrabile anche nella manualistica psicopatologica. Negli ultimi 40 – 50 anni, il numero dei cosiddetti disturbi di cui si fa l’elenco psicopatologico è passato da qualche centinaio a svariate migliaia. E questo è un dato interessante: nemmeno lo psichismo vale a evitare la varietà, la variazione e la differenza che sono incontenibili e che esigono sempre nuove formulazioni per essere rappresentate. Quella che sembra una modalità raffinata, tecnologica e scientistica della diagnostica planetaria, è un indicatore che la parola non può essere evitata. E anche la più ferrea volontà di stigmatizzare come disturbo la variazione, deve ricorrere costantemente all’invenzione di nuovi disturbi, perché il principio analogico del disturbo va in scacco. Quindi, quella che sembra una modalità tecnologica per la precisione si può leggere in un altro modo: la precisione diagnostica va in scacco, in quanto esige costantemente di aumentare il numero delle diagnosi: due diagnosi, pur contigue, non valgono a rappresentare e riassumere il disturbo che dovrebbero diagnosticare in un caso e in un altro. È evidente. È una moltiplicazione inevitabile.
L’idea di un apparato psichico è un cedimento al fantasma di padronanza e al fantasma di possessione, all’idea di poter racchiudere in un insieme finito le cose per riuscire a prevederle. Ma quanto dicevo prima della estensione planetaria dell’ideologia che si avvale dello psichismo, mette in questione anche coloro che asseriscono di situarsi in una pratica di psicanalisi.
Se la psicanalisi oggi è anche definita essere la forma eminente di psicoterapia, ciò è dovuto all’uso dello psichismo assegnato come paradigma universale e quindi anche psicanalitico. Paradigma che non solo è stato imposto da funzionari dell’apparato giudiziario, (con quale cognizione?), ma è stato accettato da chi temeva l’esclusione dall’apparato dei funzionari psichici: sono coloro che temendo di non essere annoverati tra gli psicanalisti o gli psicoterapeuti del funzionariato psichico, hanno aderito al riconoscimento di uno psichismo di riferimento, condividendo la diagnostica psichiatrica. Ma, non può esserci nessuna omologazione, se non negando la parola e la sua esperienza.
L’adesione allo psichismo è la negazione della psicanalisi come esperienza della parola, con il suo svilimento a pratica psicoterapica, che lo esige per definizione.
C’è un compito che riguarda ciascuno non coinvolto nel compromesso fantasmatico e sociale dell’intersoggettività: il compito di non partecipare all’ostracismo della parola, alla sua negazione, alla sua denigrazione, alla sua degradazione, di non partecipare al toglimento della sua dissidenza, della differenza assoluta, della varietà, al toglimento della libertà di divenire cifra, che non è una promessa o un destino, è un’eventualità.
È un’eventualità che la parola divenga cifra. Non è una promessa. Non è la promessa della soddisfazione assicurata. Occorre conquistare la soddisfazione. Questo compito intellettuale non è demandabile, non è delegabile alle generazioni future. E è il compito di chi constata di vivere nella parola. Vivere nella parola non è vivere nella torre d’avorio, nell’isolamento di una pace ecumenica, in un’atarassia conquistata soggettivamente. È il compito che esige la testimonianza, esige di non restare insensibili a quel che accade attorno a ciascuno di noi.
Allora possiamo dire “noi”, se questa indifferenza soggettiva è dissipata.
Se ci sono domande di precisare qualche altra questione, prego.
Fabrizio Moda In questa logica e struttura della parola, a proposito del cervello, l’encefalo avrà un supporto dove possa funzionare. Cioè, se uno perde una gamba non è che la parola viene meno, così come un pappagallo non sembra usufruire di questa logica e quindi sembrerebbe che sia l’encefalo o quantomeno che l’encefalo partecipi al funzionamento di questa logica. C’è un centro della fame, della sete, del respiro, ma un supporto dovrà pur esserci, nell’encefalo intendo.
R.C. Eh sì. Ci deve pur essere un Cristoforo che porti Cristo sulle spalle, dice lei. E si chiede dove sta il supporto, qual è il supporto. Poi? Ci sono altri? Si?
Elisa Ruggiero Mi chiedevo se la competenza linguistica è il risultato di ricerca, studi, educazione; se è un risultato di ricerca, studio, educazione conforme all’umano e per certi versi potrebbe anche essere un efficace esercizio di potere verso lo studioso.
Lo psichismo si può diversificare in gradi e quindi può diversificare in gradi anche la volontarietà? Accomuna nella volontarietà solamente per dei tratti che lo rendono conforme? E quindi la differenza teoricamente comporta la qualità e ciò che emerge come nuovo nella combinatoria effettuata da quello che non è più quindi un soggetto? Ovvero lo “studioso”? Chiamiamolo ricercatore. In sostanza c’è una forma di volontà comune che indicizza uno psichismo fondamentale, mentre un grado differente di psichismo giunge a cogliere anche aspetti altri, quindi creando una differenza?
R.C. No, c’è solo quello fondamentale.
E.R. Solo quello fondamentale. Però effettivamente nel sociale si avvera una diversificazione, cioè nel senso che se ci sono persone conformi e normali ci sono anche persone anticonformistiche e con tratti differenti. Però, questa differenza che si evidenzia viene considerata come patologica, come anomalia, Cioè non viene interpretata? Cioè non riesce a essere classificata? E se viene classificata diviene patologica, oppure conforme? Perché se si classifica come conforme non è più una cosa nuova. E allora fa parte dello stesso psichismo?
R.C. Esatto. È preciso. Fa parte dello stesso psichismo. La classificazione stessa appartiene allo psichismo. Brava. Altri? Altre domande?
Maria Luisa Biancotto Mi chiedevo se c’era ricerca scientifica, senza psichismo.
R.C. Ecco, ricerca si. Ricerca scientifica è più difficile, data l’accezione che ha questo termine. Oggi non è data ricerca scientifica in assenza del processo di verificazione e falsificazione, quindi del processo stesso di validazione per cui qualcosa venga riconosciuto scientifico, cioè appartenente al sistema. Scientifico oggi vuol dire sistematico.
M.L.B. Ci sono scoperte della fisica la cui difficoltà è proprio di riuscire a captare degli avvenimenti in cui sta accadendo qualcosa e quindi ogni giorno c’è una scoperta nuova, in pratica. Scoperte nell’universo in cui qualcosa accade e capita di non riuscire in alcun modo a renderlo percepibile, visibile.
R.C. Forse la fisica deve ancora iniziare il suo cammino, perché i suoi esponenti non hanno ancora accolto l’eventualità dell’invenzione. Ritengono che tutto ciò che costituisce oggi l’inventario della fisica sia stato scoperto. La fisica partecipa di un’ideologia ontologica e questo è il suo limite. Nelle faglie di questa ideologia ogni tanto emerge qualcosa di imprevisto, che però deve essere recuperato all’interno della scoperta. Cioè si deve dimostrare che stava già lì. Quindi, anche la fisica partecipa del fantasma di ontologia e di innatismo. Non c’è da coltivare speranze di un apporto della fisica alla parola, perché la fisica è alla ricerca di ciò che c’era già e che può solo venir scoperto. Cioè nega il processo di invenzione. Anche il processo di abduzione, con cui alcune leggi sono state inventate è negato. Sono state scoperte dicono. Le leggi c’erano già. Per poi accorgersi dopo tot di anni, che in realtà non era proprio così, era un po’ differente. Però tant’è. Non c’erano i mezzi per stabilirlo. Quindi sempre si tratta di scoprire cosa c’era già. E la ricerca è sempre dell’origine. Questo è il problema.
M.L.B. Dovrebbe essere la ricerca delle leggi.
R.C. Sì, ma la ricerca delle leggi è ricerca che dovrebbe fornire la chiave dell’origine. Questo è il limite che si auto infligge anche la fisica, che poi chiaramente si insinua nelle faglie di questa ideologia, a cui peraltro partecipa. Che la ricerca per via della tecnologia si avventuri nell’ambito del sempre più distante o del sempre più piccolo, non garantisce un altro modo o un’altra ricerca .
M.L.B. Ma le scoperte che stanno venendo fuori stanno sconvolgendo proprio la logica, la stanno spiazzando.
R.C. Stanno sconvolgendo la credenza, non la logica.
M.L.B. La logica con cui sono stati fatti gli esperimenti.
R.C. Stanno sconvolgendo le credenze. Credenze su cui da tanto, tanto tempo si era assiso il consesso disciplinare. Certo, ma non mi pare che possa dirsi in questione la logica.
M.L.B. Ci sono molte questioni proprio difficili che riguardano l’esperienza e la legge che sottende l’esperienza, cioè la vita: l’esperienza, la sua vita e la sua legge. Legge di vita.
R.C. Legge di vita.
M.L.B. Insomma la vita e i suoi comandamenti, chiamiamoli così.
R.C. No, la vita e la sua legge è interessante, la vita e i suoi comandamenti è religiosa. È in vigore da tanto. Si ricorda Morandi?
M.L.B. Allora, credo che vi sia un atto con cui l’essere umano cerca di darsi ragione di ciò che accade, e quindi di ciò che vive. E quando, come dire, capita di avvertire che c’è una logica anche nelle cose che accadono, e quando accade qualcosa che rompe questa logica, l’essere umano continua a insistere per capire cosa sta accadendo. In questo senso potrebbe essere che uno sia portato a ricercare delle leggi. Che poi anche una serie di risultati li abbia già sfornati il sistema, un sistema perché tutto sia sotto controllo, è una questione che va lontano: ne va della gestione, del potere, ecc. ecc. ma, istintivamente, ciascuno si pone questioni di cos’è la vita, quali sono le sue leggi e secondo quale logica accadono le cose e perché; a volte, mancano degli anelli che diano risposte effettive rispetto a quello che accade e si esce magari dalle aspettative, quando non c’è giustizia rispetto a un investimento, rispetto a un percorso e sembra che la vita non ti ripaghi, che le cose vadano in tutt’altro modo.
R.C. Questione antica e moderna. Occorre affrontarla per via della modernità e non dell’antichità e quindi non come vita di genere. Lei dice la vita di un essere umano. Questa è una vita di genere. Includendosi nel genere umano, la vita diventa vita di genere. E allora diventa una vita generica, universale. Una vita standard. Occorre invece affrontare la questione per via della modernità, quindi non per la via di genere. Partecipare alla credenza dell’essere umano e per costui, o per costoro, o per questo genere credere che abbia o disponga di una vita, questo può costituire un baluardo rispetto al capire. Anche, forse, al ricercare, perché occorre dissipare prima l’idea di genere.
Dissipare l’idea di genere vuol dire anche dissipare che ci sia una vita vivibile, cioè una vita standard, una vita ideale, una vita che sarebbe appropriata a quel genere. È già materia di ricerca questa, di indagine per poter accedere a capire come vivere. Non come è la vita, perché dicendo vita praticamente diciamo che già l’abbiamo vissuta, quando invece è in corso. L’abbiamo già vissuta no? “Come è la vita, qual è la vita”.
C’è vita su Marte? Ma non è quella la vita di cui si tratta di capire qualcosa. È la vita in atto. Quindi è la vita nel suo gerundio. E questo allora esige che sia dissipata questa fantasia sulla vita di genere. La questione è bella, ampia, è attuale.
La madre, il suo mito, la sua rappresentazione
Ruggero Chinaglia Il film per il dibattito di questa sera ha per titolo Tutto sua madre; è stato prodotto in Francia nel 2013 e distribuito in Italia nel 2014. Si tratta di un film recente, che non ha avuto grande risonanza, direi a torto dato che pone varie questioni in modo piuttosto interessante. E, fra le altre, la questione della sessualità in un’articolazione con il mito della madre e il mito del padre.
Come la sessualità possa essere ritenuta oscillare tra una sessualità omo e una sessualità etero, è un problema che non riguarda la sessualità, ma una sua rappresentazione: la sua codificazione in relazione umana, come modalità della relazione umana, interpersonale, intersoggettiva.
La sessualità originaria non risente dell’anfibologia tra sessualità omo o etero. La questione è se la sessualità s’instauri. Questa è l’effettiva questione: quando e come s’instaura la sessualità. E non come modalità relazionale interpersonale, ma come scommessa per la qualità della vita. Tutto ciò trae con sé varie conseguenze che nulla hanno a che fare con l’omo e con l’etero.
La sessualità non è di genere, ma riguarda il programma di vita, la sua scrittura, il suo compimento: possono la scrittura, il compimento, il modo della sessualità non risentire del mito del padre e della madre?
Questo è un altro elemento da considerare: la sessualità non s’instaura per natura, ma per l’elaborazione e l’articolazione del mito del padre e della madre; padre e madre intesi come indici, non come personaggi genealogici.
Il racconto del film si situa in questo contesto, da leggere non in maniera naturalistica, ma cogliendo gli spunti che ne vengono. Ne discuteremo a conclusione, con l’analisi del materiale del film, senza ritenere che si tratti di giungere a una morale. Il film dà indicazioni, non fornisce una morale. Occorre che per ciascun lettore questo sia il modo della lettura. Adesso leggiamo il film e poi ne discutiamo.
Bene, cominciamo con le domande, le notazioni, gli elementi della lettura. Pare che il film ponga varie questioni. Sicuramente, risente della lettura del saggio di Freud L’analisi della fobia di un bambino di cinque anni, noto come Il caso del piccolo Hans. Ma, occorre dire, non volge a una pedissequa riformulazione di teorie più o meno correnti. Ci sono elementi di un certo interesse, ma sentiamo se ci sono notazioni.
Giorgio Fornasier La notazione che volevo fare è che qui di psicanalisi scientifica proprio non c’è traccia. C’è la rappresentazione veramente impressionante di una serie di personaggi che sarebbero gli psicanalisti: sembrano un bestiario, più che la testimonianza della pratica psicanalitica. È proprio triste vedere come viene rappresentata ciò che va sotto il nome di psicanalisi. Riguarda solo una piccola parte del film però, certamente, non è da trascurare che sia la rappresentazione dello psicanalista più diffusa ancora oggi.
R.C. Sì, questo fa parte del contenuto “rappresentativo”. Se volessimo dirla freudianamente, sarebbe il contenuto manifesto del sogno. Come dicevo all’inizio, non c’è da aspettarsi dal film la versione psicanalitica. Con la sua lettura, ciascuno può fornire la versione psicanalitica. Questo film non è psicanalitico: narra qualcosa, racconta qualcosa e ciascuno può restituire qualche elemento nei termini, come lei dice, della psicanalisi scientifica. Non è che si possa delegare al film il compito di darci la versione psicanalitica, perché sarebbe un modo per evitare la lettura. Occorre fare la lettura.
Che tra i personaggi ci sia quello “psicanalista” è indicativo che il film è andato oltre quella rappresentazione. È un merito del testo e dell’autore che sta nel testo, aver prodotto qualcosa che va oltre il personaggio comune, oltre la vulgata, nonostante la vulgata: non è che si possa pretendere che la vulgata improvvisamente scompaia. Interessante è notare che, nonostante la vulgata, la parola non può essere tolta, non può essere negata e nella parola qualcosa si scrive. Che cosa, qui, per ciascuno, si scriva a partire dal film è quanto si tratta di accogliere. Non è già scritto questo film. Importa ciò che si scrive adesso, dopo la sua proiezione.
Non è tuttavia un elemento secondario che la psicanalisi sia intesa in questo modo; ma da chi? Da uno psichiatra militare e dalla sua rappresentazione della cura come modalità di ortopedia, di correzione, di raddrizzamento? Non può che essere così, per l’apparato. Sarebbe quasi assurdo che fosse altrimenti. In base a cosa? Perché?
Maria Antonietta Viero Non so se ho sentito bene, ma all’inizio lei diceva che, quando s’instaura, la sessualità non ha niente a che vedere con l’omo e con l’etero. Nel film, mi è sembrato che quando si è instaurato qualcosa della sessualità, l’ultimo psicanalista comparso abbia detto a Guillaume che la mamma “gli vuole poco bene”.
R.C. Non la mamma, gli dice che lui non si ama! Dice: “Ma lei si ama così poco?”.
M.A.V. Ho pensato che fosse trasferibile alla mamma. Che questa questione si riferisse alla mamma. E questa constatazione producesse l’abbandono intransitivo rispetto a una sorta di simbiosi: “Tutto sua madre”, è tutto la mamma. Ecco in questo senso. È un dettaglio che mi sembrava importante, e lo psicanalista “buono”, mi vien da pensare, dice: “Ma lei si vuole poco bene”. Si sente dire con frequenza, in ambito psicologico, qualcosa di somigliante a questa frase.
R.C. Ecco, però la questione non verte sugli psicanalisti. La questione principale non riguarda gli psicanalisti e nemmeno i personaggi.
M.A.V. No, ma prendo a pretesto questa allucinazione acustica.
R.C. Né la portata taumaturgica di un gesto o di un atto. Qui è narrato un viaggio. Si tratta di un viaggio e ciascun elemento del viaggio risulta essenziale per la traversata che il viaggio compie. Non vorrei che ci si focalizzasse su questo o quello psicanalista, come se fosse l’elemento decisivo del film. Diciamo che è un elemento fra altri e nemmeno il più importante. C’è qualcosa di molto importante che il film narra e su cui invita a riflettere.
Sabrina Resoli Mi pare sia la traversata della fantasia di essere il figlio prediletto. Il figlio distinto dagli altri figli: Guillaume e i ragazzi. E per confermare questa fantasia di essere il figlio prediletto dalla mamma, Guillaume asseconda quello che crede sia il desiderio della mamma, cioè avere una figlia femmina. Ma, più che interrogarsi sulla genitalità, sembra proprio la questione di una fantasia di elezione.
R.C. Cosa indicherebbe questa elezione?
S.R. All’inizio del film, Guillaume dice ai fratelli che la mamma lo picchia perché lui e la mamma si vogliono molto bene, per esempio: con la mamma si assomiglia al punto da essere lui scambiato per la mamma, proprio perché entrambi si assomigliano. E la mamma lo distingue dai fratelli chiamandolo per nome. Così lei lo distinguerebbe dai ragazzi: ci sono i ragazzi e c’è Guillaume. Ma è lui a dire che la mamma avrebbe voluto una figlia femmina. Nei dialoghi del film la mamma mai dice questa frase, né gli si rivolge come fosse una ragazza. Lo riferisce lui. Quindi, si tratta appunto di una sua fantasia.
Una cosa mi ha colpito, a un certo punto, quando Guillaume dice di essere una ragazza, cioè non si pone la questione. Fino a un certo punto non ha dubbi: è una ragazza. Anzi, è sorpreso che il papà non si accorga di questa evidenza. Guillaume è una ragazza e questo non gli crea nessun problema, fino a un certo punto.
R.C. Beh, qualche problema c’è.
S.R. Così sembra.
Fernanda Novaretti Mi ha sorpreso, come si può dire, questa identificazione, o mimetismo, rappresentata dal fatto che l’attore protagonista fa le due parti, sia quella della madre, sia quella del figlio. Solo nell’ultima scena del teatro i due personaggi sembrano diversi.
R.C. È decisivo, questo. È rimasta sorpresa da questo?
F.N. Mi ha incuriosito questa cosa. Quindi, questa svolta è avvenuta in teatro, con la decisione di fare una rappresentazione, di mettere in scena.
R.C. Quella scena in cui la madre non è più un personaggio, e quindi non c’è più mimetismo fra sé e la mamma, è indicativa del teorema che non c’è più la mamma come personaggio da cui discende anche il suo personaggio; è indicativa del teorema che si scrive, ossia che non c’è più questo imbrigliamento genealogico mimetico che ha sancito, fino a quel punto, la prescrizione di essere una donna, in base al presunto desiderio che la mamma volesse una femmina. Questo elemento è importante: la dissipazione della paura e la dissipazione del personaggio. E c’è un brano significativo in cui la paura propria è correlata alla paura rappresentata dalla mamma. Quindi, c’è un’attribuzione della paura alla madre e una paura attribuita a sé. Questa paura passa attraverso la paura del cavallo nella sua rappresentazione varia: da cavallo a cavallo, a cavallo a un altro cavallo, dove si tratta della rappresentazione sessuale.
Maria Antonietta Viero Peraltro l’attribuzione della mascolinità, che a lui sembra negata, nel personaggio è rappresentata dalla mamma che è molto mascolina, e c’è una differenza enorme con l’ultima scena, dove la madre dissipa questo personaggio.
R.C. Questo è rilevante nel film. È lo stesso attore che fa due personaggi. È evidente questo. C’è Guillaume che è la controfigura della madre e la madre che è la controfigura di Guillaume. E Guillaume è imbrigliato in questa reciprocità. Quando il racconto giunge a un certo grado di elaborazione, questa presunta reciprocità del personaggio non c’è più. E infatti Guillaume si rivolge alla madre, che non ha più le sembianze del personaggio rappresentante la madre e se stesso.
M.A.V. In quel momento nel racconto cosa diceva?
R.C. Che si era accorto che la mamma aveva paura. È la mamma a avere paura. Ma, anche questo non è la verità. Quando la paura è attribuita a qualcuno, ciò comporta la condivisione della paura stessa. La questione è da esplorare: come la questione che è narrativa, come la paura che trascorre lungo l’articolazione fino alla dissipazione dei personaggi. Per l’intero film, della madre c’è una rappresentazione speculare, a parte la scena del teatro: solo a quel punto è dissipata. Ma è dissipata perché sono dissipate tante altre cose che hanno sorretto questa rappresentazione. E ciò mette in questione non solamente il papà e la mamma come personaggi, ma il padre e la madre come indici, il padre e la madre nel loro mito. C’è lo svolgimento dalla fiaba fino alla saga, dove la madre non è più personaggio della fiaba. Che cosa si articola in questo percorso dalla fiaba alla saga?
Barbara Sanavia Il superamento della paura.
R.C. No, non è il superamento. È la dissipazione, cioè la paura non si supera. È insuperabile.
B.S. L’affrontamento.
R.C. La paura si dissipa a un certo punto.
B.S. A un certo punto, Guillaume dice di essersi reso conto che faceva tutto per paura. In particolare faceva ogni cosa per compiacere la mamma, perché, secondo me, se non la compiaceva, temeva di non essere amato dalla mamma… La prima paura che ha affrontato è stata quella del cavallo e quando l’ha superata è stato un momento liberatorio.
R.C. No, la paura non è stata superata. Neanche lui è stato liberato.
B.S. Dissipata.
R.C. Se lei continua a dire che la paura è stata superata, allora continuiamo a credere che si tratta di liberarsi dalle cose. Non c’è liberazione possibile da nulla, perché la libertà è originaria. Il teorema indica l’originarietà della libertà, che è senza liberazione, perché il teorema indica che la credenza non c’è più! Non che c’è stato un superamento! La credenza non c’è più. Ciò che era ritenuto l’impedimento non c’è più, non perché è stato superato, ma perché non c’era mai stato! E si era istituita però la credenza. Quindi è la credenza che non c’è più. È il soggetto che non c’è più, perché non c’era mai stato!
B.S. Soggetto che gli è stato affibbiato dalla famiglia. Lui credeva nel soggetto riconosciuto dalla famiglia in lui.
R.C. Anche la questione dell’eterosessualità o dell’omosessualità, è la questione di un soggetto etero o omosessuale che dunque ripropone o propone un personaggio che deve essere conforme all’origine. A un certo punto s’instaura la sessualità, in assenza di contrapposizione o di alternativa tra etero e omo. Non c’è omo. Non ci sono simili. Non c’è più simile, cioè non c’è più cavallo. “Non c’è più cavallo” vuol dire non c’è più simile. Perché il cavallo si istituisce come ciò che deve tenere le fila della fobia? Il cavallo è un pretesto. Leggete il piccolo Hans: il cavallo è del tutto pretestuale. Non è che a un certo punto si libera dalla paura del cavallo in quanto tale. Non c’è più paura, che non è paura del cavallo, è paura. Rispetto a che cosa? Rispetto all’origine, all’idea di origine, che comporta anche l’idea di fine. Non è il cavallo l’elemento che scatena la paura. Quello è il mero pretesto. Però, non per questo è irrilevante.
B.S. Dunque, dissipando la paura, Guillaume ha ritrovato la sua identità nel senso che, non credendo più in quel personaggio è venuta fuori…
R.C. Cosa è venuta fuori?
B.S. La sua…
G.F. Vera natura.
B.S. Sì, cioè Guillaume è se stesso. Prima era come volevano gli altri, credendo a quello che gli altri vedevano in lui, non era se stesso.
R.C. Così dicendo lei introduce la predestinazione. Dice che è diventato se stesso, il vero se stesso.
B.S. No, non mi vengono le parole giuste.
R.C. Sono giuste, rispetto all’idea.
B.S. No, forse non trovo le parole giuste perché penso: è venuta fuori, mi verrebbe da dire, la sua essenza.
R.C. Ecco, appunto, l’essenza… Questo è il punto. Non c’è nessuna essenza, cioè non c’è né la vera natura, e ringraziamo Fornasier per il suggerimento, né c’è l’essenza. Questa concezione platonica va analizzata, altrimenti rimane la fiaba con i suoi personaggi, che sono tributari dell’idea di origine, dell’idea di essenza. È chiaro?
B.S. Non è che uno nasce e è predestinato. Non è questo che volevo dire, ma che è venuto fuori quello che lui è.
R.C. Ma è così che ha detto effettivamente, effettivamente ha detto così.
B.S. Però non volevo. Non credendo più in quel soggetto…
R.C. Ma chi? Chi sarebbe costui?
B.S. Guillaume, ora, agiva, si comportava senza credere in quel soggetto, per adeguarsi a quell’idea di soggetto.
R.C. Si, certo.
B.S. Era veramente lui ma non in senso assoluto, non è venuto fuori “il vero lui”, non ha scoperto “chi è lui” veramente, ma si è rivelato il lui originario: leggero, senza pesi, che non è un lui, definito una volta per tutte, ma un lui in divenire, costantemente, liberamente, con leggerezza.
L’originarietà c’è con la leggerezza.
R.C. Quando si istituisce il teorema che cosa accade? Non c’è più la prescrizione a essere, né a avere quelle caratteristiche, quegli aspetti o quelle attribuzioni che il personaggio era creduto avere o dovere avere. Nel momento in cui non c’è più la credenza nel personaggio, non c’è più nemmeno il personaggio e non c’è più nemmeno chi crede o non crede. Non c’è più il soggetto della credenza e quello che fino a quel momento era il figlio di mamma, non c’è più. Nel caso in questione c’è Guillaume. Ma non più preso nella differenziazione tra lui e i fratelli, ma Guillaume che non si situa più nella fiaba genealogica, ma nella parola. Il titolo in francese è Les garçons et Guillaume, à table! I ragazzi e Guillaume, a tavola! La mamma chiama i ragazzi e, per così dire, a parte, Guillaume.
Invece, quando è sulla terrazza con le amiche l’annuncio è: “Le ragazze e Guillaume, a tavola”. Mentre per tutta la vita lui ha sentito “I ragazzi e Guillaume”, come dire, i ragazzi e Guillaume che non è un ragazzo. Qui ci sono le ragazze e Guillaume. Guillaume finalmente ragazzo.
P.E. Il nome. Per cui s’instaura la particolarità.
R.C. S’instaura il nome e non più un significante collettivo: le ragazze e Guillaume. C’è Guillaume. Prima non c’era, se non come alternativa ai ragazzi, ai fratelli e quindi si doveva differenziare. Questo c’è nel testo, la differenziazione. Anziché la differenza, la differenziazione perché non sono ammesse le ragazze, ma solo i ragazzi che sono indicativi della genealogia. Sì.
Daniela Sturaro Di questo film ha fatto un’analisi splendida. Non ho mai visto né sentito fare un’analisi così articolata della questione. C’è un punto cruciale quando Guillaume vede Amandine. Che succede in quel momento?
R.C. Che succede?
D.S. Forse è lì che comincia la dissipazione , secondo me, quando lui la vede.
R.C. La paura si è già dissipata, per quello la vede. Altrimenti, non la vedrebbe. Vedrebbe sempre sua madre e le sue sorelle, le zie, la nonna, cioè la genealogia familiare e basta. Quando questa fantasmatica di appartenenza alla genealogia non c’è più allora…
D.S. … Guillaume può vedere Amandine.
R.C. Non solo vedere. S’instaurano Amandine e altre ragazze, non più come alternativa alla madre.
D.S. Lui ha compiuto una lunga ricerca. Arriva a quel punto quando ha attraversato moltissime cose, situazioni.
R.C. Quando s’instaura la madre, perché fin lì c’era la mamma, ma non c’era la madre. La nonna ha l’Alzheimer, tra le sorelle della madre una ha delle “stranezze”, l’altra oscilla tra omo e etero, quindi ogni donna è caricata di una caratteristica propria alla genealogia. Il film si conclude in maniera molto precisa. Vi ricordate al termine? “Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”. Non è solo una battuta.
Maria Luisa Biancotto Il percorso lo fa lui, non sua madre.
R.C. È indicativo.
S.R. Non c’è reciprocità.
R.C. Non c’è il personaggio chiamato madre. C’è la mamma come personaggio e la madre. Questa battuta, “Con chi?”, viene dalla madre, non più dalla mamma. Teniamo conto che questa battuta segue alla scena del teatro, dove è un’altra la madre rispetto alla rappresentazione che ha avuto per tutto il film. È un’altra attrice. Ha un altro volto. È un’altra cosa. È stata molto brava Fernanda a notare questo dettaglio, che è decisivo. Questa battuta, che è conclusiva del film, non può venire da prima. Segue a quella che è l’instaurazione della madre nel viaggio. Eppure c’è questa battuta. Niente accordi con la madre! Irriducibile la madre rispetto al malinteso! È solo con la mamma che ci può essere compromesso, accordo, reciprocità presunta.
La madre è indice del malinteso, per cui “Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”, cioè non ha un senso comune questa frase. Non è qualcosa che chiude il cerchio. Non c’è cerchio. Anche in questo annuncio, che potrebbe sembrare il lieto fine, bene, non c’è lieto fine perché il cerchio non si chiude.
“Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”. Non c’è chiusura del cerchio. Non c’è un senso compiuto che possa dire, ecco, è finita qua. No, la madre è l’indice per cui la circolarità non c’è, non si compie mai, non c’è chiusura. È straordinaria questa cosa, indicativa dell’itinerario che si è svolto. È indicativo di un’accezione di madre originaria, che quindi non è genealogica, non è naturale, non è un personaggio, non è accondiscendente. È caratterizzata dal malinteso: “Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”
Bene, tutto ciò come accenno all’incontro di giovedì prossimo, che ha per titolo Sessualità e mimetismo e che quindi prosegue la lettura del film, andando anche oltre ovviamente. Voleva dire qualcosa d’altro?
M.L.B. A proposito di trovare una identificazione sessuale, praticamente in questo film sembra che ci sia un continuo divenire di un caso, di una storia che non ha fine, che ha un suo percorso e non si sa quale sarà l’ultimo.
R.C. Esatto, senza l’ultimo. La frase conclusiva indica anche questo: non c’è l’ultimo avvenimento, non c’è la chiusura della storia. La storia prosegue.
F.N. Ma in un biglietto c’era scritto…
R.C. Che la mamma gli faceva gli auguri. Gli augurava “una grande merda” e lo abbracciava, ma merda, se avete notato, è la frase convenzionale che si scambiano in teatro per dire “in bocca al lupo”. La mamma quindi, nonostante il dolore “arrecato”, mandava il suo augurio. Non è che se s’instaura la madre, allora la mamma muore.
Sessualità e mimetismo
Ruggero Chinaglia Alcuni elementi del dibattito di questa sera procedono dal film della settimana scorsa Tutto sua madre, opera del regista francese Guillaume Gallienne, un film abbastanza recente, del 2013, e particolarmente interessante, perché affronta la questione della sessualità e del mimetismo. Prima di addentrarci nella questione, sentiamo se ci sono domande o annotazioni da parte di chi ha seguito gli incontri precedenti.
Fabrizio Moda Io vorrei chiedere la precisazione tra mimetismo e identificazione.
R.C. A partire da cosa?
F.M. L’identificazione, ho sentito e letto che è un processo indispensabile alla formazione, alla riuscita. Mentre il mimetismo sembra come un’identificazione cui manca qualcosa, una fotocopia senza Altro, un qualcosa che indica una predestinazione. Però, appunto, non mi è chiaro quando c’è identificazione e quando c’è solo mimetismo.
R.C. Quindi lei dà per scontato che ci sia questo e quello.
F.M. Beh, mi pare che l’identificazione non sia una cosa naturale. Mentre facilissimo sarebbe il caso di mimetismo; per l’identificazione c’è bisogno di un dispositivo, di un certo tipo di formazione.
R.C. E cosa chiama identificazione?
F.M. Non lo so esattamente, ho letto di una prima, seconda e terza identificazione come un modo necessario, che però s’instaura molto difficilmente; ma c’è il mimetismo che invece predomina.
R.C. Lei dice che sono due cose antitetiche?
F.M. Sì.
R.C. E questa antitesi si compie per quale motivo?
F.M. Da quello che ho capito, di solito non si compie l’identificazione, mentre il mimetismo sarebbe quando si dice “tale padre, tale figlio”. Si tratterebbe di un pregiudizio larghissimamente diffuso, cui per gnosi, per predestinazione, per mentalità, per una serie di fantasie comunissime ci si rivolge come metodo facile per orientarsi nella vita.
R.C. Nei termini in cui lei espone la questione dell’identificazione e del mimetismo, sembra trattarsi quasi della stessa cosa.
F.M. No, mentre mi è chiaro il mimetismo non mi è per nulla chiaro come si produce l’identificazione.
Il mimetismo le è chiaro?
F.M. Sì, nel senso che noto che il mimetismo è predominante in moltissimi aspetti della vita nella maggior parte delle persone.
R.C. E come lei si accorge dell’instaurazione del mimetismo?
F.M. Per esempio, nel film La fabbrica di cioccolato ci sono due personaggi, una signora e una bambina, che hanno gli stessi identici atteggiamenti, vestiti, modi di fare, capigliatura e quant’altro. E questi aspetti in comune, come il modo di vestire o certi atteggiamenti, mi sembra di ritrovarli in tantissime persone che si attengono a un’idea che, in modo diretto o contrappositivo, fa riferimento a mamma e papà o anche a altre figure, e potrebbero riguardare l’assunzione di un certo ruolo, come in caserma o in certi sport.
R.C. Si tratta dell’imitazione?
F.M. Già qui ci sono due termini diversi, lei dice. Sembra quasi una conferma di un se stesso già dato a priori.
R.C. E tenendo conto del film che abbiamo visto, dove individua il caso di mimetismo? Se c’è.
F.M. Nel caso del film, la mamma era addirittura maschile, forse era l’attore stesso che recitava due ruoli, quindi il figlio si vedeva tale e quale alla mamma.
R.C. Sì, e quindi?
F.M. E quindi rimaneva inchiodato a questa figura di riferimento, cercando di andare per quella via che la mamma, in qualche modo, lui pensava gli indicasse.
R.C. Sì, ma quale via? Di quale via si trattava?
F.M. Nel caso specifico, verso un certo indirizzo sessuale, sessuale nell’accezione comune, senza che ci fosse nessuna particolare astrazione e nessun rivolgimento alla qualità della vita. Semplicemente così, qualcosa di comune, di standard, un seguire quello che si suppone siano le volontà di mamma e papà.
R.C. Così diventa un caso psicologico, una modalità per seguire o non seguire qualche volontà. Diventa un caso zoologico; mimetismo zoologico, mimetismo ambientale. Certo, anche l’ambiente ha la sua incidenza, ma occorre cogliere il mimetismo nel caso in questione, come in ciascun caso, non il mimetismo come una sorta di ontologia, in cui qualcuno può incappare.
Qui c’è un racconto. Il film è un racconto, ci racconta qualcosa. Questo film, in particolare, è il racconto che avviene, in alcuni momenti come testo narrato, in altri come testo d’immagini, ma si tratta sempre di racconto. Ciascun film è un racconto. Anche dove sembra trattarsi di cose così come sono, occorre cogliere che in ciascun film si tratta di un racconto. Racconto di chi? Occorre capire qual è il protagonista del film, che racconta quella vicenda, e non sempre è così evidente. Qui avviene per lo più il cedimento al caso psicologico, al caso comune.
Guillaume racconta la sua traversata di un fantasma genealogico che sembrava orientare la sua “sessualità” – sessualità tra virgolette – in quanto sessualità di un personaggio, cioè il figlio di, il personaggio del figlio di… Figlio di mamma? Figlio di papà? Figlio di…
Figlio di vuole dire rappresentante di una genealogia, esponente di una relazione non originaria, di una relazione che trova i suoi termini nella parentela, nella procreazione, nella filiazione. Guillaume si trova in una famiglia non già come traccia della parola, ma come famiglia naturale, dove ci sono la mamma, il papà, i fratelli, le zie, in un contesto rappresentato dalla relazione sociale. In questo contesto Guillaume si rappresenta e rappresenta la famiglia in certi termini. Quali sono questi termini?
Guillaume rappresenta la madre come donna amabile, come donna che lo ama, come donna che ama, contraddistinta da una certa freddezza e da un certo calore, in grado di passare dalla calorosità alla glacialità in maniera istantanea. Piuttosto mascolina, piuttosto scostante, irascibile, bella, “molto bella”. Ma questa bellezza, rispetto alla raffigurazione che viene data nel film, non è così immediata, non è così rappresentata. È la mamma che Guillaume sogna di amare e da cui essere amato; da cui ritiene di essere amato, in quanto figlia!
Questo ci dice Guillaume: la mamma desidera una figlia e lui crede di essere una bambina. Rispetto a questa credenza, chi si oppone? Il padre, l’unico a non credere che Guillaume sia una bambina. Il padre, piuttosto autoritario, forte, sportivo, non crede a Guillaume, nella sua rappresentazione di essere una bambina.
Poi ci sono i fratelli, che sono chiamati “i ragazzi”! Nel film i fratelli sono chiamati i ragazzi, rispetto cui c’è Guillaume. Quindi non ci sono il papà, la mamma e i fratelli, ma ci sono il papà, la mamma, i ragazzi e Guillaume. E Guillaume ritiene di dovere essere come la mamma, perché pensa che la mamma voglia che così lui sia.
Guillaume presume di essere desiderato dalla mamma e che si tratti di desiderare ciò che la mamma vuole; mentre il padre non desidera, non desidera affatto che Guillaume sia né come vuole, né come pensa di volere essere, né come la mamma vuole. Rispetto al racconto, nel film la questione forte è quella del padre, non già la madre che lo desidera, la madre che gli indica come essere. Se c’è una posizione forte è quella del padre.
Il padre, qui, non è negato, non è tolto, anche se è criticabile perché non capisce che Guillaume è una ragazza. Questo è il testo del racconto: il papà non capisce che Guillaume è una ragazza, nonostante tutti gli sforzi che egli fa per convincerlo. E per un verso Guillaume si sforza di assomigliare alla mamma ma, soprattutto, tenta di convincere il papà rispetto a questo principio di somiglianza cui si ispira.
Sta qui il mimetismo: nel principio di somiglianza che nega l’immagine, l’alterità dell’immagine, a favore di un personaggio che deve essere rappresentato e cui si deve assomigliare. Che cosa produce questo sforzo di somiglianza? La negazione della sessualità!
Da dove procede questa necessità di assomigliare a? In questo, non si tratta dell’identificazione. E tanto meno si tratta di quella stortura psicoletteraria, chiamata l’identificazione con la madre, o con il padre, o con qualcuno, che non c’entra nulla con l’identificazione. L’identificazione è con la causa, non con qualcuno! Con la causa, che può essere causa di godimento, causa di desiderio, causa di verità. I problemi cominciano quando la causa, anziché rimanere irrappresentabile, viene raffigurata, rappresentata, concretizzata in qualcosa o in qualcuno. Così la causa è tolta, resta il qualcosa o il qualcuno che diventa la rappresentazione della causa, ma non è la causa, è la sua rappresentazione.
Questo film non pone la questione dell’alternativa tra l’omosessualità e l’eterosessualità. Anzi, ha il merito d’indicare che si tratta della sessualità senza alternativa tra omo e etero. La sessualità non è né omo né etero, e non è caratterizzata da una scelta di genere. La sessualità non è sessualità di genere, anche se questo non è ancora inteso a nessun livello. Non c’è un genere sessuale. La sessualità è una proprietà del vivere, è l’aspetto della politica, del programma di vita di ciascuno.
Qui sta la sessualità che non è caratterizzata né dalla somiglianza né dall’estraneità. È caratterizzata dalla politica, dall’assenza di rappresentazioni che aboliscono il tempo, la causa e il modo di vivere secondo la parola, per la necessità pulsionale. La necessità che la domanda indica. Non c’è una necessità generale. Questa è la questione.
Non c’è una necessità generale, non c’è una sessualità generale omologabile. I termini della sessualità non sono mai acquisiti una volta per tutte. Si specificano man mano nei termini della politica del vivere. Politica del tempo, vivendo. La sessualità esige che il tempo non sia dato per finito. Esige che non prevalga l’idea che le cose finiscono, che il tempo finisca e che ogni cosa è sotto questa minaccia.
La minaccia della fine del tempo toglie la sessualità, facendo sì che ognuno sopravviva. Se al vivere è tolta la sessualità, c’è la sopravvivenza. Che cos’è la sopravvivenza? È l’attesa della fine. Ognuno vive nell’idea che quello che sta facendo finirà. È contrassegnato dal negativo, dalla fine e quindi non ha nessun valore. La sessualità si rivolge al valore. Negando il valore, la sessualità stessa è negata.
Tutto ciò si svolge in maniera narrativa, cioè la vita stessa è nella parola. Non è tracciata dalla fantasmatica che corrisponda alla nascita e alla morte. Questa può essere la vita zoologica, la vita animale, ma la vita di ciascuno nella parola ha termini e aspetti differenti. Non è marcata dall’idea di fine. Questa è la vivenza. Vivere nella parola è il particolare modo della vivenza, senza l’ipotesi di una predestinazione e senza l’ipotesi di una fine comune.
Tutto ciò esige il non adeguamento all’idea di genere. Chi si adegua al genere diventa personaggio della fiaba del genere. Qual è la fiaba del genere? È che si nasce, si vive e si muore! Questa è la fiaba del genere umano. Bene, chi ritiene di appartenere al genere, appartiene a questa fiaba. Non ha granché da dire né granché da fare, evidentemente. Si accontenta della fiaba, si adegua e vive nella sua mitologia di attesa predestinata della fine. È pieno il mondo di personaggi così. Per lo più, ognuno vive così. Gli umani vivono così, senza tenere conto della domanda, senza tenere conto di quel che accade, sperando di vivere bene. Ognuno spera di vivere bene. Vuole vivere bene!
Così mi diceva oggi una ragazza: “Io vorrei tanto vivere bene. Però, non voglio fare niente. Bisogna che avvenga così, ma io non avrei nessuna intenzione di sforzarmi per questo. Voglio solo vivere bene”. Mentre adesso vive male. Ma, perché vive male? Perché ci sono sintomi che le impediscono di fare alcune cose. Peraltro, dice, sono “tutte sciocchezze”: “Perché sono le cose che aveva mia mamma, quando ha avuto la depressione”. Quindi sono cose già note! Se le ha avute la mamma, non sono problemi veri! Poi, sono cose che ha avuto già anni prima e che adesso si stanno ripetendo, ma con alcune aggiunte. Però, non vorrebbe fare niente per capire. Vorrebbe solo sapere come fare per vivere bene.
Questa è la domanda del genere umano: sapere come fare per vivere bene! Ma, capire, no!
Capire, cosa vuol dire capire? Ognuno dice: “Io so già”. So già che questo sintomo corrisponde a un attacco di panico, quest’altro corrisponde a un’ansia, quest’altro corrisponde a qualcosa della depressione. “Io lo so”. “So già”. Ma questo sapere non vale a attraversare il sintomo, a capire i termini della domanda e andare in direzione della riuscita. No, questo sapere proprio non basta! Però, ognuno dice di sapere. Crede di sapere. Vuole sapere. Magari senza capire. Magari senza ascoltare. Magari senza interrogarsi sulla domanda.
Come Guillaume quando dice alla mamma: “Sai, ho incontrato Anna, il mio primo amore di quand’ero bambino”. “Ah sì, bene. Come sta lui?”, chiede la mamma! Guillaume rimane un po’ perplesso: “Anna… Lui…?”. La mamma capisce o non capisce? La mamma sa o non sa? La mamma che è così bella, così buona, che lui ama così tanto, riamato, perché loro si vogliono un bene dell’anima, “Anche se la mamma è di pessimo umore, praticamente da quando sono nato”. Ma, allora, pensa, è colpa mia? La mamma è di pessimo umore, per colpa mia? La mamma che a un certo punto dice a Guillaume: “Beh, ma di cosa ti lamenti?”. Guillaume le racconta che si è innamorato di un ragazzo, che però non gli corrisponde, e la mamma dice: “Vabbè di cosa ti lamenti. Ce ne sono tanti”. “Tanti cosa?”. “Sì, ce ne sono tanti”. “Ma, tanti cosa?”. “Ma sììì, tanti omosessuali”. E Guillaume dice: “Omosessuali? E cosa c’entrano gli omosessuali? Io sono una ragazza, mi sono innamorata di un ragazzo. Cosa c’entra l’omosessualità?”.
Perché la mamma voleva una ragazza. È nato lui, che è “una ragazza” a tutti gli effetti per la mamma e per il suo amore verso la mamma. Cosa c’entra l’omosessualità?
Guillaume non trova l’intesa con la mamma. La mamma è scontrosa. La mamma non gli corrisponde. In nessun caso può dire di avere un’intesa amorosa con la mamma. In ciascuna conversazione, quel che emerge è questo dato: non trovano l’accordo, non sono mai nell’intesa. E questa è la chance per Guillaume! La chance di accorgersi che la mamma è un personaggio della fiaba familiare, ma la famiglia si discosta dalla fiaba. Qualcosa nella famiglia non ricalca i personaggi della fiaba! Con la mamma non c’è intesa. Non basta più assomigliare alla mamma. Si staglia un’altra struttura, che non è più la mamma, è la madre.
Un altro statuto per Guillaume: non è più il figlio di mamma! Non è più l’esponente di una procreazione, tanto più che il papà non lo riconosce come bambina. E dunque avverte un’altra istanza, l’istanza del padre come indice del nome e dell’autorità, mentre la madre è indice del malinteso. Guillaume non riesce a essere o diventare l’elemento unificante di questi personaggi. Il mimetismo, con cui ha cercato l’unificazione della famiglia come entità naturale, non tiene. Non c’è corrispondenza tra la mamma e la madre. Non c’è corrispondenza tra il papà e il padre. Non c’è corrispondenza tra Guillaume e i fratelli. Non c’è corrispondenza tra Guillaume e le ragazze. Non c’è somiglianza tra Guillaume e i fratelli. Eppure il padre è lo stesso, direte voi! No, evidentemente! Non è lo stesso padre!
Il padre non è mai lo stesso. La madre non è mai la stessa. Gli indici nel racconto di ciascuno, nella vita di ciascuno non sono mai gli stessi rispetto a un’altra vita, rispetto a altri. Non ci sono figli della stessa mamma. Non ci sono figli dello stesso papà. E il fratello certifica proprio questa alterità. Non c’è somiglianza con il fratello. Non c’è unità familiare dei fratelli o dei genitori o tra genitori e figli. Nessuna unità, nessuna unione, se non mimetica.
Il mimetismo si regge sul principio di presunta unità che dovrebbe ricondurre la famiglia a un’entità, a un’ontologia, a un principio di genealogia, all’idea di origine comune, quindi a un principio d’incesto. Il mimetismo si regge sull’idea d’incesto da evitare!
Come evitare l’incesto? Ecco la sessualità bicorne, omo e etero, sul principio di unità che, a un certo punto, deve diventare principio alternativo, per evitare l’incesto. Sul fantasma di origine comune sorge la necessità di evitare l’incesto. Come evitare l’incesto? Ecco l’alternativa fra omo e etero sessualità. Un’alternativa fantasmatica.
La famiglia è modo della contraddizione, non è principio di unità. È modo della contraddizione. È modo dell’apertura. È la traccia di questo modo. Come negarla? Attraverso il principio di unità, cioè il principio di credere a una comunanza di origine, per far sì che la relazione originaria – che ha il suo modo nell’ossimoro – la relazione come apertura, diventi relazione sociale, cioè relazione genealogica.
E questa è la via del vittimismo, perché il personaggio che sorge dal mimetismo si giustifica attraverso l’agente che deve rappresentare la relazione con la stessa origine. Quindi, con il principio d’identità. E ognuno recrimina contro il destino infame che l’ha messo lì, in quel posto, in quella discendenza, in quella relazione in cui bisogna evitare il male, il negativo, l’incesto e tutte le rappresentazioni che conducono alla fine delle cose, alla fine del tempo. Con la necessità di evitare. L’evitamento è il metodo della salvezza.
In questa rappresentazione, ognuno sa del male, sa che c’è il male, sa che incorrerà nel male. E bisogna evitare. Bisogna salvarsi! Come salvarsi? Cercando di sapere dove sta il male, per evitarlo. Ognuno cerca la salvezza e non già la salute. Ognuno vuole sapere. Ognuno vuole. Ognuno si fa soggetto della volontà. Importa non già la domanda, la ricerca, la pulsione, il disegno, il progetto, il programma, no! La volontà di salvezza!
Cosa vuoi fare? Cosa vuoi essere? Cosa vuoi avere? Avere e essere. Queste diventano le basi della transitività dell’amore, dove non si tratta più dell’amore, ma dell’amare! “Io amo, non amo, mi ama, non mi ama, non mi ama abbastanza, non mi ha mai amato, non mi amerà mai, eppure io amo. Io amo, ma sarò amato? Sarò amata?”. Il soggetto dell’amare è il soggetto dell’incesto. È il soggetto della relazione come relazione sociale, dove si tratta dell’amare, della transitività. Non dell’amore come indice, ma dell’amare. Amare per essere, amare per avere. Essere per amare, avere per amare. Un cerchio in cui si tratta dell’essere e dell’avere finalizzati, finalizzati a…, cioè che ha la fine dove sarebbe raggiunto lo scopo. Dove lo scopo sarebbe raggiunto, è la fine. Sta lì la fine.
Si potrà mai raggiungere questo scopo, se corrisponde alla fine? Beh, bisognerebbe essere stupidi! Se il conseguimento dello scopo combacia con la fine, cosa faccio? Sancisco la fine? Eh no! Cercherò percorsi alternativi. E a questo s’ispira il mimetismo: ai percorsi alternativi. Cioè percorsi per relazionarsi con se stessi, per volersi bene, perché ognuno è convinto che c’è una parte che gli vuole bene e un’altra parte, no. E quindi bisogna che queste due parti trovino un accordo. “Bisogna che ci sia il dominio della parte che mi vuole bene su quella che mi vuole male”. Che questa parte sia chiamata corpo, mente, psiche… può essere chiamata in qualunque modo. E questa dicotomia che cosa produce? L’erotismo. L’erotismo di sé a sé.
L’erotismo, cioè l’evitamento, il finalismo per evitamento! Questo è l’erotismo: finalizzare qualcosa all’evitamento del male o alla finalità di bene. È la stessa cosa. Non per la riuscita, non per il valore, ma per il fine di bene o per evitare il male. Perché ognuno sa che potrebbe andargli male, anzi, che gli andrà sicuramente male, se non si affida alla buona stella. Ognuno crede di avere una parte sana e una parte malata. Speriamo prevalga quella sana!
Questa è la superstizione degli umani: la salvezza. Salvare la parte sana. E l’altra parte? Così vivere diventa barcamenarsi, perché la parte buona, sana, positiva prevalga sull’altra parte. La relazione sociale è questa: la relazione secondo l’idea di bene. Quale bene? Il bene comune alle due parti. Quindi, ci vuole l’unificazione, l’unità, la chiusura dell’apertura. Chiusura che è l’unica cosa che possa consentire l’unificazione delle parti, unificate le quali, sarà l’apoteosi del fantasma di fine; l’origine che giunge a coincidere con la fine: è la chiusura del cerchio!
Che questo risulti angoscioso, triste, pauroso, terribile è il meno che possa capitare. Non c’è più varco, non c’è più intervallo, non c’è più avvenire. C’è la chiusura del cerchio. Che accadrà adesso? Basta, niente! È la fine! Ciò che accade in questi casi è chiamato “attacco di panico”, ma è un’etichetta che non dice nulla. È una fantasia di fine, con i modi e con gli aspetti che ognuno trova per rappresentarsela. Non è una malattia. È una rappresentazione di un cerchio che si chiude.
Bene, sentiamo allora qualche domanda.
Patrizia Ercolani Volevo dire una cosa. Non so se ho capito bene quando parlava, rispetto al film, dell’unità familiare come fondamento, un tentativo di fondare la famiglia.
R.C. Ecco, esatto. Questa è un’altra modalità. Fondare una famiglia. Creare una famiglia. Così si dice spesso.
P.E. Sì, e questa unità sarebbe dissolta, si dissolverebbe questa fantasia di unità quando s’instaurasse l’indice della madre?
R.C. È il contrario veramente. La madre non è un rimedio, è originaria.
P.E. Tolta la madre.
R.C. Può essere negata, certo.
P.E. Negando la madre si forma questa idea di unità, d’incesto, e quindi questa fantasia di unità, di somiglianza, di simulazione, di mimetismo.
R.C. Somiglianza. Quando mai al cospetto di un bambino non c’è chi non si prodighi a trovare somiglianze: “Ma è tutto sua madre, ma è tutto suo padre”. E lì cominciano le peripezie. Si tratta di essere tutto suo padre o tutta sua madre? Si tratta di avere le caratteristiche materne o paterne? Come bisogna essere? Cosa bisogna avere? Queste sono le domande con cui inizia il calvario!
Le domande del calvario: come bisogna essere? Cosa devo avere? A chi assomigliare? E questa somiglianza trascorre anche nel sintomo, nelle presunte malattie comuni. “Mah”, dice qualcuno, “ho un problema ipertensivo. D’altronde, l’aveva anche mio padre, quindi è evidente…”. Un altro ha dolori di un certo tipo ma, d’altronde, anche la mamma li ha, è proprio caratteristico della mamma avere questi dolori! In quanto figlio di mamma, posso io non avere questi dolori? C’è chi ha il diabete, ma anche il padre aveva il diabete e, quindi, che discorsi! È semplicemente il segno di una genealogia. Non c’è niente da fare… E c’è chi vive tutta la vita nell’incubo, perché il padre o la madre sono morti di tumore! E allora questo “sarà il motivo della fine” e bisogna salvarsi dalla stessa fine.
Anche questo è mimetismo! Mimetismo del bene. Mimetismo del male. Mimetismo degli acciacchi. Mimetismo, cioè segno della somiglianza.
Maria Luisa Biancotto Eredità genetica, il DNA, la memoria.
R.C. Addirittura… Sì, certo. Come non rendere “scientifico” il mimetismo?
M.L.B. Non c’è nulla di credibile?
R.C. Quanti anni sono passati dalla grande scoperta del genoma, che avrebbe rivoluzionato tutto? Dieci? Però, dicono poi gli “scienziati”: “I geni, i cromosomi, effettivamente, non bastano… I geni non bastano… I cromosomi non bastano… Ci vuole tutta una combinatoria particolare… E poi ci sono gli inibitori, i soppressori… Sì, può esserci il gene, ma se non c’è anche l’enzima, e se l’enzima poi è soppresso… Ma è soppresso o non è soppresso?”. Non basta! Non basta nemmeno la mappa genetica, per sancire una predestinazione.
M.L.B. No, non la predestinazione. Non in quel senso.
R.C. La fiducia riposta nel DNA era questa: potere prevedere e quindi intervenire su una predestinazione, che però non c’è.
M.L.B. Si può leggere in un altro modo, invece.
R.C. Certo.
M.L.B. Tutto quello che uno fa in vita in qualche modo lo trasmette, si scrive nella chimica del corpo.
R.C. Quello che fa?
M.L.B. I processi che elabora, da qualche parte, lasciano traccia e questa traccia si trasmette geneticamente e è già un patrimonio di dotazione che uno si può giocare come vuole, evolvere o no, come può, come vuole.
R.C. “Come vuole”? Quindi c’è sempre il soggetto della volontà.
M.L.B. Come vuole, nel senso che è un modo di dire. Si può giocare e basta. Si può mettere in gioco, fare il suo percorso, comunque è un bagaglio di dotazione con cui uno parte, diverso da un altro. Non trovo niente di scandaloso in tutto questo o di impedimento fantasmatico.
R.C. Sì, ognuno ha i suoi pesi e se li deve tenere!
M.L.B. Se non c’è nessuna traccia di legame, nessuna traccia di una storia mi sembra ancora più triste. Non ci sarebbe una struttura.
R.C. La storia c’è. Si scrive in quel che si fa. E si scrive facendo. Non è già scritta. Non è mai scritta. Non c’è modo di giustificare la recriminazione verso il bagaglio. La via è spalancata per ciascuno. Non è detto che sia larga, ma è spalancata. La porta che immette nella via è spalancata. Poi, se ognuno ci vuole mettere i suoi impedimenti, questo è un altro discorso.
M.L.B. Era rispetto alla differenza. Nel modo in cui ognuno affronta le cose, sicuramente c’è traccia di una educazione ricevuta o comunque di dispositivi incontrati, per cui uno impara una cosa o ne affina un’altra, o sviluppa una capacità piuttosto che un’altra. E non so da dove venga che, solo per il fatto che una persona ti guarda in faccia, riesce a farti una caricatura e un’altra invece sta lì imbambolata e non ha capito niente. Da dove viene questa differenza? Forse non è genetica, ma da qualche parte uno arriva a un modus operandi. Potrebbe essere anche da uno della stessa famiglia.
R.C. Sì, appunto. A meno di non assegnare al termine genetica, un’altra accezione. Già Freud parlava di genetica, ma non nell’accezione del codice genetico, ma della ricerca da fare, perché si tratta sempre della resurrezione e mai della morte. Invece la genetica, per come è impostata oggi, parla dell’origine e della fine, e mantiene questa fiaba del genere. Mantiene l’unità del genere, mantiene il genere con tutto ciò che segue, sessualità di genere, destino di genere, vita di genere.
M.L.B. Genere umano.
R.C. Esatto. Origine, fine, e modalità. E da tutto ciò è tolta la parola. È tolta la domanda. È tolta la particolarità. Invece, occorre tenere conto del particolare e dello specifico e di come avviene la combinatoria. La questione è l’analisi e la cifratura, non l’ontologia. Quindi c’è da fare perché si instaurino il padre con il suo mito, la madre con il suo mito, il tempo con il suo mito, perché ci sia costruzione, che, attraverso l’instaurazione di questi miti, proceda e si compia, senza assumere quelle prerogative fantasmatiche che vengono attribuite ai personaggi come segni di negatività che sarebbe acquisita per via relazionale, per via interpersonale, per via di discendenza. Occorre sfatare proprio questo.
Per ciascuno si tratta della scommessa che riguarda la domanda, i termini della domanda, l’avvenire, i termini dell’avvenire, senza cedimenti. La questione è questa: non cedere alla credenza del male dell’Altro, della negatività dell’Altro. La negatività dell’Altro è anche l’idea dell’ereditarietà negativa.
M.L.B. Ma perché deve essere negativa? Potrebbe essere positiva.
R.C. Lei come si accorge dell’ereditarietà?
M.L.B. Lo dicevo prima, magari uno ha sviluppato certe capacità, un altro non ce le ha. Ne ha di diverse.
R.C. È mai stata a parlare con un medico? Le avrà chiesto quali sono le malattie di famiglia. Non gliele ha mai chieste? Non le è mai stata fatta un’anamnesi? L’anamnesi, cioè la conoscenza del male della sua famiglia, da cui ovviamente lei deve guardarsi. L’anamnesi: la memoria del male della sua famiglia! Se non è una fantasia di negativo questa! Eppure la medicina si avvale di questo metodo. E non solo la medicina. È una prassi vigente. Attraversare questa impostazione richiede un certo sforzo.
M.L.B. Non c’è nulla di vero, assolutamente? Cioè, se un genitore ha un difetto e tu ce l’hai, ci può essere qualcosa che li collega, può essere un occhio o il fegato.
R.C. Possono essere tante cose.
M.L.B. Ma non c’entra niente? È tutta una balla? Sul serio? Non c’è nulla di fondato?
R.C. Adesso vuole trarre una conclusione generale da casi particolari. Occorre considerare ciascun caso come particolare. Ha capito? Non c’è il caso standard.
M.L.B. Ma c’è una metodologia standard.
R.C. Infatti, la ragazza con cui parlavo oggi voleva sapere quanto “durava il percorso”, per capire. E pur facendo presente che nel suo caso il percorso era ancora da cominciare a svolgersi, voleva già sapere quando finiva. La cosa era, non dico del tutto impossibile, ma assurda. Mi dice: “Ma, mi dica almeno nello standard”. Capisce? Nello standard. Riteneva di potere situarsi nello standard. Ma questa ragazza non è avulsa da un contesto, che possiamo chiamare contesto sociale e civile, dove questa modalità dello standard è imperante: modalità della media, dello standard, della mediocrità, nemmeno aurea. Lo standard che ognuno vuole sapere. Lo standard di ognuno che vuole sapere: vuole sapere quando finirà. Quando finirà? Ma chi capisce che ogni accenno alla fine di qualcosa è un’idea mortifera? Chi capisce questo? Fatalità, questa ragazza, quanto all’idea di morte, ci bazzica spesso, ma… “per fatalità”, non per una impostazione!
M.L.B. Era destino che c’incontrassimo.
R.C. Era destino.
M.L.B. Cioè, non indica necessariamente un’idea di morte.
R.C. Cosa?
M.L.B. L’espressione “Era destino che c’incontrassimo”. Può sembrare fatalismo, ma non è che tutto lo sia.
R.C. Non l’espressione. La metodologia che prescrive di sapere per ogni cosa quando finirà, non c’entra col destino. Questa è una fantasmatica che riguarda il cerchio che si chiude. Il cerchio è già chiuso, quindi bisogna situarsi nel cerchio. E poi è ovvio che in questa mitologia avvenga l’angoscia, o quello che viene chiamato “attacco di panico”, e cioè la negazione dell’avvenire, e l’insonnia, ecc. ecc. Non è sorprendente, perché nessuno vive bene nel cerchio, nel recinto, nella gabbia. Chi può vivere bene nella gabbia o nel cerchio?
Giorgio Fornasier Doris di Mediolanum! [Risate in sala]
R.C. Va bene, come intervento conclusivo!
Non so se ci sono altre domande, altre cose. Lei è la prima volta che viene qui?
Pubblico Qui sì. Ci siamo già visti nell’altra sala.
R.C. Quando eravamo al quartiere?
Pubblico Esatto.
R.C. Ecco, mi pareva. C’è qualche questione, qualche domanda?
Nadia Vidale Diceva prima: l’amore come indice.
R.C. L’amore come indice della ricerca, per esempio. Come indice e custode del parricidio, della ricerca che non finisce e che richiede e esige il parricidio, non la morte del padre, ma l’instaurazione del padre, nell’infinito. La negazione dell’infinità ha delle conseguenze. Ritenere che qualcosa finisca, che possa finire da qui a lì, ha delle conseguenze.
È chiaro che ognuno ritiene che basti sapere, ma questo avremo modo di affrontarlo e discuterlo giovedì prossimo, con il film che ha per titolo Dio esiste e vive a Bruxelles. Quindi, per chi avesse dubbi su Dio, la religione e quant’altro, possiamo affrontarli la prossima settimana.
Maria Antonietta Viero Una questione. La famiglia come modo della contraddizione. Qual è il modo ossimorico della famiglia? Quali sono i termini per dire che è il modo della contraddizione?
R.C. Come quali sono i termini?
M.A.V. Sì, mi viene da pensare. Se io dico alto-basso, dico un modo ossimorico, giusto?
R.C. Che non c’è alternativa fra il padre e la madre. Non c’è alternativa.
M.A.V. Ah, ecco. Ho capito.
R.C. Non c’è possibilità di padre buono e padre cattivo. Non c’è la possibilità della madre buona e della matrigna. Non c’è l’alternativa! Ciascuno statuto è originario e in assenza di alternativa. In questo senso la famiglia è il modo della contraddizione, dove positivo-negativo, bene-male, alto-basso, dentro-fuori non sono in alternativa. Sono in contraddizione, ma non in alternativa.
Dove vige l’idea che in ogni momento Tizio può essere sbattuto fuori casa, oppure debba andare via da casa, vuol dire che questo modo della contraddizione non c’è più e si è volto nell’alternativa. Non è una contraddizione astratta, ipotetica, ma si pone nelle cose che si dicono, nel modo con cui si dicono, nelle cose che si fanno, nel modo con cui si fanno. Tutto ciò è pratico, non è ipotetico. Non è teorico. È analitico e clinico.
La genetica è la ricerca su questo, l’indagine sulla combinatoria delle cose che si dicono e che si fanno. Questa è la genetica attuale che in maniera straordinaria già Freud aveva introdotto nel suo testo. Un’accezione di genetica veramente straordinaria, che non riguarda ciò che è scritto e che può aiutare a prevedere quel che accadrà. No, non c’è previsione. Non c’è visione e non c’è neanche previsione. C’è costruzione! Questo sì. Costruzione, decisione e attuazione, senza cedimento; quindi elaborazione, analisi e qualificazione. Questo è il dispositivo per la qualità. Ciascuno disponendosi a questo. Occorre disposizione, umiltà, occorre generosità.
In questo senso, il film Tutto sua madre è molto interessante. Fornisce indicazioni per non accondiscendere ai banali luoghi comuni sulla sessualità di genere, sull’appartenenza e sulla genealogia. È veramente un testo interessante, molto interessante. Anche il modo con cui il film si conclude, quando Guillaume annuncia alla mamma il matrimonio e dice: “Io e Amandine ci sposiamo”. “Ah sì? – risponde la madre – E con chi?”. Cioè, non c’è verso! Nessun accordo, nessuna intesa.
La madre non è un personaggio addomesticabile. È nella struttura temporale. E non c’è verso che il malinteso sia tolto nelle cose che si dicono. Il malinteso è qualcosa che introduce all’oltre, altrimenti ogni pretesto sarebbe buono per fermarsi. E invece no!
La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre
Ruggero Chinaglia Il titolo dell’appuntamento di questa sera è La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre. Questo si affianca e si aggiunge al titolo del film Dio esiste e vive a Bruxelles.
Che ci sia un titolo al dibattito, giusto per porre in evidenza alcune questioni che si tratta di considerare con più attenzione, non toglie il film. Il titolo Dio esiste e vive a Bruxelles è già indicativo di ciò di cui si tratta. Questo “esistere”, che viene sottolineato nel titolo, pone già una questione che riguarda propriamente l’idea che possano esistere delle cose in quanto tali.
Di cosa si tratta nell’idea di esistenza? Nell’idea che qualcosa esista? Si tratta dell’idea che qualcosa possa essere tale, possa istituirsi a partire dall’origine e possa essere rappresentata dall’idea di origine. La stessa idea di Dio, o la nozione di Dio, non ha di per sé, come corollario, l’esistenza. L’esistenza di Dio ha invece come corollario la sua dimostrazione. In quanti casi, da parte di teologi, filosofi, matematici e quant’altro, è stata coltivata e inseguita l’ipotesi di poter dimostrare l’esistenza di Dio? Questa nozione di esistenza poggia sull’idea di dimostrabilità, di giustificazione, di dimostrazione, di spiegazione, di confutazione. Come dire, lungo questo percorso dalla dimostrazione alla confutazione, che qualche cosa può risultare conoscibile. Come conoscere Dio: questa sarebbe l’idea di esistenza di Dio.
La nozione di esistenza si affianca a quella di antropomorfismo: dio come rappresentazione umana, l’idea di dio come idea di uomo. Da qui prende avvio anche tutta una serie d’iconografie di Dio: dio padre, dio vecchio, dio con o senza barba, dio dalle sembianze umane. Questo sarebbe il dio esistente. Ma c’è necessità che dio esista? Che abbia questa forma, questa rappresentazione in termini di antropomorfismo? Questa è una delle questioni, che già il titolo del film pone. Poi, leggendo il film si tratterà di capire se anche il film la pone e in che termini.
Quel che è sicuro, accanto a questo, è che questa idea di esistenza (esistenza di dio, esistenza delle cose) è un modo della negazione dell’inconscio, è un modo della negazione della parola. Quel che si dice non ha la necessità di esistere, cioè non ha la necessità di essere dimostrato, spiegato, giustificato, confutato e tanto meno di essere conosciuto. Esistenza, conoscenza, realismo, fondamentalismo sono termini che vanno nella stessa direzione, di abolire la differenza, la particolarità, la dissidenza.
Questi sono alcuni termini di base per leggere il film. Il regista di questo film è Jaco Van Dormael, belga. Non a caso Dio vive a Bruxelles, visto che il regista è belga, solamente lì è a portata di mano, ovviamente. È un regista abbastanza giovane. Questo film è recente, è dell’anno scorso. È stato cominciato nel 2014 e è entrato nelle sale nel 2015. Non siamo qui per valutare l’opera nella direzione della valutazione cinematografica. Certamente il regista, che ha già prodotto e diretto altri film, è attento alle questioni cliniche e fantasmatiche, e si è proposto all’attenzione con alcune sue opere precedenti, in maniera piuttosto interessante. Questa sera valutiamo questa sua ultima opera.
R.C. Allora, chi vuole cominciare a dire cosa ha visto e cosa ha ascoltato? Sentiamo qualche spunto: di cosa si tratta, che cosa narra questo film? Qual è il protagonista? Qual è la vicenda?
Giorgio Fornasier A me pare che ci sia un bambino, la storia, il racconto di un bambino, che praticamente dice che il mondo è meglio con la mamma rispetto al papà, dove c’è un malinteso assoluto tra il papà e la mamma e dove la mamma costruisce per così dire un mondo bello, mentre il papà costruisce un mondo brutto e cattivo. Questa è una prima lettura.
E poi, c’è, in qualche modo, una separazione assoluta fra queste due figure. Al centro, c’è il bambino che attribuisce le cose spiacevoli, le cattiverie al papà, in questo caso a Dio padre, e invece le cose buone alla mamma, che all’inizio è sottomessa, ma poi, in realtà, quando esce fuori, riesce a trasformare tutto: e allora ci sono i fiori, il bene, il bello, ecc.
Non so come mai il regista abbia deciso di fare questa separazione attribuendo gli aspetti negativi al papà e quelli positivi alla mamma, però, devo dire, è in buona compagnia, ecco.
R.C. Cioè, in compagnia di chi?
G.F. Del modo comune di pensare. Non è una cosa inedita, come pensiero. Direi che è dominante. Questa è la cosa che mi ha colpito.
Andrea Orlando Anche a me è piaciuto molto il film. Non so se ci azzecco molto, perché ci sono molte tematiche. Probabilmente anche quelle dell’inconscio, però io non sono un addetto ai lavori e mi sembra che in tutti i personaggi ci fosse un trauma che andava risolto. Cioè tutti conducevano un’esistenza traumatizzata; sostanzialmente, liberi non erano. Non avevano la propria coscienza di se stessi, perché chi aveva avuto la mancanza del papà, chi del braccio, chi aveva una mancanza d’amore con il marito, non ricordo adesso, ma alla fine, quando vengono risolti questi traumi, ognuno prende possesso della propria vita. E quindi, in realtà, quando uno s’identifica diviene se stesso e poi diviene padrone della propria vita e può affrontare la realtà che è determinata da qualcosa che ci viene imposto; ma la realtà cambia, è soggettiva.
Lì c’è anche la figura del dio, non so, però subito mi sono chiesto: perché Dio viene rappresentato dal papà del bambino? Probabilmente perché tra tutte le persone sicure e pseudo sicure di sé, c’era proprio il papà. Invece alla fine era la persona più insicura di tutte, era una finta autorità. Non sono riuscito a inquadrarlo bene, però in apparenza era l’unica persona che non si metteva in discussione. Magari ci possiamo chiedere: “Perché cerchiamo Dio?”.
Non voglio entrare in polemica con gli psicanalisti. Io sono appassionato di paranormale, però bisognerebbe capire cos’è questo dio. Lei parlava prima di dio con la barba, in realtà quelli sono stereotipi che ci sono stati imposti, bisognerebbe capire cos’è. C’è anche la mamma, il bambino, la figura del Cristo… Ho avuto l’impressione che non riuscendo a sviluppare la propria coscienza, il proprio io, ci si aggrappa a un dio per giustificare e dare un significato alla propria esistenza, per compensare quella mancanza, quella incompletezza che si ha. Questo mi ha attratto, a me è piaciuto molto.
R.C. Molto bene, grazie. Altri? Altre note? Testimonianze di cosa ciascuno ha visto e ascoltato?
Barbara Sanavia L’idea di fine certa, a me non è sembrata male.
R.C. Non le è sembrata male. Cioè?
B.S. Perché può far scattare il desiderio di vivere meglio il tempo che si ha a disposizione, al contrario di una morte così, che arriverà ma non si sa quando, per cui magari si perde tempo. Quello che faceva Ea, cioè stimolare le persone a seguire la propria musica interiore, mi fa pensare a questo. La musica interiore mi fa pensare alla particolarità di ciascuno e in questo Nuovo Testamento io ci vedo questo. Poi alla fine la mamma risolve, in un certo senso la toglie di nuovo, non lo so.
R.C. La madre toglie. Che cosa toglie?
B.S. La consapevolezza del momento della fine, del punto di fine della vita terrena, poi non è detto che ci sia una fine. Poi c’è questo padre, questo papà che lascia un po’ a desiderare e la figlia si ribella. Però, direi che Ea ha ragione a ribellarsi.
R.C. Ecco, le dà ragione. Ho capito, perché il papà era cattivo.
B.S. È un eufemismo dire cattivo. Non era certo un esempio da seguire, anzi.
R.C. Bene. Poi, altri?
Maria Antonietta Viero Il riferimento a un certo punto alla “coscienza di morte”, per cui s’innesca quanto ancora racconta verso la fine, la musica, che è propria a ciascuno, riporta al sogno.
R.C. Sì. Propongo di non tentare l’esegesi del film, ma di raccontare, testimoniare quel che si è visto e ascoltato.
M.A.V. Mi sembra che ciascuno ha un dio fantastico, nel senso che ci sono per ciascuno delle fantasie che riportano a dio in quanto operatore. Ecco, mi sembrava che ci fosse questa questione. Come dire, ognuno pensa al Dio creatore, da dove provengono le cose e qui si ascolta che dio opera.
R.C. Perfetto. Va bene, altri?
Daniela Sturaro Per me la cosa più importante non è come sia il papà o come sia la mamma, ma il passare attraverso il cunicolo che porta all’incontro con questi nuovi apostoli. È una lettura del tutto differente dei casi che vengono interpretati comunemente.
R.C. Sì, dica. Cioè?
D.S. Ci troviamo di fronte a sei figure, a sei casi insomma, comunemente considerati come persone con problemi, con difficoltà, che anche vengono condannate o considerate malate, sbagliate. E invece questa bambina va proprio da loro, cerca tra loro gli apostoli, per scrivere il suo Nuovo Testamento.
R.C. Beh, la scelta è casuale. Non c’è questa intenzione della bambina. La scelta è casuale. Aveva sei schede. La scelta è casuale. Non attribuiamo alla bambina intenzioni che non ha.
D.S. No, non alla bambina, allora al regista, che sceglie questi personaggi. Mi sembra che sia molto particolare il suo modo di leggere, di raccontare la loro storia e di farli elaborare, per poi costruire per ognuno una riuscita. C’è la riuscita, nel senso di venire fuori dal buco nel quale erano entrati. Che poi Dio sia collerico, che la mamma sia invece una casalinga può costituire la ragione per andare oltre questo, per cercare qualcos’altro. Poi ci sono tanti altri elementi che lascio.
R.C. Bene. Lascia generosamente a altri.
B.S. Pure la fine dalla guerra, perché tutti presi dalla propria, in tanti volevano realizzare il loro sogno e non pensavano più a farsi la guerra.
R.C. E quindi?
B.S. E quindi ci penserò.
R.C. Bene, altri? Altre note?
Elisa Ruggiero Sì, il film è molto interessante, molto bello, anche per le note di surrealismo che danno tono al film, proprio in relazione al sogno. Pare quasi che questa immagine, questo non senso dia una certa leggerezza, perché la vita di quei personaggi, dei sei apostoli, era una vita un po’ particolare. Dall’incompletezza della loro vita, dal loro essere immersi in una vita che praticamente è come il tunnel che hanno percorso inizialmente per uscire dalla loro abitazione e entrare nel mondo e incontrare altre persone, il tunnel della lavatrice, la vita che era incanalata in una certa direzione, attraverso il sogno incontra una combinazione nuova e un modo per risolvere il desiderio, in un’altra maniera. Cioè, pare che sia quasi attraverso il sogno, attraverso la novità, che ciascun personaggio riesce a trovare elementi, modi, maniere per giungere al miglioramento della qualità della vita. Credo che sia così. Ove la questione è correlata a Dio, perde un po’ di significato nello svolgersi del film, sembra quasi una giustificazione per svolgere in quella determinata maniera il film, per mettere delle note di surrealismo, per renderlo divertente.
In realtà secondo me, perde di tono questo dio antropomorfo e sadico, che pare sia il risultato della risposta di tutte le umiliazioni, perché la cosa che mi ha fatto pensare, è che mentre programmava tutte le cose attraverso il computer, sembrava una persona. Se gli cade la fetta di marmellata, come nel luogo comune, anche qui nel Veneto, un uomo medio solitamente potrebbe essere blasfemo e anche magari inveire contro Dio. Sembra quasi un “botta e risposta” fra un atteggiamento che in termini religiosi viene considerato peccaminoso, una reazione, una provocazione da parte di Dio. E questa è una cosa che mi ha fatto un po’ sorridere. Sicuramente, vale la questione della vita e della morte perché anche in termini religiosi ha un termine ben preciso, da cogliere anche attraverso i personaggi che non sono nel paradiso terrestre, ma sono sulla terra; non nell’Eden, ma sulla terra, nel pianeta con le loro vite.
R.C. Bene. E fin qui siamo più all’esegesi che alla clinica di questo testo. Però ci sono ancora spunti clinici.
A.O. Clinica. Mi scusi, che c’entra la clinica, in che senso?
R.C. La direzione verso la cifra delle cose.
A.O. Cifra?
R.C. La cifra, la qualità e il valore.
A.O. Valore è il significato intrinseco del film?
R.C. No, appunto. Qual è l’indicazione del valore che questo film ci rilascia? Dove sta la questione del valore? E la vicenda che è narrata nel film, in che modo risulta vicenda e non già una serie di spot per alcuni messaggi morali? Dove cioè sarebbe bene fare così, sarebbe male fare colà, è bene fare questo, è male fare quello.
Se noi cediamo a una lettura morale, ritenendo che il film abbia un messaggio morale da rilasciare, allora non stiamo facendo una lettura clinica, non stiamo cogliendo la vicenda, stiamo attribuendo al film o al regista intenzioni di bene o intenzioni di male. Cioè, facciamo una lettura morale, una lettura anfibologica, dove sono le cose buone e le cose cattive, dove è meglio fare questo piuttosto che fare quello.
Ma il film narra una vicenda: qual è la vicenda narrata?
Occorre cogliere questo aspetto: qual è la vicenda narrata nel film, chi la narra e come, lungo questa narrazione, accadono cose che non sono casuali ma rispondono a una concatenazione precisa. Quindi, che cosa avviene in questo film?
A.O. A me sembra di capire che ognuno superi i propri traumi, però non so se è quello.
R.C. Sì, avviene anche questo: c’è una sorta di andare oltre determinati problemi che sono rappresentati per alcuni personaggi. Ma questo andare oltre, come avviene? Come avviene che ci sia questo andare oltre, che lei ha rilevato?
A.O. Affrontandoli. Come nel caso della bambina.
R.C. La bambina che cosa ha affrontato?
A.O. Ha affrontato la situazione familiare, il padre con il quale viveva in quella condizione. Anche la madre si è accorta a un certo punto che era libera, perché mancava la figura del marito che rompeva le scatole dalla mattina alla sera, per cui ha iniziato a prendere coscienza di sé stessa mentre prima aveva una condizione di oppressa, quindi ha preso in mano la propria vita. Alla fin fine tutti hanno preso in mano la propria vita e sono diventati padroni di sé stessi.
R.C. Quindi lei ha rilevato che c’è nel film un’idea di padronanza: un’idea di essere o diventare padroni della propria vita. Perfetto. Questo è un elemento che adesso consideriamo meglio. Lei aveva alzato la mano?
Vanni Francescato Io ho notato che è rappresentata l’idea del dio cattivo che poi è stato sconfitto, quindi c’è un dio buono. Poi c’è la madre che gestisce tutta la faccenda. E c’è stata, se non ho capito male, la volontà del fratello che voleva i diciotto apostoli e c’è riuscito. È mancato il padre che dettava legge. È stata superata l’idea della legge del padre, è stata sconfitta. Non ha avuto più valore la legge del padre.
R.C. Sì, quindi c’è, lei dice, questo conseguimento del risultato dei diciotto apostoli. In effetti questo è un dettaglio non trascurabile: i diciotto apostoli. Diciotto apostoli e in più il giornalista o lo storico, cioè quello che scrive, che non è un apostolo, non è uno dei diciotto. Non è uno dei sei nuovi apostoli. Questo è il punto. Lo scrittore non è uno degli apostoli. Contrariamente al Nuovo Testamento dove gli estensori del testamento, i testimoni sono fra gli apostoli, a parte Luca, che però era apostolo di S. Paolo, un seguace di S. Paolo, quindi era nell’orbita. Allora, questo invece non è fra gli apostoli.
Patrizia Ercolani Perché non ha ricevuto la data di morte, mi pare. Pensavo alla questione della morte, c’è una data di morte per ciascuno dei discepoli, l’altro, il barbone no, non aveva il cellulare, quindi non ha neanche…
R.C. Non ha ricevuto questa…
P.E. Quindi nessuna interrogazione sulla propria vita.
R.C. È anche dislessico. E scrive. Questo non è casuale. È un elemento degno di nota. Quindi diciotto apostoli, lo scrittore e Ea, che ha il compito di raccogliere, di accogliere e di cercare questi apostoli. Curiosamente ciascuno di questi apostoli cosa fa? Cosa fanno questi apostoli? Ciascuno degli apostoli cosa fa?
B.S. Racconta di sé.
R.C. Racconta, certo. Quindi c’è la questione narrativa, ciascuno di questi apostoli racconta qualcosa della sua storia e quel che segue non è fedele alla fiaba dell’origine, ma è qualcosa di differente. E cosa fanno questi apostoli? A cosa concludono? Cosa cerca ciascuno degli apostoli?
A.O. Di realizzare.
R.C. Sì, quello lo fanno. Quindi, c’è un percorso che giunge per via narrativa alla dissipazione del guaio. Ciascuno di questi apostoli non è più il personaggio inguaiato, che era o credeva di essere, quando è stato incontrato. Nel corso della vicenda non c’è più il guaio. Il guaio di ciascun apostolo, il guaio per cui questo apostolo era segnalato, non c’è più. Non è più inguaiato. Quindi c’è un’articolazione del guaio per gli apostoli.
Per questi personaggi che giungono a stabilire un dispositivo narrativo con Ea, in questa narrazione, in questo racconto, in questa loro conversazione con Ea dissipano la credenza di essere inguaiati, di avere quel guaio da cui sono partiti. E giungono a un altro statuto: il cleaver non è più cleaver, la ragazza che viveva nell’isolamento non è più isolata, il voyeur non ha più necessità di guardare e vedere quello che temeva potesse uscire dagli occhi e contaminare le murature della casa, il bambino che poi diventa adulto. L’erotomania non c’è più, ma non c’è più non perché è guarito. Perché non c’è più?
Così, Martine non è più Martine, cioè non è più la donna abbandonata, derelitta e quant’altro; c’è la trasformazione dei personaggi lungo il racconto. Ma questa trasformazione non è perché guariscono da qualcosa o perché c’è un intervento divino nel merito: è un frutto, è una conquista lungo la vicenda. La vicenda che è, in particolare, quale vicenda?
B.S. Dell’origine.
R.C. Certo, la dissipazione dell’idea di origine. Proprio così. Da parte di chi?
B.S. Del soggetto, di ciascun soggetto.
R.C. Certo.
B.S. Però questi apostoli erano chiunque.
R.C. Sì, esatto. Erano dei chiunque. Chiaro.
A.O. Mi scusi, rispetto all’origine intende la trasformazione dei personaggi?
R.C. Sì, rispetto all’idea di essere, causata dall’idea di origine. La trasformazione di ciascun personaggio avviene rispetto all’idea di essere in un determinato modo, per via di una certa origine. Questo è il punto: chi si crede personaggio, cioè crede di essere in un certo modo con certi problemi, crede di esserlo per via della sua origine. E questa origine costituisce, in modo fantasmatico quindi, “la giustificazione”, l’alibi per essere così, per sempre. Ognuno si giustifica, “io sono così perché vengo da lì, vengo da là”. Qui c’è la messa in questione invece dell’origine, la messa in questione dell’esistenza: ciascuno dei personaggi, possiamo dire, mentre prima esisteva come personaggio in quanto tale, poi incontra una trasformazione. Non esiste più come tale. Interviene dell’Altro.
M.A.V. Quindi è una fantasia di Ea, questa. Cioè, voglio dire, chi narra? Sembra essere la bambina, e quindi è una sua fantasia che riguarda tutti personaggi per andare diretta rispetto a un’idea del fare e anche a un’idea della madre, perché non a caso poi la chiama mamma e madre, facendo questa sottolineatura come se non combaciassero. Poi in questo senso anche rispetto allo scrivente lei lo riferisce come il papà, sarebbe il papà.
R.C. Come avrebbe dovuto essere. Esatto. Il barbone.
M.A.V. Sono i vari personaggi creati per la dissipazione di questa idea.
R.C. No, questo sarebbe finalizzato “a”. No, senza questo finalismo i personaggi non sono creati “per”. I personaggi sono personaggi di una fiaba. Ogni personaggio che si costituisca come personaggio, cioè con un carattere stabile, è personaggio di una fiaba. E la fiaba è ciò che si rappresenta di sé e della propria vita, in connessione con l’idea di origine e con l’idea di fine. Qui c’è un’articolazione molto interessante proprio di questo: tra l’idea di origine e l’idea di fine.
A.O. Allora, la figura del padre sta a indicare la persona che non cambia, che crede di essere padrone della propria vita, ma è vittima della realtà stessa che non si evolve. Il padre credeva di avere in mano la propria esistenza, poi è l’unico che non cambia. La figura del padre cos’è? L’antagonista nella storia, quello che simboleggia l’antitesi di quello che vuole significare il film?
R.C. Esatto. C’è apparentemente questo, però occorre inserire anche questo dettaglio nella vicenda. Giampietro voleva dire qualcosa?
Giampietro Vezza L’assassino alla fine, quando il film termina, dice qualcosa di simile a: “Tutto è come prima”, o comunque “Non è cambiato niente”. E questo in realtà è in antitesi con il fatto che ciascuno dei protagonisti è cambiato profondamente: il bambino che è diventato bambina continua a essere bambina, gli altri protagonisti continuano a essere all’interno della loro vita, e quindi evidentemente questo cambiamento è parte del racconto di questi personaggi. Qual è la parola che ricorre piuttosto spesso nel film? La parola è “miracolo”, quindi la domanda sarebbe questa: qual è il miracolo? Dove è situato il miracolo all’interno di questo film?
R.C. Perfetto. Ma, miracolo in quale accezione?
G.V. Nell’accezione di qualcosa che non sia spiegabile nei termini della fantasia, della magia o di altro, ma nei termini di qualche cosa che magari si ha timore di affrontare e nel momento in cui invece si affronta si capisce che si può svolgere in un’altra vicenda.
R.C. Un miracolo nei termini non dell’intervento del dio agente, ma un miracolo nei termini dell’andare oltre a ciò che si credeva costituire l’impedimento, il limite e la rappresentazione del proprio personaggio. Chiaro. Quindi questo miracolo che è un frutto. Bene. Ci sarebbe ancora molto.
M.A.V. C’è un’ultima questione.
R.C. Non ultima, non c’è un ultimo, non c’è ultima questione qui. Ci sono molte questioni ancora, però adesso l’ora volge al desio. Giovedì prossimo abbiamo il proseguimento del dibattito, tenendo conto degli elementi che sono emersi adesso, più altri su cui possiamo ragionare, cogliere la vicenda. Si sta delineando differentemente dall’inizio una vicenda, un caso, dove intervengono anche altri casi, nella complessità. Importa cogliere qual è la vicenda del film e come si svolge. Quali indicazioni ci vengono dal film, non come indicazioni che il regista vuole dare come lezioni morali, ma indicazioni dalla narrazione delle cose che stanno nel film, quindi dalla vicenda.
Questo sarà importante capire. chi narra qui? Chi è il narratore? La bambina? Che cosa narra la bambina? E questo lo chiariamo ulteriormente giovedì prossimo, sempre qui, alle 21. Grazie, buonasera e arrivederci.
Il padre debole e il figlio ribelle
Ruggero Chinaglia Cominciamo. Ci sono domande, questioni, precisazioni?
Maria Antonietta Viero Ho scritto qualcosa a proposito del film.
R.C. Quale film?
M.A.V. Dio esiste e vive a Bruxelles. Qualche annotazione rispetto a quanto ho ascoltato.
R.C. Leggiamo.
M.A.V. Di che cosa si costituisce il vivente? Di quale nutrimento si fa la crescita? Di quale educazione, di quali strumenti perché la vita compia il suo disegno? A noi interessa lo scrivente, colui che annota, nel facendo e nel pensando, la sfumatura che lo concerne, senza offrirla al cannibalismo della condivisione. E resta un modo fobico di un riparo che subito, come foglio al vento, scopre la paura della violenza dell’elaborazione.
L’elaborazione parlando, nella complessità dell’atto di parola imprevisto, pur pensando di essere garantiti sulla facoltà di ogni titolarità, comporta un lapsus, una dimenticanza, quel fuori seminato che scompiglia i bordi e i sentieri di rimozione e di resistenza, una svista, una cantonata e fa sì che siano accolti, e annota la nuova direzione, l’esigenza della nuova combinazione, ascoltando e annotando quell’elemento di sorpresa, che pone dinanzi la necessità della sua portata, quanto a considerazione e accoglimento. Così, come di sera, l’altro tempo è inaspettato e l’ombra in un gioco di luce, coglie il sole nell’appostarsi il cuscino per la propria idea di sé e delle cose che il giorno finisca. E il finire è bisognoso dell’inizio di qualcosa d’Altro, come il suo pensato contrario, in una sorta di corrente alternata inizio-fine, come in un passaggio di liquido tra due bottiglie o vasi comunicanti, che non si avvede di un calcolo rispetto alla perdita, e qualche goccia cade e si disperde. L’operazione algebrica varia quanto a peso netto e tara, così, l’ombra, che al volgere di luce si staglia e taglia il piede in un’idea di origine piantata in terra, vede finito il proprio discorso e porta la propria chance sull’idea di origine, dove sembra vestire infinite sfumature di quell’idea.
La creazione dei personaggi prende corpo, vita e forma come nel film Dio esiste e vive a Bruxelles, dove la traversata fiabesca, nel suo ascolto, consegna la sua saga allo scrivente. Ognuno vive all’ombra dell’origine, una credenza dell’origine ontologica, come l’idea della propria famiglia, ma l’ombra è orma della luce. nel suo modo del chiaroscuro. Ea crea nel film il personaggio padre, padrone del tempo altrui, che ha il divertimento di fornire, per via cellulare, quanto gli resta da vivere a chi lo riceve, cioè quando morirà affinché si formi una buona coscienza di morte. Di quale padre si tratta?
Un padre segregatore, violento, un padre severo, un padre che, come Parca, si fa matrigna: io ti ho dato la vita, io posso, se voglio, togliertela. Un padre con la funzione di madre e, se la madre funziona, la madre uccide. La fantasia di origine, da dove vengo e da dove vengono le cose, comporta anche l’idea di fine, l’idea di destino, l’idea di durata. E la vita può trascorrere nel come togliere il marchio d’origine. E gli inceppi sono molti, molte le mutilazioni. Vittima e carnefice si alternano all’idea di accettazione o di ribellione. L’idea di origine fa sorgere l’idea di essere “figlio di” e dover percorrere la stessità senza invenzione, senz’arte: un destino segnato senza tempo.
Il film ci offre Ea, che si ribella al padre e va tra gli umani nella figura di eroina, di salvatrice del padre, inventando, dissimulando il gioco mortifero del padre materno e di assoluzione nel racconto di sei storie, sei apostoli per la scrittura di un nuovo testamento che tolga la chiave della cassaforte che contiene il tempo. Chiave, come rebus in cifratura delle storie. La storia, perché divenga ciascuna storia, è la fiaba a raccontarla. Nel racconto, una storia occasiona la memoria a tessere ciò che è in atto nell’occorrenza del contingente; una storia presa nel dirsi del racconto con il lavoro della dimenticanza dice del sogno in atto, della costruzione progettuale per cui una storia non è mai finita.
Lo scrivente nel film: Ea lo dice padre, un padre che scrive ciò che del racconto si cifra e cifrandosi, sull’assenza del fatto che il padre sia il padre dell’origine, attribuendolo allo scrivente, è padre incertus. Il figlio non viene dalla madre, che anzi, nella traversata fantasmatica di Ea, trae al suo mito. Solo con il mito della madre le cose proseguono nel loro malinteso, così come nel racconto di Ea e nella sua storia.
R.C. Bene. Chi ancora? Ci sono altri che hanno una domanda, una nota?
Daniela Sturaro Sì, io. Allora, questo film mi sembra, se parliamo del film dell’altra volta…
R.C. Lei di cosa parla?
D.S. Non so se è il tema di questa sera, ma riflettendo qualche momento su quel racconto, mi pare ci sia una ricerca di qualcosa di nuovo nell’ordine religioso, cioè il superamento del dio vendicativo, del dio biblico che viene ridotto a una macchietta, come di un uomo con la vestaglia da camera, con le ciabatte, che colpisce attraverso il computer le vite di tutti. Dio ormai non serve più, a quanto ci dice il regista. Il Cristo è un simulacro, cioè la statuetta del buon pastore che magari si può trovare nelle case, nei recessi, nelle memorie infantili, come Gesù Cristo, ma senza più forza. Non ha più forza questo Gesù Cristo. E chi si prende il compito di cambiare è proprio la figlia, che vuole andare oltre quello che è il padre, andare oltre quello che fa il figlio per dare un nuovo corso alle cose nella vita di alcuni personaggi, in cui lei casualmente si imbatte.
Quello che io chiedo è perché questo avvenga sempre attraverso l’oltrepassamento della difficoltà della vita di ciascuna di queste persone. Avviene attraverso la relazione. Per fare un esempio: quello che voleva uccidere tutti, riesce a superare questa sua tendenza sparando alla ragazza che non viene colpita. Spara alla ragazza mentre attraversa il ponte; questa ragazza non muore. In quel momento per lui inizia un nuovo modo di vedere le cose, capisce qualcosa che prima non aveva capito. Un altro esempio: Martin riesce a interrompere la relazione assurda con il marito, incontrando il gorilla. Ora non so cosa rappresenti il gorilla, certo qualcosa di differente da quello che era suo marito. Ma l’elaborazione e il superamento della difficoltà avvengono attraverso la relazione. È così?
R.C. Questa è la domanda. Per formularla in modo più preciso, lei chiede che cosa?
D.S. Se ciò che impedisce a qualcuno, a ciascuno, di trovare il valore, può venire dissolto attraverso una relazione.
R.C. Una relazione.
D.S. Attraverso la relazione, non una o due.
R.C. La relazione, ossia cosa intende per relazione?
D.S. Ossia intendendo per relazione trovare effettivamente un ostacolo che poi diventa trampolino, un punto di partenza per iniziare qualcosa di nuovo.
R.C. Quindi si tratta della relazione o dell’ostacolo?
D.S. Per come la racconta il film sembravano coincidere.
R.C. E come la racconta il film?
D.S. Il film racconta che queste persone, che erano un po’ rinchiuse in una forma di vita abbastanza limitata, riescono a oltrepassare il limite incontrando qualcuno, incontrando una persona che le guarda con altri occhi, forse si vedono nello specchio e lo specchio riflette qualcosa che prima non avevano mai visto.
R.C. Quindi è la fiaba di Biancaneve.
D.S. Perché?
R.C. Perché c’è lo specchio. Specchio, specchio delle mie brame… La regina si guarda allo specchio e gli pone il quesito e lo specchio le risponde.
D.S. No, allora, diciamo che, guardando, è una questione di sguardo. Sguardo per cui tu non sei quello: non sei l’erotomane, non sei il killer, non sei la sposa infelice. Non sei niente di tutto ciò. Cioè è come se l’identità si fosse cristallizzata attraverso ciò che viene rimandato dal mondo. Allora, il mondo s’infrange, quando tu incontri uno sguardo differente.
R.C. Perfetto. Bene, altri?
Patrizia Ercolani Io mi domandavo, il titolo dice padre debole e figlio ribelle…
R.C. Il titolo di questa sera…
P.E. Sì. Se il padre è ritenuto debole, allora il figlio è ribelle in quanto il padre non c’è, non funziona.
R.C. Cioè, lei dice: a chi si ribella questo figlio?
P.E. Esatto. Se riguardo a un padre che non funziona o rispetto a un’idea.
R.C. A chi si ribella il ribelle?
P.E. Rispetto a un’esigenza, a qualcosa che non trova rappresentazione non sempre in un padre o forte o debole, o buono o cattivo, non è quello che importa. Così mi domandavo, perché, prendendo lo spunto dal film, la rappresentazione del padre o del figlio dà sempre una rappresentazione del male e la ribellione sembra essere verso un padre cattivo o forte, sembra rivolta a questa violenza rappresentata nel padre, attribuita al padre. Non so se questa idea è connessa, o comunque adiacente, a qualcosa che si può rappresentare, ma non si rappresenta. E mi domando se la ribellione è, non so se indica uno scarto tra quello che è un’esigenza di funzionamento e la rappresentazione che si cerca di fare.
R.C. Ecco, c’è uno scarto.
P.E. Sì, se è questa la ribellione, non tanto verso un padre che dà botte, che non rispetta, rifiuta, ma che la ribellione sia da intendersi magari per questa rappresentazione che non funziona, non come dovrebbe o come vorrebbe l’idealismo, ma qualcosa che manca al funzionamento. Non so come dire in altro modo. Come intendere che c’è un funzionamento costitutivo, in questo senso reale, per cui non c’è bisogno di una rappresentazione o di opporsi a una rappresentazione, quindi di non credere alla violenza, ecc.
R.C. Bene, altri?
Sabrina Resoli In merito al film?
R.C. In merito al dibattito.
S.R. Prendo spunto dal film perché, che il papà fosse dio mi ha fatto pensare alla favola di Rosaspina, dove il papà è un re, che però non ha abbastanza piatti da dare. Anche qui c’è un papà che è dio, però è un dio da poco, che non fa miracoli, che non sa camminare sull’acqua. E quindi c’è questa combinazione tra l’idea di un papà come dovrebbe essere, ma che non ne ha i mezzi; è proprio scadente. E poi un’altra cosa che mi ha dato da pensare nel film, è l’uscita di scena di questo papà che non muore, ma rimane confinato fuori scena, praticamente, non può più rientrare. E questo papà che non muore, che però non può ritornare, è ciò che, secondo me, consente alla mamma di instaurare la madre, proprio perché il papà non muore.
R.C. Non può rientrare, lei dice. Dove dovrebbe tornare?
S.R. A casa. La strada per lui è sbarrata.
R.C. Non si chiama mica Lassie. Chi sbarra questa strada?
S.R. No. Però accade questo, che il papà non può riprendere il posto nella casa e viene portato via.
R.C. Quindi ci sarebbe un’alternativa tra il papà e la mamma. La madre può instaurarsi in assenza del padre?
S.R. Non ho detto in assenza del padre, ma perché il padre non è morto.
R.C. Ma è stato messo in quarantena, in isolamento.
S.R. Sì, è stato spostato.
R.C. Ecco, è stato cacciato, quindi la madre esige che il padre vada via, per lavorare bene.
S.R. No, che non sia morto. Io mettevo in evidenza, nel film, il fatto che il papà non muore…
R.C. Sì, certo. Gentile, pare gentile. Non lo facciamo morire, ma lo mandiamo in Siberia.
S.R. Lo mandiamo in Siberia?
R.C. Lo mandiamo in Siberia. Confinato. Allora finalmente la madre può instaurarsi. Beh, è un’ipotesi, dal suo punto di vista, giustamente…
S.R. Il film, a me sembra raccontare questo.
R.C. Esatto. È un’ipotesi che lei dal suo punto di vista avanza, giustamente.
S.R. Non so se giustamente, però non posso fare a meno di avanzare questa ipotesi. Non ho altre ipotesi.
R.C. Beh, è suggestiva.
S.R. Esce di scena un certo papà, non il padre.
R.C. Certo. Lei insomma è d’accordo con Ea.
S.R. Beh, Ea ne ha tante di cose.
R.C. Quindi, ce n’è di più.
S.R. Ea non è solo ribelle, insomma.
R.C. Bene, c’è ancora qualcuno che abbia ragionato su questo e altro?
Barbara Sanavia Non so se il papà, o anche un aspetto del padre, sembra trovarlo nel barbone, nello scrivano per il Nuovo Testamento. E com’è questo Nuovo Testamento, lo si vede alla fine. Non è fatto di parole, è fatto di disegni. Per me questo rafforza quest’idea del Nuovo Testamento, perché i disegni per ciascuno che li vede (anche un testo che si legge, però molto di più i disegni) mi danno un’idea di libertà d’interpretazione, per cui avvalora che questo Nuovo Testamento è fatto da ciascuno. Riporta l’esperienza degli apostoli, di questi sei nuovi apostoli. Anche se la ribellione, la fuga di Ea, sembra essere in un primo momento una vendetta verso il papà, di cui si voleva vendicare, però resta che quello che aveva fatto è una ribellione, nel senso che non accettava quella famiglia, dove non c’era proprio la figura del padre, per cui la ribellione rappresenta… che se l’è cercata da sola.
R.C. Cosa si era cercata da sola?
B.S. Non ho ragionato molto questa settimana, però non c’era il padre e neanche la madre, per l’idea che mi sono fatta io di madre in questa famiglia. Come poteva vivere così? La ribellione è il desiderio di vivere, perché non stava vivendo.
R.C. Bene. Interessante. Lei dice che se ne va per vivere.
B.S. Sì, l’ha anche detto, prima mi vendico, poi me ne vado, quando ha deciso di uscire.
R.C. “Me ne vado per sempre”. Bene.
B.S. Poi ha anche detto, quando ha incontrato il barbone: “Il paradiso è qui”, cioè ci sono tanti indizi della sua missione.
R.C. Perfetto. La missione. Molto bene. Altri? Novaretti è concentratissima. Tra un po’ prorompe? Dica.
Fernanda Novaretti No, non ho riflettuto.
R.C. Non ha riflettuto su questo. E su che cosa?
F.N. Su altre cose.
R.C. Riservate, molto riservate. Cose personali?
F.N. Personalissime.
R.C. Riservate e personali. Niente a che vedere con la realtà intellettuale quindi. Proprio niente? Mantiene un rigoroso silenzio?
F.N. Non saprei cosa dire.
R.C. Non saprebbe.
M.A.V. C’è una questione che riguardava come il film dia l’occasione di ribaltare, proprio sull’idea di origine, alcuni luoghi comuni: si pensa che il padre sia certo e che il figlio invece sia incerto. Mentre invece qui, nella traversata, mi è sembrato che ponesse in risalto proprio questi due statuti di padre incertus e di come invece il figlio è certo. E poi anche un’altra costatazione: che solo procedendo dal padre con il suo mito, trae verso il mito della madre, altrimenti è difficile che compaia, che si ponga da sola, ecco.
R.C. La realtà intellettuale, l’instaurazione della realtà intellettuale, esige l’attraversamento e la dissipazione della fiaba. Esige la non accettazione intellettuale, che non è coniugabile nell’“Io non accetto che”, che è la formula della consacrazione della soggettività, del fantasma materno, della padronanza, per espellere qualcosa che è presunto costituire e rappresentare in negativo, il disturbo, il limite della tollerabilità. L’accettazione non sta all’io, non sta al tu, non sta al lui, è non accettazione intellettuale, quindi non accettazione della sostanza, non accettazione di quel che si rappresenta come tale.
La non accettazione intellettuale non indica che qualcosa sta fuori dalla parola, e che non può essere accettato. Indica, invece, che non c’è cosa che stia fuori dalla parola; e non può essere accettata l’idea che qualcosa venga rappresentata come stante fuori dalla parola. Quest’idea che qualcosa stia fuori dalla parola indica che c’è chi pensa di stare fuori dalla parola, attribuendo questo dentro e questo fuori, a sé, all’Altro, alle cose, negando la parola e la sua apertura.
Chi si pone nella minaccia, nell’alternativa del non accettare, è chiaro che vive nell’infernale, nella palude, nella costante rappresentazione dell’alternativa fra il dentro e il fuori, fra il sopra e il sotto, fra il positivo e il negativo, fra il bene e il male. Vive nello schifo. Nello schifo che sarebbe giustificato, appunto, da quel che non è accettabile.
Chi vive nella fiaba, ponendosi fantasmaticamente fuori dalla parola, fuori dalla ricerca, in un mondo sostanziale dove non può avvenire ricerca o analisi, si chiede, e chiede soprattutto a altri, di sapere come si fa. Come si fa questa o quella cosa? Come si fa a sapere cosa fare in ogni circostanza? Chiede cioè di sapere quale sia il modo standard, il modo convenzionale, il modo usuale, il modo normale di fare, anziché disporsi a capire i termini della questione attuale, non della questione in generale, della questione ontologica, anziché chiedersi quale sia il dispositivo da attuare per trovare il modo opportuno. Come fare a sapere il da farsi: sapere cosa dire, cosa fare, cosa pensare, come vivere. Sapere.
Come fare per sapere. Il soggetto ontologico sa, deve sapere, altrimenti di quale ontologia si potrebbe fregiare? Di quale essere potrebbe vantarsi, fregiarsi? Di quale essere poter fare la caricatura? E accade che sempre più spesso, per non dire sempre, a parte qualche rara eccezione, c’è chi domanda consigli, pareri, consulenze, prescrizioni, ricerche, ammaestramenti, suggerimenti per sapere come fare a superare determinate difficoltà, per trarre la soddisfazione che idealmente si cerca, per essere felici e non si trova, per migliorare la performance, il rendimento, per sapere insomma in ogni caso come comportarsi. E fin qui, domandare è lecito.
Il problema è che, con sempre maggiore facilità chi chiede questo, trova chi è disposto a fornire questo sapere, questi ammaestramenti, questi suggerimenti, queste ricette, queste modalità, per lo più sulla base di senso comune, di una ordinalità, di una normalità. Ma fornendo queste risposte, questi facili consigli, c’è chi si chiede quali fantasie abbiano impedito a quella persona, a quel questuante, a quel postulante, di trovare il modo opportuno? Di cercare, di trovare, anziché di domandare di sapere? Quelle stesse fantasie, se non individuate, se non analizzate, se non attraversate, se non capite, impediranno di attuare quegli stessi consigli, quegli stessi ammaestramenti, quelle stesse ricette, quei suggerimenti così generosamente forniti.
Ognuno spera di potere istituirsi come macchina esecutrice del giusto modo, ma il soggetto robot cozza contro l’operatore. Non c’è modo di eseguire l’ordine togliendo l’operatore, togliendo dio come operatore, togliendo cioè la logica operativa che opera per la scrittura delle cose. Opera con la connessione, con il nesso. Pensare di eseguire senza capire il nesso tra una cosa e l’altra è come pensare di essere un robot, un computer, una macchina esecutrice, senza ragionamento, senza calcolo, senza ragione, avvalendosi cioè solo della ragione sufficiente, presumendo di potere aderire allo standard, tolta l’arte, tolta l’invenzione, senza variazione, senza differenza, eseguendo.
In questa mitologia dell’esecutore, del soggetto finalmente idiota, la domanda più frequente al sorgere di un dispositivo, al sorgere di una proposta, è: quanto dura? Quanto dura la fatica? Quando finisce la fatica? Quanto dura l’agonia, prima che giunga finalmente quella fine tanto pensata, temuta, criticata, vagheggiata e presente in ogni pensiero?
Con l’idea di origine la conseguenza è l’idea di fine, con i suoi correlati, perché non basta l’idea di fine. Ci sono i correlati: l’idea di salvezza, di protezione, di bene o di male, l’idea di purificazione, di affrancamento, di liberazione, di potere quindi attribuire a un’agente superiore la colpa di quel che accade, insomma l’idea di ragione sufficiente, che è l’idea di sopravvivenza. Raramente c’è modo di ascoltare la domanda: come comincia? Questa cosa, come comincia? Quando comincia? Per trovare i termini e i modi di proseguire, di fare, di concludere. La questione si pone in modo urgente e rilevante per ciascuno che intende quindi vivere, e non sopravvivere.
Vivere ragionando, non eseguendo. Vivere, non come soggetto incapace, irresponsabile, debole, malato in cerca dell’alibi che lo giustifichi o che lo sancisca come inabile, debole, incapace, un vero soggetto. La questione è: “quando qualcosa incomincia?”. Per esempio, quando comincia, dopo la nascita, la rinascita intellettuale? Come intendere che ciascuno nasce nella parola e non nel genere umano? Quando qualcosa comincia nella parola? Dice Ea: “In principio uno non sa che quello è il principio, non si sa che sta cominciando. Poi all’improvviso tutto ha inizio”. Ea lo dice a suo modo, presumendo appunto che qualcosa inizi e poi ovviamente finisca, però Ea pone la questione, perché “quando qualcosa incomincia, le cose non sono più come uno se le immagina”. Sì, Ea dice sono totalmente diverse da come uno le immagina, ma pone la questione che quando qualcosa comincia non è più tale.
Quando qualcosa comincia non è più come era stata pensata. Quando qualcosa comincia allora la storia esige il racconto, non più l’ontologia. E non si sa più come va a finire perché non finisce più. Quando qualcosa incomincia nella parola? Come capire quando nella parola qualcosa comincia? È semplice: quando il funzionamento del nome s’instaura con la funzione di rimozione. E quando la rimozione s’instaura? Come capire quando la rimozione s’instaura? Attenzione: non “si è instaurata”, ma “s’instaura”, è in atto. Non per sempre e comunque. È in atto, quando, parlando, quel che si dice non conferma l’idea da cui il dire è partito, né trova conferma il senso che si voleva dimostrare parlando. Quando parlando interviene l’esigenza, la necessità del glossario e del dizionario, perché non c’è più la lingua unica o la lingua comune e dunque ciascun termine è originario. Non è parte di un vocabolario comune e quindi occorre precisare quel che si dice.
Così comincia qualcosa, così comincia a funzionare la rimozione, quando non si può più dire qualunque cosa, quando non si può più parlare a ruota libera, ma nella sembianza interviene l’inibizione. Quando il personaggio, che si crede di essere o di dover rappresentare, non può più sovrapporsi e confermare il presunto soggetto della padronanza, lì, così, qualcosa comincia a dirsi. Qui sta l’incominciamento che s’istituisce con la rimozione nel linguaggio e l’inibizione nella sembianza.
Così si avvia il transfert, la struttura in cui si tratta della metafora, quindi la struttura che si enuncia con il “come se”. È “come se”, non è proprio così, è come se. E occorre rischiare questo varco tra la rappresentazione e quel che si dice “come se”, senza più realismo, senza più sovrapposizione tra la parola e la cosa. “Come se”, senza poter colmare, chiudere il varco metaforico con cui il funzionamento indica e trae a un altro senso, perché è impossibile chiudere questo varco, che esige la traduzione, l’interpretazione, il controsenso, introducendo all’equivoco e a un altro equivoco, dove le cose non sono più, ma divengono, si qualificano.
Questo è inaccettabile per chi si costituisce personaggio della padronanza, come soggetto della padronanza, come soggetto del sapere, come soggetto della stabilità, come soggetto della supponenza. Trova inaccettabile il cominciamento.
E allora, questo personaggio nega l’equivoco, nega la differenza, nega la variazione, nega il controsenso perché mette in questione la supponenza stessa del soggetto, mette in questione la propria visione del mondo, la propria accezione di questa o quella cosa, la propria significazione. Per questo personaggio, che è personaggio standard, soggetto della padronanza, soggetto standard, il debito e il credito non sono più teoremi, ma modalità. Cioè, non sono più teoremi che indicano il non dell’avere e il non dell’essere, ma si istituiscono come modalità, per cui c’è chi è in debito e chi è in credito, in relazione alla colpa dell’origine: essere in debito, essere in credito, vale a sancire la colpa attribuita all’origine.
Quando qualcosa comincia non è sempre chiaro cosa comincia, perché l’incominciamento procede dal disagio, quindi dall’ambiguità, dall’apertura, dal principio della parola, dall’anoressia, dall’assenza di sostanza. E al disagio il personaggio si oppone in nome della padronanza minata, messa in pericolo, cioè si contrappone in nome della stabilità, della normalità, del senso comune, del luogo comune, del sapere comune.
E allora non sa più che pesci prendere, come se si trattasse di prendere pesci… Qualcosa comincia con una traversia, qualcosa si pone di traverso alla routine, alla padronanza, all’abitudine, al normale andamento previsto. Questo è già l’indice del cominciamento: la traversia, l’indice di un nome che non può più essere negato e che quindi non può più mantenere la sua significazione, perché è entrato nella rimozione.
La significazione così cara al personaggio che nega la parola, è il colmo dell’anfibologia. Cos’è l’anfibologia? È la rappresentazione che una cosa può avere un andamento favorevole o sfavorevole, può essere positiva o negativa e occorre sperare che l’andamento sia positivo, perché potrebbe essere negativo. Questa è l’anfibologia, la doppia possibilità. Ogni superstizione procede dall’anfibologia.
E l’anfibologia può interessare ogni rappresentazione, la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’Altro, la rappresentazione del mondo, di ogni cosa, per cui con l’anfibologia ognuno si situa nell’infernale, nella palude, nello stagno. E quindi anfibologia del papà, anfibologia della mamma, anfibologia del fratello, anfibologia della sorella, anfibologia dei genitori, anfibologia degli altri che sono amici, ma che possono anche diventare nemici… La mamma può essere buona, ma può essere anche cattiva. E il papà può essere forte, può essere anche debole, può essere buono, può essere malvagio. E dio, come sarà dio? È benevolo o malevolo? E come può essere ognuno, fortunato o sfortunato? Abile o inabile? Come deve fare?
L’anfibologia indica già il fantasma di padronanza, indica già l’applicazione della dicotomia all’apertura della parola, al modo del due, quindi la temporalizzazione dell’apertura, in modo da potere ordinare le cose con il criterio della contrapposizione, dell’alternativa esclusiva, per provare a gestirla, per esercitare la padronanza, per sentirsi padrone della lingua, della propria vita, padrone del proprio destino. E già dire “proprio”, indica che il personaggio è già in azione, è già schierato. Già dire “proprio” indica la localizzazione, e quindi la dicotomia del due, il toglimento della relazione originaria, per instaurare il rapporto di sé a sé o di sé all’Altro; il rapporto tra la significazione positiva e negativa di questa o quella cosa, di questa o quell’idea, il rapporto di significazione tra i termini dell’apertura che non c’è più, perché è stata chiusa, in quanto è sorta l’alternativa: paura e coraggio, fare o non fare, accettare o ribellarsi. Accettare o ribellarsi? Questa è la scelta del soggetto: accettare ciò che l’ente superiore impone o ribellarsi per essere padroni del destino?
La ribellione è il colmo dell’eroismo nello scontro, non già di civiltà, ma fra soggetti con le rappresentazioni del godimento, del desiderio, del piacere, attribuiti a sé o all’Altro. L’idea di esistenza è correlata a quella di rappresentazione: esiste ciò che è rappresentato, ciò che è situato fuori dalla parola, senza analisi, senza rimozione, senza transfert, senza qualificazione.
Quale dio può esistere? Un dio rappresentato, creato a propria immagine, nella presunta disponibilità della propria padronanza. Questo è il dio che può esistere. Non è Dio che crea a propria immagine, è l’uomo che crea Dio a propria padronanza. È il dio della religione, il dio in nome del quale poter agire, il dio agente, il dio quindi dell’antropomorfismo. Il dio che esiste è il dio antropomorfo, dalla forma umana, dalle caratteristiche umane, dalle sembianze umane, dalla mentalità umana, creato dalla credenza umana. Credenza che sta in alternativa alla parola.
Il dio che ha sede nella parola non fa, non agisce, non impedisce, non prescrive, non vieta, ma opera. Non è agente, opera, è fuori dalla possibile standardizzazione, dal possibile comportamento, dalla dicotomia tra comportamento umano e divino.
Nulla esiste, se non nella rappresentazione del mondo in quanto tale, dove le cose stanno ferme, immobili, nelle sfere. Ciascuna cosa comincia, avviene, diviene, accade, si qualifica. Non “esiste”. Non c’è cosa dimostrabile, spiegabile, giustificabile o confutabile. Ciascuna cosa entra nella struttura. Qui fa il suo viaggio, viaggio strutturale, che non è evitabile, nemmeno da chi chiede di sapere come fare, cosa dire, cosa fare, cosa pensare, come dire.
E, dunque, di cosa si tratta? Poste queste cose, di cosa si tratta nel film di Jaco Van Dormael, Dio esiste e vive a Bruxelles?
Si tratta della fiaba di Ea, figlia di dio, cioè di un papà ritenuto piuttosto trasandato, burbero, incestuoso, incapace di qualunque cosa, senza lo strumento da cui gli deriverebbe il suo potere e di una genitrice considerata una povera donna, incapace di ribellarsi alle angherie che subisce. Da chi? Dal marito. “Una donna che non dice mai una parola”. Questa è la rappresentazione che Ea ha della famiglia: papà è così, mamma è così. E poi c’è J.C., Jessie, il fratello Jessie, fratello che se n’è andato di casa, per evitare di scontrarsi con il papà. Quindi Ea vive in questa prigione, una casa come prigione senza porte, senza entrate, senza uscite, arrivata lì non si sa da dove. Una casa senza via di fuga. Una vera e propria prigione. Eppure un pertugio c’è. Una via di fuga c’è.
Com’è che Ea se n’è dimenticata? Non l’aveva considerata, eppure c’è. Quindi, dove Ea ritiene di essere prigioniera? Dove? Se da lì può immettersi nel mondo attraverso un cunicolo, uno stretto cunicolo, rappresentato dalla lavatrice.
Nascita, origine. Ea è un po’ confusa. Ma ha una certezza. Ea ritiene che la propria fine sia inevitabile e sia programmata dal padre. Il padre la vuole morta e quindi è suo nemico. Il fantasma di fine di Ea, fa sì che veda intorno a sé solo cose degradate. È tutto uno schifo. Uno schifo la casa, uno schifo la vita del papà, uno schifo la vita della mamma: tutto fa schifo. Da qui la collera e l’idea di vendetta. Vuole andarsene per fare una vita migliore, per essere migliore del papà, ma prima vuole fargli del male e poi andarsene per sempre.
Il padre è uno schifo, però è dio, padre come dio. Un certo mito forse c’è, però molto mitigato dall’idea di fine. Una certa idea di padre, una certa idea della madre, una certa idea di sé, un’idea certa della fine. E il papà ha un punto debole: non sa fare, e per fare usa il computer. Senza computer non sa fare niente. Non sa fare. Da questa negatività, da questa idea di fine, da questo schifo, sorge un’idea, l’idea di salvezza. Come salvare il mondo.
Occorre salvare il mondo. Occorre quindi trovare degli apostoli per salvare il mondo. Ea ritiene indispensabile fuggire di casa, per salvare il mondo, per cambiare il mondo e farlo diventare migliore. Fuggire di casa a fine di bene, dato che lì tutto è schifo. Anfibologia del bene e del male, anfibologia della casa, anfibologia del mondo, anfibologia del soggetto. Soggetto demonizzatore, soggetto salvatore. Quindi la fantasia di catarsi. Soggetto terrorista.
Ea ha una serie di rappresentazioni a partire dalla sua idea di origine, situata nella donna che non dice una parola, che non è in grado di fare niente, tantomeno di ribellarsi e che subisce, e le rappresentazioni vanno dal barbone alla ragazza bellissima, ma priva di sessualità, al viaggiatore, al voyeur, al killer, al bambino-bambina. E questa galleria di personaggi, attraversata, diventa il dispositivo della missione. La missione, l’apostolo. Il missionario, colui che va in missione. Gli apostoli, il dispositivo della missione, l’ultima cena, il dispositivo della missione, la squadra, il team. Squadra di hockey? Squadra di football? La squadra. Lo schema è quello della squadra per attuare il progetto e il programma, per attuare il miracolo che non è proprietà di dio, ma dell’apostolo, meglio ancora, del dispositivo.
Il dispositivo è il dispositivo del miracolo e i personaggi della galleria diventano gli indici della missione. Non c’è più barbone, non c’è più killer, ma la scrittura della qualificazione di questo fantasma materno dissipato. Ea compie la traversata della fiaba dell’origine fino alla saga della famiglia e della riuscita, senza più personaggio sottoposto a mortalità e il papà continua a lavorare come operaio. Come ha sempre fatto!
Bene, ci sono altre domande? Tutto chiaro?
S.R. Sì, una domanda. Non ho capito se c’era un nesso tra l’idea di degradazione che aveva Ea rispetto a tutto ciò che la circondava e l’idea che il papà la volesse morta.
R.C. Procede dall’idea di fine. Chiaro che l’idea di fine è attribuita a qualcuno, in ogni caso, malauguratamente. Non è solo un’idea casuale, ma è una fine voluta. E chi la vuole? “Tu, che mi vuoi male”. Il fantasma materno, l’idea di fine, l’idea di origine. Famiglia pervasa dal male, dalla negatività. “Ma il papà è così”, come viene dipinto? “È la mamma così”, come viene descritta? “È Jessie così”, come viene rappresentato? Ea trova che “non è così”. Era una fantasia, era una fiaba, ma la fiaba si dissipa nel viaggio, se interviene la parola, se le cose non sono più come erano pensate cioè tali, senza apertura, senza rimozione, senza funzionamento, senza gli indici del tempo, senza gli indici del funzionamento. Nel dispositivo della parola non c’è più l’inferno.
Vi vedo provati.
D.S. Quindi le scudisciate del padre sono immaginarie? Forse sì, forse no, chi lo sa. Certo che il cunicolo dal cestello della lavatrice porta alla lavanderia a gettoni e da lì in poi incomincia un’altra storia.
R.C. Lavatrice, levatrice. Comincia un’altra storia. La storia comincia con l’idea di fuggire. La storia, un’altra storia comincia con il cominciamento, con il racconto, con la narrazione, con la scrittura, con la missione in direzione della riuscita.
Terminiamo qui. Giovedì prossimo siamo a Ferrara, alla sala del Castello, in piazza del Castello, proprio nel centro della città dove c’è il Castello, e al centro del Castello c’è questa sala. Al centro della sala ci siamo noi.
Quindi, per chi è della partita l’appuntamento è lì. E il titolo è tutto un programma: L’amore e l’odio. La famiglia, il diritto, la sessualità. Chi pensa di sapere già tutto può stare a casa. Per chi invece è curioso e solleticato dalla curiosità della domanda, allora l’appuntamento è lì, alle 20.45 nella sala del Castello. Grazie e arrivederci.
L’amore e l’odio. La famiglia, il diritto, la sessualità
Ruggero Chinaglia Questa sera siamo qui per una scommessa intellettuale, la scommessa che quest’incontro divenga un dispositivo intellettuale in cui si tratti dell’amore e dell’odio, secondo la parola originaria, in un’accezione non molto nota e frequentata. Come notava Panthea Shafiei, intorno all’amore e all’odio esiste una produzione letteraria, artistica e pseudoscientifica ricchissima, che va in direzione del cosiddetto amore nella transitività e nella coniugabilità, dove si tratta dell’amante e dell’amato e quindi di una sorta di passaggio di qualcosa che faccia legame, che costituisca relazione, che costituisca sentimento. È qualcosa di convenzionale, che fa dire “So di cosa si tratta”, “È capitato anche a me”, che si cerca anche di quantificare, tant’è vero che la frase più frequente a proposito dell’amore è la richiesta: “Ma tu mi ami?”, “E quanto mi ami?”, “Mi ami quanto io amo te?”. E qui sorge la disputa se ci sia parità tra il presunto amante e la presunta amata (o viceversa).
L’accezione di amore e di odio che affrontiamo questa sera non procede da questa concezione, ma dalla parola. Quando dico dispositivo intellettuale, dico dispositivo di parola, dove non si tratta solamente di dire qualcosa, e dove ognuno possa dire la sua, meglio se in modo convenzionale, per capirsi facilmente, ma si tratta di parlare, capendo e intendendo quel che si dice; e parlare è l’inconscio.
La scommessa della parola non è capirsi, non è nemmeno comprendersi, ma è che sorga qualcosa di valore, un’istanza di valore, che sorga qualcosa di nuovo che produca ricchezza, produca valore, qualcosa per cui parlare non lasci indifferenti, ma produca magari anche qualche sconquasso, metta in questione, faccia nascere il dubbio, incrini le certezze. Se si produce qualcosa di questo, c’è parola. Se s’incrina una visione del mondo, lì c’è parola. Se, invece, nonostante il gran bla bla, ognuno resta della sua idea, tranquillo, certo della sua ragione, non si può proprio dire che lì ci sia parola, ma una visione del mondo, un’ideologia, una qualche certezza di sé, senza parola.
L’esperienza che sto compiendo da più di quarant’anni ormai, è l’esperienza di correre il rischio della parola. L’esperienza cifrematica, che è sorta nel 1973 e che procede sia per l’aspetto clinico-scientifico sia per l’aspetto culturale anche con il nome di secondo rinascimento, per la forza e gli sforzi di Armando Verdiglione e di altri, gioca la sua partita non per confermare le visioni del mondo, ma correndo il rischio di incrinarle e anche d’incrinare concezioni dottrinarie affermate, concezioni ideologiche consolidate, che sempre vanno nella direzione di un pensiero unico, di un pensiero comune, di un pensiero standardizzante.
Questa esperienza, con la sua pratica, ha prodotto uno iato tra chi mira a mantenere l’idea di mondo, la concezione disciplinare delle cose, l’idea di un sapere che possa essere trasmesso nella sua interezza senza incrinature, senza introdurre alcunché di nuovo. Ha prodotto uno iato, anche una reazione, sicuramente, una reazione a vari livelli, in vari gradi, in vari modi, ma il progetto della parola originaria va oltre le reazioni che incontra nel suo procedere, perché è sostenuto dalla tensione verso la qualità, la qualità delle cose, la qualità del vivere. La formula “qualità della vita” è diventata ormai uno slogan banalizzato, e sufficientemente recuperato nella concezione del comfort. Qui si tratta della qualità assoluta, del modo con cui ciascuno si trova nel gerundio della vita, cioè della qualità vivendo. La qualità vivendo è differente dagli slogan sulla qualità che facilmente si possono udire anche a livello aziendale, pubblicitario, psicologico e in altri contesti, in cui si tratterebbe di un benessere di facciata, cui non corrisponde, però, nessuna attività di ricerca e di impresa nella direzione della qualità, dove si tratterebbe anzi di accontentarsi di quella concezione termodinamica della vita per cui si tratta di fare qualcosa e poi, immediatamente dopo, riposarsi, fermarsi, ricaricarsi. Così, siamo fuori dalla parola, fuori dalla pulsione. In assenza della domanda, perché la questione della parola è anche la questione della domanda.
In che direzione ciascuno va? In una direzione ideale? Nella direzione di un non precisato traguardo, che per molti, poi, corrisponde alla tanto temuta morienza? È quello? Si va in quella direzione? No. La domanda va in direzione del compimento del progetto e del programma, ma occorre che il progetto e il programma s’instaurino, si precisino e si avviino e proseguano. Il proseguimento non è scontato, non è automatico, che vi sia proseguimento, vuol dire innanzitutto non accettare l’idea del cedimento.
Il cedimento. Può sembrare cosa difficile il cedimento, ma anche rimandare una cosa al giorno dopo, a un’ora dopo, rispetto all’occorrenza che la esige, è un cedimento. Rispetto all’esigenza di qualcosa che urge, pensare di non farcela, pensare di non essere all’altezza, pensare di non essere adeguati all’idea per cui il progetto sorge e comincia, è un cedimento. Pensare di dover fare ricorso a qualcosa che aiuti dall’esterno per avere la forza sufficiente per fare, è un cedimento. E non si tratta nemmeno di trascendere nell’euforia, perché anche l’euforia è un cedimento. Ma, è un cedimento ammesso dall’apparato sociale, perché avrebbe il suo rimedio. Come la disforia. E pure la nozione di depressione è un cedimento, è un cedimento ammesso dall’apparato, perché avrebbe il suo rimedio, rientra nell’economia del sistema.
Nella parola, questa economia del sistema non c’è, perché non c’è sistema. Vivere l’esperienza della parola è qualcosa di particolare. Difficile da capire, senza viverla, perché vuol dire non accettare il compromesso fantasmatico con se stessi e con le rappresentazioni che ognuno ha dell’Altro, delle cose, della facilità, delle difficoltà e quant’altro, e con la misurazione che ognuno fa di sé rispetto al possibile o al probabile. E non accettare le concessioni che ognuno si fa e fa anche a chi si trova accanto a sé.
Nella parola c’è la solitudine radicale, per cui nessuno può concedersi o concedere nulla. Chi può concedere qualcosa a qualcuno? Chi ha quest’idea crede di formare una sorta di coppia in cui c’è chi sta sopra e chi sta sotto. Chi ha potere e chi no. Queste alternative del sopra e del sotto, del dentro e del fuori, del positivo e del negativo, nell’infinito non hanno lo stesso valore, la stessa portata che nel sistema, e nella parola si tratta dell’infinito. E non c’è più la necessità di pensare che qualcosa finisca.
Che c’entra questo, direte voi, con l’amore e con l’odio? C’entra, perché, come notava nel suo intervento introduttivo Panthea Shafiei, la comune accezione di amore è regolata sulla sua fine.
“Ci ameremo sempre!”. È uno scongiuro. Cosa vuole dire “Ci ameremo sempre”? Sempre quanto? “Per sempre”. Cioè, fino alla morte? Ma chi morirà prima? E quando? E già l’idea della fine si è introdotta. E questa è un’idea che, ritenendo l’amore un sentimento, non può essere tolta. Un sentimento, uno stato dell’animo. Ma dell’animo di chi? Dell’animo umano. La caratteristica precipua dell’uomo è di avere una certezza, quella di morire. Allora, quanto più l’amore è introdotto in un ambito umano, tanto più sarà modulato e sostenuto da ciò che è ritenuto umano e, in prima istanza, dall’idea di fine.
Il gerundio della vita, il gerundio della ricerca, il gerundio dell’impresa, il gerundio della scrittura, il gerundio dell’amore, come potrebbe instaurarsi, con l’idea di fine? Proviamo a pensare al gerundio: amando, vivendo, facendo, parlando. Il gerundio non trae all’ipotesi di finire. Gli altri tempi e modi possono anche presumere che ci sia una fine, ma il gerundio – facendo, vivendo, parlando – è senza fine, senza fantasma di fine. L’amore originario e, accanto, l’odio originario si instaurano senza il fantasma di fine, che è fantasma di padronanza.
L’idea di fine, può sembrare una cosa terribile, orribile, negativa e può produrre contraccolpi non da poco: i cosiddetti attacchi di panico, altro non sono che un’accentuazione dell’idea di fine, della negazione di un’ipotesi di avvenire, una negazione del gerundio dell’amore e del gerundio dell’odio. Ma è l’idea di fine, che regge la credenza di poter padroneggiare le cose, proprio perché “tanto, a un certo punto, finiscono…”.
Senza l’idea di fine, come pensare di poter gestire e padroneggiare qualcosa che è nel proseguimento? È ben più arduo, più impegnativo, eppure tutto il miraggio della civiltà dal suo sorgere a oggi è improntato su questo: sulla padronanza, sulla possibilità di gestire, padroneggiare, possedere, controllare quel che accade. Potere prevederlo, potere calcolarlo, potere gestirlo per dire “Sì, sono io il padrone”. La parola esige che sia dissipato questo fantasma di padronanza che regola i rapporti sociali e che mantiene questa concezione dell’amore come sentimento tra Tizia e Caio, che dev’essere “per sempre” come promessa e talvolta come scommessa, ma ben sapendo che è vano promettere ciò che non è possibile sapere né prevedere come accadrà e in che termini.
Oggi l’amore è definito un sentimento. Ritengo che, tra breve, nella manualistica psicologica, sociologica e disciplinare di ogni tipo, diventerà un’emozione. Mentre il sentimento sarebbe uno stato dell’animo tra la coscienza, la capacità e la facoltà di sentire, l’emozione è considerata il prodotto di un impulso, di uno stimolo, di un’azione che viene dall’esterno e che suscita, come reazione, quell’emozione. Non so se qui ci sono insegnanti, medici, psicologi o quant’altro, ma sia nell’ambito della scuola sia in altri ambiti, l’importanza che oggi viene ascritta alle emozioni è in forte aumento. Per esempio, nel settore dell’impresa, nelle aziende, oggi è proposta come grande invenzione l’intelligenza emotiva, come forma di padronanza e di controllo delle emozioni, che sfocerebbe nel comportamento consapevole, in grado di consentire l’autoefficacia.
Di cosa si tratta? Sembra una bella cosa. Una nuova intelligenza, l’intelligenza emotiva. Ma quella che sembra una novità, altro non è che la riedizione del vecchio organicismo millenario, per cui ogni cosa deve avere la sua sede in un organo. Questa intelligenza emotiva, con tutte le sue emozioni che oggi vengono ascritte e localizzate nell’encefalo, altro non è che la riedizione della medicina aristotelica greca e di quella cinese, in cui in ogni organo c’è la sede di un’emozione, con i suoi umori. Una concezione umorale.
Oggi, buona parte di ciò che passa come neuroscienze ha come programma l’innalzamento dell’importanza dell’emotività, con la relativa abolizione dell’importanza del ragionamento. Si tratta di emozioni! Tutto si basa sulle emozioni! “Che colpa ne ho io se faccio così, se mi comporto così! È per l’emozione!”. Ognuno ha le sue emozioni. Incontrollabili. Lo schema è questo: c’è uno stimolo e una risposta; il tutto è mediato dalla chimica. Che bello! Questa à la novità scientifica. Occorre ragionare bene, quando si sente proporre questa “novità della scienza”, perché non si tratta di scienza, si tratta di ideologia. È quell’ideologia che propone la padronanza, il controllo, la gestione di sé e dell’Altro, affidata alla sostanza.
“Mettete pure il cervello in cantina, perché basta l’encefalo, con la sua chimica”.
Quante volte avrete sentito dire che anche nell’amore, in fin dei conti, si tratta di chimica: la chimica della personalità; nella sessualità, si tratta della chimica: la chimica dei corpi. Chimica ormonale, chimica dei mediatori, chimica della sostanza. E questo si chiama animalità, l’amore animale. Questa è la chance della civiltà che si annuncia con le neuroscienze. L’apoteosi delle emozioni, l’amore emotivo, ossia azione e reazione, meglio se chimica, botta e risposta. Non c’entra il calcolo, il progetto, la comunicazione, il dispositivo che occorre s’instauri in vista del progetto dell’avvenire. No, si tratta della chimica, si tratta del sentimento chimico, si tratta dell’emozione chimica. E questo comporta sempre che ci siano due persone, due entità, due modi, il positivo e il negativo e la durata. L’amore comincia, quanto potrà durare? È già finito. L’amore che è sottoposto all’idea di durata è già finito, perché l’idea di durata è idea di fine: così è pensato il tempo.
Il tempo non è pensabile, non è immaginabile se non con questo escamotage della durata: la durata è la rappresentazione della fine. “Quanto dura?” vuole dire “quando finisce?”. E della cosa si potrebbe anche parlare a lungo, e potrebbe anche fare ridere, se questa fantasmatica non comportasse una quantità rilevante di limitazioni. Per esempio, l’insonnia, l’attacco di panico, l’astensionismo dal fare, l’abbandono scolastico, l’abbandono degli studi, il fermarsi proprio un esame prima della laurea… eccetera. Non sono cose genetiche. Oggi si dice: “Tutto è scritto nel codice genetico”. Ma quale codice genetico! Per quanto si possano mappare i cromosomi, i geni, i trasmettitori, le particelle, è inimmaginabile la loro combinatoria e quella delle cose che si dicono, che si fanno e accadono, è incalcolabile, non ripetibile.
Nulla può essere previsto, nel momento in cui sorge una combinatoria di parole, di progetti, di istanze che sono imprevedibili. Può suscitare sgomento l’idea che, allora siamo veramente esposti all’imprevedibile, nel mare aperto. Ma, è una chance, a condizione di avere la bussola, di non essere senza la bussola. La bussola della vita, come riprende il titolo del numero appena stampato di questa bellissima rivista “La città del secondo rinascimento” che viene edita a Bologna, dall’Associazione Progetto Emilia-Romagna, in collaborazione con Spirali, veramente interessante e che consiglio a ciascuno di leggere.
Non c’è da avere paura, la paura è solamente a partire da qualcosa che si presume di sapere e che risulta preso in un’anfibologia, cioè in una doppia possibilità: la possibilità positiva e la possibilità negativa. Allora, la possibilità negativa è temuta. Così, quando qualcuno pensa di “avere l’amore”, vivrà nell’angoscia di perderlo. E quando pensa di “possedere” l’amata o l’amato, avrà giorno per giorno il rovello della perdita dell’amato bene. Questo è fantasma di padronanza, fantasma di possesso, fantasma di controllo. Tutto ciò è sentimentale. Il vero sentimento è la paura.
La paura è il vero sentimento per gli umani.
Se invece parliamo dall’istanza di soddisfazione, cioè dell’esigenza costitutiva della pulsione che è l’istanza di soddisfazione, l’amore è questa istanza, quanto alla ricerca e alla scrittura della ricerca. Quindi, nella formulazione di un progetto è impossibile che non ci sia l’amore, altrimenti il progetto stesso non si formula. Amore che è istanza di soddisfazione e che esige che questa istanza si scriva. E anche l’amore si scrive, nel proseguimento, nella ricerca. Freud aveva formulato la proposta dell’amore da transfert. Chi ha letto qualcosa di Freud avrà trovato questa formula “amore da transfert”. Anche Freud, in qualche modo, scriveva in etrusco, per la sua epoca, e non veniva letto, non veniva capito, perché chi lo leggeva, convertiva immediatamente quello che trovava scritto nella cosa più vicina a sé. E anche oggi, avviene così. Quando un testo è difficile, si fa un adeguamento. È sempre stato così. Gli amanuensi, quando si trovavano a copiare gli scritti di qualche filosofo, poeta o scrittore, e trovavano una formulazione che non era proprio in linea con il codice, con l’ideologia, con il canone del convento o della scuola in cui si svolgeva la copiatura, correggevano nella formula più facile da capire. Chissà quante cose interessanti sono state perdute attraverso questo processo che pure ha consentito di leggere molte opere dell’antichità.
E ancora oggi, avviene così. La formula “amore da transfert” che Freud ha coniato più di cento anni fa è stata intesa come l’amore che chi si trova nell’esperienza analitica riserva, prova, riversa sull’analista. Cioè, è stata tradotta in erotismo. L’amore da transfert sarebbe la relazione tra lo psicanalista e chi fa l’analisi: una rappresentazione della coppietta. Un modo di riprodurre la coppia papà e mamma, marito e moglie, medico e paziente, maestro e allievo, che diventa psicanalista e analizzante. E cosa li lega? L’amore da transfert. Beh! Avvilente, se non capissimo che questa è la via facile per rappresentare il legame sociale, la relazione sociale. Avete idea di che cos’è una relazione sociale? Allora, dovete aprire il giornale e andare alla ricerca della rubrica “relazioni sociali”. La trovate su tutti i giornali. Quali sono? Andate a vedere quali sono le relazioni sociali, che ogni giornale vi presenta e di cui vi dà ragguaglio. Sono le relazioni presunte, sostenute dal segreto di mamma. Il segreto della sessualità come segreto di mamma, da chi è detenuto oggi, come allora? Nelle fantasia degli umani è detenuto dalle prostitute. Nella rubrica delle relazioni sociali, questo trovate. L’elenco di chi detiene il segreto di mamma delle relazioni sociali.
L’amore da transfert nulla ha a che vedere con la relazione sociale. È l’amore che si situa nella parola. E la prima struttura, parlando, è quella della metafora. Provando a descrivere una cosa, una persona, qualcosa che vi interessa, che entra nella qualificazione, la prima struttura è metaforica. È la formula del “come se”. Parlando freudianamente, la rappresentazione di cosa non si sovrappone a quella di parola, per cui c’è uno scarto, lo scarto del “come se” e in questo scarto sta l’amore strutturale, l’amore della ricerca, l’amore che non si chiude mai, che non finisce mai, l’amore da transfert. È questo l’amore costitutivo, l’amore della ricerca. E anche in quella che può sembrare transitività tra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo, in ciò che si annuncia transitivamente, si tratta dell’amore che si trova nella struttura della parola, perché senza parola non c’è amore. Al massimo potete trovare qualche elemento erotico, l’erotismo.
In italiano la parola amare indica ciò che i latini traducevano con diligere, che indica la scelta, indica l’elezione, indica il processo per cui qualcosa esige di venire valorizzato. Qui sta l’amore. ҅Erᾶw, in greco, indica l’erotismo, eros indica l’erotismo, l’amore è un’altra cosa, eppure, nel luogo comune, nella mentalità, nella facile traduzione, gli umani si rappresentano l’erotismo come meta, e ogni erotismo è buono per un cedimento, e trascurano l’amore, che è l’istanza di soddisfazione.
Qual è la differenza tra l’amore e l’erotismo? Che l’amore è senza fine, l’erotismo esige di finire. È pensato dare soddisfazione finendo: questo è l’erotismo! L’atto erotico ha importanza per la sua fine. Lì viene situato il piacere presunto, conosciuto che deve ripetersi in ogni atto, per l’appunto erotico. L’amore, invece, è irrappresentabile, è istanza: istanza di soddisfazione della ricerca.
Accanto all’amore, ma nell’intervallo, sta l’odio. Accanto, non in antitesi. La vulgata che cosa fa? La vulgata, che come ogni vulgata è bifida, cioè, presenta le cose con un corno positivo e un corno negativo, un’ipotesi positiva e un’ipotesi negativa, mette l’amore da una parte e come sua rappresentazione antitetica, pone l’odio. Li converte in sentimento amoroso e sentimento odioso. Ma, questo non è l’odio. Si può chiamare rancore, rivendicazione, vendetta, ma non è l’odio.
L’odio non è il contrario dell’amore, non è la sua antitesi. Anche l’odio è istanza di soddisfazione, ma in un altro registro, ossia nel registro pragmatico, non più nella ricerca, ma nel fare. L’odio è quell’istanza che impedisce il rimando, impedisce di procrastinare le cose, impedisce di cedere, impedisce l’invischiamento. Diceva prima Panthea Safiei, che la proprietà dell’odio è il lasciare, e senza invischiamento, senza adesività. Impossibile mantenere la presa sull’odio, perché l’istanza di soddisfazione è pragmatica.
L’etimo di odio è incerto ma c’è un termine greco wqὲw, che lo richiama e indica l’incalzare. Le cose incalzano. Questo incalzare delle cose verso la conclusione è l’odio, come proprietà del tempo. Non proprietà di qualcuno di odiare un altro, questa è psicologia e la lasciamo alle discipline zoologiche, cioè umane. No, l’odio non è attributo umano, non è una proprietà animale, è una proprietà del tempo. L’odio, nel dispositivo della parola, è ciò che impedisce il rimando, l’accantonamento, il cedimento, perché è instaurato dall’occorrenza.
Cosa accade, per esempio, quando l’odio è assunto come attributo umano? Se quest’estate, in spiaggia o anche in città, provate a osservare le gambe e le braccia di ragazze e ragazzi, in alcuni casi, sono sempre più numerosi, potrete vedere delle cicatrici. Queste cicatrici, sono il segno dell’assunzione dell’odio: l’assunzione dell’odio comporta l’autolesionismo, tagliandosi. È l’idea di poter tagliare il tempo, di contenere l’istanza di soddisfazione pragmatica. Per fronteggiarla è attuato questo espediente: tagliarsi, tagliare la pelle, tagliare la carne, tagliare il corpo, tagliare il taglio, tagliare per espellere l’odio. È l’idea che agisce.
Come per i cosiddetti disturbi alimentari, l’autolesionismo è modo del cannibalismo, il cannibalismo bianco che assume l’amore, che assume l’odio come rappresentazione delle relazioni umane. Ma, la relazione non è umana, la relazione sta nella parola e si tratta di correre il rischio della parola, per quanto d’imprevisto, imprevedibile e non assumibile comporta.
Pubblico Emozioni e sentimenti, ideologia della padronanza. Cartone animato intitolato Inside Out. Ci propinano un’ideologia e dobbiamo essere conformi ai parametri di questa ideologia. Idea di gestione dei problemi.
R.C. È il rischio di non mettersi a seguire i programmi televisivi. Se ci mettiamo “davanti alla televisione” ci sentiremo belli tranquilli, perché sentiremo i nostri pensieri ribaditi, riprodotti, perché quello è il compito della televisione, così come dei social media, o social network: poter ribadire il luogo comune, con buona pace di tutti. E se avete fatto caso, se qualcuno si azzarda in un talkshow a esprimere un elemento di dissidenza, viene subito zittito, con la giustificazione che i telespettatori non capirebbero: è troppo difficile. I telespettatori sono ritenuti tutti imbecilli.
Questo è il compito del sapere distribuito, un compito che è stato assunto dall’apparato del consenso e che, come tale, deve poter contare su una base sempre più estesa, per mantenersi e per giustificarsi, ma purtroppo, è stato imitato anche da altri apparati, come la scuola, l’università, la politica.
A scuola, se un bambino, un ragazzo mostra qualche elemento di dissidenza viene mandato dallo psicologo, perché disturba. E allora sorgono le etichettature: disturbo dell’apprendimento, disturbo dell’attenzione, disturbo da iperattività, disturbi dell’età evolutiva… C’è chi si occupa di capire qual è la domanda che sta in questo apparente disturbo della quiete, perché, evidentemente, il bambino chiede qualcosa in una lingua che non è la lingua facile, perché quello che chiede, non lo sa. C’è un disagio che esige si precisi qual è l’istanza, ma non è che il disagio si possa descrivere e raccontare nella lingua comune. Né nella lingua della coscienza. La questione è inconscia.
Ciò che ancora non è passato culturalmente è la questione dell’inconscio, che non è un contenitore di misteri e di segreti, delle pulsioni abnormi, delle cose spregevoli, come molti credono. L’inconscio è logica, è la logica delle cose e della parola. Logica che non si converte nel sapere comune, non si converte mai in una psicologia, perché è logica particolare.
Ogni disciplina mira a cogliere la media delle cose, il comportamento medio, le esigenze medie, la domanda media, il disagio medio. La media, in modo da poter fare un’etichettatura media. Ciascuno, invece, ha un’istanza particolare e non può trovare soddisfazione nell’inserimento in una media. La domanda è domanda particolare, è domanda di qualità, è domanda di soddisfazione, ma il soddisfacimento non è standard.
La questione culturale, intellettuale è questa, ma è lontana dall’orientamento dell’epoca, perché è antieconomica. Così, per la salute, ciascuno deve trovare la soddisfazione di queste istanze, perché la salute è proprio questo, mentre oggi si parla di sanità pubblica, di salute pubblica, cioè della media; la media dei morti, la media dei casi, la media, lo standard.
La parola è fuori standard, è senza standard, perché punta alla qualificazione di ciascuna cosa. Questa è la scommessa per cui comincia e prosegue un’esperienza di analisi, e in ciascun appuntamento si tratta di questa scommessa. Ciascuna volta, non sempre. Ciascuna volta, nel gerundio, senza idea di fine. Sembra che la dissipazione dell’idea di fine sia molto temuta oggi, perché spalanca un altro panorama.
Anziché vivere nella paura, è molto più interessante vivere senza paura, cioè vivere. La paura non è necessaria, però, considerandosi mortali, è chiaro che la paura interviene. Occorre osare non tanto di meritarsi l’immortalità, che è sempre un modo di ricordarsi la fine e la finibilità, ma osare nel gerundio, osare di vivere nel gerundio, seguendo l’istanza di soddisfazione sia per quanto attiene l’amore sia per quanto attiene l’odio.
Non è una questione di volontà, ma di scommessa.
Pubblico Lei sta dicendo che non bisogna aver paura per poter vivere?
R.C. Sì.
Pubblico Però, la paura, a volte, ci può rendere un attimino più responsabili. Rispetto a alcune situazioni, non sempre la paura può essere una cosa negativa. Nel senso di portarmi a riflettere. Se ti blocca totalmente, allora non riesci a vivere, ma a volte stimola la riflessione e ti può far valutare con più calma la situazione attorno a te. La paura ti può far vedere i rischi.
R.C. Quando interviene la ragione e il diritto dell’Altro. Perché accada quello che lei dice, che è molto interessante, occorre non trovarsi nel sistema binario, cioè nell’alternativa. Nell’amore e nell’odio intesi come alternativa, nel positivo e nel negativo intesi come alternativa, nel bene e nel male intesi come alternativa, nella possibilità e nell’impossibilità intesi come alternativa, nell’ipotesi di potere scegliere se fare o non fare. Dissipata l’eventualità dell’alternativa, dissipato il sistema binario, può intervenire la valutazione. Allora, non ci sarà paura, perché la valutazione è senza paura, proprio perché non ha la biforcazione, questa sorta di condanna a scegliere tra due ipotesi, tra due possibilità, una delle quali è sicuramente negativa ed esclude l’altra; e questo è terrorizzante. Se è dissipato il sistema binario, può accadere quello che dice lei, si tratta di valutare, di verificare, di costituire delle ipotesi e grazie alla prudenza, alla provvidenza, che non è divina ma è della parola, procedere. Questo è un bel passo: la dissipazione del sistema binario, introducendo il diritto e la ragione dell’Altro, cioè il tre. Così, non c’è più la scelta binaria, ma la logica del tre.
Non c’è alternativa con il tre, c’è molteplicità, c’è varietà, c’è differenza.
Pubblico Quanto il nostro patrimonio genetico, cromosomico influisce sulla gestione delle emozioni? C’è un’influenza?
R.C. Posta così la domanda… Quanto influisce? Sembra la questione del “Quanto mi ami?”.
Se c’è influenza… Per lei cosa cambia?
Pubblico Quando si parla, parlo della famiglia, quando guardo i miei figli, come gestiscono le emozioni in determinate situazioni, mi chiedo “C’è l’influenza?”.
R.C. Certamente, c’è influenza. Perché pone l’influenza sotto la giurisdizione del codice genetico? Non le pare che l’influenza del tre e l’influenza del tempo, cioè del modo in cui le cose accadono possa già costituire qualcosa di importante? Perché attribuire al codice genetico questa influenza? Influenza è un termine molto specifico.
Ha mai sentito parlare di mimetismo? E non si è mai chiesta in che modo può intervenire il mimetismo nel modo in cui i suoi figli affrontano qualcosa o testimoniano, a loro modo, di essere influenzati da qualcosa?
Pubblico Non ho mai avuto risposte.
R.C. Da chi dovrebbe averle? Da loro?
Pubblico No.
R.C. Il mimetismo non è volontario, né cosciente e tuttavia può intervenire come modo di situarsi in ciò che è rappresentato come famiglia. Se la famiglia è rappresentata come luogo dell’origine, con determinate caratteristiche, ognuno tende a situarsi in questo luogo, preferendo alcuni aspetti ad altri. E questo non avviene secondo il codice genetico, ma secondo un fantasma di appartenenza e di genealogia.
Questa è la questione famiglia che si tratta di affrontare in maniera radicale, perché si tratta di capire dove per ciascuno stanno le radici. Quali radici? Se le radici si rappresentano come origine e configurano la circolarità con il destino, allora sorge un guaio, perché il destino è vincolato alla rappresentazione dell’origine. E ci sarà chi si rappresenterà come vittima dell’origine e dimostrerà questo vittimismo con l’andamento della vita, fino a raggiungere il destino conforme a questa origine che viene rappresentata.
Bisogna leggere le fiabe per capire come incide l’idea di origine, da Hansel e Gretel, a Rosaspina, al Gatto con gli stivali, le fiabe più comuni. Sono per lo più fiabe dell’origine. Se ognuno vive nella fiaba dell’origine, è un vero guaio. Avete presente Il brutto anatroccolo? Vive nello stagno dove tutti ce l’hanno con lui, dove lo pigliano a sassate, a mazzate… nello stagno. Quello è il suo mondo, perché l’origine è quella, è nato da una covata di anatre e quella è la sua origine. È il brutto anatroccolo e vive in conformità allo stagno con tutte le negatività dello stagno e si fa vittima dello stagno. Poi, improvvisamente, non è più anatroccolo, è cigno. Ohibò! La fiaba dell’origine trova una dissipazione. Ma, non è mai stato anatroccolo! Non è mai stato brutto! Lo stagno non era così! Era un’idea, una rappresentazione.
C’è chi dice di essere nato disgraziato, da una famiglia disgraziata, da un padre rappresentato in un certo modo, da una madre rappresentata come matrigna, in uno schifo, e tutto è brutto e tutto è nero e tutto è negativo. Questa è la rappresentazione della negatività dell’origine che diventa negatività del destino. Se non interviene l’analisi, questa negatività rimane a gravare su tutta la cosiddetta vita, che vita, però, non diventa mai. E allora, un conto è la famiglia e un conto è l’idea di origine. Questo, però, meriterebbe un’altra conferenza per le implicazioni che la famiglia ha rispetto al progetto e al programma di ciascuno, cosa non affatto trascurabile.
La famiglia e l’altra famiglia
Ruggero Chinaglia Il dibattito questa sera prende spunto dal film di Gabriele Salvatores Il ragazzo invisibile, un film abbastanza recente, che ha poco più di un anno e che, nelle sale della grande distribuzione, è passato come un film per ragazzi. Effettivamente, si presta anche a questa formula, la quale è però riduttiva per la portata che questo film ha, facendone una lettura non fantasiosa, per i ragazzi, ma clinica.
Il film pone la questione dei ragazzi e della famiglia per ciascun ragazzo, come anche la questione di come ciascuno “si pensa”, pensa i genitori, pensa gli amici, pensa a sé. Pensare, pensarsi. Questo non investe solo i ragazzi e le ragazze, ma investe ciascuno; non solamente finché è giovane, ma anche nell’età adulta.
Se non avviene l’attraversamento di quelle che ognuno ritiene le proprie idee, certamente ognuno si trova in qualche impiccio, imbarazzo, rallentamento, invischiamento. Al proposito, il film di questa sera si combina in maniera opportuna con Dio esiste e vive a Bruxelles, un film che pone la questione dell’idea originaria, dell’operazione.
L’idea che ognuno pensa e sa di avere, non è l’idea originaria, ma è il proprio pregiudizio sulle varie cose, a partire da una rappresentazione, a partire da una propria collocazione in un sistema. E, posta l’idea di un sistema in cui situarsi, ecco che c’è bisogno di un creatore e di un distruttore del sistema, perché la nozione di sistema e l’idea di sistema esigono sia chi lo crea, sia chi lo può distruggere. E a questo proposito c’è bisogno di giustificare ogni azione per stabilire se va nella direzione della creazione o della distruzione del sistema, sempre restando però nel sistema.
È la nozione di sistema che occorre dissipare e analizzare, perché è limitante, perché l’idea di sistema trae con sé l’idea della fine possibile del sistema, l’idea della fine. L’idea di origine e l’idea di fine che si collegano.
Tutto ciò non è estraneo alla questione della famiglia, alla nozione di famiglia, all’idea di famiglia e al mito della famiglia. Come si pone, per ciascuno, la famiglia? Come idea d’origine o come mito? E l’idea del padre e della madre come si combinano? In che direzione vanno? Per ciascuno si pone, innanzi tutto, l’esigenza di analizzare la fiaba della famiglia e trovare i mezzi e i modi perché la fiaba non resti tale, ma giunga a trasporsi nel mito, in direzione della costruzione e della riuscita.
Analizzando e leggendo il testo delle fiabe, possiamo costatare che, finché la fiaba resta fiabesca, la riuscita non c’è. La maggior parte delle fiabe si conclude non con la riuscita, ma con il lieto fine, cioè con l’idea che a un certo punto c’è la fine, per quanto lieta. Occorre che, a partire dalla fiaba, ciascuno trovi i termini, i mezzi e i modi per la riuscita.
Adesso leggiamo questo film e poi cominciamo a dibattere intorno a quello che è il titolo di questa sera: La famiglia e l’altra famiglia.
R.C. La storia è quella di un ragazzino, che si chiama Michele Silenzi.
Maria Antonietta Viero Quello che sballa un po’ il conto, per così dire, sono i due bambini alla fine, che anziché uno, sono due.
R.C. Come sballa?
M.A.V. Eh sì.
R.C. Intanto ragioniamo. Non saltiamo subito a conclusioni avventate. È la storia della vicenda di Michele Silenzi. Cosa fa Michele Silenzi? Dove vive? Come vive?
Sabrina Resoli La prima frase che dice è: “Tu non mi hai visto”.
R.C. Sì, il ragazzo è invisibile.
M.A.V. Vive in una famiglia in assenza di padre.
S.R. E la mamma lo chiama “il mostro”.
R.C. Dunque, “in assenza di padre”. È facile dire in assenza di padre! La fiaba vuole che il papà sia morto. Papà poliziotto, mamma poliziotta; il papà è morto. È morto da eroe?
M.A.V. Sì.
R.C. Morto da eroe.
Daniela Sturaro Sì, così dice lui.
R.C. No, lo chiede. Non è che lo dica, lo chiede alla mamma.
D.S. Sì, lo dice la mamma.
R.C. La mamma non lo conferma neanche, non con grande entusiasmo. Però, per Michele il papà è morto da eroe, è nel mito dell’eroe. E che cosa cerca di diventare? Supereroe! Poi?
S.R. Pensa che quella non è la sua vera mamma.
R.C. No, non è proprio così.
S.R. Sì, la mamma sembra dire che lui è stato adottato.
R.C. La mamma lo dice.
S.R. Non è che lo dice proprio, però dice che lui, inconsciamente, pensa di essere stato adottato. Non dice che ha capito di essere stato adottato.
R.C. Che sappia di essere stato adottato?
S.R. Non è che lui sappia, inconsciamente?
R.C. Come si giunge a questo?
S.R. Si giunge a questo nel momento in cui lui crede di essere inizialmente un mostro, poi…
R.C. Come un mostro?
S.R. Perché lui dice di essere un mostro, quando diventa invisibile. La mamma lo chiamava mostro. Poi, però, questa mostruosità diventa un’altra cosa. È in quel frangente lì, quando lui ancora…
R.C. Ma, allora, cosa si narra qui? Cosa si dice, cosa accade?
D.S. Per me accade una crescita, cioè si cresce e si parte da un livello in cui lui è un bersaglio da parte dei bulli. Lui è un bersaglio e vuole acquisire il potere per dare una risposta a questi bulli. La madre, nella situazione, è molto maldestra: porta la merenda in classe. È una cosa imperdonabile di fronte ai compagni di classe, non poteva fare così. E allora, è da solo, che deve fare? La madre gli porta la merenda, ma è lui che deve fare, non la madre.
R.C. Ma cosa si narra? Qual è la trama narrativa?
M.A.V. La vicenda del padre. Nel senso, mi sembrava, che questo padre vivesse attraverso questi due ragazzi che fanno di questo ragazzino un bersaglio, perché in ogni caso c’è padre, seppur in carcere il primo e l’altro che vuole che il figlio sia un campione tennista. Mi pare che la vicenda giochi molto su questa figura del padre. Però, in assenza di autorità c’è autoritarismo, c’è una rappresentazione di violenza.
R.C. Quindi?
S.R. Il bambino pensa che quella in cui vive non sia la sua famiglia e che, invece, la sua vera famiglia sia un’altra, i suoi veri genitori siano altri, siano dei supereroi. Ecco, questo. C’è la fantasia di non essere figlio di quei genitori, di un papà morto e di una mamma qualsiasi. E, rispetto a questa cosa strana che gli accade, lui avverte, costruisce questa fantasia, che questa cosa strana sia perché…
R.C. Ha ragione, gli accade questa cosa strana. Ha ragione di dubitare che papà e mamma non siano i veri genitori. Se gli accade questo, ha ragione di dubitare.
S.R. Cerca di ispirasi al suo amore, cerca di capire come mai.
M.A.V. O forse, per sopperire all’assenza del papà, c’è la costruzione di un super papà.
R.C. Adesso brancoliamo nel buio, sentiamo Vanni.
Vanni Francescato Io credo che il punto focale sia che questo ragazzo, ascoltando i bulletti, ha risolto il problema senza superpoteri. Venendo a conoscenza delle difficoltà che anche questi due ragazzi devono affrontare, è riuscito a ottenere rispetto senza i superpoteri.
R.C. Ecco, questo intanto è un punto.
V.F. E anche è riuscito a avvicinarsi alla ragazza dei suoi desideri.
R.C. Ecco, perché c’è una ragazza di mezzo…
S.R. C’è una cosa. Questo adolescente, questo bambino – lungo lo svolgimento della vicenda – o è invisibile agli altri o, quando è visibile, è nudo, cioè è come lui s’immagina, si rappresenta rispetto agli altri.
R.C. Quando è invisibile è nudo.
S.R. E quando torna visibile però è nudo.
R.C. No, non ci siamo. Quando è invisibile è nudo perché se fosse vestito si vedrebbe che è invisibile, paradossalmente. Si spoglia in quanto invisibile! Non è che quando è invisibile è nudo. Si spoglia per non apparire, perché i vestiti non diventano invisibili. È nudo perché si spoglia.
S.R. Però più volte si trova nudo.
R.C. Sempre quando diventa invisibile si spoglia. Nel film appare nudo, perché se fosse vestito, come in certi casi è, si vedrebbe la sagoma del vestito e sarebbe evidente che è invisibile.
S.R. Sì, ma quando è nello spogliatoio delle bambine è nudo.
R.C. No, non è che appare e è nudo, era già nudo, in quanto si è intrufolato lì e per non essere visto deve essere nudo. Poi, con l’asciugamano diventa visibile la sagoma e ridiventa visibile, perché, nel film, l’emozione gli fa perdere l’invisibilità. Questo nel film. Nel racconto della fiaba accade questo. Non è che è nudo perché è invisibile, è invisibile perché è nudo. Perché nessuno si accorga che è invisibile, si spoglia. È chiaro, perché i vestiti renderebbero evidente che c’è una sagoma.
Roberto Tecchio La storia è molto semplice. È la seconda volta che vedo il film, che tra l’altro è un bel film, cioè a me è piaciuto. Però, sinteticamente, direi che è la storia di un ragazzo che è in una fase della vita abbastanza brutta, cioè non ha ancora trovato una sua forma, non sta bene nei suoi panni. Non sta bene a scuola, non sta bene con i suoi compagni, è trattato male. Ha una simpatia, ma non è capace di dirla. È timido, è tutto rannicchiato. Si vede nel film, è sempre chiuso, ha sempre il cappuccio in testa, scappa, è un ragazzo timido. A un certo punto vede realizzato quello che è forse il suo più grande desiderio, quello di sparire, cioè di rendersi invisibile agli altri, ma in realtà lui cerca anche di affermarsi, e infatti cosa fa? Quando diventa invisibile fa tutto ciò che non riesce a fare quando è visibile. Intanto si riprende delle rivincite sui compagni che sono così fastidiosi, sul ragazzo bocciato; corregge il compito che aveva fatto male, perché in matematica tanto bene non andava. E si prende la rivincita in modo un po’ cattivo, ma giustamente, con il ragazzo che sa giocare a tennis. Evidentemente lui molto sportivo non era. E poi c’è questa storia fantastica, per cui passa su un altro piano, perché alla fine è poco credibile la storia, ma è piacevole quella del supereroe che deve fare delle cose.
Intanto, deve avere delle origini completamente diverse, perché un supereroe non può essere figlio di un genitore qualunque, tantomeno di una madre sola e di un padre che non c’è. E quindi c’è questa storia carina perché va in Siberia, ci sono i russi e cose strane, genitori eccezionali. E lui non può essere che eccezionale! Poi c’è la parte finale dell’avventura. E qui mi pare che, alla fine, si realizzi in realtà, trovi soddisfazione. Sembra quasi che riesca a trovare la forza di dire: “Ma, insomma, così piccolo, così umile, così privo di valore non sono”, tanto che riesce a fare delle cose che, onestamente, non riuscirebbero a fare i più bravi poliziotti. Poi non parliamo dell’ultima parte dove c’è la capsula, cioè proprio fantastica, la cosa.
R.C. È un sommergibile.
R.T. Sì, da dove esce in quel modo. È il lieto fine, che non è un lieto fine, perché probabilmente ci sarà una puntata 2, speriamo anche. Voglio dire, la trovo una metafora di un ragazzo come penso siamo stati noi nella maggior parte – almeno io sarei stato così a quell’età – cioè, mi sarei voluto nascondere, ma in realtà fargli vedere…
Ecco, questo dal punto di vista narrativo, superficialmente, mi sembra. Non ho fatto caso a questi aspetti della mancanza del padre e della madre. Mi sembrano funzionali alla storia dell’eroe, cioè non poteva essere quella sua madre sennò non avrebbe avuto il potere. Non sono riuscito molto a leggere in chiave, non so come dire… Mi sembra più un espediente narrativo questo. Certo che, alla fine, questo ricuce anche il rapporto con la madre. Forse all’inizio ha avuto un momento, ma mi sembra una favola normale, quella di volersi distinguere in questa avventura di questo film, che trovo molto interessante. Potrebbe anche leggersi come la capacità di ogni ragazzo che vedesse il film… potrebbe avere una morale positiva, che anche se non riesce a sfondare, a essere più bravo a eccellere, ha comunque un valore.
R.C. Ecco, senza dovere ricavare una morale generale, attenendoci al caso narrato, cioè senza fare diventare il film una…
R.T. No, non è moralistico.
R.C. Sì, il pregio è questo: ha una tenuta logica come caso clinico, cioè come caso narrativo che esplora qualcosa di molto preciso, che poi si può chiaramente estendere come qualcosa che riguarda molti ragazzi, molti bambini, molti adolescenti rispetto alla propria idea di famiglia, alla propria idea di sé, alla propria idea degli altri. Però, qui, abbiamo proprio una vicenda che ha una tenuta che ci dice qualcosa di preciso sulle fantasticherie, sulle fantasie che ciascuno ha a suo modo, anche ignorando di averle, perché, per lo più, ciascuno ignora la fantasia che lo attraversa e per la quale fa certe cose.
L’idea originaria opera perché le cose si facciano. Non è che qualcosa si faccia automaticisticamente, ma perché c’è un’idea e quest’idea opera. Quale sia l’idea che opera, non è immediatamente conoscibile, cioè l’idea non è l’intenzione. L’idea che opera perché qualcosa avvenga non è l’intenzione che uno ha di fare qualcosa. Questo film lo indica con una certa precisione.
Un conto è l’intenzione, la coscienza dell’idea, la presunta coscienza dell’idea, e un altro conto è l’idea che opera. Questa è materia un po’ difficile, ma per capire come e perché accadono le cose è necessario capire questo: l’idea che opera non è quella di cui c’è coscienza, cioè quella che si sa di avere.
C’è chi dice: “Io so perché ho fatto quella cosa, so perché penso questo, so perché penso quello, so perché ho fatto quell’errore, so”. So! Sarebbe opportuno metterci davanti un non, e tenere presente che non so. Non so! E è proprio per questo che l’analisi consente di capire cose che si presume di sapere, ma che in realtà non si sanno. Sentiamo se c’è qualche altro elemento.
Patrizia Ercolani Mi domandavo se quest’idea di precisione ruota intorno alla figura dell’invisibilità.
R.C. Figura dell’invisibilità?
P.E. Sono due cose differenti. Nell’invisibilità ascolta e fa determinate cose, nel visibile invece pare un’altra cosa ancora.
R.C. Questa è una differenza raffinata, potremo esplorare anche questo aspetto, ma atteniamoci al semplice, alla vicenda narrata, perché c’è una vicenda e è narrata con precisione, con delicatezza, senza concessioni moralistiche. Il film, sotto questo profilo, non ha intenzioni didattiche, non è didascalico, non è a fine di bene. Narra una vicenda. Qual è la vicenda?
Barbara Sanavia Forse l’idea che operava precedentemente era di sentirsi debole.
R.C. Sì, questo sì.
B.S. Era incapace di affrontare quel che gli succedeva. Poi gli arriva questo potere che lui crede, in un primo momento, gli sia dato dal costume, cioè non era un suo potere. Ce l’aveva grazie al costume.
R.C. No, questa è la superstizione. Sarebbe la superstizione questa: che la capacità di fare qualcosa venga da qualcosa di esterno. Sarebbe già nella mitologia del soggetto debole che ha bisogno dell’aiutino, la giustificazione all’abuso, all’uso o all’abuso di qualcosa che consenta di fare ciò che non sarebbe in grado. Qui è sfatata questa cosa. Non viene dal costume!
B.S. Poi, appunto, scopre che era una dote che aveva ereditato da un’altra origine, la storia racconta questo, da un’origine che non sapeva di avere, per cui c’è sempre di mezzo un po’ l’origine. Inizialmente, l’origine che credeva di avere, in quanto i genitori erano poliziotti, supereroi. Egli voleva, sembrava che volesse ripercorrere… Comunque scopre che questo potere non gli veniva da fuori, ma ce l’aveva lui. E impara a padroneggiarlo per cui non si ritiene più debole, fragile. Prima aveva questa idea di sé.
R.C. Sì, certo. C’è l’attraversamento di un’ipotesi di essere, come dire, nel gergo sarebbe “un po’ sfigato”. Ma come avviene questo attraversamento? Lei dice attraverso i superpoteri?
B.S. Impara a usarli.
R.C. È una lettura realistica. Se leggiamo il film con realismo, allora Michele ha i superpoteri. Sarebbe la storia di quello che negli anni sessanta era Nembo Kid e che adesso si chiama Superman. Infatti c’è un’allusione. Dice: “Non capisco perché quando Superman si mette gli occhiali non lo riconoscono”, il famoso sdoppiamento Clark Kent – Superman. Avete letto questi fumetti? Sono noti, classici. Sentiamo, tu come ti chiami?
Anna Anna.
R.C. Anna, tu come hai visto la faccenda?
A. Considerando che l’argomento è la famiglia e l’altra famiglia, mi veniva in mente questo: lui ha già una famiglia, ha sua madre che non gli fa mancare niente. Lui è sempre triste, è oppresso dalla scuola, dai compagni. È semplicemente in una fase dove non si sente bene. Non è la famiglia in realtà il vero problema. E lui pensa che trovando in sé qualcosa di speciale, di originale, potrebbe piacere e, diciamo, mandare via le critiche. Potrebbe trovare qualcosa che lo facesse sembrare migliore. E pensa che la sua origine potrebbe cambiare le cose. Si rende conto che non conta avere dei superpoteri, avere una grande origine, ma che può semplicemente farsi vedere come una persona disponibile, una persona che ascolta e può capire i problemi degli altri e che potrebbe bastare solo quello.
R.C. E come si chiama la biondina? Stella? E come c’entra Stella nella faccenda? C’entra qualcosa?
A. Beh sì. Anche lei è frutto di un malessere. Lui pensa di non potere raggiungere Stella. Lui vorrebbe invece arrivare a quel punto lì. E, quindi, vede che non è importante come appari, ma come sei veramente, non serve cercare qualcosa che non sei.
R.C. Ecco, però qui stiamo andando oltre. Intanto, Stella c’entra qualcosa. Michele è interessato a Stella, molto interessato. La segue col telefonino, la filma, la guarda, controlla cosa ne dicono i compagni, cosa dice lei, è molto interessato. Però, Stella è molto riservata. Forse questo c’entra qualcosa.
A. Sennò non sarebbe citata nel film.
R.C. In questo film vediamo che c’è la mamma, il papà morto eroicamente, un altro padre che lo segue costantemente e veglia su di lui e un’altra madre. Quindi c’è un padre e un altro padre, una madre e un’altra madre, una famiglia e un’altra famiglia.
D.S. Secondo me lui cerca un’altra famiglia rispetto a quella reale, realistica che si trova intorno. Cerca e, avventurosamente, vuole raggiungere questa condizione di Speciale da Stella, visto l’interessamento.
R.C. Giampietro?
Giampietro Vezza Trovo che, come a un certo punto nel film Babadook, il sogno si spezza con la voce, Michele urla: “No, no!”, e il suo sogno termina lì, ritorna dalla famiglia che si è immaginato, alla famiglia con cui, in un certo modo, deve fare i conti. Mentre non voleva, ma nel suo sogno ne cercava un’altra.
R.C. Mi pare molto interessante questo, la voce con cui il vetro s’incrina, la scena si rompe.
Qui l’ora incalza e dobbiamo concludere, ma è chiaro che proseguiamo il dibattito anche giovedì. Però, intanto, diamo notizia di qual è la vicenda che, in qualche modo, è stata allusa. Dunque, Michele ama Stella, ma Stella è interessata più a altri, che sono più prestanti, più aitanti, quindi si considera invisibile agli occhi di Stella e trova il modo di trasformare questa carenza in un motivo d’interesse, attraverso l’altra famiglia.
La sua famiglia, la famiglia di origine, è ciò per cui lui è invisibile agli amici, agli insegnanti, ai coetanei, a Stella. Ma, perché? Perché lui, “in realtà”, non è figlio di Giovanna e di papà, lui è stato adottato! E se voi leggete Il romanzo famigliare dei nevrotici di Freud, potete costatare che è una delle fantasie più frequenti, in un bambino. Quando si sente escluso da qualcosa, quando non si sente al centro dell’attenzione, quando ha motivo di risentimento, di scontento, di rivendicazione nei confronti dei genitori, la prima idea qual è? Pensare: “Ma quello non è mio padre e quella non è mia madre, altrimenti mi vorrebbero bene, invece mi vogliono male. Io non sono figlio loro, sono stato adottato. In realtà, mio padre e mia madre sono la regina e il re in un altro paese importantissimo, da cui sono stato portato via”.
Dunque, Michele fantastica.
Non è che grazie al potere dell’invisibilità capisce o pensa che quella non è sua madre, ma è il contrario. In quanto nega la madre, in quanto ha motivo di rivendicazione verso la madre, allora pensa di essere stato adottato, allora costruisce l’ipotesi dei superpoteri: lui “in realtà” è un supereroe, come il papà morto.
E qui c’è la vicenda di questa fantasticheria per cui, con questi superpoteri, salva la vita di Stella e anche la vita di quei compagni che lo prendevano in giro, che erano stati a loro volta rapiti, come fu rapito lui per essere stato adottato. Questo film, se seguite la vicenda, è un capovolgimento dietro l’altro. È tutta una serie di rovesciamenti: padre morto, padre presente, padre che lo segue sempre e veglia su di lui. Andrej è il padre che è sempre vigile, è come l’angelo custode, che fa pendant con la mamma che sempre lo accudisce, mentre in realtà c’è l’altra madre che è a capo della Squadra Speciale, degli Speciali, perché lui in realtà è figlio di due Speciali, il padre e la madre che sono Speciali.
A partire, apparentemente, dall’idea che il papà e la mamma sono due persone da poco, risalta il mito sia del padre sia della madre, che sono due Speciali. Allora la vicenda è una fantasticheria. In questa fantasticheria si svolge l’idea di origine deprecabile, lui stesso è da poco, invisibile fino a divenire…
D.S. Un eroe.
R.C. No, non eroe, perché del suo eroismo non c’è più memoria perché è una fantasticheria. Questo è l’accorgimento molto interessante a livello filmico: non resta il ricordo della sua impresa memorabile perché è una fantasticheria, è un sogno. Michele sogna di essere un supereroe, di compiere un’impresa straordinaria, e l’impresa straordinaria qual è? Qual è la vera impresa straordinaria di Michele?
D.S. Di conquistare Stella.
R.C. No, di accompagnarla a casa! Di accogliere l’invito di fare la strada insieme, cosa che in realtà non era mai riuscito a formulare. Lui è interessatissimo a Stella, ma quando va a prenderla in palestra, quando la rapiscono, lui nel tragitto si ripete cosa dire per giustificarsi, per giustificare la sua presenza lì, per mitigare un atto audace e renderlo un atto banale. Quante volte c’è chi deve giustificare un atto per inscriverlo in una normalità presunta, perché altrimenti… Altrimenti! C’è sempre l’ipotesi negativa.
Giovedì prossimo esploreremo nei dettagli alcune cose, ma intanto questa è la vicenda narrata. È la vicenda di una fantasticheria di Michele che giunge, finalmente, a compiere l’impresa di lasciare che la sua domanda verso Stella – e la sua domanda verso altre cose, che evidentemente si nega per tutta una serie di idee che ha di sé – domanda non più contenuta, giunga a formularsi. Quindi, non ha poteri!
Giustamente Michele non ha superpoteri. Ha un disagio e ascoltando questo disagio e attraversandolo, giunge a capire e a accogliere la sua domanda, a lasciare che abbia corso. Quello che in moltissimi casi accade, per una serie di pregiudizi su di sé, sulla propria origine e anche sul proprio destino, è che la domanda viene contenuta, trattenuta, arginata e non giunge a compiersi.
Qui, in maniera molto delicata e semplice, è posta la questione della domanda e dell’itinerario, del viaggio che Michele compie, per lasciare che la domanda proceda. I superpoteri sono la fantasticheria che in un primo momento crede ci sia bisogno di avere, ma come questo si colleghi all’idea del padre, della madre, dell’origine, del destino e della famiglia lo vedremo meglio giovedì prossimo.
Intanto teniamo conto di questa struttura, di come talvolta si ponga l’esigenza di pensare a un’altra famiglia, perché la famiglia d’origine è pensata in maniera negativa. E qui sta la fiaba per ognuno: la fiaba dell’origine. Questa è una cosa semplice e al contempo complessa che si pone per ognuno.
D.S. Quando lui è invisibile riesce a avvicinare Stella e c’è uno scambio nel suo modo di essere invisibile, riesce a capire che Stella è sola, cioè non è solo che ha salvato Stella dai rapitori, è un procedere.
R.C. Esatto. Non ha salvato nessuno.
D.S. C’è un procedere.
R.C. Esatto. Michele non salva nessuno e questo è un dettaglio importante. L’idea di salvezza, certamente.
Bene, allora l’appuntamento è per giovedì prossimo. Grazie e arrivederci.
Il mito della famiglia
Ruggero Chinaglia Accade talvolta, per alcuni spesso, per altri quasi sempre, che, parlando, facendo, incontrando persone, svolgendo la propria attività, pensando alle cose dette e fatte intervenga un fastidio, un’irritazione, un’arrabbiatura come spesso viene definita, proponendo l’adiacenza a una zoologia fantastica, un disturbo, un attrito, una contrarietà, qualcosa che è ritenuto giustificare una reazione.
Questa reazione è per lo più considerata normale, naturale, umana e raramente ciò induce a analizzare il fantasma di padronanza, il fantasma di fine, il fantasma di possessione che sono correlati del fantasma di genealogia.
Fantasma materno, cioè l’idea materna che ognuno ha della padronanza, della necessità di dovere padroneggiare quello che avviene, di potere inscriverlo in una casistica e di giustificarlo in nome di un concetto morale e religioso. Per lo più, l’insorgenza di quello che è chiamato attrito, arrabbiatura, irritazione, contrarietà, disturbo e quant’altro, è attribuita a altri, all’Altro, alla sua condotta, al suo modo, oppure al destino, alla sfortuna, alla società, al mondo, nella loro imperfezione.
Per lo più ognuno spera che venga ristabilito l’ordine normale delle cose o ci sia chi lo ristabilisca, chi commini la giusta sanzione o punizione, per avere riparazione. E su questo schema può instaurarsi, concretizzarsi, stabilirsi, fissarsi ogni sorta di credenza.
Sull’idea materna dell’origine e del destino sorge la fiaba che ognuno si racconta, si rappresenta e racconta per giustificarsi, per giustificare la propria condotta, le proprie manchevolezze, le proprie defaillance, i propri deficit e, giustificandosi, confermarsi come soggetto, soggetto dell’origine, della sfortuna, del negativo. Soggetto.
Sta in questo giustificazionismo, in questo modo di mantenere la propria idea di sé e la propria soggettività, il modo dello spreco, lo spreco della vita.
Lo spreco della vita è il modo più diffuso di scherzare con la vita, cioè con la morte, pensando che ci sarà sempre modo di fare meglio, di avere ragione, di riscattarsi, senza porsi la questione del come e del perché accade quel che accade; con l’idea vittimistica che ciò che accade di sbagliato, di negativo sia per una volontà contraria di qualcuno, ente o persona che sia.
E ognuno si racconta e racconta la fiaba del personaggio che ritiene di essere per via della propria origine, per via della famiglia da cui è originato, per via delle caratteristiche negative che hanno inficiato, sin dall’origine, ogni buona intenzione.
Ma anche la fiaba materna, ossia la fiaba che racconta della propria idea materna dell’origine, della famiglia, di sé, è materia intellettuale, cioè materia della parola. E la fiaba è il primo racconto in cui si dispongono le cose per l’analisi. Non per essere ritenute tali o per essere purgate, cambiate, rovesciate: per l’analisi! A condizione di non considerare la fiaba con realismo, cioè di prenderla come reale, come se fosse la realtà dei fatti.
La fiaba non racconta i fatti, non è costituita dai fatti. La fiaba è costituita dal racconto, dalle cose che entrano nel racconto e si dispongono. E all’analisi si dispongono anche i personaggi della fiaba, che possono essere il padre, la madre, la famiglia, gli amici, gli altri, i parenti, i fratelli, le sorelle, i figli, i nonni; questi sono indici della parola, non sono personaggi reali; sono indici della parola e della sua logica particolare.
Il processo intellettuale in cui si situano la fiaba e il suo racconto esige di non respingere la fiaba come se si trattasse di un falso racconto. No! Il racconto è vero, ma non è reale.
Ciò che si racconta è vero, ma non è reale. E ciò che si racconta esige l’analisi per cogliere questo scarto tra il vero e il reale.
Questo scarto esige l’instaurazione del transfert, cioè della simbolizzazione metaforica in cui capire che ciò che si racconta è vero, ma non è reale. Qualcosa d’altro si produce raccontando. E ciò che si produce raccontando contribuisce al chiarimento, alla chiarezza, all’analisi che trae all’assoluzione. Non alla soluzione, ma all’assoluzione, ossia alla dissoluzione del fantasma materno.
Tutto ciò accade non per volontà, non per magia, non per buona intenzione, ma per via dell’analisi, dove si tratta di cogliere l’integrazione tra quel che si dice, quel che si racconta e la logica particolare della parola, che non è, come comunemente si ritiene, la logica che ognuno ha, per cui ognuno avrebbe la sua logica, no. Nessuno ha la sua logica. La logica è la particolarità della parola.
Chi credesse di avere la sua logica, già si crede pazzo. Ognuno ha la sua logica e fa quel che vuole. Chi risponde alla sua logica, fa il pazzo. Questa è la pazzia. Per ciascun caso si tratta di cogliere la particolarità, ma non è che ognuno ha la propria logica. È da individuare. Il pazzo crede di averla e quindi fa il pazzo, o l’altra faccia che è il normale.
Pazzo, normale: due modi di pensare di avere la propria logica e di potere agire di conseguenza. E questo comporta il mantenimento di ogni idea materna, di ogni idea di fine, di origine, di padronanza, senza metterle in questione, senza attraversarle, ma portando alla giustificazione.
Non c’è psicanalisi, non c’è cifrematica senza la logica della nominazione, che è la logica particolare della parola. E senza la nominazione, senza l’indagine che riguarda la nominazione, la particolarità di questa logica, tutto diventa psicologia, sociologia, discorso comune, fantasma materno, convenzione, superstizione, religione, morale.
Non c’è la particolarità, non c’è il caso di valore perché ogni cosa deve essere ricondotta al luogo comune, al caso comune rispettando l’appartenenza – dove ognuno la pensi e la situi – mantenendo le caratteristiche per cui quest’appartenenza trova giustificazione.
Sorge così il criterio dell’analogia, del caso generale e ognuno diventa il paradigma del comportamento che mantiene la sua appartenenza, la sua origine e si sforza di dimostrare la conformità alla sua origine. E non potrebbe essere altrimenti.
Per mantenere questa posizione, questo status, occorre negare la parola, negare la particolarità, non tenere conto di quel che si dice, puntando al proprio essere e al proprio avere. Ognuno dice: “Ma io sono così, so come sono, so quel che faccio, so perché lo faccio, sono padrone di me stesso”. E questa è la condanna alla soggettività, alla negazione della parola. Così, ognuno che abbia questa volontà di essere soggetto si situa nella dicotomia, nell’alternativa fra ciò che può essere, fra un’idea di bene e un’idea di male, fra un’idea di riuscita e un’idea di rovina, con tutte le variazioni che possono intervenire su questo tema.
Caratteristica comune è che, in questa concezione, si tratta sempre del vittimismo; ognuno si dà come vittima: vittima della sfortuna, del negativo, dell’Altro, dell’origine. Vittima. E non tiene conto del racconto, di ciò che interviene con il racconto, ma solamente dell’ontologia del personaggio, dell’origine del personaggio e del presunto destino del personaggio.
Tutto ciò è regolato dal principio di unità, e il principio di unità comporta la circolarità: inizio e fine, idea di padronanza, idea di possessione. Ciascuno si dà nella dissipazione di questa unità, dove possono emergere la varietà e la differenza. Invece, dove vige il principio di unità, vige il personaggio stabile. Anche il racconto è tolto, perché potrebbe incrinare il personaggio. Nessun personaggio regge totalmente al racconto, perché è impossibile contenerne e padroneggiarne gli effetti: l’intervento del transfert, della struttura, della memoria.
È impossibile padroneggiare tutto ma, abolendo il racconto, abolendo e togliendo l’analisi, questo diventa possibile e s’instaura il purismo. Già il vittimismo è un modo del purismo.
Ogni soggetto combatte una guerra santa che ha come fine la redenzione, ossia la purificazione. È il frutto di una negatività dell’origine e occorre compiere una purificazione, un’espiazione per giungere alla redenzione. Allora l’unità è ritrovata e il cerchio si chiude. Lì è possibile la salvezza.
Ognuno agogna la salvezza. Spera nella salute e agogna la salvezza. Ma salvezza e salute sono nozioni antagoniste. Per la salvezza occorre l’osservanza – che è il principio di unità, l’osservanza al fantasma di padronanza – invece per la salute importa l’istanza di qualità; non l’osservanza, ma l’istanza di qualità.
L’idea di salvezza comporta quella di redenzione. Ma da che cosa il soggetto deve redimersi? Da quale colpa?
Per questa nozione di redenzione vige l’idea di riscatto e di ricatto. Ognuno deve riscattarsi, deve redimersi, deve salvarsi. Ma, come fare per salvarsi? Da cosa salvarsi? Qual è la colpa che ognuno si attribuisce per intraprendere il processo di redenzione? Senza colpa non c’è la necessità di redimersi. La redenzione è la redenzione dei peccati.
E questa, che può sembrare una questione meramente religiosa, è invece ciò che regola ogni relazione sociale, ogni visione del mondo, ogni giustificazione. Perché c’è chi si giustifica? Da cosa si giustifica? Per confermare che cosa? Quale giustizia? Per riscattarsi da che cosa? Da quali ingiustizie? Per ricattare in nome di che cosa?
Colpa, punizione, redenzione, salvezza partecipano a una concezione algebrica della vita, dove tutto si somma e deve costituire un’equazione dove il resto sia zero. Il mantenimento di questa idea di equazione da cosa è dato? È dato dall’ontologia, dall’idea di essere e di dovere continuare a essere così. È una concezione gnostica della vita, dove non esiste la parola, dove non esiste il tempo, dove non intervengono differenza e variazione.
Ognuno è regolato dalla propria idea di essere. È il principio di sufficienza. Ognuno che vive in questa concezione vive secondo il principio di sufficienza, evitando ciò che può mettere in questione la propria idea di sé. Questo è il soggetto, il soggetto sufficiente, il soggetto normale, che si presume normale.
Presumersi normale è una condanna a morte. Vuole dire evitare l’arte, evitare la cultura, evitare l’invenzione, evitare la differenza, evitare l’imprevisto, la novità. Ma come si fa a evitare tutto questo? Vuol dire imbrigliarsi in un recinto, vivere nel recinto. I soggetti vivono nel recinto, comportandosi in modo conforme, conformandosi all’osservanza del loro principio di unità.
In questo mondo, da cui è tolta la parola, vige non tanto la qualificazione delle cose che intervengono, ma la classificazione. Ogni cosa è classificata e può ripetersi in quanto tale. Anzi, deve ripetersi per potere mantenere la classificazione. E vige il principio di patologizzazione.
Il “disturbo” è patologico, l’irritazione può diventare patologica, l’arrabbiatura è chiaramente un indice di patologia. E i disturbi aumentano sempre e la patologia si arricchisce, in questo modo, di voci sempre nuove.
Il soggetto difende la sua appartenenza, appartiene strettamente alla sua origine. Rivendica questa appartenenza. Si lamenta di questa appartenenza, ma la rivendica, evitando di indagare su quel che accade, perché quel che accade è ritenuto un segno dell’appartenenza. Deve essere un segno dell’appartenenza. Ognuno rivendica l’appartenenza al clan, all’insieme, alla classe, all’origine.
Quest’idea di appartenenza è il modo con cui viene negata la famiglia. Ognuno oscilla tra l’idea che ha della famiglia d’origine e l’idea che ha di una famiglia ideale cui avrebbe voluto appartenere, cui punta di appartenere se interviene il cambiamento, puntando al cambiamento. Ma, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, e mantenendo il realismo dell’origine, la credenza nell’origine, il principio di padronanza, il principio di unità, la credenza è mantenuta, l’appartenenza è mantenuta e ognuno si situa in un sistema genealogico, in un sistema di ruoli, in un sistema di vita, in un sistema di relazioni, in un sistema di riferimento.
Togliendo la parola, ognuno sta in un sistema, e stare in un sistema ha delle implicazioni ben precise. Il sistema inizia e finisce. È questa la caratteristica del sistema: ha un inizio e una fine. Quindi, conformandosi al sistema, ognuno si è conformato all’idea che c’è un inizio e una fine delle cose e attende la fine anche in modo, per così dire, non consapevole, ma inequivocabile. La logica del sistema prevede, prescrive che finisca. Ogni sistema finisce. È la legge della termodinamica che lo prescrive e non c’è sistema che non sia termodinamico.
La parola non è termodinamica, non segue i principi termodinamici. Non è che uno si rende conto di applicare alla propria vita le leggi della termodinamica, però lo fa. Vigendo il principio di fine, lo fa. L’idea di fine produce un adeguamento sistematico. Questo adeguamento sistematico lo possiamo chiamare fantasma materno, cioè il fantasma che ogni cosa finisca. L’idea di sistema nega la famiglia dove, invece, si tratta degli indici della parola: padre, madre, figlio, famiglia originaria. Non papà, mamma, nonni, nonne, famiglia naturale, ma la famiglia dove intervengono gli indici della parola, la famiglia come traccia, traccia della parola. Non come luogo, come traccia.
Può instaurarsi la famiglia come traccia credendo di vivere in un sistema di relazioni sociali? No. Occorre che s’instauri la logica della nominazione.
Cosa vuole dire logica della nominazione? Vuole dire la logica del due, dove si tratta dell’apertura, non dell’alternativa tra una cosa e l’altra, ma del due. Logica diadica. Alto-basso non costituiscono un’alternativa fra l’alto e il basso, ma costituiscono alto-basso, cioè apertura. Non l’esclusione di uno dei due termini, ma dove vigono entrambi: si tratta della contraddizione. Apertura, contraddizione. Cioè, la contraddizione non va scissa, tagliata, per stabilire quale termine sì e quale no. Contraddizione.
A partire dalla contraddizione si apre un altro panorama, dove, dal due e dal suo modo, procede la logica singolare triale, il tre. Quindi, logica del due e logica del tre. Questa è la parola.
La parola introduce la logica del due e la logica del tre, anziché la logica dell’alternativa esclusiva che è stata tramandata dalla filosofia greca. Logica che ammette la contraddizione senza dovere scegliere l’alternativa tra una cosa e l’altra. È anche la logica che ammette il tre, la simultaneità del tre. Un esempio? L’Altro.
La funzione di Altro non si riesce a immaginare. E va insieme alla funzione di rimozione e alla funzione di resistenza. Sogno e dimenticanza: Altro.
Qualcosa si dice e non è racchiuso in un significato, perché in quel che si dice c’è metafora, c’è metonimia e c’è abuso linguistico che produce una sfumatura differente, una piega differente. E quella parola non ha un significato stabile, ma nel racconto assume un valore particolare per quel caso!
Questo ha delle conseguenze enormi, perché è impossibile riprodurre qualcosa che si dice, il valore di quello che si dice e come influisce, con i suoi effetti, per chi lo dice. Ciò comporta che non c’è la normalità, non c’è il comportamento, non c’è l’uniformità, non c’è il caso standard, non c’è la possibilità di ricondurre al vocabolario ciò che si annuncia. Bisogna intenderlo nella particolarità, nella specificità del caso. Non c’è la possibilità di assimilare un caso a un altro. Non c’è la casistica. Non c’è sistema. Non c’è lingua comune. Non c’è la prescrizione di capire senza parlare perché “tanto le cose stanno così”. No, le cose non stanno mai così. Non stanno proprio!
Occorre che ci sia la qualificazione, la precisazione, con cui ciascuna cosa tende al valore, non a essere standardizzata. Allora la famiglia non è più riconducibile al luogo d’origine, all’idea di origine, ai personaggi con cui ognuno si rappresenta un ruolo, un’idea, una fantasmagoria. La famiglia non è la somma di papà, mamma, fratelli, sorelle, nonni, zie.
Come papà, mamma, fratelli, zie instaurano la madre, il padre, il figlio nel loro statuto di indici?
La madre come indice del malinteso, il padre come indice del nome, il figlio come indice della differenza di ciascun significante da sé. Tutto ciò esige un’elaborazione, una dissipazione dell’adeguamento della parola alla cosa, e esige l’ascolto.
Che cosa si sta dicendo nel racconto che sto facendo della mia vicenda? Della vicenda familiare, della vicenda del lavoro, della vicenda amorosa, della vicenda sessuale? Che cosa si sta dicendo? Quanto di Altro interviene rispetto alla rappresentazione che ne ho avuto sin qua, rispetto a cui io posso dire “Sono così”? Questo è inimmaginabile, è inimmaginabile non facendone l’esperienza.
E nella concezione genealogica di appartenenza a un’origine, a una classe, a un sistema, a un clan, a una famiglia naturale, ognuno deve conformarsi e differenziarsi, perché o è in accordo o è in disaccordo, o è dentro o è fuori, cioè non si situa nell’apertura, ma nell’alternativa, dove dentro e fuori si situano come alternativi: o dentro o fuori.
Allora, c’è chi deve andare via di casa, deve andare via dalla famiglia che lo significa. Deve andarsene, partire. Non può vivere nella stessa città, deve andare in un’altra città, perché lì c’è il marchio dell’origine. E bisogna andarsene, liberarsi, fuggire, perché la famiglia così intesa diventa una prigione da cui evadere. Questa è una delle fantasie più comuni, che padre e figlio non possano vivere nella stessa città, nella stessa casa, nella stessa via, che non possano convivere nella stessa impresa: se entra il figlio deve uscire il padre! I casi sono molteplici.
È di questa fantasmagoria della famiglia, ma anche dell’insorgenza del mito della famiglia, che narra la vicenda di Michele Silenzi.
Chi è Michele Silenzi? Chi ha mai visto o incontrato Michele Silenzi? Nessuno ha incontrato Michele Silenzi o ne ha mai sentito parlare? Michele Silenzi è il protagonista del film Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores.
Cosa narra la vicenda, la storia, il film di cui è protagonista Michele Silenzi?
Michele Silenzi è a scuola. Sta ascoltando una lezione e, mentre ascolta la lezione, a un certo punto nota che la sua compagna Stella – alla quale è molto interessato – sta scambiando qualche parola con altri compagni con i quali parla di una festa, la festa di Halloween. Michele, che è interessato a Stella, è tuttavia convinto che Stella non abbia nessun interesse per lui. Anzi, che Stella sia interessata a altri. Allora pensa che per conquistarla sia necessario andare alla festa con un vestito da supereroe, nella fattispecie si tratta dell’Uomo Ragno.
Ma, perché Stella non è interessata a Michele? Perché Michele pensa che Stella non sia interessata a lui? Perché lui è figlio di un poliziotto, di un semplice poliziotto, che per di più è morto, ma non compiendo un’azione eroica, è morto nell’adempimento del suo dovere, cioè senza lasciare nessuna fama. È morto e basta.
E la mamma, chi è la mamma? È un altro poliziotto, anche lei poliziotta. E è sempre in giro, non si cura di lui.
E come può Michele, figlio di due poliziotti, per di più uno morto, potere aspirare a Stella che gira il mondo? È stata di qua, è stata di là. Adesso, per un fortuito caso, è arrivata nella sua città, ma viene da un altro mondo. Quindi, Stella non si occupa di lui e i compagni lo deridono, lo sbeffeggiano, addirittura lo prendono di mira con quelli che oggi si definirebbero atti di bullismo. Lo vessano, è una vittima dei compagni più forti. A questo punto giunge la notizia che due di questi compagni sono scomparsi, fuggiti da casa, non si trovano più.
Questo non toglie che sia imminente la festa di Halloween, e Michele va a comperarsi il vestito. Ma sfortuna vuole che s’imbatta in due di questi compagni, che lo portano nel bagno della scuola e gli portano via i soldi per il vestito. Non resta che cercare rimedio e andare a comperare un vestito più modesto, in un negozio cinese, dove, per pochi soldi, Michele trova un vestito di un eroe cinese sconosciuto, non meglio identificato, che costa cinque euro e di cui non sono nemmeno chiari quali siano i poteri, mentre ogni supereroe è contraddistinto da alcuni poteri particolari. Di questo non si sa quali siano i poteri.
Michele compra il vestito “a scatola chiusa”, anche perché non c’è altro modo. Va alla festa, ma anche lì viene sbeffeggiato. Praticamente gli viene detto che si è vestito da dissenteria, proprio come punta del riconoscimento; il vestito è un travestimento da dissenteria.
Punto sul vivo, anche un po’ offeso, va a casa, dove però incomincia a scoprire il potere di questo supereroe: il potere di diventare invisibile. Ohibò, è un vestito che ha delle caratteristiche interessanti.
Ha appena preso nota di questo, che il giorno prendendo il vestito, lo trova tutto striminzito. È stato lavato, si è ristretto e non può più essere indossato. E incolpa la mamma di non avere rispettato questo suo vestito da cui gli veniva il potere – che però tiene segreto – il potere di diventare invisibile. E approfitta di questo potere: va in giro nudo perché, se si mettesse i vestiti, questi rivelerebbero la sagoma. Va in giro nudo e va a trovare Stella, che però non lo vede. Pensa trattarsi di una strana entità aliena, lo fa entrare, nasce un corteggiamento e una simpatia tra Stella e questa entità aliena invisibile.
La sorella di Michele, però, si accorge che lui ha acquisito un potere strano. Lo scopre e dice: “Tu non puoi approfittare così di Stella che non sa chi sei, e pensa che sei un alieno. Devi andare da lei, dichiararti e svelare il segreto”. Allora Michele parte e va da Stella. Ma, mentre sta per arrivare da Stella per svelare il suo segreto, Stella viene rapita. C’è un rapimento. Anche Stella scompare come gli altri due compagni. E chi l’avrà rapita?
A questo punto compare uno strano personaggio, Boris, cieco, che lo avvicina e gli svela di essere il suo vero padre. Boris, e non il poliziotto è il vero padre di Michele. E Boris ha un potere straordinario: è in grado di agire sulle menti altrui, legge il pensiero e è in grado di togliere la memoria, perché Boris è uno Speciale. Chi sono gli Speciali? Gli Speciali sono il frutto di una mutazione genetica avvenuta in una popolazione vicina a Chernobyl, dopo la fuga di radiazioni successiva all’esplosione nella centrale nucleare. E Michele è figlio di Boris e di Anna, una Speciale specialissima, che aveva il potere di diventare invisibile.
Ecco da chi ha ereditato Michele il suo potere, dalla mamma. E Boris e Anna sono gli unici due Speciali fertili. Tutti gli altri sono sterili, non possono avere progenie. Solo loro due. Quindi lui è un figlio speciale, anche Michele è un figlio specialissimo, che sempre più riesce a controllare il suo potere e a compiere azioni straordinarie. Grazie alle indicazioni del padre, individua dove sono tenuti prigionieri Stella e gli altri due compagni, uno dei quali era il complice delle sue vessazioni.
Sono in una nave che sta per salpare dal porto e, grazie al suo potere, s’introduce nella nave. Libera Stella, chiama la mamma poliziotta, la quale fa un’operazione brillantissima catturando tutti i complici e acquisisce il merito dell’intera operazione che, chiaramente, era di Michele. A questo punto Michele prende congedo da Boris, il padre, che deve andare in missione per salvare l’altra figlia.
C’è un’altra figlia speciale, che però è stata disgiunta da Michele. Si trova in Marocco e Boris deve andare a cercarla, adesso che Michele è salvo, ha i suoi poteri, ha acquisito il suo statuto di figlio speciale e quindi è destinato a grandi imprese.
E a questo punto cosa accade? Suona la campanella perché la lezione è finita e Michele si risveglia dalla sua fantasticheria. Esce dalla scuola e incontra Stella e, finalmente, le chiede se può accompagnarla a casa, perché era tanto tempo che ci pensava ma non trovava proprio l’audacia per farlo.
La fantasia di Michele regge il tempo di una traversata. Da una famiglia naturale, da una famiglia d’origine, da una famiglia in cui il padre è morto, la madre è criticabile per un lavoro degradante, non c’è mai e è sempre in giro, a una famiglia mitica, dove il padre è speciale, la madre è speciale. E il figlio non è quello sfigato che, essendo figlio di un papà e di una mamma degradati, criticabili, incapaci, viene deriso e vessato dai compagni e tenuto in nessuna considerazione dalle compagne. No, è speciale!
Così può enunciare la sua domanda, può andare in direzione del suo progetto senza vergogna, senza paura, senza più il fantasma di genealogia, cioè senza che le cose possano andare bene, ma anche male e, di fronte a questa doppia possibilità, astenersi dall’osare. In questa traversata non c’è più l’anfibologia, ma Michele si trova nell’apertura, si trova nel viaggio e non ha più paura.
Questo è il film che ho visto io, voi cosa avete visto? Ci sono domande? Prego. Sì.
Maria Antonietta Viero Vorrei sapere quando per Michele comincia il racconto, non della rappresentazione del personaggio, ma del parricidio e qual è il termine che in qualche modo lo incammina su questo. Perché mi sembra di avere capito, questa sera, che c’è una sottolineatura tra i due discorsi del racconto. Il racconto che, in ogni caso, prosegue come giustificazione che mantiene il personaggio e, invece, quel racconto che va incontro alla dissipazione del personaggio. C’è un momento in cui si può ascoltare che il parricidio è inaugurato?
E poi c’è una cosa che avevo annotato. Mi ero chiesta oggi, mentre facevo l’excursus di questo film, se non cominci proprio dalla questione dell’amore, amore che Armando Verdiglione dice essere custode del parricidio. Allora, in questo senso, chiedo se l’amore non conduca all’irruzione dell’Altro, non vada verso la sessualità che si trova nel parricidio, e se la chance non sia venuta da questo. La chance di creare un’altra famiglia per potere trovarla originaria nella dissipazione dell’idea di credenza dell’origine, del destino assegnato.
Poi c’era un’altra questione nel film, mi sembrava, quella che lei diceva prima, cioè che qualcosa trascorre tra il vero e il reale. Allora, tra il vero e il reale potremmo indicarlo nel film, quando la voce, pur nel grido, frantuma lo specchio? In qualche modo, comunque, mi sembra che introduca o che indichi i tre tempi dell’identificazione, quelli che vengono chiamati i tre tempi dell’identificazione.
R.C. Non possiamo attribuire a Salvatores l’adeguamento del film alla cifrematica. Siamo noi che facciamo la lettura. Non è l’intenzione di Salvatores che noi dobbiamo mettere a nudo. Salvatores non ha nessuna intenzione, ha fatto il film. Quali siano le intenzioni di Salvatores, non sappiamo, neanche c’interessa. Ha fatto il film in cui c’è una vicenda e, alla nostra lettura, questa vicenda ha una tenuta clinica. Clinica cosa vuole dire? Che c’è l’indicazione di una tensione alla qualità attraverso l’analisi di alcuni pregiudizi, che si dissipano.
Questa è la nostra lettura. E possiamo trovare gli indici che ci consentono questa lettura, ma non è che c’è la significazione, cioè che il film vuole dire che… che quella cosa significa che… No, nessuna significazione. C’è la lettura della vicenda, ma è una lettura clinica e è una lettura che riguarda lo svolgimento del caso. Il film non trae a nessuna significazione né a nessuna morale, svolge il caso.
Non abbiamo nemmeno gli elementi per dire che fosse nelle intenzioni del regista svolgere questo caso, anche se, sicuramente, nel testo ci sono elementi. Ma quello che importa è la lettura, non il film in sé. Come la lettura di un quadro trascende il quadro, va oltre il quadro. È la lettura che dà un contributo al quadro, non viceversa. Il quadro senza lettura che cos’è? L’opera senza lettura che cos’è? È un pezzo di qualcosa. È la lettura che lo trae al valore, che non è un valore intrinseco, ma è un valore che si aggiunge. Il valore aggiunto.
Il commercio trae al valore aggiunto, l’equivoco nel racconto apporta un valore aggiunto, proprio perché l’equivoco introduce un qualcosa in più. È un più che non fa somma, ma si aggiunge e trae al valore. Così può valere per una parola, per un gesto, per la scrittura, per quel che si fa. L’Altro è indice dell’insignificabile. Non dobbiamo attribuire all’Altro intenzioni e significati. Il racconto è infinito proprio perché non c’è la significazione, ma la molteplicità.
Così, il parricidio non si racconta. Non c’è il racconto del parricidio. Il parricidio è nel racconto. Il parricidio, con la sessualità, caratterizza il transfert. Il transfert ha due facce: il parricidio e la sessualità. Ma non c’è il racconto della sessualità, non c’è il racconto del parricidio. Parricidio e sessualità intervengono parlando, facendo, con la parola, ma occorre che si avvii la struttura della simbolizzazione, cioè il transfert, senza cui c’è il realismo di cui dicevamo prima e ognuno si crede di essere o di avere la ragione o che le cose stiano “così”, perché non ammette la parola, non accoglie il transfert, che è struttura della simbolizzazione.
Chi vive nel realismo, chi ritiene che le cose siano reali, nega il transfert, vive fuori dalla parola, vive tra le cose in quanto tali. Forse a questi si riferiva Freud quando diceva che gli psicotici sono immuni dal transfert. Non si esprimeva così ma, insomma, chi vive nel realismo, chi ritiene di avere le sue buone ragioni, di essere un buon soggetto, di essere stato, di avere avuto, di avere, di essere, cioè si trova a vivere senza rimozione, senza resistenza e senza funzione di Altro, dove vive? Chi nega questo, dove vive? In un cimitero, costantemente davanti alla propria tomba: qui giace il soggetto x, immobile, immutabile, un vero essere. Non ce ne sono pochi di così, di abitanti dei cimiteri, morti viventi possiamo dire. Non sono pochi; ce n’è, ce n’è. Lei ne ha mai incontrati?
Barbara Sanavia Forse.
R.C. Non c’è l’altra famiglia da cercare per liberarsi dalla propria, la famiglia ideale per riscattarsi dalla propria. C’è da reperire i termini della famiglia originaria, senza necessità di purificazione né di espiazione. Non si tratta di liberarsi, di purgarsi, di espiare le proprie fantasie, ma si tratta di analizzarle e di cogliere la struttura, gli indici e i termini. Un buon esercizio è la lettura delle fiabe, anche la lettura di alcuni film.
Questo film, per esempio, ci consente di leggere la fiaba di Michele e di cogliere la vicenda, la traversata, il caso. Il caso di Michele che non ha più paura. Perché non ha più paura? Perché non ha più l’idea di origine, non ha più l’idea di sé. Vive nella paura chi vive nell’idea di sé. C’è il tempo di un’altra domanda. Chi la fa?
Sofia Taglioni Ma nel passaggio ci sono alcune cose. In Michele in realtà, mi è più chiaro il passaggio dalla famiglia d’origine alla famiglia ideale, dove è avvenuto il cambiamento. Comunque c’è stata una palese ricreazione e necessità, penso.
R.C. Non c’è stato passaggio.
S.F. Non un passaggio, però una proiezione.
R.C. C’è stata la dissipazione dell’anfibologia del padre. Da un padre morto, debole e una madre non all’altezza, al padre eroe, Speciale, alla madre Speciale. Ma né l’uno né l’altro sono il padre: il padre s’instaura dalla dissipazione di questa impossibile anfibologia! Dove non c’è più il padre buono o il padre cattivo, il padre debole o il padre forte. C’è il padre. Il padre come indice del nome, il padre da cui procede l’autorità, il padre da cui procede la crescita.
S.T. Ma, forse, il “sentirsi in grado di”?
R.C. Il “sentirsi in grado di”, viene da questo: dall’instaurazione. Se c’è padre non c’è più paura, non c’è più l’idea di origine, non c’è più l’idea di essere figlio di quel padre, perché il padre interviene come indice e non ha più da significare l’origine. E interviene se l’idea di origine è dissipata.
S.T. Però si riconosce anche nel figlio. Io sento più la riconoscenza, cioè, si riconosce come figlio Speciale.
R.C. Eh, finché si riconosce come “figlio di”, allora è paralizzato. Da una parte è paralizzato e dall’altra si pensa come eroe, in realtà né l’uno né l’altro. Michele trova l’audacia d’incontrare Stella proprio perché non è più nell’anfibologia tra il padre insussistente e il padre eroico, tra l’essere il figlio di quell’origine e il figlio di quell’altra origine, ma non è figlio, Michele. Michele diviene Michele. Non è più “figlio di”, è Michele.
M.A.V. Anche figlio, senza essere “figlio di”. Nella famiglia originaria di cosa si tratta? Padre, madre, figlio.
R.C. No. La famiglia originaria riguarda gli indici, ma nessuno è l’indice, l’indice non può essere assunto.
Se l’indice è assunto diventa di nuovo personaggio. Esige un processo di astrazione questa cosa. Nessuno è figlio, nessuno è padre, nessuno è madre ma, padre, figlio, madre intervengono come indici nella parola e costituiscono la traccia della famiglia. La traccia!
M.A.V. Quindi, mai la famiglia è costituita.
R.C. Mai la famiglia è significata, certo. Questo è il punto. Mai la famiglia è significata, perché se la famiglia viene significata è significata come origine, è significata come anfibologica e nascono problemi, perché abbiamo le due facce della significazione: uno può credersi e va nell’euforia e un altro può credersi e va in quella che viene chiamata la depressione. Allora uno è euforico e l’altro depresso, ma si tratta di rappresentazioni dell’idea di origine. Nessuno è depresso, né malato, né euforico, ma mima la credenza nella sua origine. Mima! Questo è il mimetismo nell’origine.
M.A.V. Allora, quand’è che si può dire che venga dissipata questa credenza? Quando arriva alla dimenticanza? Prendendo a pretesto il film, è con la dimenticanza che questo si è dissipato?
R.C. No, con l’atto.
M.A.V. Quale atto? L’atto mancato?
R.C. L’atto!
M.A.V. L’atto della traversata?
R.C. Tutto ciò si indica nell’atto e quindi nel registro sintattico e frastico per quanto attiene alla ricerca, e nel registro pragmatico per quanto attiene l’impresa. Nessuno può dire di avere fatto, perché nel gerundio non c’è passato. Nessuno può dire che ha superato, “che ha”. È l’atto a indicare che la traversata è in corso.
M.A.V. Lei ha detto: “Michele non ha più paura”, quando? Quando il ricordo viene dissipato?
R.C. Quando si rivolge a Stella non ha più paura. Rivolgersi a Stella non è atto eroico, è atto. Atto di parola.
M.A.V. Sì, ho capito, di atto in atto, inteso.
R.C. Michele non è mai stato eroe, né tantomeno supereroe. Non è mai stato invisibile, ne ha avuto la fantasia. Ma tutto ciò è nella fantasticheria. Fantasticheria che noi vogliamo racchiudere nel tempo della lezione, oppure di qualche minuto. Ma una fantasticheria può durare secondi, un sogno a occhi aperti può durare millisecondi, e c’è una fantasia che si snoda. Nel film c’è un tempo di giorni, settimane e quant’altro, c’è uno svolgimento.
L’importante è lo svolgimento, che è senza durata, ma occorre che ci sia! E non necessariamente c’è racconto dello svolgimento, sicuramente c’è testimonianza. Come? Con gli atti, con quel che si dice e quel che si fa; come si dice e come si fa. E chi è compreso nella sua soggettività e presume di segnalarsi per la sua monoliticità, ha torto. È agente dello spreco. Tutto là, è agente dello spreco. Eppure accade che ci sia chi è pieno di sé al punto da rappresentarsi e rappresentare lo spreco.
Daniela Sturaro Diceva un dentista, a proposito di denti, che bisognerebbe scegliere i propri genitori. E non mi riesce facile questo abbinamento con il film dove questo ragazzo, sarà pure una fantasticheria, però ha il pregio di un’esperienza, perché non è più lo stesso dopo la fantasticheria. Perché, che cosa avviene in questa fantasticheria? Che c’è l’incontro con un padre che lo induce a affrontare le cose.
R.C. No, no, non è indotto, c’è l’incontro questo sì, ma non con un padre.
D.S. Con un papà, con l’idea.
R.C. C’è l’attraversamento di una fantasmatica realistica sull’origine. Michele non incontra nessuno. C’è l’incontro, ma l’incontro non è con qualcuno. Nella fantasticheria in questione c’è l’attraversamento di una credenza e la sua dissipazione, credenza che si è dissipata.
D.S. Però, in questa fiaba, come in tutte le fiabe, ci sono, non bisognerebbe dire personaggi, però ci sono delle figure. Una di queste è il padre. Ci sono molte figure, non è una cosa semplice. Poi arriva al punto di capire perché quelli che lo deridevano, lo prendevano come oggetto di scherno, riesce a capire perché questo avviene.
R.C. No, allora io ho parlato ai muri, come diceva Lacan. Parlo ai muri. Aveva proprio ragione.
Michele non viene deriso da nessuno. Se è una fantasticheria è una fantasticheria. Ha l’idea di questo. È chiara la differenza tra il realismo e la fantasia? Ha l’idea che… Avere l’idea che accada qualcosa non vuol dire che accada quella cosa lì. Uno può pensare che è in un certo modo, ma è una sua idea. Che ci sia un’idea di essere in un certo modo, non vuole dire che questo sia reale, è un’idea.
L’analisi occorre che consideri quelle che vengono chiamate le proprie idee, che non hanno nulla di reale. Un’idea non è reale. È chiaro? Questo indica il film.
Volete accogliere l’ipotesi del transfert o no? O tutto quello che vedete è reale? Qui il film indica che non c’è niente di reale in una fantasia. Non c’è nulla di reale. È questo il pregio. E lei tira fuori il reale? Ma, dico, allora di cosa abbiamo parlato?
D.S. E, per esempio, quella frase che viene detta: “E tu – rivolta al bulletto – se devi prendertela con qualcuno prenditela col tuo papà”?
R.C. È indicativa di che cosa? È indicativa che se c’è, come dicevo all’inizio, un fastidio, un disturbo, un’incazzatura, questo attinge alle proprie credenze sull’origine, che vanno indagate. Non è che se la deve prendere con il papà. È un modo di dire, cioè è chiaro che “te la prendi con me” perché c’è una metaforizzazione mancata. Bene, avventurati sulle tue metaforizzazioni mancate! E simbolizza.
D.S. E poi una cosa ho notato: i due figli che sono bulli, uno è figlio di un galeotto e l’altro è figlio di un imprenditore; e s’incontrano.
R.C. E certo, è chiaro. Anfibologia del padre! Non c’è il padre che va bene e il padre che va male, perché nell’anfibologia sorgono problemi! E sono problemi sia per quello ritenuto figlio del galeotto e sia per quello ritenuto figlio dell’imprenditore. Il “figlio di” ha solo problemi, perché è figlio della sua idea di origine. Non è chiaro? Occorre analizzare la propria idea di origine! Cioè, occorre fare la psicanalisi delle proprie idee e non la sociologia. Altrimenti leggiamo le riviste di sociologia, di psichiatria o quello che vuole lei. Bene, abbiamo chiarito?
D.S. Sì. Era una lettura anche questa.
R.C. Non ancora. Arrivederci.
L’amore del padre e il matricidio
Ruggero Chinaglia Ci accingiamo a vedere questo film di David Cronenberg che s’intitola Spider: è un film che dà un contributo alla questione intellettuale, come questione della dissipazione della visione del mondo.
Il mondo per esistere esige la visione. Stante questa visione, per alcuni il mondo è invidiabile. Ci sono nel mondo cose invidiabili, e allora uno si dispone intorno all’invidia per le cose del mondo.
Eugene Ionesco diceva invece che il mondo è invivibile e cioè, stante la visione del mondo, la vita è infernale. Chi vive nel mondo vive una vita infernale, dovendo, come il mondo esige, ripartire i beni e i mali del mondo, per fondare a sua volta una visione che possa reggersi sulla morale, la morale del bene contro il male. Già questo istituisce l’infernale, in base a cui ciascuno poi si trova a chiedersi se il mondo è abbastanza pulito, se è abbastanza puro, se è abbastanza duraturo, e quindi occorre istituire rimedi per la pulizia, per la purezza, per la durata del mondo, che è sempre lì lì per finire.
Quindi che mondo è? Perché le cose del mondo “sono”; non hanno la caratteristica di avvenire, divenire: “sono”. Il mondo esige che le cose siano, quindi il mondo è senza parola.
Chi si rassegna, per così dire, alle cose del mondo, si rassegna a abolire la parola, che contrariamente al mondo non ha un’ontologia, ma segue una tripartizione, la tripartizione in quanto segno. Impossibile assegnare alla parola una stabilità, un’ontologia: dalla tripartizione della parola, e quindi tripartizione dell’esperienza, alla trialità della logica della parola che si dispone secondo una logica singolare-triale, procedendo da una logica diadica, la logica dell’apertura, la logica per cui è impossibile stabilire un’alternativa.
Le cose del mondo, invece, sono sempre in un’alternativa, che è l’alternativa tra il bene e il male, tra il fare e il non fare, tra procedere o arretrare, vivere o morire, poi ognuno ci mette le proprie alternative secondo una superstizione.
Il mondo esiste nella superstizione, quindi nella presunta padronanza di poter sfuggire alla superstizione, ma con la paura della superstizione.
Accettando il mondo ognuno accetta la superstizione. E, radicalmente, l’alternativa è in prima istanza tra vivere e morire, e poi tra morire bene e morire male.
Ognuno in che direzione va? Beh, certo, nella direzione di poter morire bene, quindi nella direzione dell’eutanasia.
Ogni abitante del mondo si dispone alla buona morte. E per morire bene, come si fa? L’idea della buona morte è il lasciapassare di ogni cedimento, che va dal rimando, dal rinvio, all’alternativa, al credere di poter scegliere se fare o non fare, se fare oggi, se fare domani, quindi evitando il progetto, il programma, l’assetto, cioè come far sì che le cose si dispongano e, stante questa disposizione, avviare una procedura di costruzione.
Il mondo è senza pulsione, quindi ognuno che sta nel mondo presume che le cose vadano da sé.
Invece, nella parola, le cose seguono la vicenda pulsionale, si stabiliscono, procedono per la domanda, non senza la domanda! Senza la domanda certamente nulla accade.
Per capire l’importanza della discriminante tra la parola e il mondo basta per esempio leggere o ascoltare alcune pubblicità che vengono fatte giorno per giorno. Adesso sembra andare molto in voga nel web la pubblicità della scossa. C’è una signora che non ha voglia di niente, non ha proprio più voglia di niente. E allora l’amico prodigo la consiglia e le dice che ha bisogno di una scossa. La scossa da dove viene? Da dove può venire la scossa? Da un integratore che potrà fornire quell’energia che manca alla signora.
Ma, negando la parola, è chiaro che non c’è nessuna forza. La forza viene dalla parola, la forza viene dalla famiglia come traccia, la forza viene dalla pulsione.
Nel mondo non c’è nessuna forza, anzi, c’è l’esaurimento. La mitologia dell’esaurimento è energetica. Le risorse energetiche diminuiscono, ciascuno è senza forza, senza energie e deve fare ricorso quindi a fonti alternative, senza la domanda, senza il compito, senza la missione, senza il progetto, senza il programma. Tutto ciò, nel mondo, è abolito.
Allora ciascuno può anche stabilire se situarsi mondanamente o pulsionalmente, cioè se vivere secondo la parola o vivere nella mondanità.
Questo è ciò che il fantasma di padronanza può credere di gestire. Questa presunzione di padronanza e di scelta della gestione possiamo anche chiamarla matricidio. Il matricidio che contrassegna la vita nell’idea che il tempo sia finito e che le cose possano seguire una modalità algebrica o geometrica, in entrambe delle quali comunque c’è una certezza: la fine.
Adesso vediamo questo film, per verificare invece quali sono gli elementi che indicano, o possono indicare, che per qualcuno il mondo non c’è più.
Non c’è più mondo e c’è invece la chance offerta dalla parola con la sua particolarità, con la sua unicità fino al caso di qualità, che non avviene per inerzia o per automaticismo, ma per costruzione, per progettualità, per programmazione, per domanda, non per inerzia.
Ecco, questo giusto per disporre alla lettura di questo film che è, possiamo dire, un po’ impegnativo, quindi occorre impegnarsi a leggerlo.
Di un certo interesse, vero? Non proprio quel che si dice un film leggero, ma sicuramente un film che lascia riflettere.
Allora cominciamo a verificare qual è la lettura di questo film che è stato proposto da Giampietro Vezza.
Ora, Giampietro Vezza come mai ce l’ha proposto? Che cosa ha scorto di interessante in questo film e qual è la sua lettura?
Giampietro Vezza Adesso, l’introduzione che ha fatto questa sera riguardante il mondo, chi sta nel mondo, e chi invece sta nella parola, ha destabilizzato le tante convinzioni che avevo sul film rispetto alla lettura che avevo fatto.
La lettura che mi ero fatto è una lettura forse semplicistica, che riguardava la questione del fatto che da bambini, o comunque dai primi anni della vita, alcune esperienze, alcune questioni che si propongono, e vengono magari portate all’estremo, sono poi costitutive del modo con cui la vita si porta avanti.
Tra l’altro, contemporaneamente, o comunque nello stesso periodo in cui ho visto questo film per proporlo, leggevo, casualmente o no, il saggio di Freud L’uomo dei lupi, in cui c’è il racconto di questa persona, cui alcune questioni erano accadute nella sua infanzia, anche in primissima età, e poi come queste cose che sono accadute si sono riversate nei suoi comportamenti.
R.C. Freud ce la racconta così. Non c’è da credere che le cose siano andate così. Freud ce la racconta così, ma Freud non è mica il Vangelo. A parte che nemmeno il Vangelo ce la racconta come è andata, quindi non bisogna attribuire a Freud chissà quale potere di verità. Freud ce la racconta così, ma non è escluso che abbia preso qualche abbaglio.
G.V. Certo, avevo capito dal racconto che si potessero cogliere degli accadimenti che poi sono costitutivi di un certo percorso… Adesso quello che dice questo film è estremo, però nei casi di tutti i giorni…
È di oggi per esempio l’ennesima questione del femminicidio, il cui termine chiaramente è un termine da ritenersi abusato, ossia utilizzato in maniera impropria per definire qualcosa d’altro, ossia per portare nel luogo comune qualcosa che andrebbe analizzato in maniera diversa. Il fatto poi che certe cose accadano, sarebbe da analizzare rispetto a quello che può essere accaduto in precedenza.
R.C. Perché dice “sarebbe”?
G.V. È accaduto.
R.C. No, perché dice “sarebbe da analizzare”?
G.V. È da analizzare. Sarebbe da analizzare nel senso che non viene fatto in maniera sistematica. Viene proposta una lettura in maniera piuttosto superficiale. Viene standardizzato tutto in una parola, come se questa parola rendesse uguali tutte le cose, in realtà.
R.C. Quindi, lei dice che le esperienze dell’infanzia sono determinanti per ciò che ne seguirà. Data un’impostazione, un comportamento segue.
G.V. Non so se lo siano realmente, ma mi sembra di capire che spesso questo accade e probabilmente nel veder crescere i bambini, i figli che ci sono attorno, si può anche fare un ragionamento poi sulla propria esperienza, su quello che è stato e ricondurlo a certi comportamenti nell’attuale, ecco.
R.C. Lei certamente sta ponendo una questione che ha sicuramente a che vedere con il film, che lei ha inteso come? Come un monito?
G.V. Come un’angoscia.
R.C. Un’angoscia di chi?
G.V. L’angoscia di vivere certe situazioni in modo da subirle.
R.C. Allora, quali sono le situazioni a cui le si riferisce, vissute e subite? Vissute da chi e subite da chi?
G.V. Nel film?
R.C. Sì.
G. V. Situazioni del bambino all’interno di una famiglia che non è una famiglia, o che non mi è parsa tale, nella quale il padre in realtà cerca qualcosa d’altro rispetto a una traccia da dare, più che educazione, una formazione, cerca una cosa facile e con una madre che sparisce in questa situazione. Poi il fatto che per tre quarti del film il padre dica al bambino: “pensi che l’abbia uccisa io”, e il bambino dice di no, sarebbe da analizzare.
R.C. Sarebbe.
G.V. È da capire ulteriormente.
R.C. Certo, è da capire. La lettura del film non può prescindere da questo dettaglio. Chiaro. Bene, allora questo è il primo contributo. Sentiamone altri.
Sofia Taglioni Da quello che mi è parso di capire, in realtà sembra quasi che ci siano state due vite contemporaneamente: è una visione del bambino che ha una sorta di questione edipica, cioè lui vede nel padre colui che ha ammazzato la madre e poi invece alla fine è lui stesso che ammazza la madre per il padre, come se ci fosse un dualismo, da quello che mi è sembrato di vedere. In realtà forse non è esistita nessuna delle due cose. La cosa che non ho capito però è: che cos’è la ragnatela? Non capisco. È un simbolico che non riesco a condurre da nessuna parte, forse materno. Non riesco a capirlo.
E poi alla fine, quando lui rivede la matrigna nella direttrice della clinica, della casa di cura, che poi in realtà non è lei, non so se leggerlo come una sorta di eco che ti persegue, di quella figura lì, che non sei riuscito a analizzare, appunto, in qualche modo.
R.C. Sì, questo è quello che non è stato capito, invece quello che è capito?
S.T. Il fatto che veda il padre come un assassino, inizialmente, e che pensi sia l’assassino della madre. Dico “pensi”, perché secondo me è come se in realtà fosse stata una sua proiezione. Lo stesso vale anche per la fine, quando lui invece ha strappato il gas. Pensavo a delle proiezioni, ecco.
R.C. Quante volte muore questa madre quindi?
S.T. Due volte.
R.C. Due volte.
S.T. Oddio, muore comunque.
R.C. Però quel che è sicuro è che muore.
S.T. O forse se ne è andata, c’è anche questo da dire. Può essere che siano state delle sue immagini, delle sue motivazioni, come: perché non c’è più la madre? L’ha uccisa il padre o l’ho uccisa io? Potrebbe essere anche questo.
R.C. Ecco, già questo è un quesito importante. Chi ha ucciso? E quindi, chi racconta la vicenda?
S.T. Ma la racconta lui per come l’ha vista lui, il bambino.
R.C. Il bambino.
S.T. Il bambino che ormai è diventato un po’ più grandino.
R.C. E cioè?
S.T. Il bambino che è cresciuto, cioè Spider, diciamo così.
R.C. Perché c’è Spider / Dennis / mister Cleg.
S.T. Giusto. Spider è un bambino.
R.C. Anche Dennis è un bambino.
S.T. Quindi Spider è un soprannome.
R.C. E poi c’è mister Cleg. Chi è mister Cleg?
S.T. È sempre lui.
R.C. Come si fa a dire che è sempre lui se uno è Spider, l’altro è Dennis e poi c’è mister Cleg? Chi è lui? Sono in tre.
S.T. Sono la stessa persona, credo. Viene chiamato così perché è in un contesto diverso, no?
R.C. Eh, non bisogna generalizzare, perché altrimenti allora i dettagli si confondono e perdono ognuno le proprie caratteristiche.
S.T. Però credo che il racconto che ci fa mister Cleg sembri un racconto che ha vissuto. Non è che l’abbia vissuto materialmente ma è un viaggio ben preciso che lui si è fatto, però si è fatto lui in prima persona, cioè questo non l’ha vissuto qualcun altro, non lo racchiude in un unico soggetto, che è partito poi però.
R.C. Bene, e questo è già un ulteriore contributo. E poi? Sì.
Barbara Sanavia. È complicata la cosa.
R.C. No, è semplice. Teniamo conto di quel che si dispone, è semplice.
B.S. Non ho un’idea ben precisa, cioè questa mamma vista da lui è infelice e lui sembra voler far qualcosa. E la madre accusa il padre della sua infelicità.
Vista dal bimbo, in realtà, non è proprio così la cosa. E sembra che la mamma non accetti più questa situazione, per cui va a cercare il marito… o se ne va? E lui riporta che, quando l’ha vista per l’ultima volta da viva… Forse si è sentito in colpa per non averla fermata, e poi può aver avuto questa idea qui.
R.C. È da leggere senza pathos. Bisogna leggere senza pathos. Non attribuire colpe, sensi di colpa, sentimenti e leggere le carte che si dispongono. C’è un dettaglio non irrilevante che occorre tenere in conto.
B.S. Lui stava cercando, quando la donna se ne va; l’aveva detto precedentemente all’inizio: “Lo sto facendo per te”.
R.C. Il gioco della corda, esatto. Che è un gioco noto.
B.S. Sì, non so se era legato alla tela del ragno. Visto che la mamma ha detto: “Vado a cercare tuo padre”, nel suo immaginario poteva aver pensato che ha trovato il padre, e poi il padre poteva essere una sua fantasia, però non so…perché una cosa che sembrava… lui ha rivisto la scena, cioè l’ha immaginata. Però c’è stato un momento in cui lo ha detto alla matrigna.
R.C. C’è una matrigna?
B.S. C’era questo fatto pure, che la madre, non avendo l’attenzione del marito, civettava con il figlio, sembra. Non so, il figlio era geloso del padre, comunque…
R.C. Era geloso?
B.S. Si, alcune scene…
R.C. Perché era geloso?
B.S. Oppure non era geloso, ma non vedeva la madre in quella…
R.C. Perché, se fosse stato geloso del padre, allora avrebbe ammazzato il padre. Se fosse stato geloso del padre, cioè non geloso, rivale del padre, questo lei dice.
B.S. Io ho avuto questa impressione, in due momenti.
R.C. Cioè chi era di troppo? Il papà o la mamma?
B.S. A me è sembrato il papà.
R.C. E allora perché uccide la mamma? Se il papà è di troppo, perché uccide la mamma? Pare una questione. Lei dice che il papà è di troppo, però uccide la mamma.
B.S. Era la mamma che ha ucciso o la matrigna?
R.C. Così sembra. Entrambe vengono uccise apparentemente, ma poi in realtà è una sola.
B.S. Uccide la madre e salva la matrigna.
R.C. No.
B.S. Non la uccide, era a un bivio.
R.C. Quindi lei ha notato questo, cioè la questione sessuale tra Spider/Dennis, la mamma e il papà. Spider/Dennis, cioè Spider, come è chiamato dalla mamma, Dennis, come è chiamato dal papà, perché il papà lo chiama Dennis, non Spider; lo chiama Spider la mamma.
B.S. Però è la sua storia.
R.C. E poi c’è mister Cleg.
Patrizia Ercolani Io pensavo a mister Cleg con cui si è aperto il film, quando scrive la storia. Infatti c’è un libretto in cui narra, mette per iscritto la storia di quello che può ritenersi la sua storia di quando era bambino, visto poi che anche nel film è parallelo al fatto che è presente alla scena di lui quando era bambino. E in questo racconto c’è questa questione della madre che anch’io non ho ben chiara. Mi sembra che c’è uno sdoppiamento della madre, non so capire se è la stessa, perché quando interviene il padre e gli dice: “Perché l’hai uccisa?”, mi ha fatto pensare che è una fantasia del bambino che il padre avesse ucciso la madre. E non ho capito il motivo per cui l’ha uccisa.
R.C. Quindi il morto c’è, insomma. È una storia con il morto.
P.E. Pare di sì, non riesco a capire se è tutta una fantasia di mister Cleg che racconta la storia, la scrive.
R.C. La scrive?
P.E. Scrive. Qualcosa scrive, che poi è rappresentato nelle scene, ho capito così. C’è la scrittura e la parte scenica che si accompagna in cui, presumo, cerca di ricordare. Perché riscrivere questa storia? Per capire qualcosa di sé nella sua famiglia? Con il padre, e soprattutto con la madre, mi pare, visto che è in gioco un assassinio fantastico.
R.C. Dunque, c’è un dettaglio che sembra essere sfuggito a alcuni e a altri. Cioè, quando Yvonne viene portata fuori dopo la fuga di gas, non è più Yvonne.
S.T. Quella iniziale, quella iniziale diciamo.
R.C. Ecco.
P.E. Come fa a dirlo?
R.C. Quella con i capelli chiari e poi scuri, altra attrice.
P.E. Non l’avevo visto. È un dettaglio che mi era sfuggito.
R.C. È un dettaglio nodale. Quindi Yvonne e Evelyn, Evelyn e Yvonne sono le due facce, l’anfibologia della madre, madre buona/madre puttana. Non ci sono due madri, non c’è la madre e la matrigna, c’è l’anfibologia.
Cosa vuol dire che c’è l’anfibologia? Sono visioni, una visione anfibologica, quindi se Yvonne e Evelyn sono due facce della mamma, beh, Bill non va a puttane. È chiaro no? Se Bill non va a puttane questo trae con sé qualche conseguenza.
P.E. Quindi è una fantasia del bambino.
R.C. Eh sì, Spider/Dennis. Chiaro.
P.E. Ma considerato questo, che non mi era chiaro, non capisco perché la uccide.
R.C. Chi uccide chi? C’è una lettura clinica e una lettura psicologica, una lettura sociologica, una lettura di coscienza, di pathos, sentimentale.
C’è una lettura sentimentale e una lettura clinica. Nella lettura sentimentale cosa accade? Che mister Cleg esce dal manicomio, viene dimesso dal manicomio, va in una casa famiglia e lì ricorda il suo passato. Sarebbe così, però, allora, perché scrive? Cosa scrive?
B.S. Aveva già iniziato prima la scrittura.
R.C. No, in parte era già scritto e in parte aggiunge.
B.S. Sembra un pensiero ricorrente.
R.C. In parte sembra prendere appunti, in parte lui anticipa alcune battute, in parte invece le annota. Quindi non ricorda, non si tratta di ricordi. Questa è la lettura sentimentale che partirebbe da una certa origine dove la mamma era così, il papà era un puttaniere, poi addirittura il papà uccide la moglie, va a vivere con la prostituta e quindi al bambino non resta che uccidere la prostituta per far giustizia, e finisce in manicomio. Questo renderebbe quindi ragione della sociogenesi della malattia mentale, perché va in manicomio perché si è ammalato, addirittura ha ucciso, e poi torna in manicomio perché punta a ripetere.
B.S. Sembrava contento però.
R.C. Lui.
B.S. Quando ritornava al manicomio, l’idea…
R.C. Poi non c’è più mister Cleg nell’auto, c’è Dennis. Che ci fa Dennis nell’auto? Che ci fa Spider nell’auto? È Spider, è Dennis, chi è? È figlio dello psichiatra? C’è anche uno psichiatra.
P.E. Eh, magari.
S.T. Cosa dice alla fine, che non ho capito, quel signore dai capelli bianchi, in macchina, a Dennis? Gli dice qualcosa.
R.C. Ah, lo psichiatra gli dice: “Sei pronto, figliolo, a ritornare con noi?”
S.T. A ritornare con noi.
R.C. E lui gli chiede una sigaretta, dopo di che dice: “Grazie”. “Sei pronto figliolo a ritornare con noi?”. Chi è il figliolo? È il bambino. Quindi, figliolo, torna con noi. Chi sono loro? Papà e mamma? Chi altri?
B.S. Se lui si rivede bambino.
R.C. No, non si rivede bambino, chi è lui?
B.S. Il racconto è suo.
R.C. Di chi?
B.S. Di Spider.
R.C. Perfetto. Se il racconto è di Spider non può rivedersi bambino. Lui è il bambino, non è che si rivede bambino. Spider è il bambino e quindi qual è la storia raccontata nel film, qual è il caso che si racconta?
P.E. Così, azzardando, in un flash, che non sia la storia del figlio del, che s’immagina tutta questa storia?
R.C. Chi?
P.E. Del bambino, quello che è in macchina.
R.C. Spider/Dennis.
P.E. Sì, è la storia sua.
R.C. È la storia?
P.E. La vicenda insomma.
R.C. È la storia, la vicenda o una fiaba?
P.E. È la fiaba, la fantasmatica di Spider, del bambino.
R.C. Quindi è una fantasia di Spider. E mister Cleg? Che c’entra mister Cleg?
P.E. Però c’è mister Cleg. C’è lui.
R.C. Beh, l’annotazione è acuta, ma mister Cleg?
P.E. Non ci arrivo.
S.T. Forse è una fantasia di mister Cleg.
R.C. Non sarebbe più una fantasia, sarebbe un ricordo, perché mister Cleg fantastica di essere stato bambino e di aver fatto quelle cose lì per spiegare le sue condizioni attuali. Sarebbe darsi una giustificazione.
B.S. Era soddisfatto in macchina quando…
R.C. E certo, quella soddisfazione che viene dal teorema per cui il fantasma materno non c’è più, la soddisfazione dalla costatazione che il matricidio non c’è più. E perché non c’è più?
B.S. Perché non distingue se la madre, o la donna… tutta la fantasia è legata alla madre, dovesse essere una o l’altra
R.C. “Sei pronto figliolo?”, “Sei pronto a tornare con noi figliolo?”.
Bella questa chiusura del film, no? Ha preso numerosi premi questo film. Li merita. Beh, questa frase è determinante per capire la vicenda, oltre a alcuni dettagli, oltre quello che abbiamo detto, per cui la madre, la donna estratta dalla casa con la fuga di gas, non è la prostituta, quindi è la mamma. Beh, adesso alcuni elementi li abbiamo vagliati. Proprio per capire a puntino la vicenda ci ragioniamo per qualche giorno. La settimana prossima magari, intanto così, come dice Giampietro, abbiamo l’occasione e, visto che sarebbe da analizzare, l’analizziamo.
G.V. Sarebbe.
R.C. Comunque è un bel film, un po’ lento nel suo andamento, ma molto preciso, perché ci sono scene in cui c’è Dennis e mister Cleg, altre in cui c’è solo mister Cleg e non c’è Dennis. Quando c’è Dennis però, quasi sempre c’è mister Cleg, se non sempre. Ora questo dettaglio non può essere sottovalutato. Se c’è mister Cleg può non esserci Dennis, ma se c’è Dennis c’è anche mister Cleg. È vero o no? Lo avevate notato questo?
S.T. Eh sì, perché in realtà, certo che c’è sempre, però non è mai visto.
R.C. C’è, è visibile.
S.T. A noi, ma non a loro.
R.C. Sì, chiaro. C’è un’unica sequenza in cui sembra esserci una discrepanza, cioè mister Cleg è sempre invisibile quando c’è Spider. Se c’è Spider mister Cleg è invisibile, c’è ma è invisibile, a parte una scena in cui viene visto da qualcuno. Quando c’è Dennis e mister Cleg, mister Cleg è invisibile agli altri. C’è un caso in cui è visibile.
S.T. Quando si vede allo specchio.
R.C. No, c’è un’altra persona che lo vede, almeno così mi pare. C’è una scena in cui viene…
B.S. C’è un momento in cui il padre sembra scontrarsi, ma…
R.C. È abbastanza all’inizio, è un unico caso, per il resto, o forse non c’è neanche quello, se c’è Dennis, mister Cleg è invisibile. Eh, questo è un dettaglio importante. Non viceversa, se fosse un ricordo potrebbe darsi che potrebbe esserci mister Cleg e è Dennis che è invisibile perché è un suo ricordo, ma non è così. È il contrario, quindi non è la vicenda di mister Cleg che si racconta, è la vicenda di Dennis. Vicenda, forse anche vicenda che è da costruire. “Sei pronto a ritornare con noi figliolo?”.
Beh, ormai è chiaro no? È abbastanza chiaro.
B.S. Tornare da dove?
R.C. Ecco, esatto. Tornare da dove? Dennis torna da un dove. Il papà è andato a prenderlo quindi…Il papà è andato a prenderlo con la macchina in un posto che non è casa, perché dice: “Sei pronto a tornare con noi figliolo?”. Quindi, è stato via qualche tempo.
P.E. Magari è fuggito da casa.
R.C. Adesso potete industriarvi, fantasticare dove è stato Dennis.
P.E. Magari ha conosciuto, incontrato questa figura di mister Cleg.
R.C. No, non si incontrano mai loro, non possono incontrarsi.
S.T. Ma sono la stessa persona.
R.C. Non c’è mai la stessa persona. Mister Cleg non può essere la stessa persona di Dennis.
S.T. Come la intendiamo noi.
R.C. Qui occorre fare clinica, non psicologia. Allora adesso ci fermiamo qui. Abbiamo individuato una struttura, si tratta di completarla con ulteriori dettagli perché divenga caso, qual è il caso che questo film racconta. In quanto caso non c’è la vicenda macabra, né la vicenda patologica, né la vicenda negativa.
Il caso è caso clinico che si rivolge alla clinica, non è caso patologico che deve essere guarito, salvato o quant’altro. È caso clinico e la clinica è compimento pragmatico, cioè la clinica non è la psicopatologia. Non c’è da confondere. Non siamo nel terreno della psicopatologia né su quello della psichiatria, quindi è il caso clinico di cui si tratta, perché si compie indicando l’unicità di una vicenda che si rivolge alla cifra, non al negativo, al bla bla bla, ecc., quindi senza più anfibologia, cioè senza l’alternativa fra positivo e negativo.
Che cosa comporta l’anfibologia? Comporta, per esempio in questo caso, la madre e la prostituta, la madre che è anche prostituta, che lo diventa o che lo è o che lo è stata. È chiaro? E il padre che è quindi traditore, puttaniere, assassino. Fantasia.
Bene, allora traiamo la lezione in vista della prossima volta. Chi non è stato qui questa sera ha avuto torto. Questo è pacifico, perché un’occasione, un pretesto di elaborazione come ci fornisce anche questo film, è rara e preziosa.
Com’è rara e preziosa l’occasione di non tradurre psicopatologicamente e sentimentalmente quello che si vede. Non tradurre in visione del mondo, in visione anfibologica quel che si vede. Quel che si vede occorre leggerlo, non basta vederlo. Leggerlo e ascoltarlo.
Grazie e buonanotte.
L’avvenire e l’idea dell’avvenire
Ruggero Chinaglia Il titolo di questa sera è noto. È noto? Per quale via è noto? Via telematica? Ho capito.
Barbara Sanavia E verbale anche.
R.C. Anche verbale. È stato messo a verbale?
Il titolo è L’avvenire e l’idea dell’avvenire, che non sono da confondere, perché un conto è l’avvenire, che resta imprevedibile e irrappresentabile e un conto è l’idea dell’avvenire, con cui viene negato l’avvenire stesso. Occorre non confondere e non sovrapporre queste due questioni antitetiche.
Accade, a un certo punto della vita – “Prima o poi” direte voi – no, a un certo punto – senza prima e senza poi – che si ponga la questione o venga posta a qualcuno la questione: “Cosa farai da grande?”. Quanto grande? Cioè quando?
La questione è seria e importante, ma può accadere che, proprio lì, proprio in quel punto, se è inteso come un prima o un poi, possa cominciare a agire il fantasma di origine e, agendo, venga negato l’avvenire; e con l’insorgenza di questo fantasma si produca la rappresentazione dell’animale fantastico anfibologico, ossia la negazione del due con la rappresentazione dell’alternativa.
È per l’animale fantastico anfibologico che può intervenire la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’Altro, la rappresentazione del domani, la rappresentazione dell’avvenire. Rappresentazione che nega l’avvenire e lo pone come ostaggio del fantasma di padronanza, dell’idea di padronanza, dell’idea di potere stabilire quando e come fare e se fare, cosa fare, e perché fare.
Questa modalità della padronanza, con la sua fantasmatica, sostituisce all’avvenire il prima e il poi, l’idea di potere gestire in una successione spaziale ciò che è da fare, secondo una modalità canonica, ordinale, cronologica, vigente nel discorso occidentale, come discorso di padronanza, come discorso soggettivo.
Così, in questa idea cronologica, l’avvenire diventa il poi, cioè un’ipotesi rimandabile, gestibile. La padronanza del soggetto è padronanza di potere attuare il rimando, rispetto all’occorrenza.
Il poi, il dopo che toglie l’occorrenza a favore della rimandabilità, deve risultare prevedibile, deve consentire una visione in nome del principio di padronanza, che è anche principio di conoscenza, di sapienza, cioè di subordinazione del fare al sapere.
Questo è il principio di padronanza che si volge nella sufficienza, nell’idea di sufficienza. Il soggetto sufficiente è tale in quanto soggetto al sapere e sottopone, sottomette il fare a questa idea, per cui l’alibi più frequente diventa: “Non so cosa fare”, “Non so come fare”, “Non so”, quindi “Non faccio”. Come se il fare dovesse conseguire al sapere! Ciò perché c’è un’idea di fare rappresentabile, spaziale, senza l’invenzione, senza il tempo, come rappresentazione della soggettività. Il fare diventa la rappresentazione del soggetto, soggetto agente che può agire solamente rispetto al sapere. L’azione deve risultare conforme al sapere.
L’avvenire è così negato. Il fare è negato, perché questa subordinazione al sapere nega l’Altro, e “il fare” non è sovrapponibile alle “cose da fare”, cioè alle cose che il soggetto fa. Il fare è la struttura dell’Altro, cioè il fare sta nel registro pragmatico, e non è sovrapponibile all’elenco delle cose da fare. Le cose si fanno se non è negato il registro pragmatico, che è l’intervallo dove sta l’Altro. Se il fare è sottoposto al sapere, l’Altro è negato, perché il sapere non sta nell’intervallo.
Il sapere è una proprietà e un effetto della ricerca, quindi è un effetto del registro frastico. Il sapere riguarda la ricerca, non è nel registro pragmatico. Sottoporre il fare al sapere vuole dire togliere propriamente il pragma, togliere l’Altro, abolire questo registro e rendersi ostaggi dell’immobilismo, dell’impossibilità.
Tutto ciò in nome dell’idea di origine, della presunta idea della propria origine che, sempre per via di questo principio di conoscenza, principio di sufficienza, costituisce un’ipoteca sull’avvenire.
Così, in nome del principio dell’origine, per ognuno comincia la rappresentazione di sé, dell’Altro e dell’avvenire, e dunque la negazione: la negazione di sé in quanto il sé è irrappresentabile e triale, la negazione dell’Altro in quanto l’Altro è irrappresentabile e triale e la negazione dell’avvenire, irrappresentabile in quanto mai avvenuto. L’avvenire mai può volgersi nel fatto, nell’avvenuto, nell’avvenimento.
L’idea di controllo sull’avvenire sancisce la condanna alla paura. Questa è la gabbia per ognuno. Ognuno sta nella gabbia dell’origine e dei suoi corollari, gabbia dove può esercitare la padronanza. Ognuno esercita la sua padronanza nella gabbietta in cui vive come soggetto, in cui può controllare, presumere di controllare, l’oggetto, il tempo, l’avvenire e dove esistere. L’esistenza è questa: la creazione della gabbia, della gabbietta.
Quanti allevano canarini, pappagallini, animaletti da tenere in gabbia, come promemoria di qual è l’ambiente in cui vive: la gabbietta! Ognuno sta nella gabbietta come figlio dell’origine. Ognuno è figlio dell’origine. E sarebbe atto di tracotanza tradire l’origine! Sarebbe un’insubordinazione rispetto all’amore ideale del padre e della madre, che l’origine dovrebbe sancire.
È questo il tradimento per ognuno che, quindi, si rivolge a vivere conformemente alla sua idea di origine. E anche quando pensa di ribellarsi, in realtà la applica, perché l’idea di origine agisce non secondo il controllo soggettivo, ma nonostante questo! E anche quando qualcuno pensa di compiere un atto innovativo, fa qualcosa che è conforme all’idea di origine. E si lamenta magari! Si lamenta di non riuscire, di fallire, di avere difficoltà, di non riuscire a costruire.
La costruzione esige l’Altro che, se è negato, non può dare la sua mano. Dall’idea di origine alla credenza nel fatto, nell’accaduto, alla ricerca dell’atto fondante, il passo è brevissimo. Ognuno cerca e trova la giustificazione di ciò che non fa, perché purtroppo quella è la sua origine. Basta pensare al Gatto con gli stivali.
Come inizia la fiaba del Gatto con gli stivali? Il mugnaio muore e aveva tre figli: al primo lascia il mulino, al secondo l’asino, al terzo il gatto. E il terzo figlio dice: “Caspita, una volta mangiato il gatto e fatto un manicotto per l’inverno con la sua pelliccia, io morirò di fame!”. Questa è la negazione dell’avvenire attraverso la rappresentazione. Ma, a quel punto della fiaba, c’è la chance. La chance di non proseguire nella fiaba secondo l’idea di origine, che è anche idea di morte, ma che s’instauri l’interlocutore.
La rappresentazione non si realizza, non si conferma il fantasma di genealogia, che è l’altra faccia del fantasma di origine, cioè il legame con ciò che è accaduto, con il presunto trauma primigenio, con la macchia, la colpa, il guaio, ciò che è pensato determinare il seguito, perché, essendo accaduto prima, il poi sarebbe conseguenza di ciò che è ritenuto il suo fondamento.
Questa è la soggettività connessa al fantasma di origine, che diventa agente come fantasma di morte, e ognuno si giustifica perché non può e non sa. Soprattutto non sa! Se sapesse… Ma, non sa! Se sapesse potrebbe anche fare qualcosa, perché potrebbe sapere se questa cosa possa andare bene… Ma, se poi va male? Può andare male! La “cosa” può andare male.
E il soggetto, così osservante rispetto al bene, può correre il pericolo che qualcosa possa andare male? No! Piuttosto si astiene. Non può correre questo pericolo. Tra la minaccia di male e la promessa di bene, occorre attenersi alla promessa di bene. Tanto, questa promessa può realizzarsi successivamente! Mica è necessario che avvenga subito! Può avvenire dopo, un domani, in un avvenire successivo.
La spazializzazione è questa: l’idea che possa accedere qualcosa successivamente, perché subito sarebbe “troppa grazia”! Scherziamo? Subito? Con il pericolo della minaccia di male, piano ragazzi! Piano! Pensiamoci su, non una, non due, ma tante volte! Piano, c’è tempo! Faremo un domani. Intanto, astenendoci, siamo sicuri che la cosa possa andare bene; ma finché c’è la minaccia di male, meglio rimandare.
Il soggetto padrone, questo fa, rimanda. Esercita la sua padronanza sul tempo rimandando, così può governare la sua paura sul tempo, sul male, sull’avvenire, su ogni cosa, perché la paura, una volta accettata, si estende! La superstizione è questa: l’accettazione della paura e l’attribuzione alle varie cose della giusta causa sulla possibilità di male.
Domani è il 17. Il 17, non è mica un numero come gli altri, è il 17. E, allora, la radio nazionale dedica al 17 il suo giusto tributo. E raccoglie i pareri degli ascoltatori su come e perché, su quali scaramanzie, su quali aspettative riservare a questo importante aspetto della vita: la superstizione.
Superstizione, predestinazione. Questa cosa è destinata a andare bene o no? Che destino ha? Perché, se avesse una buona predestinazione ancora ancora, ma se avesse una cattiva predestinazione?
Ecco come esercitare la delega o a dio o al cosmo. Le stelle sono d’accordo con questo programma? Perché, se le stelle non sono d’accordo non possiamo sfidare la minaccia di male, soprattutto quando è sostenuta dalle stelle! Se è già scritto che le cose vadano male, è inutile. Tanto vale attenersi a questa scrittura. Perché correre il pericolo, fare la fatica di dedicarsi, rivolgersi a che le cose si scrivano, se sono già destinate a andare male?
E così ognuno esiste, cioè si rappresenta nel mondo finito, al riparo, senza la necessità pragmatica, senza audacia, senza sforzo, in un sistema termodinamico, un vero sistema finito, senza nessuna istanza, in pace, riposando, già in pace, in attesa, poi, della vera pace eterna.
Da una parte la delega a Dio, se può fare la grazia, da un’altra la delega al cosmo e, dall’altra ancora, la padronanza in nome del sapere, in nome del bene, senza la parola. Tutto ciò nega la parola.
E ognuno ha ricordi: ha il ricordo dell’origine, dei corollari dell’origine, ricordi della famiglia, della casa, dell’infanzia, dei fatti che hanno determinato l’ipoteca sull’avvenire. E ognuno, ricordando, conferma l’ipoteca. Ma, cosa ricorda? Ricorda una fantasia d’origine cui si trova legato, in una gabbietta. E la ricerca diventa la ricerca del fondamento, della causa prima, di chi ha costruito la gabbietta, di chi ha, con malevolenza, sancito l’impossibilità assoluta, e quindi merita solo la vendetta per questo spreco di amore che non è ricambiato.
Tutto questo gran lavorio è senza lavoro, senza analisi, senza industria, senza l’allestimento di dispositivi, senza l’assetto rivolto al compimento della domanda, addirittura senza la domanda.
Ognuno è disposto a giurare che non c’è la domanda. Nel suo caso c’era una volta la domanda, ma poi basta, è stata travolta, cancellata, negata, non c’è più! Ignorando che senza domanda non c’è vita. La questione è questa: senza la domanda non c’è vita, senza l’Altro non c’è vita.
La dottrina della conoscenza che nega l’Altro, nega anche la vita. La conoscenza è senza memoria e vive di ricordi, vive sul passato, sulla rappresentazione del passato, sulla riproposta del fantasma d’origine.
Altro conto la memoria, che si scrive nel gerundio e che non rilascia la conoscenza, ma trae le cose alla scrittura, e risente della tensione verso la cifra. Niente valore senza memoria. La memoria è valore attuale, si tratta della memoria della ricerca e memoria dell’impresa, non come la ricerca passata e l’impresa passata, ma la ricerca in atto e l’impresa in atto, di cui la memoria è la struttura in atto.
È questa la costruzione. Lo spirito costruttivo non è quello che dice “Ho fatto, ho fatto. Eh ma, sono sempre le stesse cose. Ho provato. È inutile provare ancora, ho già provato”. Non c’è nessuna costruzione in questo. È la negazione della domanda questa soggettività. È proprio l’apoteosi dell’idea di origine come negatività assoluta entro cui mantenersi imbecille.
Chi osa costruire? Chi osa il gesto audace per l’invenzione secondo la provocazione, secondo la funzione, secondo l’idea originaria e non il ricordo di sé, della famiglia di origine, della genealogia, del cerchio? Chi osa? Questa è la questione che, in quanto questione aperta, travolge ogni soggettività, ogni padronanza, ogni principio di sufficienza ispirato al saper fare, all’idea di abitudine.
“Eh, ma io sono abituato a fare così, a pensare così, a credere questo. Sono abituato a fare quello che desidero, a fare quello che voglio, a fare quel che mi piace”. Bella gabbietta questa, no? Le sbarre della gabbietta: fare quello che si vuole, fare quello che piace, fare quello che si desidera. Così la gabbietta è proprio confermata e l’avvenire è tolto, perché è rappresentato da quel che piace, dal piacere previsto, da quel che si vuole, cioè dalla volontà di fare e dal desiderio come attribuzione soggettiva.
Così ognuno s’ispira al probabile e al possibile. Cos’è meglio fare? Quali sono le percentuali di riuscita? Intanto c’è un 50% che possa andare bene e che possa andare male, e poi ci sono probabilità e possibilità che sono da calcolare con l’indagine di mercato, per esempio, sentendo il parere degli esperti, sentendo il parere degli amici, sentendo cosa ne dice la famiglia, così da orientarmi sulla probabilità e sulla possibilità. Tutto ciò vuol dire non formulare un disegno, non formulare un progetto, non formulare un programma, ma vivere di predestinazione delegando alla possibilità e alla probabilità la riuscita.
Sul principio della delega non giunge nessuna riuscita, perché la riuscita non è conforme al mondo e alla sua visione. La riuscita è pulsionale. Esige la domanda, il suo corso. Esige la vicenda della domanda e non la padronanza sulla domanda. Esige la necessità pragmatica. In nome della visione del mondo, in nome del bene, la riuscita è negata. È questo che ci dice il film Spider, di David Cronenberg .
Vigendo il principio del ricordo, il commento al film Spider è facilissimo, di una facilità irrisoria. C’è il signor Cleg, il nostro amico Cleg, il “vostro” amico Cleg, che a lungo è stato ospite del manicomio. È stato in manicomio, poveretto. Poi viene dimesso e va in un ambiente più confortevole, dove rimemora e rivive le sue disgrazie.
Uscito dal manicomio, il soggetto cosa fa? Rivive e rimemora le sue disgrazie, le negatività per cui tutto ciò è accaduto e si giustifica. E trova che, sì, così è andata, ma non poteva che andare così, perché lui è Cleg e da quella famiglia, da quell’origine questo poteva nascere, no? Che altro?
La mamma era così, il papà era così e lui è diventato così. È degno figlio di tale madre e di tale padre! Da una famiglia simile, che tipo di vita potrebbe auspicarsi e venire? Questa: manicomio, uscita dal manicomio, ritorno al manicomio! D’altronde, lui ha vissuto un’infanzia in cui il papà gli ha ucciso la mamma, poi se ne è andato con una prostituta e che lui ha pensato bene di uccidere, ricambiando il favore che il papà gli aveva fatto! Questo è il commento. Il commento è così! Lo vediamo benissimo: Cleg arriva dal manicomio, va nella casa famiglia, rivive e ripensa tutte le disgrazie che ha avuto e, chiaramente, poiché il suo destino è segnato, al manicomio deve ritornare!
Se leggete le recensioni a questo film, questo vi dicono, che così è accaduto. Lei dice di no, però, applicando i criteri soggettivi questo è ciò che è rappresentato. Questo è ciò che vediamo nel film: il papà va con la prostituta, uccide la moglie, sta con la prostituta e Cleg uccide la prostituta. E quindi compie giustizia! Psicologicamente, sociologicamente, psichiatricamente questa è la vicenda del film.
Ma, se teniamo conto dell’aspetto narrativo, della narrazione dei dettagli e se indaghiamo clinicamente, forse la storia è un’altra. Anzi, sicuramente la storia è un’altra; esige però la costruzione, non l’applicazione del realismo per spazializzare il racconto nella cronologia, e l’ascolto di ciascun dettaglio e, soprattutto, l’articolazione, l’elaborazione e la dissipazione dell’applicazione della dicotomia alle cose.
Con la logica della parola il racconto è un altro. Il protagonista del racconto chi è? È Mr. Cleg? O Bill? Bill/Cleg? Dennis/Cleg o Spider? O è la signora Wilkinson? O Yvonne? O è la signora Cleg? Chi è protagonista del racconto?
B.S. È un susseguirsi. È Spider che s’immagina sarebbe diventato Mr. Cleg, e invece poi è Dennis.
R.C. Ah sì? E come mai Dennis fa questo viaggio immaginifico sull’avvenire?
B.S. Fa parte della vita.
R.C. Come fa parte della vita?
B.S. Cioè, lei l’altra volta aveva chiesto, chi è Spider? Chi è Dennis? Chi è Cleg?
R.C. Spider/Cleg.
B.S. Per me, Spider è il soggetto bimbo, diciamo. Dennis è il nome, è lui, originario. In alcuni momenti il papà lo ha riconosciuto come Dennis, e Mr. Cleg è la fantasmatica.
R.C. Interessante.
B.S. Cioè, come lui s’immaginava sarebbe stato da grande in quanto figlio di quei due genitori che sono… Che al momento gli sembravano due depravati.
R.C. Precisamente. Proprio così. Questa è la lettura! Mr. Cleg è l’idea di sé, quindi la rappresentazione dell’avvenire se… se… se…! Se l’origine fosse quella, se il fantasma materno dell’origine avesse il suo corso.
Il film presenta, al suo inizio, l’arrivo del signor Cleg in stazione, e termina con la partenza di un’auto dove, apparentemente, c’è il signor Cleg. In realtà c’è Dennis, cui un adulto si rivolge e gli chiede: “Sei pronto per tornare da noi, figliolo?”. Quindi Dennis è stato via, è stato da qualche parte. È stato fuori casa? È andato per un periodo altrove, fuori casa, e in questo periodo, ha avuto una serie di rappresentazioni anfibologiche sulla famiglia, sul papà, sulla mamma e su di sé.
Prima di tutto sulla mamma, perché Dennis ritiene che il papà trascuri la mamma e si rivolga a altre donne, prostitute, per soddisfare le proprie esigenze sessuali. E la mamma, però, nonostante questo, è dedita al marito, gli presta attenzione, gli dedica le sue attese, i suoi atti. Insomma, gli rivolge il suo amore e il marito non la disdegna. Quindi, la madre, che non si cura di Dennis ma va con il marito, è per ciò stesso una prostituta! È una donnaccia! Merita di morire! E, infatti, il marito la uccide.
Ma, poi cosa fa? Porta a casa la prostituta che diventa la padrona di casa. Anfibologia della madre: madre santa, madre buona, madre puttana. Madre virtuosa, madre trascurata dal marito, madre prostituta che va con il marito e trascura il figlio. E quindi la madre va punita!
Anche il padre va punito, perché non ricambia l’amore che il figlio gli rivolge. E così Spider progetta la sua vendetta, di uccidere il papà e la mamma con il gas.
In questa rappresentazione della vendetta, però, si dissipa l’anfibologia della madre: Yvonne non c’è più! Yvonne, dalla capigliatura bionda, non c’è più e c’è la mamma dalla capigliatura castana! Non c’è più l’anfibologia, e quindi non c’è più la necessità di uccidere, di punire. Non c’è più la negatività paterna e materna, e in questa dissipazione dell’anfibologia, il signor Cleg non ha più la necessità di uccidere la signora Wilkinson. Addirittura, il signor Cleg non c’è più!
Dennis, quindi, torna a casa, serenamente, con il papà che è andato a prenderlo! E il film narra di questa rappresentazione anfibologica di Dennis sul papà, sulla mamma e su di sé, sul suo avvenire rappresentato secondo l’anfibologia materna e paterna. È dissipata l’idea di rovina strettamente connessa a questa rappresentazione dell’origine!
La rappresentazione dell’origine nega la riuscita e prescrive la rovina, in quanto il tempo non c’è più, il tempo è finito, c’è la negativa del tempo con tutte le sue correlazioni, prima fra le quali, appunto, l’idea del matricidio.
Si combina così, una negazione dell’Altro, la vita senza il tempo e senza l’Altro; è la conferma di un’idea rovinosa.
Questo è il film.
Chi vive come Dennis, attraversando le rappresentazioni dell’origine? E chi vive come Mr. Cleg, confermando la gabbietta e le sue sbarre? Questa è la questione che si pone per chi non accetta la minaccia del male e la promessa del bene. Questa è la questione che questo film ci rilascia, a nostro avviso.
Se ci sono domande…
Patrizia Ercolani Io non ho capito bene quello che diceva prima, la connessione tra la paura e l’idea di origine, se la paura è generata dall’idea di origine o viceversa.
R.C. Come viceversa. Quale sarebbe il viceversa?
P.E. La paura nasce come effetto di un’idea di origine, causa, oppure…
R.C. Chiaro che la paura, sempre come presunzione e giustificazione d’impedimento, serve a una negazione dell’apertura. L’applicazione della dicotomia alla relazione produce la paura. Non c’è più apertura, ma solamente promessa di bene e minaccia di male, e lì sta la paura, in questa alternativa. La questione mi pare semplice. Altri?
Occorre dire che è interessante la lettura che ha fatto Barbara Sanavia, quindi siamo molto curiosi di sentire la testimonianza la settimana prossima. Molto curiosi.
B.S. Sarà molto difficile che ci sia.
R.C. Sarebbe rovinoso.
B.S. E se ci sarò, non so.
R.C. Non c’è né se né ma. Dopo quest’annunciazione non c’è modo di esimersi.
Altre domande? Non ci sono altre domande? Tutto è chiaro. Bene.
B.S. Ci sono tante domande. Ma la sensazione che ho, anche da altre conferenze, pur non avendo ben focalizzato le cose… l’impressione è, che il parricidio sia una cosa positiva e necessaria per l’instaurazione del nome.
R.C. Non per l’instaurazione del nome, cioè il nome che funziona instaura il parricidio, non viceversa! Cioè il nome è originario, e anche il parricidio è originario. Non è che il parricidio instaura il nome che prima non c’era.
B.S. Rivelandosi il nome, avviene il parricidio.
R.C. Non è una rivelazione, è un funzionamento.
B.S. Mentre il matricidio mi sembrava avesse una connotazione negativa.
R.C. Sì, in effetti il matricidio è questa negazione della madre, perché il parricidio è secondo la funzione, ma non c’è funzione materna.
C’è matricidio se la madre, anziché come indice, viene fatta funzionare. Allora vige il matricidio, cioè l’applicazione alla madre della dicotomia. In questo senso matricidio, applicazione alla madre, che è l’indice del malinteso, di una funzionalità. La madre non funziona, è indice.
B.S. Pulsionale.
R.C. È indice del malinteso, certo, del modo con cui interviene il tempo.
B.S. Va bene. Ci ragionerò su.
R.C. Esatto. E anche il padre è un indice. Mentre il nome funziona, il padre è indice del nome, l’indice che il nome è innominabile. Questo è il padre come indice, indice dell’innominabilità del nome, perché non è da credere che il padre funzioni. Neanche il padre funziona. Il padre è un indice. Padre e madre sono due indici.
B.S. L’innominabiltà del nome… cioè il nome non è già dato.
R.C. Esatto, il nome è innominabile e anonimo, ha queste due caratteristiche. E ciò è importante e coglibile già nel comandamento “Non nominerai il nome”. Primo comandamento: “Non nominare il nome”!
B.S. Il nome di Dio invano.
R.C. Sì, quella è un’aggiunta. Non nominare il nome! Il nome è innominabile. Non si può nominarlo. Non è solo il nome di Dio che non si può nominare, è il nome! Poi, religiosamente, uno dice “Eh, è il nome di Dio”. No, il nome nella sua originarietà è innominabile, nessuno può dire il nome. E questo è una caratteristica del segno in quanto segno tripartito in nome, significante e Altro. Impossibile dire il nome, impossibile dire il significante, impossibile dire l’Altro.
Sono tre caratteristiche della parola nella sua tripartizione in quanto segno, e da ciò discende tutta una serie di questioni, come quella della lingua che non è comune. Nessuno parla la stessa lingua, e lo si deve a questo.
Nessuno può comprendere. Impossibile capirsi. Si tratta di ascoltare e capire quel che si dice, perché la lingua è altra. Questa è la linguistica della parola, la linguistica cifrematica, la linguistica che già Freud ha posto come la questione dell’inconscio.
B.S. Per cui ognuno può capire solo se stesso.
R.C. No, nessuno può capire se stesso, perché, cos’è “se stesso”? Se stesso sarebbe Mr. Cleg! Certo, se lei ha una relazione avviata con Mr. Cleg, allora può capire Mr. Cleg, può capirsi con Mr. Cleg!
B.S. Non un se stesso già dato.
R.C. Se stesso. Occorre indagare cosa si dice dicendo “se stessi”, perché c’è una rappresentazione del sé che vorrebbe che ci fosse la possibilità di essere in pace con se stessi. E molti asseriscono proprio questo: il problema è di stare in pace con se stessi, di stare bene! Anzi, addirittura di stare bene con se stessi. Sarebbe la mummificazione. Stare bene con se stessi vuole dire comunicazione tra mummie. La mummia sta bene con se stessa, effettivamente. Lei sta bene con se stessa?
Sabrina Resoli Mi pare di no.
R.C. Ecco, qui si tratta di capire di cosa si tratta; non della mummia, ma, di cosa?
S.R. Di un’altra entità.
R.C. Esatto.
S.R. Però una domanda, anche l’autorità è indice del funzionamento del nome?
R.C. No, l’autorità è un lascito del nome nel suo funzionamento. È una conseguenza, come l’aumento, la crescita. È una conseguenza. Nulla può aumentare e crescere se il nome non funziona, perché quel che è, non cresce. Nulla può crescere se è, se esiste. Se è tale, come fa a crescere? Cresce solo ciò che tende a qualificarsi, allora c’è crescita, aumento, variazione, differenza, ma senza funzionamento non c’è crescita.
Sì, ma altre notazioni, anziché quiz, anziché la riedizione del “Rischiatutto”? Qualche notazione, qualche testimonianza dell’elaborazione in corso, di un dubbio? Non ci sono dubbi, solo certezze. Lei ha una certezza da dirci?
Tiziana Resoli Un’annotazione, una questione. Stavo pensando alla differenza che c’è fra – parlava prima del soggetto che nella sua gabbietta ricorda il passato, la famiglia, alla ricerca dell’origine, alla ricerca della pecca, alla ricerca di capire che viene da lì e va verso quella direzione – dove non c’è l’elaborazione del ricordo e, invece, quando c’è l’elaborazione del ricordo e l’attraversamento, quanta differenza ci sia.
R.C. Questa formulazione del ricordo mi sembra un compromesso. Manteniamo il piede nella scarpa del ricordo e un altro da un’altra parte, però sempre manteniamo il ricordo.
È questa stagnazione del ricordo che si tratta di analizzare. Il ricordo di sé è il ricordo dell’origine. Il ricordo è negazione dell’analisi. L’analisi è senza il ricordo. Fino a che è possibile porre l’ipotesi di un ricordo, occorre effettivamente interrogarsi su che cosa si vuole mantenere come fondamento.
La costruzione è senza ricordo, l’avvenire è senza ricordo, l’occorrenza è senza ricordo. Invece il ricordo impedisce l’occorrenza, impedisce l’avvenire, impedisce la costruzione. È come mettere una pastoia al passo e al piede, il ricordo. Se il nome funziona, se il significante funziona e se l’Altro funziona, come fa a reggere l’ipotesi di ricordo?
Perché vi sia ricordo bisogna che ci sia una sospensione del funzionamento, quindi il ricordo è il nome del nome che è addotto; cioè il ricordo consacra qualcosa in nome del nome. In nome di Allah, bisogna purificare l’infedele. In nome di Dio… Nel nome di Allah, nel nome dello stato, nel nome del popolo, nel nome di Dio. Quel nome non funziona! È nome del nome.
Così, quando s’instaura un significante padrone. Schreber diceva: “Io sono il presidente”. Ma, se io sono il presidente, allora c’è un problema. “Io sono presidente”, e quel significante non funziona più! È consacrato. Io sono il presidente rappresentato. C’è il soggetto presidente. Presidente è nome del nome.
“Io sono il figlio, io sono la figlia, io sono il figlio maggiore, io sono il figlio minore, io sono il figlio prediletto, io sono, io sono io, io sono e faccio quello che voglio”. Che problemi! Io so e quindi… Io non so e quindi… Tutti ricatti in nome del nome, del sapere raggiunto o non raggiunto, in nome del bene, in nome del male. In nome di…
“In nome di”, non c’è inconscio! “In nome di”, non c’è parola! C’è una serie di rappresentazioni, di esistenze che si volgono in ricatto o riscatto e vivono nell’anfibologia. Nessuna educazione può instaurarsi con l’anfibologia.
E accanto al fantasma di origine molto spesso c’è il fantasma di autonomia, dove è negato il nome e l’autorità. Negata l’autorità, ognuno diventa autonomo. Cosa fa l’autonomo? Fa quello che vuole. E l’autonomia ha la sua rappresentazione nel cancro. Ogni cellula fa quello che vuole. Allora, qual è la combinazione, la connessione tra fantasma di autonomia e cancro? Questo si può indagare.
Così con altre rappresentazioni: padronanza sul nome, padronanza sul tempo, padronanza sulla domanda, padronanza sulla pulsione… E la pressione schizza. “Aumenta la pressione, allora io prendo la pastiglietta!”. “Eh, non ho problemi io, prendo la pastiglia!”. “Sono soggetto libero, perché ho la pastiglietta da prendere e la pressione allora va bene”!
E chi ha la pressione che sale, chi non può mangiare la carne, chi non può mangiare la frutta, chi non può mangiare i dolci, chi non può mangiare questo, chi non può mangiare quello, chi non può fare questo, chi non può fare quello e ognuno sta nella gabbietta. Però può far uso di tanti rimedi, senza cui potrebbe morire; però intanto ha i rimedi.
S.R. Intanto sopravvive. Non muore, ma sopravvive.
R.C. Non ci si può scherzare. Occorre tenere conto della parola, perché i suoi effetti sono imprevedibili e incalcolabili e sbarrare l’istanza di parola, cioè sbarrare la pulsione e la tendenza alla qualità, non è che va senza problemi. Ci sono dei contraccolpi, contrappassi, contropiedi. I problemi ci sono.
Occorre che già i bambini imparino questo, ma più che lo imparino, lo avvertano, lo ascoltino, perché che un bambino sappia usare un telefonino a tre anni non è indice di un’istanza di qualità per la vita, e invece c’è bisogno di questo. O no? Cosa dice, Novaretti? È dubbiosa.
Fernanda Novaretti Come?
R.C. È molto contrastata.
F.N. No, c’è questa cosa del ricordo che non mi è chiara. Quello che diceva Freud dei ricordi sembrava che fosse una cosa su cui…
R.C. Sì, ma, benedetta figliuola, è un saggio del 1800. Freud ha cominciato da lì. Poi siamo andati avanti. E poi bisogna capire quando Freud dice ricordo o altre cose, perché dice e poi contraddice. Freud ha un andamento molto mobile, che non va letto secondo il pregiudizio del lettore, bisogna affidarsi al testo, cogliendo anche la contraddizione che c’è nel testo.
Quello che è stato fatto con Freud è stato, in realtà, ridurre al minimo le contraddizioni facendone il riassunto, che sarebbe a dire che il signor Cleg è stato in manicomio, ha avuto una madre così, un padre così, ha ucciso la matrigna, e poi è uscito dal manicomio. Cioè, bisogna leggere Freud non come commento, ma come lettura, costruendo un altro testo con la lettura. Chiaro?
Freud è interessante, ma non bisogna imbalsamarlo e fare una lettura che consacri Freud come mummia. È il testo che va letto e nel testo ci sono tante faglie. Non vanno suturate, vanno lasciate, esplorate. Ha preso tante cantonate Freud, non è mica un testo sacro! Anche il Vangelo va letto. Se leggiamo il Vangelo possiamo dire che, forse, Cristo non era il personaggio che viene raccontato. In effetti, il Cristo del Vangelo è differente dal Cristo del Corano. Il Cristo di Luca non è il Cristo di Matteo, non è il Cristo di Giovanni. Ma questo solo per darvi un’inquietudine supplementare. Che non vi culliate sull’idea religiosa di conoscere Cristo!
S.T. Non è neanche così religiosa alla fine.
R.C. Beh, abbastanza. L’idea di conoscenza è religiosa, ma questo lo esploriamo la volta prossima. La volta prossima è il 23. Chissà che accadrà il 23! Voi presumete di conoscere cosa accadrà il 23, e invece ancora non sappiamo.
B.S. Che ci sarà il 23, è sicuro.
R.C. Sì, il 23 ci sarà, ma cosa accadrà non lo sappiamo.
La realtà dell’esperienza
Ruggero Chinaglia Allora chi questa sera legge qualcosa?
Patrizia Ercolani Io.
R.C. Ercolani. Poi?
Giampietro Vezza Io.
R.C. Vezza.
Fernanda Novaretti Io ho scritto qualcosa.
R.C. Novaretti. Vediamo se poi si aggiunge qualcun altro.
Questa sera il titolo è La realtà dell’esperienza. Sentiamo qualche testimonianza nel merito e poi discutiamo. Allora, Ercolani, prego.
P.E. Nella parola, la realtà risulta intellettuale in quanto mai si tratta di una questione realistica o idealista. Per accorgersene occorre il racconto, la lingua, il fare, che risentono della logica e della struttura linguistica, per cui qualcosa avviene e diviene in direzione della qualità.
Nessun nome o significante può significare un fondamento, poiché la realtà di ciascun termine non coglie mai la cosa nella sua verità o nella sua essenza. Impossibili la conoscenza e il sapere.
C’è sempre uno scarto tra parola e cosa, per cui Altro interviene, alterando una significazione stabilita.
C’è sempre una divisione, un taglio, che fa funzionare equivoci, menzogne, malintesi, per cui la realtà non è una e universale, uguale per tutti, ma particolare a ciascuno. In quel che si dice, tra nomi e significanti, tra sintassi e frase, Altro è da ascoltare e intendere. L’inconscio è quest’altra logica a partire dall’Altro, da cui l’invenzione di qualcosa di nuovo.
Per accogliere e intendere Altro occorre dissolvere la fiaba, ossia la tessitura dei fantasmi che producono un’immaginazione, una credenza intorno alla propria famiglia, al padre, alla madre, al figlio e alla propria origine, la quale, marchiata, segnata nel bene o nel male, non può che finire.
Ciascun film incomincia con una difficoltà o un disagio del protagonista. A partire dalla difficoltà, insorgono fantasie sul padre e sulla madre in cui prevale l’idea di non essere amato. A causa del non amore – per cui si pongono in rilievo mancanze e difetti – ciascuna riuscita sembra preclusa. Per esempio, nel Ragazzo invisibile, Michele dubita di potere approcciare Stella, una ragazza cui è interessato. Michele è figlio di un padre poliziotto morto da eroe, e di una madre anch’essa poliziotta, che pare lo abbia adottato. Non va bene a scuola, gli amici lo vessano, gli rubano i soldi. E Stella, come può interessarsi a lui? A un certo punto Michele fantastica la sua origine da genitori con poteri speciali, in particolare l’invisibilità, che ha ereditato dalla madre. Con questo insolito potere, Michele immagina una serie di peripezie in cui salva Stella, rendendosi invisibile in modo opportuno. Ma ciò che lo porta a rivolgersi e a parlare a Stella è quando intende che il suo fare e la sua impresa non dipendono dal padre reale o immaginario, ma dall’autorizzarsi parlando.
Quando l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere funzionano, non c’è più bisogno di immaginare nessuna discendenza e nessuna appartenenza, per fare. Dalla riuscita si constata che, nel pragma, nel fare, ciò che appare, non è reale, bensì fantastico, fiabesco.
Il resto non sono riuscita a scriverlo.
R.C. Ah, c’è un resto! Un resto che è rimasto nella penna.
P.E. Sì, c’erano altri punti che avevo colto rispetto alle questioni che si ponevano nel film.
R.C. Allora, Fernanda Novaretti.
F.N. “Qual è la causa del mio disagio?”¬ si chiede il soggetto ¬ “Qual è il fatto che ha determinato il mio malessere?”. Questa domanda parte da un’idea di origine, da un fantasma di genealogia: la ricerca del fondamento che ha determinato gli eventi successivi.
Diverso è chiedersi quale fantasia interviene nel fare le cose. Le cose si fanno perché c’è una certa idea; un’idea che opera, non è l’intenzione che uno ha. L’idea che opera non è quella di cui si ha coscienza. L’idea operante non mi fu proprio chiara, ma il racconto che mi fu fatto, forse, lo chiarisce. Ecco il racconto.
“Devo recarmi a Montegrotto per una breve visita di lavoro, di circa un’ora, anche meno. Pensavo che il tempo di andata e ritorno da Padova a Montegrotto fosse maggiore di quello richiesto per la visita nell’azienda. Non so perché, ma anche l’idea di ritornare a Montegrotto, dove avevo insegnato come supplente nella scuola media per un anno, mi metteva a disagio. Avevo già rimandato la visita di alcuni giorni.
M’impongo, quel giorno stesso, di assolvere l’impegno. Decido di prendere il treno perché è più veloce rispetto all’autobus. Consulto gli orari, arrivo con largo anticipo alla stazione. Salgo sul treno che dovrebbe fermarsi a Montegrotto ma, con mia angoscia, prosegue: è un Frecciabianca per Roma e riesco a scendere a Ferrara. Acquisto il biglietto per Montegrotto, salgo sul treno. Sicuramente ferma a Terme Euganee. Però non sono sicura che corrisponda alla stazione di Montegrotto. Non so a chi chiedere informazioni e, nel dubbio, proseguo oltre Terme Euganee. Dato che è un locale, scenderò alla prossima stazione. E così mi ritrovo nuovamente a Padova! A questo punto prendo il biglietto dell’autobus, ma è troppo tardi per la visita, e conservo i biglietti per un altro giorno”.
Quali fantasie sono intervenute? Quali sono le ipotesi, oltre a quella accennata prima? “A Ferrara si è svolta, tempo fa, di sera, una conferenza dell’Associazione cifrematica alla quale non ha partecipato, perché sarebbe terminata tardi e il mattino seguente doveva alzarsi molto presto”.
E prosegue: “Da molto tempo non utilizzo il treno come mezzo di trasporto; la diversa organizzazione (la consultazione online degli orari, per la quale ho una forte riluttanza e diffidenza, la diversa denominazione dei treni, introdotta ormai da tempo, a dire il vero), ha comportato uno scarto rispetto al già conosciuto, sono intervenuti ricordi. Nel passato, i brevi e i lunghi spostamenti giornalieri avvenivano abitualmente in treno. E solo una volta, tanto tempo fa e in circostanze diverse, mi era successo di sbagliare treno e di andare nella direzione opposta”.
E qui termina il racconto della fiaba, che può rimanere tale in assenza di analisi. Occorre venga indagata.
La logica particolare della parola, o logica della nominazione, differisce dalla formulazione “Ognuno ha la propria logica” o “Avere la propria logica”, perché quest’ultima affermazione, questo “avere” riguarda l’alibi del soggetto, la supposta padronanza per evitare questioni, mettere in discussione l’idea di sé, il principio di unità, il personaggio stabile, la credenza nella realtà delle cose e della loro circolarità.
Esiste la realtà delle cose? Per la protagonista è stata una mattina inconcludente? Per chi crede nella realtà oggettiva o soggettiva sì, perché crede nella realtà convenzionale, comune, fondata sulla certezza di ciò che è avvenuto, senza lettura clinica, senza interrogarsi attorno alle combinatorie che intervengono nel racconto, senza astrazione.
La realtà non è, ma entra in ciò che si dice, nelle sfumature del racconto. Più che una serie di guai di cui lamentarsi, per la protagonista risulta un’occasione per dissipare, con l’analisi, le fantasie intervenute.
R.C. Bene, grazie. Lei, Resoli, ha scritto qualcosa, legge qualcosa?
Sabrina Resoli Sì, ho scritto qualcosa.
R.C. Allora, Sabrina Resoli.
S.R. Ciascun testo è attraversato dalla parola, si situa nella parola e si offre alla lettura. Questa, tuttavia, richiede strumenti particolari e specifici.
Questa serie di incontri ha costituito una palestra per la clinica, perché accade, ascoltando altri parlare e leggendo, guardando un film, di trovarsi nella partecipazione, in quella che, nel discorso comune, è detta empatia, ossia l’invischiamento nel fantasma proprio e altrui. Le idee di comprensione e di condivisione si regolano su questo invischiamento, che impedisce l’ascolto e l’intendimento, nega la realtà intellettuale, a favore del realismo.
Con la modalità del realismo, troviamo i personaggi inscritti in una genealogia e la logica è negata a favore della prescrizione all’animalità. Il funzionamento è tolto a favore dell’azione. Soggetto agente, soggetto agito, o schiavo o padrone, o vittima o carnefice, nell’alternativa. Così, nel realismo, quel che si dice resta inascoltato, trova la sordità prescritta dalla dicotomia. La realtà intellettuale è il contesto in cui le cose che si dicono entrano nel racconto, gli elementi della parola si dispongono e, funzionando, si combinano.
Ciò su cui si è appuntata la mia attenzione, nel corso di questi incontri, è la questione dell’abuso linguistico e di come questo sia essenziale alla lettura e all’intendimento.
Ab usum, ciò che è via dall’uso, ciò che si allontana dall’uso, è lo specifico della lingua. Nessuna lingua comune, nessun senso comune per via di abuso. È per abuso che si dissipa il realismo e si avvia il racconto. Trovo che la lettura proceda da questo: dalla dissipazione dell’idea morale di abuso che, finché vige, prescrive l’ontologia, quindi la sordità.
R.C. Bene. Vezza.
G.V. “A chi sto affidando il cervello di questa bambina?”. Questa la domanda, che qualche tempo fa, nell’imminenza dell’inizio della scuola cosiddetta dell’obbligo, mi sono posto. “Come fare in modo che l’insegnamento non renda quel cervello un omogeneizzato pronto al consumo?”. “Come avere il controllo della situazione, come padroneggiarla?”.
Ecco, subito un fantasma e la partita sembrava persa in partenza. Serviva una soluzione. E poi, che pretesa: non sono all’altezza per gestire questa situazione! Cosa fare? Difficile cercare relazioni con altri genitori, difficile condividere le modalità della nuova esperienza. Un corso di pedagogia? O, meglio ancora, di psicologia? O un corso d’inglese?
Ma ecco un manifesto, un titolo che incuriosisce, La natura del tempo, la proposta di un dibattito, il nome, la memoria, la presentazione di un libro. Tempo prima. Quanto tempo? Quanto tempo? Tempo perso?
Ecco l’occasione per l’incominciamento, settembre 2013, nel mio calendario, 50 anni fa. Nella fiaba stavo per dire: “Io c’ero una volta”, anziché “Ero”. E è una volta che è sempre stata. L’incominciamento che procede dal disagio, lascia la questione aperta. La disposizione all’ascolto, essenziale per l’instaurazione di dispositivi di ricerca, conferenze, dibattiti, lettura, l’analisi e quanti altri sono ancora da inventare. Un possibile modo, per rispondere alla domanda iniziale, l’integrazione.
Il cervello, da encefalo, da contenitore di neuroni più o meno attivi, a luogo dell’integrazione tra corpo e parola, dove la credenza si dissipa, perché non si tratta del gioco del puzzle, le parole non sono le tessere che si combinano ogni volta nello stesso posto per dare lo stesso risultato. Piuttosto, come nel gioco del nove, dove una casella rimane sempre libera, lascia lo spazio alla tessera successiva, e da qui il rilancio, infinito e senza soluzione.
Accadeva si parlasse di amore e di odio nel contesto di quei primi dibattiti, partecipando ai quali avrei voluto dire la mia idea, senza sapere come precisare quello che intendevo: amore e odio non esistono se non nella transitività, nel rapporto tra soggetti. Prova di amore e prova di odio, come dirigerle, come evitarle, come addomesticarle, come farle appartenere ora alla natura ora alla cultura, per arrivare alla pace dell’amore materno, o a combattere per amore attribuendosi l’odio? Questa è la gestione erotica dell’amore e dell’odio che sancisce l’idea di morte, inseguendo non meglio precisati equilibri sociali, da mantenere a favore di una presunta idealità. Ma amore e odio non compongono una coppia oppositiva, né si lasciano addomesticare da amanti o belligeranti. Quale amore, quale odio ritrovandosi a non potere strutturalmente dire “Ti amo, ti voglio bene”, oppure “Ti odio, ti voglio male”?
La novità è l’amore nell’incominciamento, nel debutto, dove le cose mantengono la virtù della solitudine, con la salvaguardia della relazione non umana, senza la degradazione a rapporto. L’amore per una cosa nuova, ciascun giorno nuovo, per un dispositivo di ricerca, per il progetto e programma di vita e con il rischio d’impresa, senza economia del tempo. Ovvero, rischio di riuscita, rischio che il disagio possa diventare un’opportunità.
E con l’odio interviene il dispositivo di battaglia e di comunicazione, interviene il fare senza complicità e senza conflitto, interviene il tempo che, in quanto indisponibile, non è sottomesso all’idea di bene. Senza l’odio, c’è il rispetto della differenza senza ammetterla, c’è l’economia della differenza dell’Altro, senza la tolleranza, c’è l’economia della tollerabilità e della sopportabilità.
L’ascolto di queste conferenze lasciava sempre uno spazio al dubbio: “Manca sempre qualcosa”, un’altra precisazione, un motivo di ricerca, di lettura e tanto spazio al soggetto: “Sarò in grado di capire quel che viene detto, sarò in grado di continuare questo itinerario? È tempo perso? Sono sempre le stesse cose?”.
Un’urgenza si manifesta. Come portare, diciamo così, “in famiglia” questa esperienza, in modo che non rimanga autoreferenziale?
Un altro incominciamento, il più difficile, anzi no. Si tratta di trovare il modo opportuno se la famiglia è questione di eredità senza genealogia, se non diviene luogo di dogmi e di conflitti, se non ci sono sudditi e tiranni, se non c’è gerarchia. Se non c’è l’accettazione di ciò che si rappresenta come famiglia – marito e moglie, mamma, papà e figlia, maschio e femmina – allora è possibile cominciare. E le cose non sono più come uno se le era immaginate.
Accade, a esempio, che il papà possa rispondere, quando viene chiamata la mamma, che il figlio venga dichiarato adottato. “Oddio papà, anch’io come la mia compagna di classe?”, e che mamma e papà non si sentano, poi, più così tanto naturali.
La natura, come rappresentazione del mondo, impedisce il distacco. Il cordone ombelicale, benché rescisso, non è tagliato se non interviene il tempo. E la famiglia si adagia nel mammismo, nella genealogia, nel ruolo procreativo, assistenziale e educativo, la cosiddetta genitorialità, che istituisce l’allevamento.
Accogliere la domanda secondo l’inconscio, la logica particolare della parola, significa che ciascun atto è originario e non c’è predestinazione o ereditarietà. Significa disporsi alla sessualità senza riproduzione, senza idea di procreazione. Ecco la famiglia come traccia, senza finalismo, senza più personaggi precostituiti, ma indici del nome, del tempo, del malinteso. Senza più appartenenza di genere, tanto meno umano.
Ma, nella cosiddetta società? Nel luogo di lavoro, nei luoghi dove la realtà è ciò che è ritenuto esistere al di là di ogni ragionevole dubbio? Come divenire dispositivo intellettuale nei luoghi dove la realtà è convenzionale e sono richiesti i requisiti come prova di adeguamento al canone? Qui sta una nuova scommessa. Questa la battaglia quotidiana: non cedere all’ideologia, ideologia sorretta dalla credenza di non avere più bisogno del cervello come dispositivo di direzione.
La necessità dell’elaborazione diventa intoglibile, quasi una difesa-attacco simultanea, come risposta al velo inquisitorio istituito dalla ragione sufficiente, quando si tenta il ragionamento, quando, anche solo un filo di logica comporta l’inciampo. Ma nulla c’è sotto il velo, nessuna vittima predestinata, nessuna pena o colpa da espiare.
Non c’è nulla sotto e nulla sopra. Oltre il realismo un’immensità, la superficie come apertura. Questa la realtà intellettuale, come l’ho intesa io a un certo punto: la dissipazione dei tre principi della logica aristotelica, del discorso occidentale, discorso della festa; la ricerca dell’oggetto come identificazione non partecipativa, senza più sostanzialismo o mentalismo o comportamentismo, senza rappresentazione di sé o dell’Altro.
Sembra tutto facile! E, invece, quella stessa scuola che oggi insegna che 1+1 = 2, anzi, che il due è il risultato di uno più uno, domani insegnerà che il terzo è da escludere, l’uomo è mortale, a una causa corrisponde un effetto, le verità sono sempre due, è meglio non contraddire ciò che è scientificamente provato e che rientra nella statistica, e che è sufficiente imparare, accumulare nozioni e tecnicismi, ignorando lo stile e la qualificazione. Non possiamo farci niente, sinapsi e neuroni sono i veri agenti della vita e noi possiamo solo stare a guardare, in attesa dei loro movimenti e dello loro alchimie; più precisamente, in attesa della morte. Oppure controllarli, o meglio, delegare il controllo a un altro agente.
Neuroscienze, parola nuova. Ma più che una novità, a un primo tentativo di capire, le neuroscienze sembrano il compimento, cosiddetto scientifico, della predestinazione e il compimento, cosiddetto politico, di un inquadramento sociale; ossia il cervello inteso come un organo a disposizione dei salvatori del mondo di turno, per controllare e arginare gli ultimi irredenti, mentre, per i già redenti, gli assolti dalle fatiche del funzionamento, la scoperta è epocale: c’è una localizzazione encefalica dei sentimenti, delle emozioni, del bene e del male e di altre dicotomie, per cui l’ipotesi del nuovo, della contraddizione è negata. Assenza di dubbio.
L’uomo, agente del cervello inteso come organo, come encefalo, con i controllori delle centraline governati dallo psicofarmaco istituzionalizzato, è una operazione chirurgica a cui gli umani sembrano volentieri sottoporsi. E la promessa della felicità, qui, sembra essere l’appagamento del desiderio di anticipare i fatti, la standardizzazione della previsione degli accadimenti. E non solo su base statistica, ma proprio scientifica.
Neuroscienze. Il plurale già indica l’assenza di specificità rispetto alle altre materie pur istituzionalizzate, indica la generica ricaduta nel siamo tutti uguali, uguali diritti, uguali doveri e uguali comportamenti, anziché la terzietà, che indica che siamo simili, quindi diversi, ciascuno nella sua specificità. Se togliamo il terzo, rimane la reazione all’impulso. E questo sembra essere il terreno della manutenzione della salute sociale e mentale per le neuroscienze, la mappatura della centralina e l’istituzione dei figli prediletti.
Altra cosa il cervello come segno di civiltà, che il corpo-organismo sia uno strumento di pensiero. Che la parola dimori, quasi in esilio, nel corpo e esiga per forza il manifestarsi nella sua qualificazione. Cervello come dispositivo di direzione intellettuale, per cui altro modo d’intendere la realtà convenzionale, ossia come rinascita intellettuale nella parola, che può avvenire, a un certo punto, per ciascuno. È la resurrezione in atto, senza bisogno di dovere morire. A nessuno è preclusa la tentazione intellettuale, ma occorre il cervello, senza averne paura.
Qualcosa si muove in questa esperienza: non c’è più la barca all’àncora di salvezza nello stagno del mondo, nel suo tragitto circolatorio, nella calma piatta della routine quotidiana (dio-patria-famiglia); non ci sono più le macerie intellettuali accumulate (delimitanti l’argine di sicurezza della navigazione tra malesseri e benesseri, più o meno naturali), nella sottovivenza del possibilismo (l’altra faccia della sopravvivenza), che il luogocomunismo intende come negativa della normalità.
Qualcosa si muove. Il sasso, gettato nello stagno, genera l’onda che diviene anomala. A un certo punto, il corpo sembra cancellarsi e rimane un punto. Non c’è più avere o essere, si diventa leggeri, si cammina sull’acqua, si vola. Non c’è più attesa, liberazione, credenza, salvezza, garanzia, ringraziamento, convenienza.
È un’esperienza tutt’altro che consolatoria. Potere cogliere un effetto di verità nell’esperienza, questo il privilegio.
Non c’è. Con la cifrematica, non c’è più suicidio. E, con spostamento d’accento e variazione di tono, l’àncora si trasforma in ancòra. Per cinquant’anni ancora la scommessa è vivere.
R.C. Bene. Le testimonianze di questa sera mi sembrano particolarmente rilevanti e indicative della scommessa in atto e in corso. Sono indicative anche di un percorso di cifratura in atto. È proprio la restituzione in cifra che qualifica l’esperienza, per cui può dirsi cifrematica. Senza la restituzione e senza la testimonianza non c’è cifrematica. La cifrematica risulterebbe un’idealità, un’idealità di una possibile applicazione di uno schema, di un metodo, di una disciplina, ma, in realtà, senza la restituzione, senza la prova della cifratura e della cifralità non può dirsi cifrematica in atto.
La cifrematica, in quanto scienza, procedura e esperienza della parola che diviene cifra, è esperienza in atto, è procedura in atto, è scienza in atto. Non è un ricordo di qualcosa che è stato fatto, detto e che appartiene al passato. Non c’è cifrematica del passato, non c’è cifrematica nel passato.
La cifrematica è itinerario in atto per ciascuno. Dove ciascuno è lo statuto intellettuale, non è qualcuno che per vezzo possa definirsi ciascuno. Il vezzo sarebbe che ciascuno diventerebbe l’Altro nome dei tutti. Invece no, la cifrematica indica, se c’è, lo statuto del ciascuno, se questo statuto si enuncia, si indica, si prova. Perché questo statuto esige le sue prove: prova di verità, prova di realtà, la testimonianza, la restituzione. La restituzione di quello che si è ricevuto in logica, che si è prodotto in esperienza. Perché è nella restituzione che si tratta della realtà intellettuale, della realtà dell’esperienza. Realtà dell’esperienza, non realtà delle cose.
La realtà delle cose è il canone della realtà, il canone filosofico, ontologico, psicologico, per indicare che le cose sono, sono tali, sono sempre quelle, sono sempre le stesse. E invece no! Le cose non sono mai le stesse quando entrano nella parola, quando entrano nel processo di qualificazione. È possibile, tuttavia, opporsi a che le cose entrino nel processo di qualificazione, propugnando la soggettività, l’ontologia delle cose, per rivendicare l’ontologia di sé, l’ontologia soggettiva.
Qual è l’esigenza di quella forma di rivendicazione che dovrebbe confermare le cose nella loro ontologia, per dire che nulla può variare e mai può intervenire la differenza, ma che tutto si collega in maniera informe, tale da giustificare la predestinazione, l’ontologia, la genealogia? È il fantasma di padronanza.
Questo è ciò che determina la forma di rivendicazione in base a cui, ognuno, in quanto appartenente alla schiera, al genere, asserisce di appartenere alla realtà delle cose. E, per appartenere alla realtà delle cose, ognuno deve essere.
L’ontologia è la base di questa esigenza di potere iscriversi nella realtà della cose. Per cui la questione non è più la valorizzazione di quel che si incontra, ma l’adeguamento di ogni cosa alla realtà generale, pensata, presunta, ipotizzata ma, per ciò stesso, data per tale. Non si tratta più, in questi termini, della realtà dell’esperienza, bensì della dimostrazione che ognuno ha in corso l’esperienza della realtà, la realtà così come deve essere, come è pensata, come è idealizzata. La realtà normale, ossia senza anomalia, senza la parola.
E questo non è difficile: basta togliere la memoria e attuare, anziché la memoria, la rimemorazione. Allora ognuno ricorda, è il segno del suo ricordo. È l’essere del suo ricordo, l’essere della prescrizione a vivere secondo il suo ricordo.
È una modalità piuttosto seguita. È la modalità di chi vive nel presente. Che vuol dire vivere nel passato, perché vivere nel presente è un modo di negare l’attuale e d’instaurare la rimemorazione, anziché la parola. E negare l’attuale, pur nell’apparente facilità, è un modo dell’autolesionismo.
Notava Vezza, precisamente, che con la cifrematica non c’è più suicidio. Esatto, con la cifrematica, con la parola in atto, con l’instaurazione dell’attuale non c’è più suicidio. Cosa che, invece, è il fantasma a cui tende la rimemorazione, con la sua idea di fine, con la sua idea di padronanza.
Il suicidio non necessariamente deve avvenire in forma istantanea, decisiva, come riporta la casistica della cronaca. La cronaca nera indica chi si spara, chi si taglia la gola, chi si butta dalla finestra. Ma non è l’unico modo. C’è anche la negazione dell’attuale, per cui la pulsione, anziché scriversi, subisce la contrapposizione con contropiedi e contrappassi, che non sono così evidenti come nell’omicidio e nel suicidio cruento, ma altrettanto efficaci.
La negazione dell’attuale è un fantasma di padronanza, è il tentativo di realizzare il fantasma di padronanza, cioè di gestire il tempo, la parola, in nome di un’idea di fine. Solo preordinando un’idea di fine è possibile gestire la padronanza sulla parola, la quale sarebbe padronanza sull’oggetto, sull’Altro, sulle cose, sull’operatore, per cui ognuno diventerebbe agente creativo, teologico, agente della creazione.
Ognuno si costruisce il suo tran-tran, il suo modulo, il suo modo. Ognuno avrebbe, per questa via, la sua logica, sarebbe il rappresentante, il portatore più o meno sano, della sua logica. Ma, l’inconscio non è questa logica personale che ognuno avrebbe. L’inconscio è la logica della parola, secondo cui ciascuna cosa accade, avviene e diviene. Avviene e diviene! Questo avvenire e divenire sfugge sia alla padronanza sia al controllo. Sta lì, la realtà intellettuale, nell’avvenire e divenire di ciascuna cosa, quando è presa nella scienza della parola, quando è presa nel processo di valutazione. Presa non soggettiva, bensì scientifica.
Nessuno può prendere la parola, a condizione di espellerla, di negarla. La realtà è la realtà della parola. La realtà intellettuale è la realtà della parola. La realtà dell’esperienza è la realtà della struttura, è la realtà della memoria in atto, è la realtà che si scrive. Non la realtà già scritta, già fatta, non è la realtà del detto e del fatto. Chi si appella al detto e al fatto nega la realtà intellettuale, si ontologizza, si concretizza, si soggettivizza. Propone l’esperienza della realtà, ma non la realtà esperienza.
L’esperienza della realtà è normativa. Propone una realtà normale, da descrivere, cui attenersi, per l’idealità, per la normalità. La realtà come realtà dell’esperienza, la realtà che si tratta di ricavare da ciascuna testimonianza, non è né oggettiva né soggettiva. È attuale! È secondo l’anomalia, secondo la particolarità. È la realtà del racconto, è la realtà secondo la questione aperta. Non secondo la rappresentazione sociale, ma secondo la questione aperta. È la realtà che procede dal due e dal suo modo. Per questa via, si può intendere che la realtà non è tributaria della coscienza. Nessuna coscienza della realtà. Nessuna percezione.
Ma, percezione, esperienza, ontologia della realtà sono capisaldi disciplinari per discriminare tra una corretta valutazione della realtà e una valutazione abnorme e, eventualmente, anche patologica. L’idea di una patologia intorno alla realtà e alla sua restituzione, alla sua valutazione e al racconto che punta a descriverla, è l’acme del fantasma di padronanza. Tutta la psicopatologia è un fantasma di padronanza che vieta la differenza e la varietà. Nega la costruzione, nega che vi sia fiaba, novella, saga, per una corretta descrizione di ciò che è. Ma, intellettualmente, nulla è e nulla esiste! Quel che è definito esistente è una fantasia, è ciò che viene rappresentato.
L’esistenza di Dio? È una rappresentazione di Dio. È già antropomorfismo. L’esistenza di qualcosa è rappresentazione di quella cosa, è sostanzialismo. Qual è la combinatoria? Qual è il valore di quella cosa? Come quella cosa si combina con altre? Questa è già un’altra faccenda, perché la cosa non è più la stessa cosa. È già un’altra cosa, non è fissa, non è sostanziale.
Come ciascuna cosa entra nell’esperienza qualificata cifrematica? In assenza di denigrazione, di degradazione, di attribuzione del male all’Altro, del bene all’Altro. In assenza di significazione, sia preventiva sia, per così dire, postuma. Nessuna cosa è segno di un’altra cosa. E non c’è nemmeno chi possa essere definito segnato da qualcosa. Dunque, non c’è soggetto mentitore e soggetto che dica la verità. Rappresentazione della padronanza, rappresentazioni che servono solamente a giustificare il proprio rapporto con la paura. E, quando dico il proprio rapporto con la paura, dico rapporto di sé a sé e di sé all’Altro. Il rapporto da soggetto a soggetto. Chi vive rapportandosi alla paura, o con la paura, vive soggettivamente, vive senza la parola. Vive nella padronanza di presumere di sapere già cosa seguirà a un atto. È il colmo della negazione della parola, è il colmo della padronanza. È l’adesione totale all’ideale psicopatologico, che si può formulare, anche, nel modo della cosiddetta anoressia mentale.
L’anoressia, così detta mentale, è un fantasma di padronanza dove interviene l’idea di un automatismo tra potere pensare, dire, fare, seguito dall’essere della cosa: “Penso, dunque sono”, diceva qualcuno. Questa è già anoressia mentale: io penso, io sono! È negata la parola! C’è solo la soggettività dell’essere, del pensare, del fare, con tutte le sfumature. Io penso, dunque posso, voglio, devo, so. Chi si regge su questa ideologia della padronanza “sa cosa vuole”, cosa può, cosa deve… Pensare di potere fare se si può, se si vuole, se si deve è adesività, è fantasma di padronanza sulla pulsione, è evitamento del rischio di parola, di verità, di riuscita.
Il rischio di parola è rischio di riuscita. Ognuno, invece, ci mette l’idea di pericolo. Il pericolo cos’è? È la conseguenza dell’idea di male posta dinanzi. Ma, quest’idea di male, chi ce la mette? Di chi è? Di chi è l’idea di male che condiziona la vita di chi ci crede? Chi mette il male davanti alle proprie presunte azioni, o alle azioni che altri potranno fare? Chi lo mette? Ognuno lo mette! E metterlo è fantasma di padronanza. Sembra paradossale, ma, pensare di potere gestire il bene e il male, è fantasma di padronanza. E per potere gestirlo bisogna prevederlo, ipotizzarlo. Bisogna attribuirlo a qualcuno! Questo è fantasma di padronanza.
La psicopatologia li chiama in tanti modi: sindrome di qua, sindrome di là, di qui, di lì, disturbo di su, disturbo di giù. Si tratta di modi geometrici e modi algebrici, indicanti l’economia di qualcosa, l’ipotesi di potere gestire, evitare. Ognuno si prefigge di evitare il male, per esempio. E, per evitare, si limita: “Questo non lo faccio, quello lo rimando, questo lo farò domani”. Ma, quest’idea della gestione delle cose e del tempo, come si scrive? Se la psicopatologia è fantasma di padronanza, come situare la patologia? C’è patologia che non sia psicopatologia?
È padronanza anche presumere che, rispetto a una difficoltà, a un sintomo, a un disturbo ci debba essere un rimedio immediato, per alleviare o togliere disturbo e sintomo, per evitare che si scriva. Ma, l’evitamento della scrittura è senza conseguenze? L’evitamento presunto del male è senza conseguenze? E l’evitamento del bene? Evitamento. L’azione di evitamento!
C’è già, così, un soggetto agente. Chi può compiere l’evitamento se non un soggetto agente, un soggetto che è già nell’anoressia mentale? È un soggetto che agisce – avendo tolto l’anoressia intellettuale dalla parola – per introdurre l’evitamento, per introdurre un controllo, un dosaggio, una posologia, una padronanza, un principio d’autorità, un principio di conoscenza. “Io mi conosco, so ciò di cui ho bisogno. Perbacco, so ben io di cosa necessito”. Principio di ragione sufficiente. E poi lamentazioni. Però, il soggetto sa cosa gli serve, cosa deve fare per non perdere tempo, per soddisfare la domanda. Sa. Perbacco, sa benissimo quando e come fare o non fare. E già questa alternativa indica che non c’è più la relazione originaria, ma il principio dell’alternativa, la soggettività. C’è già rottura, contrapposizione. C’è già sostanzialismo, rappresentazione, antropomorfismo. E la caratteristica principale dell’antropomorfismo è la fine rappresentata, l’idea di fine.
Cosa faceva Dio prima della creazione del mondo? S’annoiava, dicevano alcuni. Ha creato il mondo, per non annoiarsi. Cosa faceva, prima? E cosa farà, dopo? Dio vuole? Vuole il bene? Vuole il male? Cosa vuole Dio, per l’uomo? Dio vuole? Dio pensa? È un dio anoressico mentale: talvolta vuole e talvolta non vuole, sa cosa vuole e vuole quello che sa.
Questo è l’anoressia mentale: pasto d’amore e pasto d’odio. Rivendicazione permanente. Rappresentazione permanente di una realtà che esiste appunto in quanto rappresentata, ma che non è intellettuale, che nulla ha a che vedere con la valorizzazione, con la pulsione, con la vita. Una realtà senza parola e senza interlocuzione, senza analisi. Senza analisi come teorematica e senza analisi come esperienza. Esperienza analitica e di analisi, esperienza del modo in cui interviene la teorematica a qualificare ciascun atto, senza cui non ci sono gli atti ma, ognuno si rappresenta le azioni sue e degli altri, da fare o da subire, come agente o come vittima. Non c’è scampo.
Una volta attuata la dicotomia dell’apertura, la realtà è rappresentata così: cose da subire o cose da agire. Ma sempre nella padronanza, sempre nell’accettazione di un minimo male necessario, nella negazione di un male che potrebbe risultare eccessivo, e contro cui intraprendere tutta una serie di azioni e di reazioni. Tutto ciò va senza la realtà intellettuale e la realtà dell’esperienza, ma in nome di una realtà rappresentata, cioè ontologica, data per tale.
Se alla realtà togliamo il principio di realtà, ossia il contingente, resta l’ontologia. A qualificare la realtà è il principio di realtà, il contingente. Se alla realtà togliamo il contingente, la prova di realtà, che ne è della parola? Nessuna interlocuzione, nessuno statuto intellettuale. Solamente dialogo. E che cosa porta il dialogo? I dialoganti. Dove giungono i dialoganti? O all’accordo, perché la pensano allo stesso modo e quindi giungono allo stesso punto da cui sono partiti, o al disaccordo, perché la pensano in modo diverso.
Il dialogo è la rappresentazione della possibilità della mediazione o del duello, sempre in nome del principio di padronanza. Perché il dialogo va gestito, diretto, evitando le contrapposizioni più marcate; oppure accentuandole per giungere alla rottura, una volta deciso di rompere. Rompere, cioè che cosa? Abolire il tempo. È sempre in nome della padronanza che giunge la rottura. La rottura di che cosa? Che cosa può rompersi nella parola?
La rottura è una rappresentazione dell’abolizione del tempo, con l’ effettualità imprevedibile che il tempo instaura. Il soggetto autonomo, il soggetto sufficiente, il soggetto gestore dice no, meglio la rottura. E allora c’è chi rompe, chi si è rotto, chi vuole rompere, chi dice di essere stato rotto, chi vuole rompere la relazione, chi vuole rompere le scatole. C’è sempre una rottura. Rottura di che? Anche la stessa rottura di scatole, a cosa corrisponde? Queste scatole cosa sono, dove sono, quali sono, dove stanno? La rottura. Mi hai rotto! Adesso mi hai proprio rotto! La pazienza è finita. Mi hai rotto. L’idea di fine. Fine di che cosa? Di fine del tempo! È sempre questione del tempo. In vari modi, in varie rappresentazioni, si tratta del tempo!
Oppure si tratta della relazione. Dove la relazione è sottoposta al tempo, la relazione è tagliata. Ecco la dicotomia, l’alternativa, la contrapposizione: “Impossibile ogni interlocuzione”. Eh! se è abolito il tempo! “Nominatomi soggetto della relazione, sancisco la rottura della relazione”.
E la parola dove sta? In tutto ciò, la parola dov’è? È stata tolta, abolita. In nome di che cosa? Questo è da capire. In nome di che cosa? È sempre in nome di qualcosa che avviene questa abolizione: in nome di Dio, della religione, del buon senso, della ragione sociale, in nome… In nome e per conto di! In nome del nome! In nome della sostanza. In nome di qualcosa dato come sostanza. È questo che fa sì che la parola sia tolta: nel nome di Dio, di Allah, del cristianesimo, della politica, della socialità, della normalità, nel mio nome, del tuo nome, nel suo nome… In nome di! In nome della decenza, della purezza. In nome di!
Quando interviene il nome del nome, la parola è già tolta. Non è che c’è ancora e si può stare lì a discutere. Perché, se si sta lì a discutere, si tratta dei dialoganti, dei duellanti. Non c’è più interlocuzione.
L’interlocuzione non ha soggetti agenti, interloquenti. L’interlocuzione è senza soggetti nel dispositivo di parola. Avviene nel cervello come dispositivo. Dispositivo programmatico, pragmatico. Dispositivo che si rivolge a un compimento, costruttivamente. Nel dispositivo, l’interlocuzione è necessaria, ma non ha agenti e non ha rappresentanti. Procede dall’apertura e si rivolge al programma. Non ha la ragione dell’uno contrapposta al torto dell’altro. È costruttiva in direzione del programma. Ecco, allora, la questione: qual è il programma?
Perché il programma si compia l’interlocuzione è necessaria, non è contro. E perché il programma si concluda, occorre il programma senza personalizzazione, senza soggettività, senza pregiudizio, senza principio di autorità.
Ipse dixit. “Ha detto così, ha fatto così, allora vuol dire che bisogna sia così”. No, non vuole dire niente, non significa niente. Quel che si dice non significa niente! Certo, se c’è chi si appella a quel che si è detto, allora è in atto un principio di significazione del detto, del fatto. La realtà immaginifica è pervasiva. Tuttavia, quel che si dice non significa niente. Tra l’altro, occorre capire quel che si dice, perché quel che si dice non è mai detto, non giunge mai a essere detto. La realtà è in atto! E chi si presumesse l’interlocutore, si troverebbe a fare la caricatura dell’interlocutore, che è irrappresentabile.
L’interlocutore esige l’anoressia intellettuale, ossia l’oralità senza agente presunto. Ogni agente è presunto e si situa nella credenza, nella fantasmatica che va analizzata; altrimenti è consacrata e ognuno vive nell’iterazione di quella fantasia. Poi, forse se ne accorge! Dopo cinquant’anni, si accorge che ha vissuto iterando una fantasia d’origine! Non era meglio analizzarla prima?
Le fantasie agiscono se non sono analizzate. Se non è inteso, l’operatore diventa agente. Il fantasma materno è un fantasma agente. È un’idea di fine che condiziona quella che viene creduta la realtà, ossia la cerchia soggettiva dove qualcuno pensa di esistere. Il soggetto si rappresenta in una realtà virtuale, non nella realtà intellettuale, che è senza ontologia, senza rappresentazione, senza rivendicazione, senza paura, senza rimando e senza sufficienza. E ciò è una bella cosa, perché, in questo modo c’è la chance, ciascuna volta, della scommessa intellettuale.
Ci sono altre domande?
P.E. Intorno alla percezione. Se ho capito, nella realtà intellettuale non c’è nessuna percezione. Allora la percezione è legata all’essere, all’ontologia?
R.C. Alla distinzione tra percipiens e perceptum. La percezione è una proprietà della coscienza. Qui si tratta della realtà senza coscienza. Senza coscienza! La realtà è secondo la logica particolare e nella restituzione. Nel racconto di restituzione. Cioè, è una combinatoria, è un dispositivo che entra in atto; non è una proprietà encefalica.
C’era chi, a suo tempo, diceva che la realtà esigeva quantomeno il tatto. Per potere dire di essere descritta, raccontata, occorreva almeno il senso del tatto, ossia la percezione. Era un altro modo di fare entrare l’organicismo per via filosofica, cosa che è stata fatta da sempre, a parte rare eccezione.
P.E. Allora, di che si tratta quando si parla della logica delle sensazioni?
R.C. Un conto è il dolore come sensazione, il dolore inconscio, il dolore come proprietà della differenza da sé del significante, non il dolore di chi dice “mi sono fatto la bua, ho bua qui, ho male qui, ho male lì. Che male, ho tanto male alla pancia, ho tanto male alla testa. Questo non posso farlo perché ho tanto male alla testa”. Questo non è dolore. È coscienza del dolore, ossia è un modo della soggettività per evitare qualcosa, una giustificazione. Ogni appello al dolore è in qualche modo soggettività. Cioè, il dolore estremo è irrappresentabile, e come tale non porta all’evitamento ma, in quanto estremo, giunge alla proposta. Giunge al contributo programmatico in quanto estremo.
P.E. Estremo significa senza rappresentazione?
R.C. Esattamente! Estremo significa senza rappresentazione, senza localizzazione e senza giustificazione del negativo. Questo vuol dire estremo.
P.E. Ho comunque capito che un dolore rappresentato è sempre un modo di creare il soggetto, la padronanza su qualcosa che è estrema.
R.C. Non automaticamente. La parola è estrema ma, se è negata, non lo è più. C’è un estremismo della parola che non è automatico. Occorre che l’estremismo giunga a rilasciare il suo frutto. Non è che la parola è estrema così, automaticamente. No. L’estremo frutto è la cifra, ma occorre coglierla.
P.E. Sì, e è coglibile se non c’è la padronanza.
R.C. Questo certamente, perché la padronanza è il freno. Quella che sembra essere la massima virtù è il freno. Freno rispetto al capire, all’intendere, al fare. È il freno. La padronanza è il freno.
P.E. Di qualcosa che è già in funzione, cioè, prima della padronanza, prima di questa creazione, sottolineature…
R.C. Prima, dopo… Dire prima è dire già padronanza. Prima-dopo è già padronanza. Prima di che? Prima e dopo e è già abolito il tempo. Nel tempo, quale prima e quale dopo? Siamo già nella circolarità, nella successione. L’idea di prima e l’idea di dopo è già la successione. E nella successione il tempo è già abolito. Se c’è successione c’è fantasma di fine. È semplice. La cosa è semplicissima. Nel momento in cui interviene la fantasia di padronanza, c’è chi dice: “prima, dopo, prima e dopo, questo ora non la faccio, questo lo faccio dopo, questo qui valuterò, ciccì, coccò…”.
P.E. Se non c’è, non se lo pone. Fa e basta, arriva questo estremismo e procede.
R.C. Allora interviene l’occorrenza, secondo il programma. Perché si è istituito il gerundio. Il gerundio è senza padronanza. È chiaro?
Tolto il gerundio ognuno ci mette il suo controllo, la sua sufficienza, la rappresentazione di sé, dell’Altro, i propri pregiudizi, la misura di sé, dell’Altro, la propria idea di questo e di quello: E allora: “Questo proprio non posso, vorrei ma proprio non posso, vorrei, vorrei tanto ma non posso, farei tardi, o farei troppo presto, sarebbe un’anticipazione, no, meglio aspettare, rimandare”.
Tutti questi casi, frequentissimi, normalissimi, sono i casi della padronanza. Ovviamente, hanno una certa incidenza su come vivere, come fare. Hanno una certa incidenza! Hanno una certa incidenza anche sulla salute, che è istanza di qualità.
Si potrebbe tenere conto di questo. Ogni forma di economicismo è un’economia della salute.
Come dice Novaretti? Lei lo sapeva già?
F.N. Sì.
R.C. Ah,dica!
F.N. L’ha detto in modo…
R.C. In modo chiaro no? Lei però non è convinta di questo?
F.N. No, sono convintissima.
R.C. È convintissima! E come mai pratica varie economie? Come quella sua amica che voleva andare a Ferrara e invece si è trovata a Montegrotto?
Giorgio Fornasier Non si è trovata a Montegrotto. Doveva andare a Montegrotto.
R.C. Ah, mi sono sbagliato?!? Ho capito male!!
Maria Antonietta Viero Però è sempre un biglietto.
F.N. No, no.
R.C. Allora? Stava dicendo qualcosa, mi pare. Mi sono sbagliato. Un’altra volta! Forse Moda voleva dire qualcosa. Lei aveva da leggere?
F.M. Sì, una cosa.
R.C. Allora leggerà la prossima volta. Però, può dire qualcosa come testimonianza.
F.M. Parlava dell’attuale come opposto al presente. Il presente è un passatismo diciamo.
R.C. Sì.
F.M. Attuale sta per atto, atto di parola chiaramente, qualcosa che si espone a variazione e differenza. Ma, perché il presente avrebbe questa accezione negativa? Perché c’è il soggetto che…
R.C. L’attuale è una proprietà dell’atto che tende a scriversi e a concludersi alla cifra. A compiersi e a concludersi. Non è contrassegnato dall’idea di fine l’atto, capisce? Invece, il passato, il presente e quello che viene chiamato il futuro, sono modi della gestione del tempo per istituire una successione, sempre sottoposta a un’idea di fine. L’attuale – e nell’attuale c’è anche il gerundio – non è sottoposto all’idea di fine, oltre a esigere un dispositivo, dove cioè, si tratta della struttura che si scrive, della memoria. Questa è la questione semplice semplice.
L’atto è senza fatto, senza detto e senza fatto. L’atto di parola è inimmaginabile, non corrisponde al detto e al fatto, che sono proprietà dell’economia soggettiva; e non aggiungo altro perché aprirei un’altra questione che, data l’ora, non è il caso. Novaretti deve andare adesso!
F.N. Certo.
R.C. Forse Sanavia, molto tacitabonda, voleva dire una piccola cosa…
B.S. Ne avrei…
R.C. Certo, il soggetto… ne avrebbe. Il soggetto ne ha, ne avrebbe.
B.S. Non il soggetto. Stavo pensando… non so se l’ha detto stasera. Ma le cose che ha detto mi hanno fatto pensare a quando a volte afferma che nessuno sa quello che vuole e nessuno fa quello che vuole! Però, la pulsione… se uno asseconda la pulsione, non fa quello che vuole? E non lo fa, se la trattiene per paura?
R.C. Vede, già qui siamo nell’idea di padronanza, in pieno.
B.S. Ma se asseconda la pulsione…
R.C. Eh, “asseconda la pulsione”… l’asseconda, la guida, la domina. La pulsione è senza controllo. Non è che sia già detta, fatta e scritta la pulsione. È da capire.
B.S. Magari si trattiene.
R.C. Sì, se non viene contenuta…
B.S. Ma, allora, se non la si contiene, non si fa quel che si vuole?
R.C. No. La pulsione nulla ha a che vedere con il volere, che è una modalità soggettiva, né con il volere fare, il potere, il dovere, il sapere fare.
B.S. È un’esigenza?
R.C. Sì, è istanza, esigenza, certo. Freud, parlando della pulsione, diceva: “Le pulsioni e le loro vicissitudini”, cioè, non è una traiettoria rettilinea quella della pulsione, non è la via dritta che si segue e si arriva. No, vicissitudine! Occorre capire, intendere. Occorre l’ascolto, il dispositivo. Occorre il cervello, non l’encefalo, il cervello come dispositivo della realtà intellettuale, della realtà dell’esperienza.
È chiaro che le questioni aperte sono molte, c’è da fare, da lavorare. Adesso c’è da andare. Ci vediamo la settimana prossima.
Grazie e arrivederci.
La città della differenza. Dove vivere, come vivere, senza vergogna
Ruggero Chinaglia Oggi c’è una bella novità. Chi ancora non ha acquistato la rivista? Abbiamo tre copie della “Città del secondo rinascimento” intorno alla Scrittura della qualità. Caso vuole che ci sia anche un mio articolo, accanto a uno di Mariella Borraccino, Mangiare, non mangiare. L’anoressia, il dilemma, i dispositivi di vita; invece il mio s’intitola L’amore senza fine, l’odio senza rimando, e è tratto dalla conferenza tenuta a Ferrara. Poi ci sono vari contributi intorno ai modi in cui interviene la qualità nell’impresa, nell’industria, nella clinica, nella cucina, nella produzione, nella salute. È interessante. Costa solo cinque euro. È quasi inspiegabile come mai costi così poco una rivista così bella, no? Lei l’ha già avuta?
Giampietro Vezza No. Mi domando: il valore non è nel costo.
R.C. No, è chiaro che no. Questo una volta si sarebbe detto un prezzo politico. Allora, ci sono tre copie.
Concetta Carella Sì, una la prendo io.
R.C. Una per lei. Ne restano due. Una per Sofia, ne resta una.
G.V. La prendo io.
R.C. La prende lei, quindi lei Fernanda, di quella conferenza, rimarrà all’oscuro in tutto e per tutto.
Fernanda Novaretti Non ci sono altre copie?
R.C. Queste avevamo, per il momento. In copertina c’è un dipinto di Frasnedi, sembrava Balla, ma è Frasnedi. Il titolo è L’occhio della collina. Questo è L’occhio della collina di Alfonso Frasnedi. Bello.
Ci sono altre testimonianze questa sera? Altri interventi, notazioni, anche tenendo conto del dibattito di lunedì sera, cui alcuni erano assenti, ma altri c’erano? Oppure anche a prescindere; ci sono notazioni, domande, suggerimenti, indicazioni?
C.C. La volta scorsa, giovedì, mi pare lei abbia detto che la pulsione è senza controllo. È da capire.
R.C. Sì, lei come ha capito?
C.C. Allora, beh, non ho avuto tanti problemi per capire, perché è stata una delle ultime cose che lei ha affermato, però mi è sembrata proprio l’affermazione centrale, importantissima, perché sembrerebbe che proprio da lì, scaturisca molto. E poi diceva che la pulsione nulla ha a che vedere, se ho scritto bene, con il volere, con il sapere, con il potere, e quindi mi piacerebbe che precisasse un po’ meglio. Perché, per come ho capito io, la questione sarebbe centrale, è proprio ciò da cui parte tutto.
Tuttavia sapere, volere, potere, non sembrano direttamente collegati. È da articolare, mi pare, la questione.
R.C. Certo, bene, questo è importante. Altri? Ci sono altre domande?
Barbara Sanavia Una domanda. Così, pensieri… Secondo me, la pulsione è la forza della domanda o per la domanda. E invece leggendo il titolo di stasera…
R.C. Ecco, che è?
B.S. Che è, se ricordo bene, La città della differenza. Come vivere, dove vivere, giusto?
R.C. E basta?
B.S. Poi, c’è il comunicato.
R.C. No, ma c’era anche un seguito nel titolo.
B.S. Il secondo titolo non me lo ricordo. Ho visto il primo.
R.C. Ah, perchè lei ha preso visione del primo comunicato, poi in effetti è stata fatta un’aggiunta: Come vivere, dove vivere, senza vergogna.
B.S. Poi, ho letto il comunicato, però non è facile, è la parola differenza che mi ha colpito, cioè fare la differenza, il che vuol dire…
R.C. Fare la differenza, lo dice lei.
B.S. Sì ognuno può, ciascuno può fare la differenza.
R.C. Sì, questo è un modo di dire piuttosto diffuso: “fare la differenza”. QQuesta cosa fa la differenza” oppure, “Tizio fa la differenza”.
B.S. Cioè, la differenza è la responsabilità, in questo senso “fare la differenza”. Nonostante l’aggiunta del titolo… senza vergogna… Sì, ci sta.
R.C. Ci sta. Bene, abbiamo la sua approvazione. Ma, la responsabilità, diceva, come s’inserisce in questo?
B.S. Cioè, non accettare tutto quello che succede, non delegare agli altri le cose che non vanno bene, ma fare, ciascuno fa. Dovrebbe essere così, agire in direzione di quello che si avverte che non va, senza delegare a altri questo compito.
R.C. Esatto, bene.
Pulsione è un termine che ha introdotto Freud, indicandola come forza costante in direzione del valore. Forza, spinta. Come questa forza, questa spinta, questa tensione, linguisticamente, trova il suo modo? Come domanda. Per cui, pulsione è anche domanda.
Come accorgersi della pulsione? Per via di domanda. Per via dell’istanza che si può chiamare curiosità, istanza di sapere, istanza pragmatica, istanza intellettuale, istanza di ricerca, istanza di valore. Questa istanza non va senza la tensione, senza tendere, e l’idea che questa tensione possa essere tolta dalla vita è assurda. Eppure è ciò che è sostenuto ampiamente da una certa sloganistica che invoca la calma, lo stare, anziché il tendere. Non il tendere ideale verso una fantomatica miglioria dell’universo, bensì tendere verso la soddisfazione, che è soddisfazione della domanda! Non c’è da sovrapporre la domanda alla richiesta, perché non necessariamente la pulsione si formula come richiesta.
La domanda esige di essere capita, intesa, analizzata, per cogliere quale sia la direzione. La direzione non è unica, non è universale, non è uguale per tutti. Si tratta di trovare quale sia la direzione della domanda, e questo esige il lavoro di ricerca e anche dispositivi pragmatici. Non è una questione di studio, non sta già scritto da qualche parte, in che direzione la domanda vada. Certamente è costatabile che contro la domanda sorgono rallentamenti, costrizioni, evitamenti che si giocano sulla presunzione che la pulsione corrisponda al volere, alla volontà, e si tratti di adeguare, per esempio, il fare al volere fare, al sapere fare, al dovere fare.
Già questo, è un modo dell’adeguamento della parola, della forza, della tensione che c’è nella parola, alla soggettività, cioè alla padronanza sulla forza, sulla parola, sulla domanda, per esercitare un controllo, secondo il principio economico, secondo la presunzione di conoscere quale sia la questione che la domanda pone, attraverso una sorta di codifica, di applicazione del senso comune, della lingua comune, di una risposta comune a ciò che la domanda propone.
Freud ha dedicato un saggio specifico, Pulsioni e loro vicissitudini, a indicare che non è un tragitto lineare quello della pulsione, quello della domanda ma, anzi, presenta vicissitudini! È un cammino, un percorso, un itinerario da fare, per capire, per cogliere la direzione, tra abbagli e cantonate.
La presunzione di sapere, dove conduce? Conduce all’idea di sapere dove stia e quale sia la soddisfazione, credendo di procurarsela a prescindere da quale sia l’istanza effettiva, secondo i dettami del luogo comune, del discorso comune, della fisiologia comune, di una psicologia comune, di una mentalità comune, che prescrive una psiche comune: la psiche umana, che è un’idea di padronanza, di controllo, di reggimento, una prescrizione al reggimento, alla comunanza, a una significazione comune.
Una delle proprietà della parola è la libertà. La parola è libera. È libera di divenire cifra, non è libera di chissà ché, è libera di andare e venire. È libera di divenire cifra, perché la tensione è in direzione della cifra. Ma, come approda? Come la parola approda alla cifra? Come la pulsione approda alla cifra? Questo non è già noto. Nemmeno la cifra è nota. E il processo di qualificazione è particolare, specifico, esige analisi e cifratura. Esige l’ascolto. Esige la disposizione all’ascolto. Esige la disposizione a cogliere sfumature, piegature, molteplicità, respiri, scarti, varchi in quello che, invece, il discorso comune abolirebbe in nome di una codifica generale, di un’applicazione del senso, del sapere, senza variazione e senza differenza.
E invece la questione si gioca proprio sulla differenza e sulla variazione, ciò per cui abbiamo equivoci, malintesi, menzogne del nome e del significante, che sembra dire una cosa e ne dice un’altra, sembra proporre un senso e ne scaturisce un altro. Se non c’è l’ascolto delle faglie che si producono parlando, uno va dritto per la sua strada, con le significazioni del senso comune, con le significazioni del discorso in generale e poi si stupisce se non approda mai al valore, al valore di un dettaglio, al valore di un particolare, al valore delle minuzie. Ciascuna minuzia dà il suo contributo per cogliere la direzione della domanda.
Quisquiliae. L’importanza essenziale delle quisquiglie. Il latino indicava con questo termine i ritagli, gli scarti, ciò che veniva buttato via dalla lavorazione delle grosse pezzature. Le quisquiglie che si buttano. Ecco, le quisquiglie linguistiche sono invece ciò che risulta essenziale per cogliere sfumature e particolarità decisive. Scarti, varchi, controsensi, doppi sensi. In molti casi risulta insopportabile che vi sia un doppio senso, un controsenso, un senso non proprio preciso, qualcosa che lascia nel dubbio e lascia aperta l’interpretazione, e è proprio nell’intervento dell’interpretazione che qualcosa si chiarisce.
Traduzione, interpretazione, trasmissione. Nulla è già scritto e nulla è già detto. Man mano le cose si dicono, si precisano, si chiariscono e giungono a una proposta mai definitiva, perché la lingua non cessa di prodursi, il dire non cessa, la tensione non cessa. E nella tensione, nell’atto in cui la tensione interviene, interviene il tempo, la spinta, la logica, interviene una combinazione, una combinatoria per cui le cose non sono mai le stesse. Non sono mai le stesse!
La libertà della parola non subisce restrizioni, se non da parte di chi tenta di contrapporre a questa libertà una propria impostazione, in quanto presume di avere già il senso, il sapere, la verità da dimostrare. L’idea di dimostrazione, l’idea di giustificazione di una propria verità va contro la parola.
A cosa è dovuto questo? È dovuto al fatto di avere un’idea di sé e che questa idea di sé deve essere mantenuta e dimostrata contro ogni altra evenienza. Ognuno ha un’idea di sé e quell’idea deve essere confermata, dimostrata, mantenuta. Questa si chiama soggettività. Questo si chiama opporre alla pulsione un tappo, un blocco. Vuol dire negare la libertà della parola, negare l’itinerario che procede da questa libertà e contrapporre una verità come causa all’effettualità che si produce parlando.
C’è chi sembra parlare, ma in realtà nega ogni disponibilità all’acustica, cioè agli effetti che dalla parola si producono. Come accade questo? Applicando al dire, a quel che si dice, una mannaia, per cui le cose che si dicono sono da valutare o in senso positivo o in senso negativo. Non è da cogliere la sfumatura, la variazione, qualcosa che si annuncia come differenza, rispetto a qualcosa, magari detta poc’anzi. Quello va assolutamente negato e va invece ribadita la presunta propria verità. Così non c’è più il viaggio delle cose, il viaggio della parola, il viaggio della vita. C’è l’idealità delle cose, la propria idea che deve essere mantenuta: l’idea di sé, dell’Altro, delle cose, per mantenere il giudizio, come giudizio positivo o negativo. Questa idea del giudizio, tra positivo e negativo, altro non è se non l’applicazione del ben noto giudizio universale.
Perché aspettare che il giudizio universale si compia chissà quando? È molto più pratico farlo subito, così ognuno applica il metodo del giudizio universale a quello che ha dinanzi a sé, anche dietro di sé, come ricordo, come fantasia, come idealità.
Ciascuna cosa è in viaggio. La lingua dice questo: ciascuna cosa è in viaggio e non è mai detta. E il viaggio non è mai finito. Il viaggio non è ripartibile tra l’andata e il ritorno, è viaggio infinito in direzione del valore. È viaggio senza ritorno.
Ma chi è disposto a ammettere che non c’è ritorno? In quanti modi questa idea di ritorno interviene a condizionare l’idea di “andata e ritorno”? “Un tanto per andare e un tanto per ritornare?”. Quanto tempo? “Un tot per andare, un tot per ritornare”. “Faccio questa cosa, ma che ritorno ne avrò?”. “Un tanto per fare e un tanto per avere”. Andata e ritorno. Quanto metterci? Quanto dura? Quanto tempo ci vuole? Bene, allora io dedico questo tempo a questa cosa. Che cosa possa accadere nel viaggio conta poco. Quello che importa è quanto tempo. Quanto per andare? Quanto per tornare? Che ritorno avrò? Ma andare dove e tornare da dove? Questo ritorno dove conduce? Tornare da dove?
L’idea di ritorno presuppone che il viaggio di andata sia finito! Altrimenti, come presumere di tornare se non perché l’andata è finita? Il ritorno si ha solamente a partire dall’idea di fine.
L’idea di ritorno è idea di fine. Il ritorno all’origine, il ritorno al paesello, il ritorno alla famiglia, il ritorno alla natura. Il ritorno! Ognuno ha il suo ritorno: il ritorno economico, perché non sia un viaggio a perdere. Ma, a perdere che cosa? Perdere tempo? Perdere valore? Perdere forza? Perdere sicurezza? Che cosa ognuno teme di perdere?
L’idea della perdita. Perdere. Nessuno si chiede cosa si può trarre da un giro in più! Ognuno si chiede cosa può perdere da qualcosa che va oltre l’economia prevista del cammino, del percorso, del tempo, prevalendo sempre l’idea di durata, che è idea di fine.
Così accade, per esempio, che in una conversazione si dicano delle cose, e una è così precisa e importante da richiedere una sottolineatura, quindi l’interruzione, lì, della seduta. Uuh!, apriti cielo! “Ah, ma come, così poco? È durata così poco!? Ma come, io ho pagato perché durasse molto di più!”.
La durata è a scapito di ciò che accade. Ciò che si dice, ciò che accade lì, è trascurato in pieno, perché l’idea è che deve durare! Deve durare, cioè finire. Economia della fine, controllo della fine, padronanza sulla fine. Ciò che resta omesso è ciò che si dice, come si dice, quel che si effettua lì, qual è il valore dell’effetto, che è del tutto trascurato.
L’effetto non si esaurisce lì, ma prosegue, perché produce ulteriori combinatorie, ulteriori agganci, un altro senso, qualcosa in più che non era previsto, che se è ascoltato ha effetti analitici e clinici. Ma il soggetto si oppone a questo, perché vuole esercitare la sua padronanza su quel che si dice, sul tempo e sulla fine del tempo. Soprattutto, il soggetto non tollera la differenza, che è un effetto del tempo. Il tempo, in quanto taglio, ha come effetto la differenza, la differenza assoluta.
Come non cedere all’idea di ritorno, all’idea di padronanza, alla soggettività, all’idea di padroneggiare le cose e di sapere, già prima, cos’è bene e cos’è male? La padronanza è questa: padronanza sul bene e sul male, quindi, il giudizio universale. Ogni soggetto è soggetto al/del giudizio universale e ambisce a essere il giudice sul bene e sul male. Il giudizio universale è questo. E il giudizio soggettivo questo è: giudicare sul bene e sul male.
Perché il giudizio abbia questa caratteristica, ci vuole un postulato: il postulato della colpa. Se non c’è questo postulato, non c’è nemmeno il giudizio universale. Questo è il punto.
Il soggetto si regge sul postulato della colpa! La colpa come fondamento. Di chi è la colpa? “Se accade questo, se mi accade questo, se ti accade questo, se nel mondo accadono queste cose, di chi è la colpa?”. Questo è il quesito mondano: “Di chi è la colpa?”.
Cosa chiede Giuda? “Signore, sono stato io?”. “È colpa mia?”. E rispetto all’idea di colpa, ognuno si giustifica, si scansa, si riscatta, si redime. Vuole liberarsi! Ma è proprio in nome della liberazione dalla colpa che è formulato ogni ricatto! La colpa e il suo agente. Riscatto, ricatto, redenzione, coscienza.
La coscienza è coscienza di colpa. E è necessaria la coscienza perché ci sia redenzione e riscatto, coscienza dell’origine, coscienza della fine, coscienza di sé, coscienza dell’Altro, coscienza dei propri limiti, coscienza delle proprie inclinazioni. Coscienza! Coscienza vuol dire porre un freno alla domanda, perché se c’è coscienza della propria origine, della propria natura, dei propri limiti, il gioco è fatto. Perché fare? Il gioco è fatto! Avendo coscienza, perché sforzarsi? È già chiaro! Con una tale origine, il destino è segnato. Perché sforzarsi? È del tutto inutile. Il soggetto si conosce bene, ha coscienza di sé, sa valutare se è il caso di azzardare o no. E sicuramente non azzarda, altrimenti, che coscienza sarebbe? Il soggetto è il soggetto della coscienza.
La coscienza è la tomba della domanda, perché giustifica la paura, giustifica ogni limitazione sulla scorta del passato, sulla scorta del saputo; sulla scorta. Non c’è avvenire con la coscienza, c’è solo passato, coscienza di sé, coscienza di quel che è stato. E non è sulla base di ciò che è stato che, economicamente, ognuno valuta l’avvenire? Altrimenti, il passato è passato per niente? “C’è stato un passato e questo dà modo di stabilire anche il da farsi” dice il soggetto, sulla scorta del passato, conoscendosi, avendo conoscenza, abolendo l’Altro. L’Altro, che sta nell’intervallo, l’Altro irrappresentabile, l’Altro che è indice del tempo, l’Altro che è indice della trialità.
L’Altro, abolito, consente alla coscienza di regnare sovrana.
Dove vive ognuno? A casa sua, tra sé e sé, tra la sua origine e il suo presunto destino, tra le sue abitudini, tra le rimemorazioni di ciò che è stato, assumendosi le caratteristiche dell’origine, cioè vivendo nella fiaba! Nella fiaba della propria origine. Quindi, dove vive? Dove vive il soggetto?
Nel Getsemani, vive nel Getsemani. È in attesa del sacrificio, è in attesa dell’esecuzione della condanna, secondo la prescrizione dell’origine. Vive nell’attesa che si compia la sua coscienza, la coscienza che ha di sé, le previsioni che ha di sé, sulla base della sua buona coscienza. Certamente non vive nella città. Perché la città ha sede nell’intervallo, che è stato abolito propriamente dall’espulsione dell’Altro, in nome dell’alternativa tra il bene e il male, in nome della coscienza, della padronanza, del sapere di sé, della colpa che è ben conscio di avere commesso. Eh, perbacco! Commesso o subito.
C’è un’alternativa: la colpa può essere commessa, ma può essere anche subita. Perché l’altra faccia della colpa, qual è? È il torto subito! Come potrebbe reggersi altrimenti la rivendicazione, che è l’altra faccia del vittimismo? Chi vive nella coscienza di colpa vive nel vittimismo. Chi vive nella coscienza del torto subito, vive nella rivendicazione. Due facce della stessa mitologia da cui procedono la vergogna, la paura e ogni tipo di restrizione giustificata. Il tutto, nell’attesa della liberazione come proposto da ogni religione e da ogni morale. La liberazione dalla colpa, liberazione dal male, riscatto dalla colpa, riscatto dal male, riscatto dal torto.
“Ma verrà il tempo del rinnovamento”. “Arriverà il momento in cui tutto cambierà”: la renovatio, la purificazione, la metempsicosi. Espiando, espiando, espiando ci sarà il momento, finalmente, del raggiungimento della purezza e allora, finalmente, ci sarà il paradiso. E intanto occorre procedere al lavoro di smacchiatura, al lavaggio incessante della colpa. Tutto ciò nega che vi sia la città.
Ognuno vive nella sua prigione, senza la città. Oppure vive nell’attesa di entrare in città, come se la città preesistesse. La città precostituita è la città verso cui esprimere le proprie riserve, è la città assegnata da tutta una serie di nefandezze, di negatività, agognando di fuggire dalla città e di tornare da dove si è venuti, compiuto il processo di redenzione e rimpiangendo la città ideale, stigmatizzando la città così com’è. Evitando, però, la costruzione della città.
La città non è né reale né ideale. Esige la costruzione, il lancio e il rilancio della domanda e il proseguimento del viaggio senza ritorno. Senza domanda la città non c’è. Ognuno può lamentarsi della città solamente perché non dà un contributo, perché non concorre alla città, alla sua costruzione, non dà un contributo alla civiltà, da cui la città procede.
La città che cos’è? Di cosa si tratta? La città è il dispositivo pragmatico in cui compiere il mandato della domanda! Nessuno è padrone della domanda. Ma c’è un mandato della domanda! Un compito, un mandato, una missione. Chi si crede esente da questo ha la coscienza di essere stato cacciato. E che altro? È stato cacciato e porta su di sé il segno dell’origine. La città è un corollario della domanda, non è un luogo, è un dove. Tolta la domanda, non c’è città che non sia connotata secondo il giudizio universale.
In quale città ognuno vive? Facendo questa domanda, è molto istruttivo sentire qual è la rappresentazione della città che ognuno ha. E ogni manchevolezza attribuita alla città, ogni stigma negativo, ogni vizio, è la descrizione di sé. È molto istruttivo formulare questa domanda. Provate a pensare qual è l’idea che ognuno ha della città. C’è chi se la prende con il sindaco, chi con le istituzioni, chi con le strade, chi con la gente, chi dice che sarebbe una bella città, ma purtroppo ci sono anche i cittadini, chi dice che i cittadini sarebbero buoni, ma ci sono le case, le strade che invece fanno proprio schifo. Insomma, qualcosa che non faccia schifo non manca mai.
Da dove viene quest’idea dello schifo, quest’idea di negatività? Dal giudizio universale, dall’idea di colpa, dalla negatività attribuita all’origine. Questo se la parola è tolta, se la parola è abolita, se la soggettività domina. Ma, se c’è parola, allora ciascuno si rivolge alla città, non come città dell’utopia, ma come città dove vivere, dove fare, dove costruire, dove promuovere, dove provocare intellettualmente cose di valore, non limitandosi a vegetare nel proprio orticello.
Abolita la città, è istituita la propria mitologia sull’idea di deserto o di foresta, cioè in nome del soggetto esiliato, cacciato, dove la solitudine sarebbe un guaio soggettivo e non una proprietà del sembiante, dello sguardo. E l’esilio diventa guaio soggettivo, per via della cacciata. E, in quanto soggetto esiliato, ognuno si giustifica rispetto alla negazione della città: “In fin dei conti, che c’entro io con la città? Sono in esilio! La mia città è un’altra. Non è questa! Perché dovrei dare un contributo a questa città, quando la mia è un’altra? Io sono qui praticamente per sbaglio, e non vedo l’ora di tornare alla mia vera città, dove la mia vera natura potrà finalmente avere il riconoscimento che merita”.
Città come animale anfibologico: città del bene, città del male, città del giudizio universale. Entrare in città, uscire di città, andare in città, vivere in città, vivere fuori dalla città. Ma, se la città è abitata dal fantasma di origine e dal fantasma di fine, sarà sempre una città nefasta, che giustifica l’idea di non fare nulla. Così la città diventa un nascondiglio: come stare nascosto in città, come vivere clandestinamente in città.
Se non c’è il contributo alla costruzione della città, non c’è nemmeno la città e possono esserci mille fantasmagorie, ma non si trova la città. La città è negata, la città li respinge, la città è chiusa. “Oh, come sono chiusi i veneti! Questa città, chiusissima!”. Città murata, città turrita, città preclusa. Ognuno ha la sua giustificazione, perché ha della città una rappresentazione sociale, una rappresentazione che fa leva sull’idea di origine, non sulle cose da fare, non sulla domanda e sul progetto e sul programma con cui la domanda trova il suo corso.
La città sta nelle cose che si fanno, lì sta la città! E non è una città che si possa fare una volta per tutte o che sia uguale a se stessa, è la città della differenza, perché è la città del tempo.
Il fare esige il tempo e se il fare non c’è, è abolito il tempo. Allora, la città diventa molto problematica, perché è sostituita dalla segregazione. La città è città della parola, è città se c’è parola. L’omertà nega la città. L’idea che la parola possa ferire, uccidere, l’idea che l’Altro sia debole, incapace, malato sbarra il passo a ogni interlocuzione.
E ancora una volta il giudizio sull’Altro è rappresentazione del giudizio universale, fondato sull’alternativa del bene e del male e sulla sua applicazione. In nome di questo, ognuno è dato come finito e, secondo la migliore eutanasia, va finito. Ciascuno può chiedersi perché negare la parola, la sua logica, la sua esperienza, la sua cifra se è dalla parola che procede la scommessa sul valore della vita, sul valore del vivere. Se è dalla parola che vengono le indicazioni su come vivere e dove vivere con ciò che la parola esige: l’analisi, la narrazione, la conversazione, il racconto, la qualificazione, la valorizzazione; non la degradazione dell’Altro e la denigrazione di sé! Non denigrazione e degradazione. Valorizzazione!
Come contribuire alla valorizzazione della città e di ciascuna cosa, come avviene che ciascuno contribuisca al valore non stigmatizzando il negativo, il male che ci sarebbe nell’Altro, ma contribuisca alla valorizzazione? Questo è il mandato, questa è la missione, questo è il compito! Com’è che questo si capovolge e diventa rivendicazione, denigrazione, degradazione negando la città come città del tempo, città della parola, che sorge per integrazione? Non per purificazione, ma per integrazione!
Un altro modo con cui ognuno avalla l’idea del ritorno è l’idea di guarire. L’idea di guarigione, cioè di restitutio in pristinum, è un’idea di ritorno. Si basa su un’idealità di purificazione, di fine. Ma non c’è guarigione, c’è salute! La questione è l’istanza di salute, non l’idea di guarigione, che vuole dire di essersi applicati un male, e poi purificarsi, per liberarsene. La questione è la salute, non il ritorno come guarigione, il ritorno allo stato primigenio.
L’analisi esige il lavoro, esige la teorematica, cioè indicare come una fantasia di male, di negatività non ci sia più. L’analisi non è il mantenimento dei propri pregiudizi facendone una cosmesi, è la dissipazione dei propri pregiudizi! Come pensare di avere abolito i propri pregiudizi se poi le abitudini restano le stesse? “Ho abolito tutti i pregiudizi, però mantengo le mie abitudini!”. È un caso un po’ strano. Di solito le abitudini sono rette dai pregiudizi.
Ci sono domande? Questioni che si vogliono chiarire? Qualcosa che ha destato sorpresa?
Sofia Taglioni Io avrei qualcosa da chiedere. Lei ha detto che la coscienza è una coscienza di colpa e è necessaria per la redenzione, però poi dice anche che la coscienza è il freno della domanda e quindi…
R.C. La redenzione non è necessaria, la coscienza è necessaria per la redenzione. Presumendo la colpa, sorge l’idea di redenzione. Ma tutto ciò deve essere messo in discussione. Non è che la redenzione bisogna mantenerla! Cioè, se non c’è il fondamento della colpa, non c’è nessun motivo della redenzione. La redenzione è il corollario della colpa! Ho indicato come si regge una religione: data una colpa, esige un processo di redenzione. Ma la redenzione non è originaria, è successiva alla credenza nella colpa. Non è che la redenzione debba essere praticata, perché suona bene, no, è una questione morale. La redenzione è morale e religiosa. Non è originaria.
Nella parola, nessuna redenzione, perché nella parola bisogna mettere in discussione, mettere in analisi l’idea di peccato. Bisogna metterla in analisi! O la diamo per scontata e la manteniamo? Se non vengono analizzati i pregiudizi e teniamo per buono tutto, che analisi è? Analisi di che? Chimica? Abbiamo qui un esperto di analisi chimica? L’idea di colpa, di peccato, l’idea di male, sono idee! Vanno analizzate! Non vanno attribuite: “Io sono puro perché impuro è quell’Altro!”. E che è, giochiamo ai bussolotti? La colpa ce la teniamo, solo che non è mia, è di un altro! Il peccato ce lo teniamo, solo che non è mio, è di un altro! Il negativo ce lo teniamo, solo che non è mio, è di un altro! Io sono immune, è tutto di un altro. Tutte le negatività stanno là. E allora abbiamo fatto solamente il gioco dei bussolotti. Abbiamo rimpallato. Abbiamo mantenuto tutta l’impalcatura, tutte le credenze, solo che le abbiamo attribuite. L’impostazione soggettiva resta, la visione del mondo resta, solo che io mi metto dalla parte del bene e dalla parte del male ci metto l’Altro.
L’idea del bene e del male attribuibili, così resta, non è analizzata. Occorre invece analizzarla, per giungere a capire se ci sia effettivamente il male dell’Altro, la fine del tempo, la negativa del tempo, cioè se tutto ciò in cui io credo sia reale o no, o se non sia una fantasia, se non sia una fiaba che mi condiziona e che occorre elaborare.
Noi abbiamo letto alcune fiabe e abbiamo colto che c’è proprio questa struttura nella fiaba, una credenza nell’origine, nel male dell’Altro, che viene applicata alle cose, o a sé o alla vita. E finché c’è questa visione è un disastro. Questo indicano le fiabe: che in costanza di credenza nel male, ogni alternativa è possibile. Ognuno si affibbia un’alternativa e non c’è riuscita.
Cosa dice Novaretti? Mi sembra inquieta. No? È tranquilla? Neanche tranquilla. Allora? La città… Lei è urbanista, quindi siamo sul suo campo con la questione della città. Qual è l’urbanistica di questa città, dove vivere senza vergogna? Questa è una questione che non si aspettava, eh?
Fernanda Novaretti Non mi viene in mente una domanda adesso.
R.C. Faccia quella che non le viene in mente. La mente. Dovremo tenere degli incontri sulla psiche e sulla mente, sul modo in cui sono rappresentate sia da alcuni modi di dire, sia da alcuni manuali che prescrivono come devono essere. La mente umana, la psiche umana, ma cosa vuol dire umana? Umana, molto spesso, vuol dire senza la parola.
Sofia voleva aggiungere qualcosa.
S.T. A proposito della domanda sull’urbanistica della propria città. Calvino ha scritto un libro Le città invisibili e a molte città ha dato un nome di donna, l’urbanistica come donna…
R.C. Sì, questo può essere un argomento interessante da svolgere. Ma ho detto cose proprio così soporifere?
F.N. Avevo segnato una cosa sull’acustica, che mi sembrava avesse precisato questa sera. L’acustica come effetto che dalla parola si produce, aveva detto.
R.C. Acustica. Che, contrariamente a quel comparto della fisica che si chiama acustica, ha un’altra accezione. Non c’entra con i suoni.
F.N. Mi riferivo a quel saggio di Freud, dove c’è questo termine, acustica.
R.C. La traccia acustica. Lì Freud combina, cerca di mediare. È l’avvio di un’elaborazione per giungere all’acustica in termini non strettamente legati alla fisica dei suoni, ma alla linguistica: l’acustica della parola, non l’acustica del suono.
È sconcertatissimo Moda, a questo punto.
Fabrizio Moda Sì, è la famosa immagine acustica che ritorna. Come idea della voce ha a che vedere con…
R.C. Con?
F.M. C’era un parroco che si lamentava della mancanza di vocazioni, per cui quest’anno non ha neanche un seminarista.
R.C. Un parroco?
F.M. Sì, un parroco, durante l’omelia. Diceva: “Se non avremo più un prete a Padova, come faremo?”. E allora questa cosa della vocazione, della voce, che in cifrematica viene intesa come Dio, volevo chiedere l’attinenza con l’immagine acustica.
R.C. La voce come Dio? No.
F.M. L’idea della voce.
R.C. Ah, l’idea della voce come idea del punto vuoto. C’è da compiere qualche passo, però. Non c’entra Dio.
F.M. Non c’entra Dio?
R.C. Dio è idea originaria. Dio è operatore. Dio è l’operatore per cui, intervenendo l’idea, le cose si dicono e si fanno. Dio è in questo senso, in questa accezione. Nulla a che vedere con una rappresentazione del divino ché, anzi, l’idea di dio come divinità è già la negazione di Dio, la negazione dell’operatore. Ma questo è un altro argomento.
Non c’è cosa che debba ritenersi esente dall’analisi, cioè da che cosa? Dall’assoluzione, dallo scioglimento rispetto a un pregiudizio, rispetto a una sostanzialità che dovrebbe costituire fondamento, significazione.
Abbiamo risposto alla questione della differenza? “Fare la differenza” è un uso improprio, no? Il tempo fa la differenza, se vogliamo dire così. Questo modo di dire “fare la differenza” vuole dire che c’è uno standard e poi qualcosa che differendo dallo standard “fa la differenza”. Questa è di solito l’accezione in cui viene usata questa locuzione.
B.S. Io intendevo come costruzione, fare la differenza è costruzione, insomma.
R.C. Appunto, nessuno può fare la differenza, perché ciò presupporrebbe una differenza standard rispetto a cui ci sarebbe la differenza differente. Invece, la differenza è assoluta e ciascun atto sta in questa, diciamo, libertà di differenza. Differenza assoluta, cioè incomparabile, irrappresentabile, ma è per questo che può avvenire l’arbitrarietà, l’invenzione, la novità. Se non ci fosse la differenza assoluta non ci sarebbe nemmeno la novità. Ogni cosa sarebbe già in una rappresentazione, in una significazione.
Patrizia Ercolani La differenza assoluta potrebbe sembrare inservibile quando c’è.
R.C. Inservibile?
P.E. Che non serve a niente.
R.C. Perché dovrebbe servire?
P.E. Che a volte si scarta o non si apprezza, perché viene valutata o considerata per l’inutilità.
R.C. La differenza è differenza sessuale, cioè temporale. Differenza sessuale, ossia differenza temporale.
B.S. E l’intervallo? Ha a che fare con il tempo?
R.C. L’intervallo è la funzione terza o funzione di Altro, e possiamo chiamarla anche intervallo fra nome e significante. Nome, significante, Altro.
B.S. Quando interviene l’Altro, cioè l’intervallo mi dà l’idea di lasciare che il tempo…
R.C. Intervallo tra lo zero e l’uno. Zero, uno e tra lo zero e l’uno, l’intervallo. Questa è la struttura dell’infinito: lo zero, l’uno e tra lo zero e l’uno, l’intervallo. Nome, significante e tra il nome e il significante, l’Altro. Tre funzioni: funzione di nome, funzione di significante, funzione di Altro. Funzionamento della parola, logica singolare triale, che mai può essere ridotta a una logica binaria. Questo è qualcosa di unico nel panorama intellettuale. La parola non risente della logica binaria, ma della logica diadica, che attraversa altre logiche singolari triali. Quindi, è impossibile ridurla a un sistema. È asistemica. La parola è asistemica. Non rientra nella termodinamica, non rientra nella visione del mondo, è asistemica e asistematica.
L’invito
Ruggero Chinaglia È noto il titolo di questa sera?
Barbara Sanavia L’invito.
R.C. Ci sono domande? Nel merito o anche rispetto a altre cose. Non solo nel merito di queste cose, ma anche di altre, perché qualcuno potrebbe credere che togliamo il merito, invece no.
Sia nel merito, sia rispetto a altro, mi pare ci sia una certa ritrosia. Non mi sorprende, trattandosi di un argomento così delicato: l’invito!
Patrizia Ercolani Mi era venuta in mente, leggendo, una cosa, sulla questione del lutto e del lavoro del lutto. E mi domandavo se il lutto consiste in quello che si diceva, cioè che si trattava di una fantasia per cui, per esempio, in un amore rappresentato, si giunge alla risoluzione della rappresentazione d’amore, o dell’origine, o dell’amore per il padre o per la madre o per il figlio; e se ciò è proprio quello che Freud dice del lutto, come distacco dall’investimento d’idee rispetto all’oggetto.
R.C. Anzitutto occorre stabilire se lei si riferisce al lutto originario o alla coscienza del lutto.
P.E. Ecco, la domanda completa era se questo era il lutto o se era qualcos’altro.
R.C. Questa era la domanda completa.
P.E. Sì. Se c’è un lutto rappresentato. Di solito c’è una fantasia o la rappresentazione di questo lutto ma, allora, che ne è del lutto originario e di quello che si dice il lavoro del lutto?
R.C. Che si dice… Chi lo dice?
P.E. Chi l’ha letto.
R.C. Ah, ecco.
P.E. L’ho letto e l’ho capito così.
R.C. L’ha letto lei?
P.E. Sì. L’ho letto io.
R.C. L’ha letto lei. Dove l’ha letto?
P.E. Adesso non mi ricordo.
R.C. Non è che possiamo badare a ogni formulazione.
P.E. Anche solo leggendo Freud in Lutto e malinconia, quanto al lutto, mi pare parli di distacco, di disinvestimento rispetto a rappresentazioni intorno all’oggetto.
R.C. Sì, Freud si esprimeva così. Anche lei si esprime così? Perché Freud si esprimeva così nell’‘800, primi ‘900. Adesso siamo nel terzo millennio, lei si esprime ancora così?
P.E. Evidentemente non sono aggiornata.
R.C. Ecco, non ha fatto gli aggiornamenti, che peraltro sono opportuni.
P.E. Perché capisco che c’è anche un avanzamento, nel senso dell’astrazione.
R.C. Esatto, e soprattutto rispetto a quale contributo dia lei a quanto è tramandato dalla letteratura, da modi di dire o da formule.
P.E. Pensavo, come ipotesi, che il lavoro del lutto sia da intendersi a livello linguistico con la rimozione, con l’impossibile.
R.C. Ecco.
P.E. Non so se sia originario questo: la rimozione, con il suo impossibile, dove non c’è rappresentazione di un oggetto, di una origine, di un posto, di un dove. Mi domandavo se è questo l’impossibile, che non ha il suo rovescio, non è rovesciabile in un contrario, in un possibile.
R.C. La questione è importante. E anche calzante, appropriata a questa sera, perché si tratta di partire proprio da questo, dalla rimozione, dalla parola. Dalla parola, quindi dalla rimozione. In questo senso, Freud non aveva torto. Freud è partito da questo.
Comunemente si crede che Freud sia partito dall’inconscio. Non è così. È partito dalla rimozione, l’inconscio segue. Dato che è constatabile che, parlando, nel dispositivo intellettuale, c’è rimozione, allora ne segue che questa è la prima avvisaglia che c’è la particolarità! E questo fa sì che si possa dire che parlare è secondo l’inconscio, cioè secondo la particolarità. Fa sì che questo parlare, in cui si è instaurata la rimozione e con cui si avvia l’altra lingua, sia l’inconscio. La rimozione fa sì che non ci sia più lingua comune.
Ciascuna cosa esige la qualifica, esige la conversazione che non ha più fine, perché l’intervento della rimozione produce incessantemente un altro senso. Non c’è più parola comune, c’è un altro senso, un controsenso. E questo avvia l’auctoritas, avvia l’aumento. Le cose non sono più le stesse, non sono più tali, entrano in un processo con la rimozione. La rimozione è la leva che scardina il sistema delle cose comuni, il sistema delle cose standard, il sistema. E avvia un’esperienza del tutto speciale che è l’esperienza della parola.
Mi è capitato un giorno di chiedere a una persona, nel corso di una conversazione, nell’esperienza intellettuale, a che punto si trovasse nel suo itinerario. La risposta fu che ero io a doverglielo dire, ero io che dovevo sapere a che punto, dove, come, si trovasse questa persona, nel corso del suo itinerario. Vigeva in quel momento, per quella persona, la credenza di un’esperienza standard, protocollare, in cui il maestro doveva sapere a che punto si trovasse l’allievo. Vigeva l’idea di un’esperienza standard le cui fasi, i cui passi, dovevano entrare in un protocollo e dovevano essere conosciuti dall’analista, che diventava l’erogatore del protocollo. È credenza peraltro ancora comune, quando il caposaldo non è l’acquisizione di ciò che avviene, con la formazione, con la novità che si staglia in quel che si dice, in quel che si fa, per via del tempo, per via della quantità, per via della qualità.
L’attaccamento all’idea di standard, all’idea di protocollo, l’attaccamento alla soggettività costituisce remora, riserva, rimando all’accoglimento di ciò che avviene nell’itinerario, e favorisce la negazione stessa dell’itinerario, la negazione delle acquisizioni, la propugnazione del soggetto stupito e stupido rispetto a ciò che accade. Negazione dell’itinerario vuole dire anche negazione del programma secondo il progetto di vita.
Quante volte si sente negare l’ipotesi stessa del progetto e del programma di vita: “Io non ho un progetto, io non ho un programma, io sono un soggetto”. Soggetto standard, soggetto per fatalismo, nella predestinazione, soggetto che vive alla giornata, sopravvive alla giornata, soggetto che si rappresenta come corpo morto esposto a un’autopsia. La negazione dell’itinerario, la delega a fare il punto, a capire dove si è situati nello svolgimento della domanda, è la credenza stessa di stare assistendo alla propria autopsia, dove chi fa l’autopsia deve dire cosa vede, cosa c’è nel corpo morto.
L’esperienza analitica non è farsi l’autopsia, né fare l’autopsia del mondo, né l’autopsia dell’ambiente per fare l’elenco delle magagne, dei mali, delle negatività, delle idealità che potrebbero essere riscontrate in sé, nell’ambiente o nel mondo. L’esperienza analitica non è la conoscenza di sé o la coscienza di sé, non è il processo d’imbalsamatura di sé. L’esperienza analitica è esperienza di vita, per la vita, non per la rappresentazione di sé come morto, come imbalsamato, come mummia, come contenitore del bene o del male, di vizi o virtù di cui fare l’elenco per lamentarsi o per fregiarsi o per esaltarsi. Sempre per essere! Tutto ciò vale solo per la creazione del mondo, la creazione del sistema. Ogni creazione ha uno scopo unico, la negazione della parola, in cui non c’è creazione, non c’è creatore, non c’è agente, ma c’è la parola secondo la logica particolare, la parola secondo la sua dissidenza in direzione della cifra.
Nessuna ontologia, nessuna presunzione di conoscenza, ma rischio di qualità, rischio di verità, rischio assoluto. Ogni freno al rischio è la negazione della parola, è l’esibizione di remore, riserve, rimandi contro la parola, per vivere in un sistema. E il sistema funziona inglobando ogni cosa, soprattutto gli scarti, quelli che vengono ritenuti gli scarti. Avete presente l’inquinamento del mondo e del sistema? L’attenzione oggi, ieri e domani, è e sarà rivolta, sempre più, verso gli scarti. Dove mettere gli scarti, che sono sempre più numerosi, sempre più inquinanti? Gli scarti, il business degli scarti. E la preoccupazione è notevole: dove mettere tutti questi scarti che occorre inglobare nel sistema, dato che il sistema è finito? Gli scarti soffocheranno il sistema! Il sistema deve inglobare perché è senza il globale, quindi ingloba sommando. Va da sé che, somma oggi, somma domani, si arriverà alla saturazione. Il globale, l’infinito, l’integrità sono proprietà della parola, senza sistema.
La parola è senza sistema, è asistemica. È integra, è intera. Intero indica già che il sistema non è possibile. Il sistema s’istituisce negando l’intero per dare un limite all’intero, per dare un limite all’estremismo dell’intero, per garantire un’uguaglianza, una parità, per contenere l’estremismo. Per questo sorge il sistema sociale: per il compromesso sociale, la parità sociale, per l’uguaglianza sociale, la mediocrità sociale, per l’appartenenza sociale, la burocrazia sociale, per il mantenimento degli apparati sociali, senza parola, senza pulsione, senza domanda, senza dissidenza. Questo è il sistema sociale, dove si tratta del consumo e della sua economia. La difficoltà, in quanto ineconomica, deve essere bandita dal sistema, che dovrà avere, come cervello, un cervello comune.
La difficoltà nel sistema è un pericolo ineconomico, perché la base del sistema è la condivisione dello standard. E la condivisione avviene attraverso la remora, la riserva, il rimando, che sono remora mentale, riserva mentale, rimando mentale verso tutto ciò che è intellettuale, ossia sessuale, temporale, non ontologico, ossia non inscritto nella mediocrità del sistema, nella burocrazia del sistema, negli apparati del sistema che si fregiano dell’economia della pulsione, del contenimento della pulsione negli apparati della burocrazia come principio regolatore dei loro funzionari, i quali spiccano per negare la parola, anche quando sembrano accoglierla, inglobarla. Appunto, inglobarla! Il sistema non espelle niente. Ingloba anche ciò che apparentemente è antisistema per la completezza del sistema, e ingloba volentieri anche la parola; per contenerla!
La questione intellettuale è sospesa dal sistema con mille alibi, con mille giustificazioni soggettivamente validissime. Ognuno ha la sua giustificazione per sospendere, procrastinare, abolire la questione intellettuale. È troppo difficile, comporta sforzi eccessivi, sforzi vani che non cambieranno il sistema. Le sue modalità, i suoi apparati, i suoi funzionari, i suoi professionisti, non cambieranno gli altri, pertanto, posso anch’io sospendere la questione intellettuale. “E che?! Vogliamo fare gli eroi?”.
Questa sospensione attraverso remore, riserve, rimandi istituisce il rapporto sociale, la rete sociale, un rapporto di equilibrismo tra il bene e il male. Un equilibrismo governato dal pettegolezzo, dal luogo comune, dal consenso, dal buon senso, dal giudizio universale. Il rapporto sociale è governato dal giudizio universale e ognuno è conoscitore, vero conoscitore del giudizio universale perché, chi meglio del soggetto conosce i suoi strumenti, la colpa e la pena, cioè gli strumenti della governance soggettiva?
Il rapporto sociale è l’altra faccia del fantasma di origine, che diventa origine sociale, classe sociale, classe di appartenenza, razzismo sociale per cui il sistema deve pareggiare, e quindi introduce la parità sessuale.
Ognuno può fare quello che vuole sospendendo la questione intellettuale, in nome della libertà di divertirsi. E il divertimento diventa il passepartout di una presunta libertà sociale che s’ispira alla moralizzazione tra il bene e il male, la quale deve venire somministrata con gli strumenti soggettivi della colpa e della pena.
Va da sé che, una volta sospesa la questione intellettuale, l’esperienza intellettuale, l’esperienza della parola, di cosa parlano i soggetti dediti all’autopsia? Parlano dei propri acciacchi! Parlano di quel che non va, dei fastidi, dei mali dell’Altro, del lavoro, della vita: i mali del mondo. Parlano dei mali. Il soggetto è autentico, profondo conoscitore dei mali: sociali, di sé, dell’Altro. Quindi, si rivolgono al divertimento e a una presunta idea del piacere conosciuto, da avere tutto e subito, perché l’avvenire è negato. Perciò è impossibile costruire il programma secondo il progetto, perché il soggetto non ha progetti, non ha programmi, non ha tempo. Il soggetto non ha e non è. Il soggetto ha queste caratteristiche: non ha, per cui è soggetto della miseria, e il soggetto non è, per cui è soggetto della povertà.
Questi sono i soggetti senza la rimozione. Il soggetto può lamentarsi di quello che non ha, e che sarebbe invece necessario. Quello che non ha è proprio quello che sarebbe necessario per conseguire quella cosa. E poi, è esperto di quello che non è, altrettanto essenziale per giustificare quello che non può fare e non può conseguire. Soggetto che non ha, soggetto che non è.
Va quasi da sé che l’avvenire è fuori discussione. Il tempo è sempre lì lì per finire, per cui non si può nulla:“Adesso è troppo tardi, che fare? Impossibile”. “Non ho, non sono”. Remora, riserva, rimando mentali, cervello comune, complicità comune, consenso comune, luogo comune, mentalità comune: la mente comune.
Su una cosa i soggetti sono costantemente d’accordo: sul lamento. Lamento comune su ciò che non hanno e su ciò che non sono. Lamento su che cosa? Sui frutti che non ci sono. “Purtroppo c’è la carestia, ci si aspettava anni di opulenza, di raccolto copioso e invece niente, siccità e carestia”! Se lo sforzo è contenuto, se la parola è negata, se l’itinerario è negato, se l’esperienza di parola è negata a favore del mantenimento delle remore, delle riserve, dei rimandi soggettivi e mentali, perché, lamentarsi dei frutti che non arrivano? I frutti sono come i talenti. Nessuno li può avere. Nessuno li ha. Sono da usare.
I talenti all’occorrenza entrano in gioco, intervengono. Non perché uno li ha nello zainetto, ma perché l’occorrenza lo esige. E, allora, nel dispositivo interviene anche il talento. E i frutti sono della stessa natura: all’occorrenza intervengono. Ma se l’occorrenza è evitata, rimandata, economizzata, espulsa addirittura per un contenimento dell’urgenza, della domanda, come pretendere che, abolendo l’occorrenza, tuttavia, talenti e frutti ci siano lo stesso? Non sarebbero più frutti, sarebbero ontologia, dotazioni standard. Non sarebbero né talenti né frutti, ma dotazioni dell’apparato.
Si tratta dell’apparato allora, non più della parola, non più dell’itinerario, non più della questione intellettuale, si tratta di un’altra cosa. Si tratta della soggettività umana, della vita umana, della vita sotto il segno della mortalità, sotto l’idea della mortalità, cioè della vita che nega l’infinito, nega la domanda all’insegna del possibilismo, dato che il soggetto si assegna i suoi limiti per motivi che giustifica ampiamente.
Posta l’idea di origine, che deve ricalcare o che si specchia nell’idea di destino, il soggetto ha i suoi limiti. Questa è la mentalità della ragione sufficiente, la mentalità del sistema. Questa è la mentalità dell’apparato, con i suoi funzionari burocratici, ossia senza pulsione, senza domanda e senza forza che fanno quello che possono. Ognuno fa quello che può!
Fare quello che si può, come dice il proverbio, sono capaci tutti. Così, sono capaci tutti! Fare quel che si può è un quantificatore universale: tutti fanno quello che possono accumunandosi nella sopravvivenza. C’è bisogno di scomodare l’inconscio per fare quello che si può? C’è bisogno di scomodare la parola? C’è bisogno di dispositivi intellettuali per fare quello che si può? Basta il domestico, lo zoo, il sistema. Basta il mondo. Nel mondo ognuno fa quello che può! E poi, quando arriva la propria ora… Ognuno attende la propria ora facendo quello che può, perché, di più, non può. Questa è la burocrazia!
La burocrazia non può fare di più perché è scaduto il tempo, l’orario, non c’è la possibilità; la pratica è da un’altra parte, nel cassetto, sopra, è fuori mano, fuori portata. Non si può fare perché il lavoro è tanto, e facciamo quello che possiamo: l’apparato sociale sistemico si autogiustifica.
Badate, non alludo alla pubblica amministrazione, no. Ognuno nel suo piccolo, come diceva Abatantuono nel film Gli amici del bar Margherita, ognuno, nel suo piccolo, vive nell’apparato sociale sistemico e fa quello che può, nel suo piccolo, senza pulsione, domanda, spinta, senza tempo. Subendo quel minimo male necessario che è indispensabile per tutti, perché “Vorremmo fare di più, ma purtroppo abbiamo i nostri limiti”, i limiti della sufficienza, senza domanda.
La ragione sufficiente è senza domanda, spinta, forza. È nello standard, quindi senza ipotesi di valore. Questa ragione sufficiente è senza ipotesi di valore. È nella media, sta nella media. E nella media non c’è valore. Il valore è ciò che va oltre la media, cioè in direzione della qualità, senza la media. Non c’è il valore medio, è un controsenso: o c’è la media o c’è il valore! Senza ipotesi di qualità la parola è bandita e ci sono tutti i mali, le negatività, le impossibilità, le remore, le riserve, i rimandi.
Tolta l’ipotesi di valore, sono privilegiati remore, riserve e rimandi con tutte le rappresentazioni che da questo procedono, con tutte le angosce, le coscienze morali, le idee di sé, dell’Altro, le idee di diventare questo o quello, le idee di essere. Idee che occupano ogni pensiero, annichilendo la domanda. Non instaurano dispositivi queste idee di annichilimento, queste idee di soggetti della miseria e della povertà, di soggetti dell’avere e del non avere, di soggetti dell’essere e del non essere. Tutti molto impegnati a attribuire il proprio naufragio alle manchevolezze altrui, della sorte, del destino, dell’Altro, alla negativa del tempo, che è sempre lì per finire o che è già finito o che finirà.
E allora, qual è la sede dell’invito? Può darsi l’invito in questo contesto mondano, senza parola, senza domanda, senza pulsione? Abbiamo più volte indagato l’invito, la sua natura, intorno al perché, per alcuni, costituisse impedimento, per altri, nonostante la profusione, venisse respinto, e per altri risultasse impossibile formularlo, e dovesse rientrare nell’omertà.
Abbiamo indagato, analizzato, e ancora analizziamo, com’è opportuno che sia, dato che è proprio della questione intellettuale l’invito, il quale è sessuale, trae alla vita, alla vita altra, trae alla vivenza. L’invito, dove si tratta del transfert, dell’annunciazione, della memoria e della sua scrittura. Invito che non è mai erotico. Solo il soggetto della riserva mentale può credere che l’invito sia erotico, che possa trattarsi dell’invito a visitare la propria collezione di farfalle o a mostrare l’orlo delle mutandine. No, l’invito è alla vivenza, al dispositivo pragmatico. L’invito è invito alla parola, non è finalizzato a qualcosa che finisce, com’è nel caso dell’erotismo. L’invito è rivolto a qualcosa che non finisce. Non è l’invito a una cosa, a quella cosa, a quella volta. È l’invito all’altra vita, è l’invito alla parola nella sua esperienza, senza remore, riserve, rimandi. O non è. Non è invito.
Nell’invito si tratta dell’amore e dell’odio non transitivi, non coniugabili. Non è l’invito a quella cosa di cui ognuno ha vergogna o pudore, perché se la rappresenta come cosa finita, come cosa erotica. Alcuni chiamano invito anche questo, ma non è invito. É la rappresentazione delle proprie riserve verso qualcosa o verso qualcuno. L’invito sta nella forza, nella forzatura. Non si rivolge al consenso, a chi è d’accordo. D’accordo su che?. L’invito è pulsionale. Non è questione di volontà, di desiderio, di volere, di piacere. L’invito sta nella forza della domanda. Senza la forza, senza la domanda, senza la forzatura non c’è invito. C’è complicità, una complicità di sistema, un rapporto sociale che nega la domanda, una cosa comune.
L’invito di cui si tratta, non è l’invito di trovarsi al bar a ubriacarsi, quello è una prescrizione comune, un destino comune. É nell’epoca. L’invito è contro l’epoca, senza l’epoca, oltre l’epoca. È per fare qualcosa di straordinario, non per assistere a qualcosa e poi finirla lì. Quello è un invito del cavolo. Un invito erotico non è un invito.
L’invito è pragmatico, per fare, per instaurare dispositivi. Esige la pulsione e la sua causa, la voce. L’invito non è tanto per dire o tanto per fare, è invito al viaggio. Non può ispirarsi al criterio geometrico o algebrico con l’idea di fine, di atto unico, di atto finito, come impone ogni approccio erotico.
L’approccio erotico è ben rappresentato dal rapporto con la prostituta. Non c’è nessun invito nel rapporto con la prostituta, che è ispirato al concetto di sopravvivenza sociale, al rapporto sociale, al sistema sociale.
Invito senza forza? Invito senza domanda e senza sessualità? È la prostituzione! Rapporto sociale: negazione dell’invito. Si tratta d’invitare qualcuno a vedere qualcosa, quella volta? No! Si tratta di un invito al viaggio, a un’altra cosa, a una cosa mai vista, mai stata prima. È invito intellettuale, provocazione intellettuale. Si è mai constatata una domanda senza provocazione, una domanda senza sembiante, una domanda senza causa? E può darsi invito senza sembiante, senza la causa, senza la parola? Vuol dire prendersi in giro credere una cosa del genere, fare la parodia del soggetto stupido. Il soggetto è solo stupido e vive nello stupore. Aborrisce la forza della domanda perché la allucina come stupro. E vive stupito, nello stupore, stupendosi. La vita del soggetto è nella stupidità.
È così attraente?
L’invito è al dispositivo pragmatico, al dispositivo cifrematico, senza mezzi termini, senza riserve, remore, rimandi, senza idiozia, stupidità, credenza nella malattia mentale, che è sempre la propria; giustificando ogni mentalità con la ragione sufficiente, perché giustifica il soggetto debole, malato, incapace, il soggetto che non regge, che non è in grado di reggere o di fare. Non è in grado! L’invito esige l’ipotesi di valore, di cifra, la scommessa.
L’invito non è “tanto per dire”, nel possibilismo, “se va, va”. Quello è l’invito di cortesia che non si può negare a nessuno. Rivolto, perché sia rifiutato, da un soggetto all’altro, da un funzionario all’altro. L’invito di apparato, che si scusa di arrecare eventuali turbative all’immobilità del soggetto in questione.
Tolto l’invito, quale sessualità? Ognuno sopravvive nel suo recinto, nell’isolamento. Perché ci sia dispositivo, perché ci sia insieme, impresa, ricerca, è impossibile stare nel recinto. Essenziale la formulazione dell’invito.
Mi pare che di materia ce n’è. Verifichiamo. Forse c’è qualche domanda.
Sabrina Resoli Diceva che l’invito sta nella forza e nella forzatura. E lo sforzo intellettuale in questo ambito, come si pone al riguardo? Perché, appunto, c’è anche lo sforzo.
R.C. Lei dove lo mette, dato che c’è?
S.R. Io lo metto accanto alla forza.
R.C. In un angolino, lì, riposto.
S.R. Oltre alla forza, anche lo sforzo. La forzatura poi, non l’avevo mai sentito come termine messo accanto.
R.C. Ecco, perché “Dio me ne guardi”, no? Dio mi guardi dalla forzatura! Che magari il soggetto si stanca, si sfinisce, si esaurisce! Il soggetto è passibile di esaurimento, no? L’epoca dell’esaurimento ancora non è finita, in effetti. Nonostante la parola, nonostante noi, l’epoca dell’esaurimento ancora non è finita. Come mai questo accade, nonostante noi? Lei, se l’è chiesto questo? Se lo chiederà domani?
S.R. Me lo chiedo anche adesso.
R.C. Se lo chiede anche adesso. Secondo lei, come mai, nonostante noi, l’epoca dell’esaurimento è ancora in auge? Esaurimento, magari, è una parola un po’ delicata, ma possiamo anche dire l’epoca della burocrazia. Cambia poco. Secondo lei, perché quest’epoca è ancora in auge?
S.R. Azzardo un’ipotesi. Perché la via facile, nel discorso comune, sembra essere più a portata di mano, rispetto allo sforzo, alla forzatura, a tenere conto della pulsione, della domanda. Apparentemente più facile, per comodità, lasciarsi andare, adagiarsi e credere che il soggetto sia effettivamente presente, efficace, limitantesi, accogliendo la burocrazia e credendo che la burocrazia sia quello che gli spetta, la possibilità.
Perché, un’altra questione, è proprio quella non dell’impossibile, ma del possibile. Quando lei diceva, o almeno a me viene in mente di dire: “Faccio il possibile, più di questo non posso fare, mi limito al possibile”, e l’impossibile dov’è? Non c’è, sembra non porsi, perché se dico: “Faccio il possibile, più di così non posso, non riesco, non sono in grado”, ma l’impossibile dov’è?
R.C. È già lì l’impossibile. La questione non è tra possibile e impossibile; non è una partita tra possibilità e impossibilità, ma tra l’occorrenza e il suo modo. Già mettersi a pensare se è possibile o no, è una remora.
S.R. Nega il mettersi in gioco.
R.C. L’occorrenza è pragmatica, e lì si tratta del fare, senza la possibilità o il possibilismo. Si tratta del modo. Quello è da trovare. Trovare il modo! L’occorrenza esige questo, non di stabilire prima se è fattibile o non è fattibile, se è possibile o se non è possibile, se sono in grado o se non sono in grado. Tutto ciò è autoerotismo. Esiste anche quello, che indicava adesso come stare a pensare. È il rapporto di sé a sé, ciccì e coccò. Io ciccì o io coccò?
S.R. Faccio o non faccio?
R.C. È il caso o non è il caso? È bello non è bello, è buono non è buono?
S.R. Ce la farò o non ce la farò?
R.C. Tutto ciò è autoerotismo. È per contenere lo sforzo. Se c’è sforzo, quindi forza, domanda, pulsione, spinta, tensione, rivolta al compimento alla conclusione, alla clinica, alla cifratura, allora non c’è questo apparato di contenimento.
Altri? Sicuramente Sofia ha una domanda da fare.
Sofia Taglioni Stavolta no.
R.C. Come no?
S.T. È difficile oggi.
R.C. Non a caso. Abbiamo toccato un tasto delicato?
Vanni Francescato Forse perché…
R.C. Vanni, prego.
V.F. Forse perché, anche nella società attuale, tutto ha un valore economico. E questo, comunque, ha un limite. Tant’è vero che, proponendo un compenso, il limite si supera. Tante cose, pagate in altro modo, permettono di superare il limite. Anche al lavoro c’è chi dice: “Non si può fare”, perché “Sto troppo tempo e non sono pagato”. L’obiettivo non è svolgere, raggiungere la cifra, il valore di ciò che si fa, ma raggiungere esclusivamente un valore economico, ridurre il tutto al valore economico.
R.C. Non è detto che non debba esserci, anche, un aspetto economico e finanziario.
V.F. Certo, ma alle volte si trascurano altri obiettivi, gratificazioni intellettuali.
R.C. Intellettuale non vuol dire gratuito. Non vorrei che ci fosse questa equazione: intellettuale, allora gratuito.
V.F. Forse ho capito male.
R.C. Il valore va in molte direzioni.
V.F. Quando si fa qualcosa, ne traggo non solo un valore economico, ma anche un valore…
R.C. Certo, il guadagno è intellettuale, di varia natura, c’è questo, c’è quello. Ciascuna cosa non nega l’altra, chiaro.
V.F. Al giorno d’oggi, mi sembra, che il benessere economico sia più importante del benessere di una persona. I soggetti s’individuano, si rilevano mediante lo stato economico di una persona, quindi tutti puntano a vedere cosa sono.
R.C. Esatto. In effetti, un aspetto della conferenza di questa sera riguardava l’abbondanza e la ricchezza, che svolgeremo la prossima volta dato che…
V.F. Non c’è tempo.
R.C. No, no, il tempo c’è, ma abbiamo concluso a questo punto. Ma lei giustamente ha colto che c’è anche questo aspetto, bene. Intanto Sofia ha ragionato e è arrivata a formulare, no?
S.T. Sì, ma non è niente di speciale. Ho pensato che occorre l’invito per una ipotesi di valore, ma la cosa che mi chiedevo: e l’invitato? L’invitato è l’invito? Cioè, invitato e invito sono la stessa cosa?
R.C. Interessante questa cosa.
S.T. Cioè, l’invitato non è colui che ha ricevuto l’invito, ma è colui che lo ha fatto secondo la questione della parola.
R.C. Quindi la questione è: chi è l’invitato? A chi si rivolge l’invito?
S.T. No, ma comunque, se all’invitato è rivolta la domanda, in realtà è come se avesse lui l’invito, come se la domanda fosse verso di lui. È lo stesso esempio che ha fatto all’inizio del suo interlocutore, nel momento in cui lui le ha chiesto qual è il suo viaggio, la sua esperienza. Un po’ la stessa cosa, nel momento in cui lei le ha posto questa domanda, le ha posto l’invito, lui, da invitato, ha risposto, ma di conseguenza se l’è posta a sua volta.
R.C. Sì, chiaro. Non è una questione di coppia invitante-invitato, ma anche l’invito è un dispositivo. Non è una specularizzazione, un rapporto, non è erotismo, in questi termini. Bene, interessantissimo. Chi ancora? Sanavia sta ragionando.
Barbara Sanavia Mi sarei espressa se avevo…
R.C. Si sarebbe espressa, quindi se non si esprime…
B.S. E invece no.
R.C. Però, può esprimersi, anche senza essersi già espressa.
B.S. Forzatamente non mi va.
R.C. Ecco, sarebbe forzatamente, così, per partito preso. Però stava riflettendo su una cosa.
B.S. No.
R.C. No, non vuole.
B.S. Non voglio dovere dire per forza qualcosa. Se ho qualcosa di valido, lo dico.
R.C. Preferisce essere un soggetto libero.
B.S. Libera, semplicemente.
R.C. Libera di volere, se o non se!
B.S. Non è serata.
R.C. Ecco.
B.S. Indipendentemente dal titolo.
R.C. E allora chi?
Giampietro Vezza Mi domandavo…
R.C. Ecco, Giampietro.
G.V. Se quando c’è l’invito, è possibile accettarlo o non accettarlo. Oppure, quando c’è l’invito, in realtà, non c’è più scelta, perché proprio l’invito, come dispositivo, non è una scelta, è qualcosa che s’instaura, interviene.
R.C. Esatto, non è alternativo.
G.V. Non c’è un’alternativa. E possiamo dire che, tra i dispositivi, l’invito è il preambolo all’incominciamento. Per quello che ha precisato lei prima, è qualcosa che riguarda l’amore, che ha a che fare con l’invito.
R.C. Chiaro. E con l’odio. Perché solo con l’amore, potrebbe anche essere suscettibile di rimando. Ma, certamente, esige l’amore e l’odio.
Bene, quindi lei ha colto questo.
G.V. Lo avevo colto nel piccolo intervallo del last minute dell’invito della mail che è arrivata; intervallo piuttosto breve.
R.C. Avendo colto questo, occorre non indugiare più.
G.V. Ci sono tante cose questa sera per le quali non c’è necessità, ma occorre riflettere.
R.C. Occorre fare. Esatto. Sì, Patrizia.
P.E. Sì, se precisava intorno all’intero, all’integrità della parola, di cui diceva prima. Non so se ho capito bene, perché c’è l’integrità del sembiante che si dice intero. Qualcosa che il sistema ingloba, porta dentro e ne fa qualcosa di statico. Ciò mi fa pensare all’adiacenza di qualche altra cosa, non credo che faccia somma.
R.C. Chiaro.
P.E. Allora la inglobalizzazione farebbe la somma delle cose che vanno o non vanno, da scartare, da tenere, da buttare dentro o buttare fuori. L’adiacenza cosa fa? Aggiunge, ma senza…
R.C. Sommare, senza sommare. L’integrazione è l’adiacenza senza sommazione.
P.E. Senza sommazione, non riesco a capire; allora sarebbe l’eccedenza, il di più?
R.C. È il pleonasmo.
P.E. E è l’adiacenza? Cioè, il pleonasmo è una cosa di più, da dove viene questo di più?
R.C. Viene dall’intero.
P.E. È questa l’adiacenza? Per capire.
R.C. Perfetto. Molto bene. Giorgio Fornasier, c’è qualche notazione? Sabrina Resoli.
S.R. Due termini ho appuntato questa sera: uno è lo scarto, l’altro è la forzatura. Mi chiedevo se l’idea di scarto è nel sistema, perché nella parola non c’è lo scarto. C’è il resto forse; insomma era intorno a questo scarto, che, appunto, l’adiacenza rende impossibile. Non c’è scarto, non c’è nulla da scartare nella parola, perché non c’è niente da purificare. Ciascuna cosa è senza scarto.
R.C. Bene. Maria Luisa Biancotto?
Maria Luisa Biancotto Manca il punto.
R.C. Manca il punto? A cosa manca il punto?
M.L.B. Nel senso che mi sembra, questa sera, un discorso sospeso. Così come l’invito non ha chi inviti, non ha chi ha invitato, che è la questione di fondo dell’itinerario di ciascuno e quindi, come si diceva, con chi il percorso, per cui il fare. Si è parlato di questa cosa e la sento come discorso sospeso.
R.C. In effetti sì.
M.L.B. Ecco manca il punto, nel senso della concretezza. Da dove parto, in questo senso? Tutto bene, ma qui, che cosa?
R.C. Quindi è in sospeso, in attesa di ripresa.
M.L.B. No, è in atto. In qualche modo è in atto.
R.C. È da capire in quale modo. Bene. E dulcis in fundo allora, niente po’ po’ di meno che Fernanda Novaretti. Sì?… Come? Non ho sentito bene.
Fernanda Novaretti Eh lo so, quella cosa dell’invito […].
R.C. Sì, e tutto il resto.
F.N. Dell’occorrenza, mi sembrava.
R.C. Quella cosa non eludibile. Esatto, talenti e frutti. E itinerario! Perché sarebbe pretenzioso esigere frutti senza l’itinerario in corso, nel suo corso; in atto. Nel suo svolgimento e nella sua domanda. Domanda che non è una volta per tutte, ma è domanda in corso.
Bene, ho annotato altre cose e le possiamo riprendere e proseguire la volta prossima. La volta prossima è il 14 che, nonostante un certo invito a prendere la Bastiglia, siamo riusciti a barcamenarci e essere qui. Il 14, mi pare, ci sarà anche un intervento di Moda, giusto? Allora ci vediamo il 14, subito dopo la presa della Bastiglia. Perché è stata presa prima delle 21, quindi prima prendiamo la Bastiglia e poi veniamo qui.
Pubblico È l’anniversario.
R.C. C’è l’invito a prendere la Bastiglia! Bene. Grazie e arrivederci.
L’invito alla battaglia
Ruggero Chinaglia Abbiamo molto materiale che giace ancora, praticamente intonso, nei nostri archivi e che attende di essere inserito nei siti e di avere correzione redazionale, in alcuni casi anche trascrizione. Chi può collaborare in queste prossime settimane è il benvenuto, dato che il lavoro, in questo periodo, deve procedere con maggiore speditezza. È materiale frutto di anni e anni di lavoro, incontri, dibattiti, convegni, conferenze, tante cose che abbiamo organizzato. È un contributo alla civiltà.
In alcuni casi esige un affinamento proprio sotto il profilo tecnico, perché nonostante anni di attività, ancora c’è chi ignora l’uso di semplicissimi dispositivi, quali il registratore o la telecamera. C’è chi ignora che la regolazione dell’audio, per esempio, va fatta in modo che non ogni rumore nella sala debba essere registrato, anzi, che solo la voce dei relatori, o del relatore, debba essere registrata, in modo che tutti i rumori molesti, che possono esserci intorno, trovino un filtro. L’audio non va messo al massimo, ma al minimo, in modo che solo la voce s’incida nel dispositivo di registrazione. Purtroppo, in molti casi è stata selezionata con cura la regolazione, in modo che la voce del relatore quasi scompare e tutti i rumori attorno sono registrati, così che nulla si possa considerare perduto.
Tuttavia, per quanto riguarda il recupero e i vari aspetti del lavoro redazionale, per l’immissione del materiale nei vari siti, chi può dare un contributo è il benvenuto.
Com’è noto, abbiamo tre siti. Spero che almeno questo sia noto. Abbiamo almeno tre siti: il sito dell’associazione, cifrematicapadova.it, il sito chiweb.net, sito collegato all’associazione e che contiene tutti i materiali degli avvenimenti che si sono svolti ¬ Tutti!?… Magari tutti! Una piccolissima parte del materiale che si è prodotto in questi avvenimenti, ma puntiamo a che in breve sia finalmente a disposizione – poi c’è ruggerochinaglia.it, che contiene testi e articoli riguardanti l’elaborazione di questi anni. Insieme formano una rete, una rete ulteriore, perché sono collegati. E il materiale che si trova nel sito dell’associazione, come elenco, può venire reperito in un altro sito come testo, come video, come media e altro ancora.
Nonostante ci stiamo lavorando da anni, occorre dire che siamo stati sicuramente tra i primi negli anni 2000, forse prima, a avere un sito dell’associazione e Fornasier ha collaborato in modo eccellente, per cui l’associazione disponeva di un sito costruito in modo ingegnoso, nella sua complessità, quando ancora solo grosse imprese disponevano di un sito, e di materiali nel web. Paradossalmente, siamo passati dall’avanguardia alla retroguardia, nel senso che, siamo stati i primi, e poi, piano piano, data la lentezza operativa, tutti gli altri sono passati avanti, pur disponendo di materiali sicuramente meno interessanti dei nostri.
Adesso non è che si possa recuperare il tempo perduto, perché il tempo è irrecuperabile e nemmeno si perde, però possiamo procedere più speditamente affinché queste testimonianze siano a disposizione, non essendo reperibili da nessun’altra parte. Cioè, conferenze e dibattiti tenuti da esponenti internazionali della cultura, della dissidenza, della politica, dell’arte che sono stati qui, a Padova, non sono gli stessi di altre sedi, di altre città. C’è una specificità. E se non sono pubblicati, sono inservibili per altri.
Questo è il lavoro cui ci stiamo rivolgendo. Lo possiamo considerare un servizio intellettuale, rivolto a ciascuno che vi collabora perché, così, ciascuno ha in anteprima l’occasione di consultare questi materiali, di leggerli e ascoltarli. E questo consente l’elaborazione, l’eco. Consente l’ascolto, la scrittura. Cioè, collaborare è un modo di arricchire il proprio itinerario. Questo forse non è ancora del tutto evidente, per qualcuno, però è constatabile.
L’invito è alla collaborazione, giusto per stare nel tema di questa sera e di questi incontri, ossia la collaborazione alla formazione, all’arricchimento, alla valorizzazione di ciò che ciascuno ha in corso, facendo. Questo mi pare importante precisare, perché c’è chi, per esempio, ritiene che la conferenza sia un appuntamento importante e la riunione organizzativa no, perché questo comporterebbe un obbligo, un impegno, un chissà che cosa. Noi non facciamo distinzione. Anche l’équipe è un momento di organizzazione, di coordinamento. Non c’è la compartimentazione nella nostra esperienza, c’è l’esperienza.
Dicevamo che il titolo di questa sera è noto. Ci sono domande? Ci sono annotazioni? Doveva esserci un intervento di Fabrizio Moda, ma non ha preso la cosa in modo, come si dice, estremo. Ha ritenuto di potere giustificarsi rispetto all’appuntamento. Questo intervento non ci sarà, almeno non questa sera.
Se ci sono altre domande, intanto per cominciare, curiosità rispetto all’incontro precedente o a quelli prima ancora, possono dirsi.
Barbara Sanavia Mi piace questo titolo.
R.C. Beh, ne siamo felici.
B.S. In particolare la parola battaglia, che non vedo negativa, cioè non è la guerra, la battaglia.
R.C. Eh, no.
B.S. Perché io nella battaglia ci vedo la forza, la forza di battersi per quello in cui si crede e di non accettare quello che non va, non subirlo. Per cui c’è la forza di fare per il cambiamento. Al giorno d’oggi, non è molto diffusa la battaglia, la guerra sì, le guerre sì.
R.C. Sì, soprattutto la battaglia intellettuale. Perché si tratta di questo: la battaglia è battaglia intellettuale. Non è il duello, non è la rappresentazione del duello, non è il massacro, la carneficina, lo scontro, è battaglia intellettuale, è battaglia per la vita, non per la morte.
Allora, l’invito alla battaglia, come dire l’invito all’instaurazione della parola. Dove, come, quando s’instaura la parola? Non è già data la parola, non è pronta all’uso. E credere che una domanda di aiuto o una richiesta di aiuto, sia indice della domanda autentica di ricerca e d’impresa, e basti di per sé a instaurare l’analisi, il dispositivo intellettuale e quant’altro, è fallace. Sarebbe facile, ma non è così.
Ognuno si rappresenta l’aiuto, per così dire, a sua immagine. Gnosticamente, si rappresenta l’aiuto secondo l’idea di bene e di male, e è raro che intervenga la generosità e la fede nella riuscita senza che intervenga la rappresentazione gnostica del bene e del male. Ogni richiesta è richiesta di bene, per cui rispondere a una richiesta di bene è molto impegnativo – è il meno che si possa dire – perché rischia di chiudere la domanda nella risposta alla richiesta.
La domanda non esige risposta. Esige di trovare il modo perché abbia corso, perché si svolga, perché possa rivolgersi alla sua cifra, perché possa trovare la valorizzazione. Dare aiuto equivale a confermare la rappresentazione del bene e del male. E perché la domanda possa rivolgersi alla cifra, la rappresentazione del bene e del male è proprio ciò che occorre trovi dissipazione, non conferma. Dare aiuto è qualcosa che è molto pubblicizzato come altruismo, ma l’altruismo, appunto, che cosa risulta? Risulta una forma di specularità, dove ciò che trova conferma è la rappresentazione.
Poiché l’aiuto è una proprietà dell’Altro, non può essere somministrato o comminato a misura della bontà d’animo, se non confermando le mitologie e le mentalità che questa bontà d’animo comporta. L’aiuto viene dall’Altro, quando l’Altro interviene. Quando interviene! E perché intervenga, occorre che s’instauri la parola con le sue proprietà. Non è che l’Altro è qualcuno caritatevole che si presta a fornire aiuto.
L’Altro sta nell’intervallo, sta nel silenzio, nella funzione vuota. Esige che sia in atto la logica funzionale. L’Altro è differenza assoluta, quindi ciascuna rappresentazione del bene o del male è un modo per abolirlo. E la richiesta di aiuto è, per lo più, veicolata dalla rappresentazione di come questo aiuto debba essere fornito, di quale sia, perché ognuno ritiene di saperlo, vuole l’aiuto che vuole, l’aiuto che gli serve. Ma, questo non è l’aiuto, questo è l’aiuto fallico. L’Altro non è funzionale a soddisfare la richiesta, interviene nella domanda. E non è noto dove la domanda si rivolga. Perché questo avvenga, si deve instaurare la parola.
Cosa vuol dire che la parola s’instaura? Quando, come, dove s’instaura la parola? La parola s’instaura con la nominazione, con le sue proprietà, con le sue caratteristiche, con la logica del due, la logica del tre e la combinatoria che da queste logiche, con le varie intersezioni si produce.
Senza la nominazione s’instaura una sistematica, dove ognuno crede di sapere quel che gli serve. Cioè, s’instaura il sistema del soggetto, che è rappresentato dal fantasma di padronanza, dal fantasma di possessione, nonché dal fantasma di fine. Il soggetto si regola sulla padronanza, sulla possessione, sulla fine. Detto altrimenti, sulla spazializzazione delle cose e della parola, sulla localizzazione della parola, sulla finitezza, ossia sulla conoscenza.
Tolta la nominazione è abolito l’ascolto; allora le cose significano, vengono a significare secondo l’idea alternativa del bene e del male, della vita e della morte, del volere o del potere, del sapere o del non sapere. Ma lì, non c’è più la parola, c’è un sistema di controllo e di padronanza.
Come s’instaura la parola è indicato dall’auctoritas e dall’abundantia, che sono gli indici che inaugurano la parola, non come apparato così detto di comunicazione intersoggettiva, ma la parola nella sua logica e nella sua struttura, la parola ingovernabile che rilascia effetti. La prima sensazione che indica che la parola si è instaurata, è, per esempio, l’auctoritas, con l’aumento, l’incremento. Qualcosa si avverte come rilancio, come rimozione, come crescita. Qualcosa non è più inerte, uguale a se stessa, come si pensava.
Come viene avvertita l’auctoritas? Anche come fantasma di esclusione, qualcosa risulta fuori portata, quasi inaccessibile. E, rispetto all’idea di potere disporre a piacimento di questa o quella cosa, interviene un senso di esclusione, un fantasma di autorità. Questo è un indice che qualcosa funziona nella rimozione, qualcosa, cioè, non è più liscio come prima, risulta spigoloso, scabroso. Le cose non vanno come si pensava dovessero andare, qualcosa non funziona, qualcosa non va. Ecco, lì sta accadendo qualcosa che il soggetto non può più padroneggiare o impedire o favorire; è fuori controllo. È incominciata la parola!
Comincia, così, la necessità della conversazione, perché questo lascito della parola si chiarisca e proceda, poiché il chiarimento non finisce mai. Non è mai abbastanza!
E così l’abundantia sul versante della resistenza. L’abbondanza, cioè quel che si produce dall’onda del va e vieni delle cose. Da questa onda si produce del sapere inedito.
Qualcosa si aggiunge, ma non a costituire conoscenza. Si aggiunge, si affianca, per cui c’è aumento da una parte e abbondanza dall’altra. Aumento e abbondanza. E le cose procedono differentemente, a meno che non siano governate dal soggetto, il quale stabilisce che, invece, occorre mantenere le cose nella conoscenza, nella padronanza, nella rappresentazione soggettiva.
Nulla è automatico. L’instaurazione della parola non va da sé, esige lo sforzo della ricerca, lo sforzo dell’impresa, la generosità per non accontentarsi e potere dire: “Ecco, ne ho abbastanza, ne so abbastanza, so già tutto, le cose stanno così”, perché le cose non stanno mai ferme.
E dall’auctoritas e dall’abundantia, procede la ricchezza, e accanto all’auctoritas e all’abundantia, la fluenza. La fluenza nell’intervallo. L’ascolto si avvale di questo, come la comunicazione. Non è che basti sapere cosa vuole dire questo o quello, senza la teorematica! Cioè, senza l’indagine che riguarda l’analisi, senza l’indagine che riguarda la qualificazione e senza la scrittura di questa indagine, perché l’indagine non è mai finita, la cosa non è mai finita, la cosa non giunge mai alla significazione.
Se giunge a significazione, c’è qualcosa che ha interrotto il processo intellettuale. Se interviene lo stupore, rispetto a ciò che è materia di analisi, di indagine, di ricerca, vuole dire che c’è una presa soggettiva, che riguarda l’idea di controllo sul tempo. Tempo che, nella sua irruzione, è pensato come violenza subita. Contro questa violenza, lo stupore, che serve a proteggere dalla violenza del tempo.
Capita di sentire persone che si dicono stupite, stupefatte rispetto a un’ipotesi, a un’eventualità, a una formulazione che assolutamente sconvolge il canone. Ecco, questo stupore, questa stupefazione indica un fantasma di stupro. Lo stupore viene da questo, dalla reazione a qualcosa che è avvertito come violenza.
Il tempo è anche violenza, interviene violentemente. Non interviene gradualmente, delicatamente. Il tempo, in quanto taglio, interviene come violenza e con violenza, possiamo dire. Gli effetti del tempo sono effetti violenti, scardinano le credenze! Contro questo scardinamento, può esserci reazione. Il soggetto reagisce a questa irruzione, si ribella, dice: “No! Non è così. So io come deve essere!”. E cerca di contenere il tempo, di mediare e usa tutte le accortezze del caso, contro il tempo: “Ci devo pensare un momento, occorre riflettere, pensarci bene, bisogna rispettare tutte le possibili eventualità…”.
La pratica del rispetto è una pratica di contenimento del tempo. Qualcosa fa irruzione e che cosa viene contrapposto a questa irruzione? Il rispetto! Che è l’altra faccia dello stupro! Il rispetto come contenimento dell’idea di violenza, del fantasma di violenza.
Un aspetto del fantasma di violenza è quello dell’idea di potere essere rapiti o sequestrati. Una fantasia che aveva avuto un’acme qualche decina di anni fa quando, effettivamente, avvenivano alcuni sequestri, ma, rispetto al numero di sequestri effettuati, la fantasia di potere essere sequestrati era dilagante. E non era una fantasia relativa alla realtà del sequestro, ma relativa al contenimento del tempo, anche nell’esperienza di parola.
Il soggetto difende il suo modo di considerare vere le cose, che è un modo o algebrico o geometrico, presumendo una possibile ripetizione senza differenza o la differenza senza ripetizione. Quello che la soggettività non accetta, non ammette, non tollera è che l’equivoco non venga risolto, che l’equivoco non trovi soluzione.
E che l’equivoco non trovi soluzione si chiama, ancora una volta, auctoritas.
Il qui pro quo, che è la struttura della metafora, non trova mai soluzione. Qui pro quo. E dopo un qui pro quo, ce n’è un altro. Perché dovrebbe trovare soluzione? Un altro qui pro quo, l’equivoco. Pretendere la risoluzione dell’equivoco, vuol dire abolire la stessa funzione di rimozione, vuol dire abolire il transfert. Il qui pro quo è la struttura del transfert. Qual è il prodotto di questa struttura? È il senso come controsenso. Qui pro quo, il senso non è mai stabile.
L’idiozia regna sovrana dove si presume possa tradursi, essere comunicato, essere dispensato il senso della vita. Ecco la domanda pacificante: “Qual è il senso della vita?”. Non c’è, non c’è il senso della vita. C’è il senso di un dettaglio, il senso di un qui pro quo, da lì viene il senso. La vita non ha un senso. Pensare al senso della vita vuole dire credersi un vegetale, il quale vegetale è lì, inerte, fermo. Allora, la sua immobilità darà un senso generale al suo esistere lì, come vegetale, ma la vita nella sua complessità non ha senso.
L’idea di un senso della vita è mortifera, è ideologica, è moralistica, è mortale. Solo l’idea che questo possa avere una risposta è l’avallo all’idiozia. Il senso della vita, il senso della morte; ma cosa vuol dire? Il senso del qui pro quo. Sì, c’è un qui pro quo, qual è il senso di questo qui pro quo? Può un qui pro quo diventare l’equivalente generale della vita? Beh, sì, se quel qui pro quo diventa tutta la vita. Cioè, c’è chi fa di un qui pro quo il rappresentante di tutta la vita, il segno, la significazione di tutta la vita. Ecco, allora il senso della vita è lì, ma la vita è già finita; è in quel qui pro quo che la rappresenta come soggetto, cioè come un’entità stabile. Non c’è soluzione al qui pro quo, perché è essenziale!
Chi cerca la soluzione è uno zombie. Gli zombies cercano la soluzione, la soluzione definitiva. Anche Hitler aveva trovato la soluzione finale del suo problema. Ciò è indicativo, la soluzione effettivamente è così, indica la fine del problema, anche la fine della questione. L’idea di soluzione è idea di fine. Chi spera nella soluzione è un credente della fine, bisogna che sia chiaro questo!
Ci sono tante religioni, la più diffusa è la religione della fine, che ha i suoi seguaci tra coloro che credono nella soluzione. E se prestate orecchio a quel che si dice attorno a voi, troverete che vivete tra credenti di questo tipo: credenti nella soluzione, credenti nella fine, che, poi, si lamentano se questa credenza produce tutta una serie di casini, di sintomi, di inconvenienti, tutti avallati dall’apparato che fornisce i rimedi, e tutti bene accetti perché sono tutti casini codificati. Un esempio? La mitologia della depressione, che chiaramente è una credenza nella fine. Anche chi dice che non ce la fa, crede nella fine. Anche chi dice che non può farcela da solo e deve avere l’aiuto dal ricorso a questa o quella sostanza, crede nella fine. Anche chi somministra la sostanza, crede nella fine. Chi crede di essere qualcosa di finito, che non ce la fa, ha già abolito la parola. La fede nella riuscita è espunta, la generosità tolta, c’è la credenza nella soggettività, nell’idea di finitezza. Nulla mai comincia per un soggetto.
Quale auctoritas se qualcosa non incomincia? Nessuna auctoritas. Ma che qualcosa incominci non vuol dire che è cominciata una volta per tutte, che è cominciata una volta per sempre, che essendo cominciata può soltanto finire… L’incominciamento è nell’atto! L’incominciamento è nella costanza dell’atto. Chi pensa d’incominciare e poi finire toglie la costanza. È un soggetto finito.
Che qualcosa cominci non indica l’origine della cosa, perché l’incominciamento è funzionale: indica che è avviato un funzionamento, una logica, non che è stata trovata l’origine della cosa! No, la cosa è senza origine e comincia a funzionare. Funzionando produce qui pro quo: lì l’auctoritas. L’auctoritas sta lì, e proseguendo a funzionare le cose crescono, aumentano. Lì sta l’auctoritas, che non è un canone né l’imposizione di una veduta del mondo agli altri, né l’imposizione di norme e regole.
C’è chi dice “Ah, che polso fermo!”. Ma, l’auctoritas non è nella fermezza del polso, non è qualcosa che può essere esercitato da qualcuno su qualcun altro.
Che qualcosa risulti misteriosa esige che vi sia qualcuno che dica “Questo è un mistero, un mistero”. Che ci sia l’idea di qualcosa di misterioso, vuol dire che si crede nell’origine delle cose, che si crede che l’origine sia un mistero. Chi crede nell’origine, crede nel mistero dell’origine: vuole trovare l’origine, che è misteriosa, vuole trovare il segreto, il mistero.
Il qui pro quo produce controsenso. E è essenziale, perché dà un contributo al modo. Se invece ognuno fa come se non ci fosse, resta nella sua convinzione e è immobilizzato, perché è rivolto all’ontologia, all’idea dell’essere.
L’essere è immutabile! L’essere certamente non incorre nel qui pro quo. Che essere sarebbe? Cogliere che c’è un qui pro quo è qualcosa di straordinario, è un contributo. La ricerca, possiamo dire, è ricerca del qui pro quo innanzi tutto! Eppure, c’è chi abolisce il qui pro quo. Dice che è un segno della malevolenza altrui, un segno negativo e che tutto dovrebbe andare liscio, senza qui pro quo, che se c’è un qui pro quo è una negatività.
Il qui pro quo è inquietante. Questa è la chance! Non sedare il qui pro quo è una chance. Quando qualcosa sembra misterioso è perché è già nel cerchio dell’uroboro: cerchio che dall’origine porta alla fine. Risulta misteriosa la cosa che è senza la chance dell’analisi. E l’analisi è bandita quando non è accolta l’eventualità del qui pro quo.
Il qui pro quo scardina le certezze, scardina la conoscenza, scardina la soggettività. C’è chi preferisce credersi malato, piuttosto che accogliere l’idea che la parola funzioni!
Il cerchio dell’uroboro è anche il cerchio in cui si trova preso chi pensa di tornare all’origine, di potere fare ritorno, pensa che le cose ritornino, che qualcosa possa ritornare come era prima. Il ritorno è un’idea di fine. Le cose procedono, si dirigono al valore, ma non ritornano, non tornano mai indietro. Che cosa potrebbe tornare indietro? Il ritorno è l’idea del viaggio nell’Ade, il ritorno al regno dei morti o nel regno dei morti. Non c’è viaggio di ritorno. Viaggio di andata, viaggio di ritorno: il viaggio è di sola andata, senza ritorno. Negata l’apertura, il soggetto pensa di potere fare ritorno: fare ritorno a casa, al paese natio, di fare ritorno, di tornare.
“Dove vai?”. “Torno a casa”: è negata così l’apertura, facendo del viaggio un cerchio. E nell’apertura sta come suo modo, l’ossimoro, per esempio legame/slegame. E il legame non va senza slegame. C’è chi pensa di non volere legami, “Io non voglio legami, quindi taglio”. Taglio, non voglio legami, taglio e mi libero. Eh sì, questa è una bella idea soggettiva governata dallo stupore, dall’idea di padronanza, dall’idea di fine, perché non è tenuto conto che tagliare il legame comporta anche tagliare lo slegame. E se l’idea è che tagliare il legame rende liberi, tagliare lo slegame cosa fa? Siamo a livello fantasmatico, sempre presumendo di potere tagliare il legame. “Taglio il legame e sono libero”. Questo dice il soggetto autonomo. Il soggetto autonomo dice: “Mi libero, libero tutti, taglio il legame”. Ma legame è legame/slegame: taglio lo slegame, quindi mi lego! A cosa mi lego? Le varietà sono infinite, ognuno si lega a ciò da cui vuole separarsi.
Quella stessa idea che trae al taglio del legame, taglia anche lo slegame. E nel labirinto, come procede questo legame? L’idea del legame nel labirinto, come procede?
Chi ritiene di potere tagliare l’apertura si trova nel sistema, nella sistematica che si istituisce una volta tolta l’apertura. Qual è il sistema? È il sistema del cerchio. Va da sé: tolta l’apertura s’instaura il cerchio. Non c’è più nominazione allora, c’è l’universalità. Non c’è più il qui pro quo, c’è lo standard, c’è la generalità. Ogni caso è caso generale, è il caso di tutti, già previsto, già saputo, già noto. Come vivere nel caso di tutti, come vivere nel cerchio, come vivere senza la nominazione? Questa è la questione!
La questione intellettuale è la questione della nominazione. Nominazione: logica e struttura della parola, logica diadica, l’apertura, e logiche singolari e triali, il funzionamento, l’oggetto, la dimensione, l’idea.
L’invito è invito alla battaglia intellettuale, al dispositivo intellettuale, alla questione intellettuale che è la questione della parola, non del sistema, non del soggetto che si erge e si paragona a un altro soggetto. E l’invito esige la sua formula, la sua formulazione, perché nulla è naturalmente invitante. L’invito è invito alla battaglia, invito alla cifra, che esige la sua causa. La causa.
La causa è ignota. La causa non è la giustificazione. La giustificazione soggettiva taglia corto con il qui pro quo, con la differenza da sé del significante, con la differenza assoluta e viene a compromesso instaurando il cerchio soggettivo. La causa è ignota, è la provocazione. Lo psicanalista occupa la posizione di causa, di sembiante se istituisce quel punto di provocazione da cui la domanda si formula. Non è che sa, come, dove, quando, come fare, quale canone adottare. Ciascun incontro esige la sua causa e il rischio che dalla causa procede perché la domanda prosegua.
Accogliere la domanda non è soddisfare la richiesta, esige il modo opportuno e il dispositivo opportuno. Non va da sé che il soggetto accolga la domanda! É chiaro? Il soggetto reagisce. Il soggetto reagisce anche all’accoglimento della domanda, talvolta, perché la domanda dissipa il soggetto. E chi crede nella sua identità soggettiva, non accoglie la domanda e insiste a negare l’accoglimento.
L’invito esige l’interlocutore che è lo statuto intellettuale. L’interlocutore non è qualcuno, non è l’Altro, non è x, y, z, è lo statuto intellettuale che si produce nel dispositivo. Invocare l’interlocutore come deus ex machina è indice di una delega al deus salvatore, una delega rispetto alla salute che si chiama salvezza.
L’invito è l’invito al dispositivo cifrematico: dispositivo intellettuale, dispositivo di battaglia. La parola esige la sua battaglia, non è automatica. L’instaurazione della parola è instaurazione della nominazione, instaurazione dello statuto intellettuale. Sono cose semplici, ma essenziali.
Negato il qui pro quo a favore del senso comune, non c’è scampo. Negato il qui pro quo a favore del luogo comune, non c’è scampo, perché vuole dire che non s’instaura l’ascolto, che non c’è auditorium; nessun effetto di sapere rispetto al funzionamento dell’uno, nessun effetto di controsenso rispetto al funzionamento dello zero, nessun effetto clinico rispetto al funzionamento dell’Altro, ma il mantenimento del pregiudizio.
“Io non ho pregiudizi” è una formulazione da analizzare. “Io non ho pregiudizi” è già pregiudizio! Io non ho, io non sono.
La questione intellettuale non ruota attorno all’essere o all’avere, ma al non dell’essere e al non dell’avere, al funzionamento. Il funzionamento è il non. Il non dell’essere. Non il non essere, ma il non dell’essere. Non. Il funzionamento è lì, nel non.
L’invito è invito alla cifra, alla cifratura, è invito al valore, è invito che si rivolge alla combinatoria, non al combinato, non al già disposto.
Combinatoria. La combinatoria non è già avvenuta, non è già stata. L’incontro non è combinato, non è già avvenuto. Come sarà l’incontro? La paura viene dalla rappresentazione dell’incontro, pensando che l’incontro sia con l’Altro. E allora, c’è chi si scervella, cioè, proprio si toglie il cervello per prevedere, sapere. Devo sapere, come sarà, quando sarà, come avverrà. E non c’è più cervello, c’è encefalo, un encefalo con encefalogramma piatto.
Ma, cervello è dispositivo intellettuale, dispositivo di parola, con la nominazione. La particolarità è la nominazione, viene dalla nominazione, non è che sta chissà dove. L’invito procede dall’apertura, non dall’idea che io ho di come deve essere il domani. L’invito procede dall’apertura e va in direzione della cifra. Tutto ciò si svolge senza conoscenza, nel rischio di parola.
L’invito è sessuale e se non è sessuale non è invito; e se non è sessuale non può essere accolto, è compromesso con la morte, è compromesso con la fine, è complicità sulla fine. Per ciascuno, l’invito è alla cifra, alla qualità, al valore. Questo è l’invito che qui si formula e che si formula con la parola.
Ci sono domande? Domande, notazioni, precisazioni, chiarimenti, qui pro quo. Ci sono qui pro quo? C’è qualche qui pro quo?
Patrizia Ercolani Stavo pensando all’incominciamento. Diceva che con l’incominciamento incomincia qualcosa e, intorno a ciò, pensavo di essermi ingannata, non so. Pensavo che, incominciando qualcosa, non potesse non incominciare qualcosa senza un punto…
R.C. Certo, ci vuole anche il punto.
P.E. Sì, da dove?
R.C. Il punto come condizione, certo, ma…
P.E. Che non fa l’origine.
R.C. No, non fa l’origine.
P.E. Ecco, io invece pensavo che facesse l’origine.
R.C. Ecco, esatto. No, non fa l’origine.
P.E. E allora il punto sta… è simultaneo all’incominciamento, cominciando qualcosa?
R.C. E certo!
P.E. Ah ecco. Non capivo bene la cosa…, o facevo della simultaneità una…
R.C. Ciò che caratterizza la nominazione è la simultaneità.
P.E. E non la successione.
R.C. Certo, è la simultaneità del funzionamento dello zero, dell’uno e dell’Altro, la simultaneità dell’intervento dell’oggetto, la simultaneità dell’idea, la simultaneità della dimensione. Non c’è successione, c’è simultaneità. Dalla simultaneità procedono effetti, proprietà, virtù.
Non c’è il soggetto virtuoso, le virtù sono della parola, sono da individuare nella parola. La nominazione non esiste già compiuta, il viaggio di ciascuno è il contributo alla nominazione. Non so se mi spiego: la nominazione non è una logica cui attingere, non è una logica formale. Il contributo che la restituzione in qualità produce è anche contributo alla nominazione, nel senso che io indico virtù e proprietà delle logiche, le quali diventano cifremi del mio itinerario. Cioè, la nominazione non è una sfera che è già fatta, è chiaro? Perché c’è chi crede che sia una sfera e che si tratta di adeguarsi alla sfera, per diventare sferici. E sarebbero i cocciuti.
I cocciuti, che per un verso sono quelli “de coccio” e per l’altro verso sono quelli sferici, perché la coccia, cos’è la coccia? È la testa compiuta in sé stessa. Il cocciuto è tale perché ha la coccia piena di sé, è già piena, non ci entra nulla di più perché è piena. Il cocciuto è pieno e non può accogliere più nulla. Non può contribuire a nulla. E ce n’è di cocciuti! “Di coccio” per un verso ¬ a Roma direbbero “de coccio” ¬ per l’altro verso sono con la coccia, cioè con la testa, piena. Il cocciuto ha la coccia. E se è già piena, è immodificabile. Quale formazione, quale differenza, allora? È piena, è così! È coccia!
La partita si gioca sulla coccia o sulla parola? Perché se si gioca sulla coccia, allora uno dice “Io credo questo e la faccenda deve andare così”. E è cocciuto, o cocciuta, è il soggetto cocciuto; maschio o femmina, sempre soggetto. Soggetto cocciuto, per il quale nessuna battaglia è degna di essere combattuta, perché ha la coccia. Non c’è da combattere niente. Le cose sono così, ha il suo pregiudizio e i suoi eventuali compromessi. Oppure c’è la parola con la nominazione, che non è coccia, la nominazione non è coccia, non è completa, non è finita, non è satura. La nominazione è logica e struttura, combinazione e combinatoria infinite. È senza rappresentazione, contrariamente a come è stata postulata la nozione d’inconscio, che si prestava e si presta, a una rappresentazione psichica: quasi a dire l’inconscio è questo. E i più baggiani, dicono: “Qual è l’interpretazione di questa cosa, secondo l’inconscio? Cosa dice l’inconscio di questo? Com’è quella cosa lì, nell’inconscio? Nel substrato, com’è?”.
No. “Com’è?” esige d’indagare. Non com’è, ma come avviene! Come avviene a partire dal qui pro quo. Perché, se io penso che sia così, con il qui pro quo e non è più così! Interviene qualcosa d’altro. Ma il cocciuto dice che non c’è qui pro quo, non c’è equivoco e che l’equivoco sarebbe una cosa brutta, un indice negativo, un segno della malevolenza che confonde le acque, perché vuole male.
La nominazione!
Maria Antonietta Viero C’è una questione che riguarda il cercare la soluzione e invece incontrare il qui pro quo, quindi fare il viaggio. Facendo, il viaggio dissolve l’idea della soluzione, viene meno l’idea soggettiva di potere trovare la soluzione. E dissolvendo l’idea di soluzione, s’incontra l’assoluzione, cioè si assolve qualcosa che è legato all’idea di origine, del fatto. Per esempio, del fattuale viene scardinato, e lì subentra il teorema. Cioè, l’assolvere produce il teorema che non è mai stato, qualcosa non c’è perché non c’è mai stato.
Ciò mi sembra interessante, perché toglie definitivamente l’idea di origine, perché non c’è. Non c’è perché non c’è mai stato, quindi il teorema. È dall’assoluzione che giunge il teorema.
R.C. Esatto, il teorema non toglie, questo è il punto: l’analisi non toglie, non toglie nulla. Non è una pratica di purificazione, non toglie nulla. Chiarisce come mai, a un certo punto, si è insediata una certa credenza.
M.A.V. Una fantasia.
R.C. Indica che quella fantasia si aggrappava a qualcosa, e non è una fantasia originaria. L’originario è senza la credenza. Ogni credenza è un rimedio all’originario, è una giustificazione, è una soluzione contrapposta.
M.A.V. Mi fa pensare, anche, che è così nel dispositivo analitico: una connessione assolve proprio l’idea dell’origine, avviene la connessione.
R.C. Non è automatica.
M.A.V. Certamente, però l’occasione è quel che accade; cioè se nell’accadimento un elemento viene ascoltato, rilevato e produce una sorta di sbarramento, di limite, di non farcela più, lì, parlando, nel dispositivo analitico, con l’analisi, una connessione scardina completamente questa cosa. Ci si accorge che era legato, appunto, a una fantasia che si aggrappava a qualcosa. Quel che offre l’accadimento è sempre qualcosa che poi occorre trovi qual’era il legame, il legame/slegame, il ponte, la connessione insomma, rispetto…
R.C. Il ponte è una cosa, la connessione è un’altra.
M.A.V. Allora diciamo la connessione.
R.C. Sì.
M.A.V. Perché la fantasia è di non potere fare qualcosa rispetto a ciò che invece si appunta. C’è un appuntamento e, rispetto a un appuntamento, ho qualcosa da fare, per cui non posso. Poi, invece, facendo l’analisi, realizzando questa cosa, c’è una connessione precisa per cui, quel non potere più, era una rappresentazione che immediatamente assolve, perché assolve da un’idea di. È come se si assumesse la funzione di uccidere la funzione. La funzione uccide, è come se venisse assunta questa funzione di uccidere per cui il non posso fare quella cosa è perché c’è una fantasia di assassinio, una fantasia di uccisione.
R.C. Non sappiamo.
M.A.V. Ma può essere?
R.C. Può essere…
M.A.V. Se è nel funzionamento.
R.C. Caso per caso va indagato, altrimenti sarebbe tutto già stabilito.
M.A.V. Automatico. Poi c’era un’altra questione. Chi non ce la fa, può rivolgersi all’aiuto, alla sostanza, quindi è una delega. E è una delega a qualcosa togliendo la parola, il parlando, togliendo il dispositivo, togliendo questa occasione di dispositivo. Ma, per esempio il farmaco, dove è creduto esserci una malattia, diciamo una malattia, come ascoltare questa cosa? Mi fa pensare a questa cosa, per esempio, una malattia cosiddetta cronica, dove non c’è modo di interrompere questa idea.
R.C. Non c’è modo? Chi ha detto che non c’è modo?
M.A.V. No, sto percorrendo questo filo.
R.C. No, no. Allora, una malattia cronica… Una malattia cronica è un fantasma.
M.A.V. È un fantasma?
R.C. Certo, è un fantasma che bisogna vedere con quali complicità s’instaura. La cronicità è un fantasma, è chiaro? Nella nominazione non c’è cronicità. La questione della cronicità è da analizzare, non da accettare secondo un prontuario disciplinare, che è senza nominazione.
M.A.V. Bene, e allora l’assoluzione di un farmaco rispetto alla parola, come interviene?
R.C. Caso per caso è da esplorare, da valutare. Non è che ci sia un protocollo. C’è un protocollo da applicare? No, caso per caso si tratta di valutare quali sono i dati, e rispetto…
M.A.V. Sì, ma se nella valutazione c’è un farmaco che viene preso, come si mette rispetto alla parola?
R.C. Non c’è un caso ipotetico e generale su cui stabilire un protocollo, non so se mi spiego. Devo ripeterlo dieci volte? Non c’è un protocollo, per cui non c’è neanche il caso del farmaco che viene preso, non c’è quel caso lì, come caso ipotetico e generale. C’è, eventualmente, nello specifico, un caso in cui avviene qualcosa. Quel caso lì è da indagare, ma non si presta a una casistica generale o a una definizione, chiaro?
Altri? Ci sono altre domande? Pensieri sparsi? Pensieri inquietanti? Pensieri tranquillizzanti?
M.A.V. C’era un’altra cosa, o è troppo tardi? Andiamo?
R.C. Quale cosa?
M.A.V. Come stanno insieme l’auctoritas con la fantasia di esclusione; perché mi ha fatto pensare una cosa: che la fantasia di esclusione avverrebbe per abbondanza, per via di abbondanza, dove c’è auctoritas.
R.C. No, per via di auctoritas.
M.A.V. Eh, lo so. Ma se interviene questa abbondanza?
R.C. L’abbondanza è accanto. Già la fantasia di esclusione è un contributo all’abbondanza, se non viene respinto e se viene indagato. È chiaro?
Vi vedo un po’ perplessi. È auspicabile che queste perplessità sfocino in elaborazione, in scrittura, in proposte, per cui chi, riprendendo ciò che dicevamo in apertura, intende collaborare per uno o più degli aspetti che abbiamo indicato, può segnalarlo e verrà accolto.
Noi, qui
Ruggero Chinaglia Il titolo di questa sera è noto? Qual è?
Fernanda Novaretti Noi, qui.
R.C. Ecco, vediamo e sentiamo… dove. Sono annunciati degli interventi questa sera. Cominciamo a sentire qualcosa di Noi, qui. Chi ha annunciato l’intervento? Ercolani, Fornasier, Moda, Sanavia…
Barbara Sanavia No, Vezza.
R.C. Ah, lei ritiene che Vezza abbia bisogno di una presentatrice? Ho capito, lei si candida come presentatrice. Daniela Sturaro e Giampietro Vezza. Che si presenta da sé. Poi Sanavia.
B.S. No, non ho annunciato.
R.C. Non ha annunciato? Poi sentiremo. Allora cominciamo. Patrizia Ercolani, venga.
Patrizia Ercolani Dentro un sistema ognuno cerca di conformarsi a un modello, in cui trovare un posto, un ruolo, una funzione, insomma un senso, un sapere, un significato.
R.C. Senza correre, in modo che si possa udire, magari ascoltare.
P.E. Fuori dal sistema niente più è dato, localizzato, finalizzato. Semplicemente, pare impossibile un’altra vita.
Ognuno si sente perso, smarrito nell’infinito. Paradossalmente, nel sistema, ciascuno non si sente a posto, si sente male, a disagio perché non riesce l’adesione al modello. Qualcosa stride, urta, spinge. La conoscenza, il sapere già dato non è più sufficiente, non calza più. Niente è più pertinente. L’ambiente diventa troppo stretto, il parlare si volge in pettegolezzo e i luoghi comuni dominano. La fine incombe. Le cose come iniziano finiscono. Non era questo il suo desiderio. Qualcosa d’Altro occorre. Bisogna fare, cercare, trovare.
Da dove incominciare? Da una domanda inconscia, sottesa all’alternanza di mania e malinconia, di euforia e disforia. Quando un’idea di successo sembrava realizzarsi, euforia. Soluzione trovata. Fine del problema. Constatato invece il fallimento, disforia. Nessuna soluzione. Il problema non si elimina. Non c’è più soluzione.
Non c’è più soluzione, però, è un teorema dell’analisi per cui il problema si volge in questione sempre aperta e la via è altra, è da trovare, è da percorrere in direzione di Altro ancora, della qualità, dello specifico.
Come proseguire? Occorre il tempo, sempre eluso; occorre l’Altro, sempre inascoltato; occorre il terzo, sempre barrato per salvaguardare la padronanza sull’io e sul tu, senza Altro, senza lui. Insomma, una questione d’amore transitivo, senza tempo. Ma, accolto l’Altro, come procedere? Dove andare? Come fare? Dove si conclude senza finire?
Nei vari e differenti dispositivi come la conversazione dell’analisi, l’équipe, la riunione e altro, le questioni si pongono, si dipanano, si articolano in distinti registri e funzioni. Questione di lingua, di linguaggio, di dire, d’idioma in cui ciascuno procede dalla particolarità della parola. Allora, si esige di capire, e le rappresentazioni e i ricordi perdono consistenza, si svuotano di significanza. Ciò che sembra non è. Ciò che si ha non sta. Le cose non si danno, ma si dicono e nel racconto si alterano. Faccenda d’ascolto, in cui qualcosa si ode e si esige di intendere.
In ciascun lavoro, qualcosa è da fare. Per esempio, una trascrizione. Come farla? Secondo criteri di composizione, di leggibilità, di ritmo, di sembianza. Chi li stabilisce? Chi ha l’autorità, chi ha esperienza, chi sa? Chi ha il nome? L’ha detto lui.
Se l’io non è soggetto, chi fa, chi desidera, chi decide? Per me, questo lavoro è finito o concluso? Per me o secondo quel che suggerisce il testo, si fa la lettura del testo? Chi valuta? Il lavoro è da rifare o da integrare? Aspetti non considerati secondo indicazioni che vengono da altrove? E da dove vengono? Nell’irrappresentabilità e nell’intransitività del fare, nell’odio, come le cose si fanno? Quale organizzazione? Quali ragionamenti? Quali valutazioni?
R.C. Ecco, quali? Esatto. Rilegga l’ultima frase…
P.E. Nell’irrappresentabilità e nell’intransitività del fare, nell’odio, come le cose si fanno? Come e quale organizzazione, come e quali ragionamenti, come e quali valutazioni…
R.C. Ha saltato qualcosa.
P.E. No, pensavo a quello che non sono riuscita a scrivere, a mettere in rilievo. È la questione del sembiante, dell’oggetto, come si…
R.C. Intanto delle cose ci sono. Bene, molto bene. Prego, Giorgio Fornasier…
Giorgio Fornasier Dal libro Operazione guru, di Armando Verdiglione, edizioni Spirali.
Nel 1862 alla Salpetrière arriva Jean-Martin Charcot. Medico, taumaturgo, guaritore. Come già l’inquisitore era affascinato dalla strega, Charcot è affascinato dalla donna pazza. E alla Salpetrière va con il bel mondo, con i suoi allievi, dottori, dottorini e dottorandi. Convoca le donne, ne predilige qualcuna, qualche bella ragazza: Ah, questa è l’Ifigenia della Salpetrière! Come ti chiami? “Augustine, vieni, vieni!”. La famosa Augustine. Fotografo, pronto? Osservate! E queste donne si prestano. Augustine impara una parte della lezione e fa le convulsioni, fa tutto ciò che può dimostrare la sofferenza e il dolore per l’album di famiglia della psichiatria illuminata.
Il bel mondo è affascinato dalla strega: può dimostrare la sofferenza e il dolore per l’album di famiglia. E Augustine impara la lezione. E fa le convulsioni. E con le convulsioni impara la lezione. E intorno si riuniscono, attenti e interessati, molti personaggi provenienti dal bel mondo: allievi, dottori, dottorini e dottorandi. E qualcuno, magari, diventa anche protettore di Augustine. Che non ci sia chi la fa parlare, che magari spiffera il segreto, il segreto o i segreti della famiglia…
C’è un problema in Italia per chi non fa le convulsioni? Per chi non accetta di venire visitato, diagnosticato, curato dal bel mondo delle moderne Salpetrière? C’è un’opposizione alla ricerca, al di fuori della Salpetrière? La risposta è sì. Esiste questo problema.
A un certo punto, sull’esigenza della regolamentazione a fine di bene, viene determinato cosa è bene e cosa è male, cosa può essere fatto e cosa no. Prima viene trasformata una facoltà, che era letteraria, in facoltà che produce professionisti. Poi, questi professionisti, per legge, diventano gli unici autorizzati a occuparsi di disagio. Poi, ogni pratica, che secondo norme costruite ad hoc può ricondursi alla loro professione, viene considerata abusiva e da contrastare.
Attualmente, in Italia la psicanalisi è stata definita, dalle massime autorità in materia giuridica, la forma più eminente di psicoterapia; e poiché la psicoterapia può essere praticata solo dai laureati in psicologia iscritti al loro Albo, in qualche modo il cerchio professionale si chiude.
È sbagliato questo? È sbagliato che ci sia una regolamentazione nella pratica psicoterapeutica e psicanalitica? Facile fare l’analogia con professioni più consolidate: oggi nessuno ammetterebbe un barbiere in sala operatoria come chirurgo. È chiaro che c’è una questione di formazione e una questione di casta, economica. Se tutti possono fare i dentisti, allora la professione diventa poco redditizia. Se tutti possono ricevere pazienti, con le forme più varie e magari strampalate di terapia, allora si riduce la fetta di torta, per coloro che escono dalle università di stato, con la formazione garantita da esami e verifiche. Certo, esiste anche il problema, e questo soprattutto viene sottolineato, della salute e dell’interesse delle persone, pazienti o clienti che siano.
Freud è un medico. Non è un filosofo, non è un cittadino che si mette a ricevere gente in cerca di terapia, è un medico; e il suo incontro con le persone avviene su questa domanda di cura medica.
Ancora moltissimi anni dopo, e ancora oggi, tantissime persone interpellano il medico di famiglia, addirittura il farmacista, per una marea di questioni rispetto alle quali, il medico e il farmacista, non hanno nessuna preparazione. Freud stesso chiama psicanalisi selvaggia questa pratica dei medici che, proprio in forza della loro posizione di terapeuti, tra un’iniezione e una prescrizione, si dilettano a fare interventi psicanalitici, che egli definisce appunto selvaggi.
C’è, dunque, una questione economica, come nel caso di tutti gli ordini, che da una parte sono istituiti a garanzia dell’utente e, dall’altra, per escludere il più possibile e ridurre il numero di chi può operare in un certo ambito. È una questione di qualità, per così dire, di certificazione o di garanzia che gli stati moderni vogliono garantire rispetto ai mestieri e alle professioni.
Giusto? Sbagliato? Si tratta di una falsa questione, non è questo il problema? La cosa è un’altra cosa? Come si pratica la psicanalisi oggi in Italia? Cioè, dove oggi si può parlare, si può affrontare quel che si pone come questione, senza dovere necessariamente fare le convulsioni davanti alla macchina fotografica, per la gioia dei novelli Charcot, dei loro allievi, dei loro dottori, dottorini e dottorandi, in una qualche Salpetrière moderna?
Di sicuro, l’esperienza cifrematica non è al servizio della fotografia della sofferenza e del dolore, il che non esclude che, dolore e sofferenza, si possano incontrare e attraversare. Negli anni, mi sono accorto che il dolore e la sofferenza apparentemente danno fastidio, per così dire, e provocano insofferenza e intolleranza. Ma nulla in confronto all’intolleranza che provoca un’istanza intellettuale, nulla in confronto alla non accettazione della prescrizione alle convulsioni, davanti alla macchina fotografica. Questa non accettazione provoca molto più fastidio e insofferenza. Anzi, non c’è proprio partita, al di là delle apparenze. E se per caso qualcuno che si è imbattuto nell’esperienza intellettuale, si allontana dall’esperienza di parola e va a destra e a manca a fare convulsioni, trova un accoglimento magnifico, euforico. E viene accolto a braccia aperte.
“Nessuno mi ha aiutato quando cercavo di ripartire con il lavoro a cinquant’anni”, dice un ex-allievo di un mio corso. “Allora sono andato in psichiatria, seguo il loro protocollo e se tutto va bene, mi daranno una pensione d’invalidità. Non ci vado per curarmi, lo faccio per la pensione. Ma, almeno, adesso ho una prospettiva”. Va a fare le sue convulsioni al centro d’igiene mentale di Castelfranco! E, se le farà bene, avrà risolto i suoi problemi!
Qual è la mia obiezione? Nessuna obiezione. Ho avuto la fortuna d’incontrare un dispositivo che non mi potevo neppure sognare, che non do e non ho mai dato per scontato. Non capisco tutto, non ho capito moltissime cose. E sono molto incazzato di tante cose negative che se ne dicono in giro, per la “rete” e altrove. Mi dispiace che tanta gente che se ne è avvalsa (e forse qualcuno, per dirla alla Vitaliano Trevisan, oggi sarebbe un residuo psichiatrico), oggi se ne vada in giro a sputtanare.
La sembianza è qualcosa che forse va ripensata. Se ti trovi in affabile conversazione, allora va bene, la sembianza. Ma no, non si può, è patetico parlare di sembianza con i marescialli, con le maestrine, con i farabutti e gli avvoltoi di tutti i tipi. Durante il nazismo, chiuso il portone del lager, i comandanti passavano come niente fosse alle loro linde casette, dove li aspettavano le loro famiglie pulite, bimbi e bimbe biondi, e i domestici e la cena pronta, fumante. Non c’è sembianza con questi robot. Non si ragiona, non si parla e non si fa battaglia. Trovarsi lungo il viaggio con un maresciallo o una maestrina che abbiano potere, è una tragedia. Oggi, molti intellettuali in Turchia, che si trovano davanti un maresciallo di Erdogan, vivranno qualcosa di questo. E non avranno scampo. Non so se sia possibile una dissidenza senza infastidire i marescialli o le maestrine. Sono sicuro che non è intelligente farlo. Che non è la strategia giusta provocare questi robot all’intelligenza, perché o c’è l’intelligenza oppure c’è il maresciallo e la maestrina. Se Cristo è stato inventato e se la croce è stata da lui assunta, perché altro martirio? Allora, l’alternativa sarebbe tra la croce o il fare le convulsioni davanti al bel mondo di allievi, dottori, dottorini e dottorandi, e magari anche qualche trombetto?
R.C. Ecco, ci sarebbe un’alternativa?
G.F. No, è solo una domanda.
R.C. Perché, non ha trovato la risposta?
G.F. Per questo l’ho scritto, perché mi dia lei una risposta adesso.
R.C. Aah, bene!
Allora, dopo svariati annunci e disattese, questa sera Fabrizio Moda è qui è può intervenire.
Fabrizio Moda Ho la presentazione dell’altra volta.
R.C. Abbiamo il titolo di questa volta. Però, lei, magari già si trovava a dirne qualcosa.
F.M. Veronika, internata per tentato suicidio, chiede cos’è un ‘matto’. Lo psichiatra le mostra la sua cravatta: “Cos’è questa?”. “Una cravatta”. Eh no, perché, in realtà, le spiega lo psichiatra, si tratta di un ridicolo pezzo di stoffa colorata messo attorno al collo, assolutamente privo di ogni utilità, che rende difficile la respirazione, il cui annodare fa perdere tempo alla mattina e la cui unica soddisfazione sta nel toglierla alla sera. Qualcuno s’è pure strozzato! Solo un ‘matto’ potrebbe mai pensare di utilizzarla! Eppure…
Eppure, per il mondo psi, non vi è dubbio che ‘matto’ è colui che non segue, oppure soccombe alle regole morali della società. E dove sta l’utilità della poesia, della pittura, della scrittura, del teatro, della musica, del canto, del ballo, della scienza? O della moda? Infinita pure quella! Forse lo psichiatra potrebbe chiedersi dove sta l’utilità nel rincorrere in mutande un pallone da calcio, e la risposta che sembra scontata sarebbe nel prestigio sociale che ne deriva. Ma, chi si beffasse di questo prestigio? Chi irridesse al consenso dell’inclita plebe? Chi ‘dilapidasse’ i proventi, la ‘sostanza’ del suo fare? Chi non è ape, cosa cerca in un fiore? Chi non è calciatore, cosa cerca in una partita di calcio? Chi non è sarto, cosa cerca in una cravatta? E cosa fa emergere un sorriso o svanire un broncio in un bambino, o fa tenere la barra dritta nelle avversità della vita, in un uomo o in una donna?
“Dammi la tua anima!”, ordina l’aguzzino. È uno scherzo, certo, e stare allo scherzo magari può procurare vantaggio, in un Gulag. Piccolo magari, ma, a meno trenta… E l’internato non crede né a Dio né tanto meno all’anima. Però… No! L’anima non riesce proprio a dargliela! L’anima NO! L’internato uscirà dalla fossa ghiacciata orribilmente e irrimediabilmente martoriato nelle carni, ma ancora vivo, incredibilmente ancora vivo. E con la sua anima!
E il giudizio di tutti indica la risposta: la sopravvivenza. La sopravvivenza del proprio essere o del proprio clan. È sana l’attività, qualsiasi attività, che aumenti le probabilità di sopravvivenza del singolo o del gruppo, dove vi sia conferma alle proprie ideologie. E non conta quanto sia scriteriata e criminale quella attività: nazismo, comunismo, maoismo, polpottismo, bushismo, solo come recenti esempi. Come negare questa realtà? Qui il bene, là il male: innegabile. Bisogna essere proprio ‘matti’ per non capire una cosa così evidente! Come non segregare e punire i contravventori di tutto quest’ordine e di tutto questo bene! D’altronde, si sa che bisogna essere ‘matti’ per pensare di (sopra) vivere di cultura! Questa è la realtà dei fatti! Realtà comune, sostanziale, razionale. Realtà senza metafora, senza metonimia e senza catacresi. Senza parola. Senza Altro: il realismo.
Ma, la realtà non è il realismo: è la realtà intellettuale. È realtà di parola, è la realtà di ciascuno che si trovi a vivere nello statuto intellettuale, secondo la logica, la procedura e l’esperienza della parola. Senza idea genealogica, senza bisogno di aggrapparsi alle varie credenze umane. Senza umanesimo tout court. E se nulla è dato a priori, nemmeno l’essere umano, allora ciò che conta è la formazione intellettuale, per il compimento del proprio progetto e del programma di vita.
Mio figlio non è interessato al calcio, ma lo è per gli eroi del calcio, personaggi ricchi e famosi. E la questione genealogica fa spesso capolino tra risentimenti e recriminazioni, tra idealizzazioni e forme varie della prestanza. Il calcio non interessa forse, ma, se interviene un amico o un vicino, ecco allora che lo spunto vale per instaurare l’ospite, la novità, la cosa altra, l’interesse. E a un tratto, ecco l’aria, la leggerezza. Gli occhi diventano sfavillanti e la malinconia, o più modernamente la depressione, non c’è più, e senza bisogno alcuno di modulatori chimici esogeni che, fantasiosamente, controbilancino una qualche carenza di neurotrasmettitori endogeni. E il pezzo di stoffa acquista valore e diviene cravatta!
Nulla è saputo prima. Nessuna predestinazione quindi, nessuna idealità o recriminazione e nessun paragone se non con l’infinito, e la realtà particolare a ciascuno, in un viaggio disegnato sul contingente, sul valore da acquisire, da produrre. Assoluto.
R.C. Bene. Daniela Sturaro. Che ha chiesto al suo “segretario” di stampare il testo. Come occorre. E un buon segretario ubbidisce! Eccolo.
Daniela Sturaro Anche se, entrando in questa vita, recassi da qualche parte iscritta la data della mia morte, vivrei per questo più intensamente? E se da questa vita mia, che procede per linee spezzate e frantumate da non riuscire a ricavarne un quadro d’insieme, se da questo mosaico scomposto, più somigliante alla pittura del gesto, togliessi anche solo l’espressione di un viso, notata per caso o un’affermazione ascoltata di striscio, cambierebbe in qualcosa il suo assembramento di luci e voci che si avvolgono a spirale?
La lettura del testo filmico Dio esiste e abita a Bruxelles sembra indicare che, ricevuta la data di morte, solo chi viene avvicinato dalla di lui divina figlia ottiene l’intensità, mentre tutti gli altri perseverano nel tran-tran. Senza ambire a così elevato affiancamento, c’è chi ha avuto un’idea migliore, mettendo in campo lo strumento formidabile dell’analisi, detta anche psicanalisi, di freudiana e poi lacaniana e di seguito verdiglioniana interlinearità.
Ma, oltre l’importanza del nome, che pure conta, l’analisi va declinata come esperienza clinica che interferisce con il modo di vivere. Non si svolge unicamente in seduta sul lettino di uno psicanalista, ma diviene prassi costante che accompagna, istante per istante, ciascuna vicissitudine che contrasti il cosiddetto benessere. Perché il benessere è senza testo e poggia sulla sostanza che lo sostiene. Già uno dei testi più antichi parlava in questi termini:
13 Ma l’uomo nella prosperità non comprende,
è come gli animali che periscono.
14 Questa è la sorte di chi confida in se stesso,
l’avvenire di chi si compiace nelle sue parole.
15 Come pecore sono avviati agli inferi,
sarà loro pastore la morte;
scenderanno a precipizio nel sepolcro,
svanirà ogni loro parvenza:
gli inferi saranno la loro dimora. (Salmo 48,13-15)
Se per prosperità intendiamo benessere e per comprendere intendiamo fare l’analisi, risulta chiaro che chi coltiva il benessere non comprende perché non fa l’analisi, e si limita a consumare la sostanza che dovrebbe garantirgli un riparo dal malessere, cioè dal dolore e dalla difficoltà.
Senza dolore e senza difficoltà non c’è Dio, cioè l’operatore che permette la riuscita di ciascuna nostra iniziativa che si raggiunge attraverso la sapienza che, in metafora, gli siede accanto vestita con l’abito dell’analisi.
Il primo risultato dell’analisi è il racconto e il suo testo, che l’intesse congiunge o disgiunge come la relazione amorosa, dove ciascun giorno qualcosa si aggiunge per integrazione. E infatti l’integrità è un altro effetto dell’analisi.
Prendiamo la mia vita prima dell’analisi, nella sua corsia di marcia come in sogno, quando di notte percorro una strada sconosciuta senza sapere dove andare e nessun luogo dove ritornare. A illuminare il buio, alcune insegne luminose di casinò, intitolati “ La credenza”, più in là “Ideologia”, vicino a “Fine dell’amore”, e dall’altra parte della strada “Fatalismo”, seguito dalla casa da gioco più sontuosa, con la scritta iridescente “Tutto subito o mai più”.
Ovunque entrassi, per giocare i miei pochi spiccioli, perdevo tutto. E, quando, decisa a ripartire, mi fermo alla pompa della benzina niente rifornimento e il serbatoio rimane vuoto. Allora abbandono l’auto e mi metto sulla strada a piedi, senza sperare in un passaggio, perché di lì non passa mai nessuno. Senza più mezzi, contando solo sulle risorse reperibili nell’inconscio, trovo un foglio con una mappa che mi conduce qui. Ascolto e leggo di analisi e di cifrematica, partecipo all’équipe di scrittura, per cercare gli elementi e i termini e orientarmi verso una direzione di viaggio inedita, puntando alla qualità delle cose che sto facendo in famiglia, nell’insegnamento come lavoro e anche nella vendita. Quest’ultimo aspetto risulta temporaneamente molto interessante per le implicazioni di aumento dell’esperienza, che si avvale della parola, in primo luogo nell’approccio, nella trattativa e nella conclusione dell’atto di vendita. Il punto cruciale sta proprio qui: nulla accade nell’assenza di parola, ma niente è impossibile nella parola che punta alla qualità della vita, per via di affinamento linguistico.
Nell’inconscio sta scritto che non c’è una meta da raggiungere oltre la quale inizia il riposo. Non c’è tregua nella battaglia della vita. Piacere e soddisfazione sono saldamente intrecciati alla ricerca intellettuale secondo la traiettoria dell’esperienza, unica per ciascuno, senza la pretesa di conoscere prima il punto di arrivo, apice o vertice ma, attingendo, momento per momento, la qualità che serve per vivere.
R.C. Bene, Giampietro Vezza. Prego.
Giampietro Vezza Qualche settimana fa ero in visita al Museo di storia della medicina e della salute di Padova, e a conclusione del percorso guidato è stato chiesto al pubblico “Vi piace l’arte?”. Si entrava in una sezione del museo in cui erano esposti quadri o disegni del corpo umano, che ponevano in risalto l’anatomia degli organi. Lì per lì, ho risposto che dell’arte avevo sempre pensato non si potesse prescindere nella vita. Non quindi che l’arte possa piacere o non piacere. E non tanto per la riduzione della stessa arte a una mondo-visione di un quadro, una statua o un disegno, ma per capire quale sia il modo in cui l’arte può divenire questione intellettuale.
Spesso relegata all’intellettualismo, più che all’intellettualità, nell’arte non viene tenuto conto della bottega, degli strumenti, della formazione, del pensiero, della ricerca, dell’analisi. L’artista, spesso accostato a termini come “folle” o “creativo”, diviene dispositivo intellettuale, e la sua opera non è più da considerarsi una creazione, ma una generazione.
Ciascuno può essere artista se la vita non è sospesa, ossia se c’è programma e progetto di vita, se c’è l’analisi come altra accezione di terapia del sintomo. Ecco, il sintomo. Perché, visitando il museo della medicina, si percepiscono il corpo e i suoi sintomi da curare. Tanto corpo, troppo corpo, quasi solo corpo: anatomia, fisiologia, patologia e naturalmente (naturalmente?) farmacologia. Un totem di plexiglass, riempito di miliardi di pastiglie, è esposto accanto a una vecchia incubatrice e al tavolo per l’autopsia, a rassicurazione che un possibile rimedio c’è dall’inizio alla fine. Quasi sempre. Quasi sempre, perché la sezione successiva ci ricorda che il primo trapiantato cardiaco in Italia muore qualche anno dopo a causa di una trasfusione di sangue infetto. La tecnica ha funzionato, ma c’è chi ha dimenticato di analizzare il sangue delle trasfusioni. Questione di stile, non solo di tecnica. Senza lo stile, il protocollo si avvale solo della statistica, la tecnica è imitazione e ripetizione, s’impara, fa il discorso del caso ideale, mira all’efficienza.
Lo stile non si può trasmettere, né copiare. Per ciascuno lo stile è invenzione, particolarità, è differente caso per caso, e pone la differenza come risorsa e non come difetto da correggere. Lo stile mira all’efficacia. La tecnica, che non sappia lasciare il posto allo stile, nega la parola e rimanda al discorso mortifero.
Tanto corpo, tanta chimica a sostegno del corpo e alla mentalità del corpo sano o malato, per il quale gli umani fanno uso di sostanza, in varie forme addomesticate dal discorso, nell’alimentazione, nella cosmesi o nelle altre varie forme di bene-male essere che l’epoca propone. Gli umani che si abbandonano al proprio destino contenuto nel nome, l’attesa del seppellimento, della dissoluzione della sostanza, del corpo come peso e, in quest’attesa, si consegnano alla sostanza con la sua assunzione.
Ragionando del corpo, sorge il fantasma della sua rappresentazione, e questo equivale a renderlo sostanza. La rappresentazione è il limite, il personaggio, il tempo ridotto al presente, passato e futuro, confini del soggetto della durata, con la morte come fine inevitabile, fondata sul corpo come sostanza, per fornire l’appiglio del lamento e di tutti i mali da curare.
Supposta la sostanza, il corpo non può che essere concepito come sano o malato. Il sintomo, che dovrebbe essere percepito come sollecitazione a una possibile occasione, viene medicalizzato e la soluzione è sempre il farmaco.
Se non più sostanza, il corpo può definirsi materia? Materia intellettuale, dispositivo del fare, dell’occorrenza, pragmatico. Materia dell’Altro. “Non c’è vita senza l’Altro”, ecco un possibile teorema. Non c’è vita senza l’ospite, ignoto nella condizione di ospitato e ospitante, in un luogo altro, ospite nell’assemblea, nel dispositivo intellettuale, sia esso medico-paziente, maestro-allievo, ecco la cura intellettuale per giungere al caso, ciascuno differente e non assoggettato allo standard, al discorso del benessere o malessere, che si riferiscono a un corpo evidente e concreto nella rappresentazione e quindi mutilato dal tempo.
E si tratta d’interrogarsi sulla portata di questa mutilazione. Tolto l’Altro, tolto il tempo, il corpo è reso soggetto, isolato, rigettato nella riva della sopra o sotto vivenza, come cadavere, sostanza inerte. Senza analisi, il degrado è sempre e solo il farmaco, dove un corpo è prima di tutto un corpo sano o malato da curare, e non un corpo che parla, o meglio, un corpo nella parola.
Ospedale, scuola, famiglia, azienda, quando sono intesi come statuti sociali, in quello spazio, lo psicofarmaco ha la sua giustificazione. E risulta il complemento necessario a sostenere il dialogo e la ragione chiusa, senza ascolto e senza generosità, a sostenere che il disagio sia una patologia che abbia origine in una qualche parte del corpo, localizzabile, uno scompenso delle sinapsi, che il delirio sia un errore del cervello. Questo genera la vittima, la colpa, la pena da espiare. Prendersi cura del quotidiano, trasformare uno spazio in un luogo, un luogo in un dispositivo, senza contenimento della domanda, dare la parola alle formazioni dell’inconscio per desiderio e non per calcolo, questa è una direzione, per l’instaurarsi della salute.
L’inconscio non è malato. L’arte e la cultura non sono malate. Il non dell’arte. Non se piace l’arte, non cosa sia l’arte, ma dove sia l’arte. Il dove dell’arte inventa il corpo come strumento della parola e della sua qualificazione.
R.C. Bene. Abbiamo ascoltato molte cose. Lei vuole dirci che cosa ha ascoltato? Qualche parola? Una nota.
B.S. Così, in velocità?
R.C. Sì, ecco, venga qui, in velocità.
B.S. No, posso anche da qua.
R.C. Ah, lei può comunque!
B.S. Sì… troppa velocità.
R.C. Venga qui.
B.S. No, non serve. Ho sentito concetti diversi.
R.C. Ma, lei, rispetto al titolo, cosa dice? Venga qua. Dia una testimonianza del fatto che anche lei si trova qui.
B.S. Sì, ci sono, posso stare qui, ci sono anche da qui.
R.C. Allora? Una nota, breve, che lei ha colto, che ci vuole consegnare?
B.S. Tante cose, per cui è difficile.
R.C. Una nota in merito alla sua esperienza in corso.
B.S. Questa esperienza la trovo utile per me. Mi ha attratto fin dall’inizio per molte cose a cui avevo pensato in passato, distrattamente, non approfondite… sulla vita, sulla società in cui viviamo e sul come viviamo. Mi è utile a capire e a sua volta mi permette di essere utile, che è molto importante per me. È anche una questione di responsabilità.
R.C. C’è una questione di utilità. Bene, molto bene. Come questa utilità si attui, la volta prossima ci dirà qualcosa. Con un testo magari. Bene. Ciascuna testimonianza è preziosa perché si rivolge al valore e indica la tensione al valore. È preziosa perché è un modo per accorgersi che l’istanza del valore consente invenzioni, novità, articolazioni, produzione, scrittura, organizzazione non secondo schemi e luoghi comuni, ma per vie impensabili e irrappresentabili, per cui ciascuna testimonianza serve per cogliere la dissipazione dell’idea di mondo, quand’anche facesse capolino. Consente di andare oltre il mondo e oltre la mondanità, oltre il sistema e oltre le possibili rappresentazioni e prese che l’idea di sistema può, talora, consentire.
L’analisi non avviene una volta per tutte. L’analisi è ciascuna volta. È in ciascun atto e non c’è atto che possa essere esente da analisi e da cifratura, perché ciascun atto è originario. E l’esperienza non è l’esperienza degli atti, ma l’esperienza dell’atto nella sua originarietà e nella sua tensione, tendenza a qualificare ciascuna cosa.
L’esperienza dell’atto è esperienza di valorizzazione; esperienza del valore di ciascun atto. E questo nel linguaggio, nella sembianza, nella materia: nelle dimensioni della parola. Non c’è atto senza la sembianza, non c’è atto senza il linguaggio, non c’è atto senza la materia. E tutto ciò non è mai detto, già fatto, già acquisito. È da trovare, da instaurare.
La sembianza è imprescindibile. È qualcosa di cui non si tratta di parlare, ma il parlare non va senza la sembianza, senza cioè la dimensione dell’immagine. È anche per via della sembianza, del linguaggio, della materia, che non c’è alternativa all’intellettualità, non c’è alternativa alla parola se non negando la parola, se non nella sopravvivenza, nella rappresentazione animale della vita.
L’analisi non è un rimedio al male, non serve per instaurare il bene, non è finalizzata. L’analisi è teorema, è teorematica. Indica la dissipazione di una presa sostanziale sulla parola. Indica la dissipazione della padronanza sulla parola: questo è analisi, che esige la procedura, il procedimento, il processo intellettuale. Non è rappresentabile.
Come avviene l’analisi? Questo esige il poi. Ma se il poi è negato, l’eventualità di capire e d’intendere è negata per un fantasma di origine, anche l’analisi s’inceppa, perché è negato il poi, l’avvenire, il tempo. Si tratta di capire secondo cosa, ciascuna cosa avviene. Non già perché, non tanto perché, ma secondo che cosa: secondo la logica, secondo quale logica.
Secondo. La logica non è già definita. La logica è logica della nominazione, e esige di scriversi. Non è una codifica, la logica. È ciò che poi, non negando il poi, può capirsi, può intendersi e consentire quel che seguirà. Intanto occorre non negare la domanda, non negarsi la domanda e ciò che sta nella domanda.
L’esperienza della parola è impareggiabile e esige che ciascuno ne testimoni per la qualità che si produce nella domanda. Non c’è esperienza standard o ripetibile. È questo che sconcerta, talvolta, chi vorrebbe anteporre il sapere al fare, al procedere, al dare corso, allo svolgimento, come se potesse essere già previsto, anticipato, saputo, già fatto. Già fatto!
Il già fatto è, diciamo così, l’imperativo dell’epoca. Tutto è già fatto, già saputo, si può solo ripetere. L’importante è sapere cosa ripetere, sapere come fare, applicare il saputo, secondo i desideri. Così, sapendo i propri desideri, ognuno può fare quello che vuole, purché sia secondo i desideri. Ma, in questo schematismo così perfetto, accade che le cose non vadano così.
Diceva un cifratore in una conversazione: “Non sono contento, non sono affatto contento, eppure faccio quello che desidero. Il problema – diceva – è che quello che faccio non è nel mio nome, ma in nome di qualcosa che non so definire e che non mi soddisfa”. In nome di qualcosa, in nome di qualcuno. Intanto se ne trae questa indicazione: le cose si dicono e si fanno secondo il nome. E non in nome di, non in nome del nome!
In nome del padre, in nome di dio, in nome del popolo, in nome del bene comune, in nome della religione, in nome della ragion di stato, in nome della morale civile, in nome dell’approvazione. In quanti modi il nome, che è innominabile e anonimo, può essere negato, e al suo posto essere invocato, invece, il nome del nome, cioè una rappresentazione, un ente che dovrebbe fare da garante della bontà o della validità di quel che si fa: in nome del nome, il fondamento, il garante, l’avvallante, il giustificante, in nome e per conto di.
Il ricorso al nome del nome consente di evitare il compimento di ciò che è in corso, il compimento della Sintassi, la Legge come compimento, l’Etica come compimento, la Clinica come compimento, a favore di un adeguamento al discorso comune, alla morale comune, allo standard, alla mediocrità, alla burocrazia. “Si può fare, non si può fare, si può fare, ma non adesso, si può fare, ma non subito, si può fare, ma non oggi, si può fare, ma non si sa quando”.
Si può fare, non si può fare: adeguamento alla burocrazia. Si può fare, ma non così: adeguamento al canone, al modo comune, in nome del nome, in nome del modo corretto, del modo comune, del modo di fare, il modo comune di fare.
Di cosa si tratta nella burocrazia? Di un fantasma, che vorrebbe avere ragione sul non, sul non dell’avere e sul non dell’essere, sull’impossibile della rimozione e sull’impossibile della resistenza, per instaurare il non del non, ossia il toglimento del non, il toglimento del funzionamento originario, in nome di un funzionamento prescritto. L’abolizione della parola sta anche qui, nell’adeguamento alla abolizione, nell’accettazione di questa abolizione, per instaurare la versione canonica, la versione corretta dettata dal nome del nome: questo modo è corretto, quest’altro non lo è.
La correttezza è l’altro nome del canone, è l’altro nome della prescrizione, è l’altro nome dell’abolizione dell’arte e della differenza. E allora, “Come devo fare?”. “Cosa devo fare, e come?”. Che dire? Che fare?
Ma chi racconta, chi parla, chi narra può ascoltare e constatare se il racconto che sta facendo s’imbatte negli indici dell’infinito, del tempo, del malinteso e del nome o se si avvita su se stesso, circolarizzandosi nelle giustificazioni, nelle rappresentazioni, nelle argomentazioni, nelle significazioni della ragione presunta comune o propria, o del torto altrui.
Ogni tentativo di affermare la propria presunta ragione è un modo di negare la ragione dell’Altro, la ragione e il diritto dell’Altro. La ragione dell’Altro, negata, diventa ragione sull’Altro. La ragione sull’Altro è la ragione dell’intolleranza, è la ragione della sostanza. E questo è il cedimento della ragione sufficiente, che porta al principio di drasticità, di severità, di rigidità, di bontà!
Questi principi, che si devono affermare sulla parola, negano le virtù del principio originario: l’aria, l’anoressia, l’apertura. E negano l’identificazione, negano il rigore e la follia, instaurano la rigidità e l’idea di potere o dovere fare quello che si vuole, negano il funzionamento, negano l’arte del malinteso, negano la particolarità della parola, la struttura della parola. Negando questo, è negato lo statuto intellettuale e ognuno si rappresenta. Allora, ognuno crede di esistere e crede di potere o dovere esistere. Dove? Come? Non più nella parola, ma nel mondo. Nell’idea di sé, nell’idea dell’Altro, finalizzando le cose a un buon giudizio universale, per evitare la pena e ricevere il premio. Ogni cedimento è un compiacimento, una piaggeria rispetto all’ente superiore che dovrebbe comminare il premio o la punizione, sia esso divino o umano.
E questo ha come conseguenza l’abolizione del talento. Il talento è abolito abolendo il rischio. Il talento non sta nascosto nelle proprie doti o facoltà. Il talento sta nella prova. Dove si situa la prova? Tra il diritto e la ragione dell’Altro. Quindi, se l’Altro è negato, se il funzionamento è negato, nessun talento. Ognuno si limita rispetto alla rappresentazione che ha di sé o dell’Altro. E così, non c’è più Altro e non c’è più talento.
Accade che ognuno si affaccendi e si chieda cosa fare. Ma, il fare non è fare qualcosa. Il fare è la struttura dell’Altro: sogno e dimenticanza. Fare qualcosa è l’umanizzazione dell’Altro. Allora, ognuno si affaccenda, ognuno si arrabatta, ognuno fa il possibile, ognuno fa tante cose, ma fare qualcosa, fare le cose, non è fare, perché l’idea di fare qualcosa è in conformità alla rappresentazione che ognuno ha di sé. Non è secondo l’Altro, che è irrappresentabile e invisibile, ignoto; ma è da lì che viene il talento. È da lì che viene quel talento che nessuno sa di avere, perché non c’è modo di possederlo.
S’instaura, si produce il talento, non si possiede. Così come criticare non è fare, non equivale a fare. Promettere non è fare. Sperare non è fare. Sperare non indica la parola in atto, ma un tentativo di padroneggiamento. Fare non segue il criterio del volere fare, del potere fare, del sapere fare. Fare è secondo l’occorrenza. Fare si situa nell’intervallo. Cioè, come fare è questione d’infinito, ma cosa fare è questione di finitezza, è questione di soggettività: “Io so cosa voglio fare”. Eh sì, siamo a posto, la domanda non c’è già più, è tolta. Se ognuno sa cosa vuole, non c’è più la domanda, non c’è più dispositivo ma il soggetto saccente, il soggetto del compromesso fantasmatico. Con che cosa? Con ciò che nega la parola, cioè con la rappresentazione che ha di sé o dell’Altro o degli altri o del mondo.
L’esperienza di parola non finisce mai. Non è mai fatta, è in corso. O è in corso o è già finita. Non è mai fatta. Chi asserisce di averla fatta è evidente che bluffa. L’esperienza in corso esige la testimonianza di cifra, esige il pubblico della cifra, il pubblico della cifratura. La cifratura non è una pratica intimista che avviene tra sé e sé, clandestinamente, intimamente e le cui acquisizioni restano tra sé e sé. Sarebbe un modo riduttivo di considerare la cosa.
Nella parola nessuna clandestinità. Nessun nascondimento, nessuna omertà, nessun segreto. Nessun segreto, nessuna riserva, remora o rimando. Può accadere che intervenga qualcosa di questo, ma giusto come materiale per l’attraversamento, per la cifratura, per l’analisi, per l’invenzione, per andare oltre. Non per giustificare l’impedimento. Nessun impedimento alla parola, nessun impedimento nella parola. Come nessun pudore e nessuna vergogna, se non di sé, se non dell’Altro presunto, cioè rappresentato.
Nella testimonianza, nel fare, nel dire, non si tratta di dire o di fare qualcosa di cifrematico, si tratta di dire e di fare. Nulla è “cifrematico” per definizione, o è già “cifrematico”. L’esperienza è cifrematica. Impossibile dire qualcosa di cifrematico. Sarebbe metalinguaggio. Sarebbe dire dove sta il valore, la cifra, il modo. È da trovare! Il metalinguaggio è un fantasma di padronanza.
Ciò che importa è come quel che si dice e quel che si fa si rivolge alla qualità, alla cifra, al valore, non allo standard, a ciò che è comune. Se qualcosa sembra impedire il rivolgimento della domanda alla sua cifra, questo, lo statuto intellettuale non può accettarlo, il cifratore non può accettarlo, non può considerarlo un male dell’Altro e attribuirlo o giustificarsene, ma ha da attraversarlo.
Accontentarsi, vivacchiare, limitarsi e tutto ciò che va in questa costellazione, si accompagna a contropiedi, contrappassi e contraccolpi. Cioè, tutto ciò che è accettato e giustificato contro la pulsione, contro la parola, contro la direzione alla qualità, non va senza inghippi.
Tutto ciò che è accettato come contrarietà, perché è accettato? Perché si produce? Perché è contrassegnato dall’idea di fine. E l’accettazione non va in direzione della salute. No! L’idea di fine è ciò che nega la salute, mina la salute, fino a togliere la salute e può impedire addirittura d’intendere di cosa si tratti.
Negare il tempo vuol dire immobilizzare le cose e trovarsi, come raccontava Giampietro, nel museo della salute con le visioni dei beni e dei mali, del corpo, del funzionamento. Dove la visione è visione del corpo morto, è la visione della salute che non c’è più, perché se è tolto l’avvenire, se è tolto il tempo, se è tolto il poi, è impossibile capire. E allora, ecco il soggetto che non capisce, s’imbambola, s’instupidisce, si stupisce e crede che le cose stiano in un certo modo, crede nell’Altro come persecutore, come despota, come vampiro, come rivale e si adegua a questa rappresentazione o si ribella. Ma, la ribellione è un modo dell’adeguamento.
Il toglimento della sembianza comporta la specularità. La specularità di sé a sé, di sé all’Altro, di sé al bene o al male rappresentato. E allora, il fantasma originario, che è il fantasma che opera per la riuscita, per l’organizzazione, per la scrittura, per lo svolgimento, diventa fantasma che agisce, diventa credenza sullo stato delle cose. Questa è la normalità, questo è il discorso occidentale. Questa è l’epoca.
Noi non accettiamo l’epoca, noi viviamo nella parola. Noi, voi, loro sono indici dell’infinito della parola. Se l’infinito è instaurato, allora noi, voi, loro sono indici dell’infinito, e se l’infinito è instaurato, impossibile perdersi. Smarrirsi, perdersi è proprio al sistema, dove vigono le coordinate di riferimento. Perdere le coordinate di riferimento comporta lo smarrimento, il perdersi, la rappresentazione di perdersi e smarrirsi. Ma, come perdersi nell’infinito dove non c’è il punto di arrivo ma c’è la direzione, la rotta, la bussola, il timone? Dove non c’è il traguardo segnato rispetto a cui sia possibile perdersi o smarrirsi?
È questione di direzione, di tensione. Noi, voi, loro e non “noi sì” e “voi no”. Noi senza loro? Loro contro di noi? Noi, voi, loro indici dell’infinito attuale. Noi tutti? No, noi! Noi non siamo tutti. Non siamo pochi, non siamo molti, non siamo nella contabilità. Noi, voi, loro. C’è da avere paura? Loro sono più di noi? Voi siete contro di noi? Allora non si tratta dell’infinito, si tratta di una rappresentazione spaziale del duello. Infatti, senza l’infinito, ognuno si trova a tu per tu, in un rapporto di sé a sé o di sé con l’Altro, in una specularità da soggetto a soggetto.
Lo statuto intellettuale è questione imprescindibile, dove si tratta della parola senza cedimento, senza compromesso fantasmatico, qualcosa che esige l’invenzione incessante, la bottega in atto, la bottega dell’arte, dell’invenzione, della scienza, della parola. Quindi noi, non noi soli, noi due, noi e voi, ma noi, voi, loro nella domanda.
Ciascuno vive nella domanda. Ma se bara nella domanda, allora contropiedi, contrappassi e contraccolpi sorgono a minare la salute. Abbiamo indicato alcuni di questi nell’AIDS, nel cancro, nell’infarto, nell’ictus, nel Parkinson, nell’Alzheimer e altri ancora. Contropiedi e contrappassi, ossia contrasti, contrarietà, alternative all’oggetto, al tempo, al funzionamento. Accettazioni di rappresentazioni che contrastano la pulsione. Non sono da prendere, come dire, sottogamba, o sotto piede o sotto passo, perché la questione è quella del passo, del piede e del colpo, che non possono diventare contrappasso, contropiede e contraccolpo.
Allora, noi qui. Noi stiamo qui, nella parola che diviene cifra. Non nella parola immaginaria, immaginata, ma nella parola che diviene cifra. E che esige, da ciascuno, la prova, la testimonianza, il corso, lo svolgimento, la scommessa e i dispositivi per la riuscita.
C’è qualche domanda? C’erano altre cose, ma…
P.E. Io, una precisazione. Lei diceva che le cose si fanno secondo il nome e non nel nome del nome, in quanto il nome è anonimo e innominabile. Allora vuol dire senza giustificazione, senza garanzia, senza…
R.C. Garanzia e giustificazione sono due cose molto differenti e distanti tra loro. Ma, perché qualcosa che si dice o si fa o tende a scriversi dovrebbe giustificarsi? Cioè, dovrebbe essere giustificata da che cosa? Che cosa può giustificare che cosa? Chi può giustificare chi, se non in nome di una padronanza, se non in nome di un nome, cioè di una genealogia? Sarebbe a dire che è tolto il rischio, tolto l’originario, per stare in un solco già segnato, secondo una predestinazione. Ma, se non c’è predestinazione?
P.E. Per questo si dice anche l’erranza del nome, fuori da un solco, che non è significato.
R.C. Esatto, sì.
D.S. Io vorrei capire meglio l’idea del sembiante. Il sembiante che cos’è? Si collega all’immagine, quindi fa pensare che questo sembiante dovrebbe essere qualcosa in assenza di chi è il sembiante. Non so. Un’idea che rimane anche dopo… Il sembiante può essere riferito a una persona? O no, per niente? Lui diceva prima dei gerarchi, di quelli dei campi di concentramento che andavano a casa dalla mogliettina, dai figlioli. Che sembiante potevano avere? Allora il sembiante è di una persona, se quelli lì non ce l’hanno.
R.C. Loro ce l’hanno e lei no?
D.S. Non lo so, voglio capire. Non so se ho il sembiante. Questo non c’entra. Ma è riferito a qualcuno o è qualcosa che riguarda…
R.C. Che riguarda? Sì?
D.S. Non so… mi viene da pensare che sia quello che rimane, quando lui non c’è.
R.C. Cosa rimane di una persona quando lui non c’è?
D.S. Quando non c’è, rimane l’immagine che non corrisponde all’immagine fotografica, ma che si compone di un atteggiamento, di un portamento, dell’autorità, non so…
R.C. Sì…
D.S. Quello che rimane di una persona, non so dire. Quando dici il nome non ti viene in mente la sua faccia o la sua corporatura, ma ti viene in mente qualcos’altro. Può essere quello il sembiante?
R.C. Come prima approssimazione… benissimo. Un’approssimazione interessante.
D.S. E poi, per la prossima volta, come entra in gioco nella vendita, il sembiante?
R.C. Questo è veramente decisivo. Lei intanto ha capito questo, allora andiamo avanti. C’è qualche altra domanda. Moda?
F.M. Sì. Volevo una precisazione sull’impossibile della rimozione e della resistenza. Ma, se senza la rimozione e senza la resistenza c’è la fissità del nome e del significante, come può esserci l’impossibile della rimozione e della resistenza?
R.C. Com’è possibile che…?
F.M. Questo termine impossibile della rimozione, se la rimozione è il funzionamento del nome e la resistenza è il funzionamento del significante, perché c’è questo termine “impossibile”? A cosa si riferisce questo impossibile?
R.C. Al non. Il non. L’impossibile è il non.
F.M. Non mi è ancora chiaro.
R.C. Il non del funzionamento. Il funzionamento è nel non della rimozione e nel non della resistenza, che è il non dell’avere e il non dell’essere.
F.M. Quelli sono chiari.
R.C. Sembra!
F.M. Ah, sembra!
R.C. Il non indica l’impossibile di ciascuna cosa, del nome e del significante, rispetto alla significazione. Così, non c’è identità e non c’è sovrapponibilità tra nome e significante. E quindi, ne oinom. Il non. La funzione di non. La rimozione, la resistenza: impossibile dire le cose. Ciascuna cosa si dice, funzionando però. Funzionando, impossibile dire le cose. Impossibile che quel che si dice si sovrapponga al detto. Nulla è mai detto. Per la rimozione, per è la resistenza. Questo è il funzionamento della parola. Come avviene è inspiegabile. Non si può spiegare, occorre viverlo.
F.M. Se la rimozione e la resistenza impediscono la sovrapposizione, perché aggiungere questo impossibile, se già la rimozione e la resistenza impediscono l’identità, la sovrapposizione e così via, la ripetizione?
R.C. Cioè, la rimozione e la resistenza non impediscono nulla, non sono impedimenti. È l’ideologia del discorso che tenta l’economia della rimozione e della resistenza, abolendo il non, come se le cose si potessero dire in quanto tali. Le cose non sono tali per via del non, ossia per via della funzione di rimozione e per via della funzione di resistenza. Nomi e significanti non sono padroneggiabili. Il nome è innominabile e anonimo. Impossibile dire il nome o nominare il nome. E questo è qualcosa di complesso, che esige l’accoglimento, esige l’ammissione, esige lo statuto intellettuale, l’accoglimento della parola, perché il funzionamento rende la parola non padroneggiabile, non prevedibile. Da cui, impossibile sapere il senso.
L’idea di sapere il senso delle cose, come si struttura? Togliendo il nome, allora sarebbe possibile il sapere sulle cose, sapere le cose, senza che funzionino. Basterebbero le cose in sé. Una cosa in sé è già saputa. Si applica una cosa saputa al discorso e c’è il discorso di padronanza, il discorso delle cose così.
Questa idea non è casuale, no? È sorta qualche migliaio di anni fa, per contrastare la parola libera, cioè il senso libero, il sapere libero, l’invenzione libera. E questo è un aspetto essenziale della cifrematica come esperienza della parola che diviene cifra. Sarebbe impossibile la qualificazione, senza la rimozione e senza la resistenza. Basterebbe il sapere sulle cose, basterebbe la filosofia, basterebbe il museo del corpo umano, la museografia, la museologia, basterebbe l’enciclopedia.
Questa sera abbiamo fatto un passo avanti.
F.M. Certamente.
R.C. Altri ne restano da compiere.
La voglia e la realtà della cifra
Ruggero Chinaglia Concludiamo questa sera i lavori dell’équipe e ci rivolgiamo verso altri lavori. Non restiamo inoperosi. È noto il titolo della prossima équipe? Decideremo se si tratterà di una équipe o un’altra cosa. Si conclude questa équipe, ma i lavori proseguono.
Il titolo di questa sera è La voglia e la realtà della cifra.
Se c’è qualche domanda in merito a questo lavoro conclusivo, o rispetto a altre cose, possiamo cominciare da questo. Se c’è quindi qualche domanda, è il momento di formularla. Se invece tutto è già noto, andiamo avanti.
Barbara Sanavia Mi chiedevo cosa intendeva per “la voglia”.
R.C. Questo è materia dell’incontro. Vuole fare lei un’ipotesi?
B.S. Eh, a me ha fatto pensare a questo, ma comincio a pensare che forse lei intenda un’altra cosa. La voglia, cioè, in questo caso, tradurrei il desiderio della cifra, la voglia intesa come desiderio. E la realtà della cifra… La realtà invece faccio più fatica a collocarla, perché la realtà è mutevole, variabile sia per la singola persona e molto di più per ciascuno, per cui la realtà della cifra è difficile da… Mi viene in mente qualcosa, però faccio fatica a immaginare il termine “realtà”.
R.C. Esatto, proprio di questo infatti si tratta: la realtà senza immaginazione, la realtà senza presentazione, la realtà secondo il principio della parola, il principio di realtà, che è il contingente, quindi la realtà nel gerundio. Come prevedere la realtà nel gerundio, se le cose si stanno facendo, se le cose stanno accadendo, se le cose si stanno dicendo? Come immaginare la realtà, nel gerundio? Perché è lì la vita, la parola è lì, nel gerundio. È nel gerundio che è impossibile rappresentare, significare le cose, il che comporterebbe una padronanza sul tempo, un tentativo di abolizione del tempo, un modo per istituire una realtà del fatto, secondo il principio del fatto, cioè di ciò che è già stato.
Ma la realtà non è di ciò che è già stato, la realtà intellettuale è la realtà nel gerundio, è la realtà della parola, cioè la realtà che esige la parola secondo la sua logica nella sua struttura, nel dispositivo in cui qualcosa accade. Parola quindi temporale, non discorso di padronanza. Per questo è essenziale l’analisi, la teorematica.
Il teorema è l’indice che l’analisi è in atto, l’indice che interviene l’assoluzione rispetto a una presa, presunta o tentata, sulla parola stessa, sulle cose, sui pensieri, sui significanti, sui nomi, sulle idee. Senza l’analisi, l’idea diventa principio, diventa principio morale, principio legale, principio ontologico, principio politico, principio di irrigidimento, perché è con l’analisi che si dissipa il sostanzialismo, cioè il fondamento delle cose.
Ognuno ritiene che le cose abbiano un fondamento, cioè un principio di derivazione, un principio di origine, un principio di appartenenza, un principio per cui le cose esistono, sono in sé valide o non valide. Insomma è con l’analisi che si dissipa il discorso di padronanza, il discorso che presume di controllare, di dirigere, di governare la parola, le cose, la pulsione e di togliere quindi la cifra, la qualità di ciascuna cosa, all’approdo. E mai può convertirsi nel fatto o nella verità delle cose, perché la verità è effetto della cifra.
Perché questo possa instaurarsi e compiersi è indispensabile l’analisi, è indispensabile la nominazione, la logica della nominazione senza cui prevale il fantasma materno, cioè il fantasma di ontologia, il fantasma di stabilità. E anziché al caso specifico ognuno si appella al caso generale, alla generalità, alla totalità. La nominazione è originaria, è la logica del due e la logica del tre: questa è la logica originaria. Ma contro questa logica è sorta un’ideologia, con un discorso che è giunto per lo più a coprire questa logica originaria e a far sì che, qua e là, il discorso risultasse predominante sulla parola, il discorso sulle cose, il discorso di padronanza. E ce ne accorgiamo perché in questo discorso, anziché essere sovrana la parola, con la sua azione, con i suoi effetti, con la sua tensione verso la qualifica, diventa sovrana la volontà.
Quante volte sentiamo dire che basta volere e le cose si ottengono, basta volere e i risultati si conseguono? “Volere è potere”. Tante volte sentiamo dire “la forza della volontà”. Sarebbe la dimostrazione della sovranità, perché basta la forza di volontà e si arriva dappertutto. E però, ciononostante, ci sono varie eccezioni a questa sovrana volontà. E come contraltare noi sentiamo spesso dire che ci sarebbe da fare questo, quello, quell’altro, ci sarebbe da dire questo, quello, quell’altro, ma non ce n’è la voglia. Non c’è la voglia di fare, non c’è la voglia di scrivere, non c’è la voglia di lavorare, non c’è la voglia di studiare, fino addirittura alla voglia di vivere. La voglia, la volontà. Questa idea della volontà e, conseguentemente, della voglia, è in realtà la rappresentazione della prestanza del soggetto che vuole o non vuole. Quindi la prestanza, presa nella sua alternativa tra positivo e negativo, ha come sua altra faccia la debolezza, l’alternativa fra il sopra e il sotto. Prestanza: stare sopra, stare prima, stare davanti, cui si contrappone stare sotto, stare dopo, stare dietro. Sopra o sotto, sempre nell’alternativa. E cosa sancisce, cosa conferma l’alternativa? Il soggetto, che è il soggetto dell’alternativa, il soggetto della padronanza che deve padroneggiare l’alternativa, che deve essere più forte dell’alternativa, o più debole dell’alternativa, a seconda di quale credenza prevalga.
Allora, la volontà. La volontà, da Socrate e da Platone in poi, è sempre la volontà di bene, quindi si tratta per il soggetto di volere il bene. Ciò che il soggetto deve volere è il bene e questa idea di volontà, come volontà di bene, è poi confermata dalla teologia cristiana, che aggiunge alla volontà di bene la colpa e il peccato come pericoli in cui potrebbe incorrere la volontà che non fosse di bene.
Il bene è sovrano, e in questo primato della volontà, sovrana non è la parola, ma il bene. Le cose si dirigono al bene, devono dirigersi al bene, e ognuno vuole il bene. Deve volere il bene. La volontà è la volontà di bene. Ognuno vuole il bene. Vuole! Deve volere! La vita segue a questa volontà. Quindi, prima la volontà di bene e poi la vita nei suoi modi, la vita secondo il bene. Ma il bene, a sua volta, è nell’alternativa, quindi con il pericolo di male. Il primato della volontà di bene ha, come sua conseguenza, la minaccia e il pericolo costante del male. Ma chi è il garante che questa volontà da seguire, sia volontà di bene? “Dio lo vuole”, per esempio. E se Dio lo vuole, il popolo lo vuole, e se lo vuole il popolo… Però, talvolta, non è sicuro, quindi vale la formula di auspicio: che Dio lo voglia! È auspicabile, no? Oppure che lo voglia il cielo. Chi lo vuole?
Il principio democratico si chiede chi lo vuole, e allora s’instaura, sul principio dell’accordo generale, quello di complicità su cui possano scatenarsi le guerre. Quindi, nelle varie formulazioni inerenti la volontà, compare una declinazione o una coniugazione del volere che indica il soggetto come agente delle volontà, agente del volere, agente della voglia. Questa affermazione del soggetto a cosa può portare? A credere che il soggetto possa fare ciò che vuole, perché la volontà è sovrana! Se la volontà è sovrana, chi vuole può fare quello che vuole, e ciò starebbe a indicare la sua libertà. Fare quello che si vuole sarebbe indice della libertà soggettiva. E il soggetto per definizione, il soggetto per antonomasia deve sentirsi libero, altrimenti muore, crede di morire, ma non per scherzo! Il soggetto è soggetto alla morte. La prima cura del soggetto è la morte. La prima cura del soggetto è la liberazione dalla morte, la salvezza dalla morte. Dunque, la morte è il primo pensiero del soggetto e l’affrancamento dalla morte è la sua mira suprema. Non è una questione secondaria. Senza l’analisi, così va il mondo.
Così come è impossibile convincere, è impossibile anche dissuadere il soggetto. Una vera psicologa dice che il soggetto può scegliere tra più opzioni: scegliere quello che conviene, scegliere quello che piace, scegliere quello che si vuole. Ogni psicologo è educato a questo: riconoscere che importante è scegliere quello che si vuole. Scegliere con quale criterio, se il soggetto è soggetto alla morte, se il soggetto crede nella morte? Se il soggetto confida nella salvezza, qual è il criterio della scelta del soggetto? Quale sarà la scelta libera? La libera scelta sarebbe secondo la volontà, scegliendo quello che si vuole?
In questa fantasmagoria in cui l’ipostasi è vigente, in cui il discorso di padronanza è sovrano, in cui vige il fantasma materno, possiamo avere varie rappresentazioni della volontà, ognuna delle quali deve confermare che a volere è il soggetto, che la volontà è soggettiva, che l’agente della volontà è il soggetto. Quindi, dalla volontà pura, che è la volontà di bene, incontaminata, alla volontà buona, che è la volontà che consente di agire secondo il dovere. E quale dovere se non quello di bene, che poi diviene buona volontà? Il soggetto ci mette, per lo più, la sua buona volontà! Poi magari non ce la fa perché è soggetto, però ha una buona volontà, e la sua volontà è buona, conforme al dovere di bene.
Poi c’è la volontà generale. La volontà generale secondo l’Illuminismo è la ragione stessa. Se qualcosa è secondo la volontà generale è secondo la ragione, quindi incontrovertibile, non contraddicibile, senza errore. La volontà generale è senza errore. Non sbaglia mai, perché è comunque l’indice della ragione. “La volontà è ragione”, quando diventa volontà generale. E così, allora, ogni atto è giustificato, data la volontà generale: dal linciaggio, alla guerra, alle varie rappresentazioni della volontà generale, fino alla volontà di credere. Ognuno vuole credere a ciò che vuole. La volontà di credere è libera. La libera volontà di credere, ossia il compromesso con la fede. Con questa volontà di credere, la fede è negata. Non c’è più la fede come operatore, dio come fede, ma la volontà di credere. Allora, la volontà come volontà di bene, quindi come capacità e facoltà del soggetto di conseguire il bene, e accanto, la voglia. La voglia, che sarebbe l’impulso irrefrenabile. La volontà, la voglia, l’appetito razionale, l’appetito irrazionale, volontà di bene, desiderio di bene. Si tratta, tra volontà, voglia, desiderio, di conciliare il conflitto tra la volontà di bene e l’impulso irrazionale degli istinti.
Questa è la fantasmatica: che l’istinto abbia impulsi irrazionali, mentre la volontà è volontà di bene, secondo la ragione. In questa proposta e rappresentazione della soggettività, la pulsione è esclusa, abolita, negata. La chiamata in causa degli impulsi, che sarebbero irrefrenabili, che cosa comporta? Che volere è potere. La volontà, la voglia, che viene dagli impulsi, è irrefrenabile, voglia irrefrenabile, mentre il volere ancora potrebbe essere soggetto al raziocinio, alla ragione soggettiva.
Voglia, appetito, desiderio. La voglia deve trovare appagamento. L’appetito deve trovare appagamento. Ma, qui, appagamento è inteso come idea di fine. La voglia deve finire con l’appagamento. La volontà deve finire con il conseguimento dell’obiettivo stabilito. La volontà sarebbe, rispetto alla voglia, di una maggiore complessità, perché indicherebbe un disegno, un progetto rivolto a un fine, che deve trovare la sua fine nel conseguimento del risultato. Sia con la voglia, sia con la volontà, ciò che è comunemente proposto è il fantasma di fine. L’idea di piacere conseguente all’idea di fine.
In quanti modi può porsi l’idea di fine? L’idea di fine che nessuno sa di avere, tantomeno di coltivare! Il soggetto poggia su questa idea, ma nulla sa di questa idea. A un certo punto accade che si ponga per qualcuno un’idea di cambiamento. È legittimo, dice la buona psicologa. Ognuno ha il diritto di coltivare la sua idea di cambiamento, di formulare e coltivare il suo desiderio di cambiare. Addirittura il suo desiderio di ricominciare un’altra vita, di cambiare quello che non è più appagante e ricominciare di nuovo, daccapo. Chi sarebbe così ingeneroso da negare a chicchessia il soddisfacimento di questa idea di cambiamento? Ma che cosa indica questa idea? Qual è il timone del cambiamento? È il fantasma di fine o il fantasma di morte o il fantasma di fine del tempo, che nessuno sa di avere, e che, tuttavia, agisce.
Il fantasma di fine può avere come sua modalità di azione un’impostazione algebrica, ossia palingenetica della verità, della vita, del mondo, per cui il tempo è dato per finito, il mondo è dato per finito. Dalla fine del tempo o del mondo, nasce il tempo nuovo, un mondo nuovo, un soggetto nuovo: è l’idea della rigenerazione. La fine è necessaria per la rigenerazione. Oppure, il fantasma di fine può seguire una modalità geometrica che procede dalla frammentazione, dalla distruzione, dalla significazione del male, del negativo riferito all’Altro: una significazione dell’Altro, con attribuzione. Interviene, così, come significazione della volontà di bene, lo spirito amante, che nega l’Altro, nega lo spirito costruttivo, nega il punto vuoto; il fine è il presunto bene di sé e purificando il male dell’Altro, all’insegna del purismo. Questo è il terreno della volontà, della voglia, del desiderio soggettivo dove si tratta dell’agente della volontà, l’agente della voglia, l’agente del desiderio.
Altra cosa invece la volontà come struttura, non già come azione del soggetto diretto al bene, ma la volontà come struttura, che chiamiamo voluntas: volontà senza soggetto. Volontà come struttura, non più come azione o prerogativa di qualcuno, struttura! La struttura non è governata da qualcuno, non è diretta da qualcuno, è struttura della parola, è struttura temporale, è struttura che procede dalla nominazione. Allora, dalla voluntas come struttura sorge il desiderio, che non è più il desiderio di qualcuno, il desiderio di qualcosa, che si può enunciare come “voglia di” o “non voglia di”, ma è la struttura dove funziona l’uno, il significante come funzione, mai identico a se stesso. Il significante differisce da sé. Questa è la voluntas come resistenza.
Il desiderio ha la sua sede nella resistenza, nella voluntas, nella struttura dove il significante, funzionando, differisce da sé. Nessuna volontà di bene, nessuna volontà di male, nessuna volontà che deve raggiungere il suo fine, ma la voluntas come la struttura in cui il desiderio è indice del funzionamento e mai può essere detto completamente incontrando il suo paradosso. L’uno, funzionando nella struttura, mai può realizzarsi, ma sempre differisce.
Non c’è plurale, ma la differenza da sé del significante; il desiderio è l’indice di questa struttura. Il desiderio trova la sua condizione nello sguardo. Lo sguardo non è una proprietà dell’occhio, non appartiene all’occhio, è una proprietà della parola e causa il desiderio. L’occhio è pretesto per lo sguardo, il sembiante, causa di desiderio, anche causa di sapere.
Nessun antropomorfismo del desiderio. L’uomo desidera? Io desidero? Tu desideri? Impossibile coniugare il desiderio, che è l’indice della struttura dove funziona il significante. In quanto differente da sé, manca a se stesso e quindi, nel varco del suo funzionamento, produce l’effetto di desiderio. Ma, se vige il discorso di padronanza, se vige il soggetto, quindi in assenza della nominazione, in assenza dell’analisi, la differenza da sé del significante viene a rappresentare un deficit soggettivo, una carenza soggettiva fino alla rappresentazione della morte, in quanto il soggetto attribuisce a sé questa differenza che si produce nel funzionamento del significante, e l’avverte come lacerazione, ferita, morte. Il rimedio a questa lacerazione, a questa ferita, a questa rappresentazione insanabile, incolmabile, intoglibile, qual è? È il sentimento, con la sua altra faccia, il risentimento. Ispirati all’idea di salvezza, all’idea di rimedio, all’idea di agente, dovrebbero rappresentare la causa, cui viene attribuita la colpa di ciò che manca.
Ma ciò che manca non manca a qualcuno, manca al significante nel suo funzionamento, è ciò che fa la differenza, il differire. Sentimento e risentimento sono gli indici della negazione del funzionamento del significante. Ciò che è negato al significante viene attribuito a un altro uno, quindi a qualcuno, a qualcun altro. Non è difficile da capire, con l’analisi. Senza l’analisi è impossibile capire questo, perché il soggetto è sovrano e è senza parola. Per il soggetto la realtà è la realtà finale, è la realtà ultima, è la realtà delle cose, la realtà dei fatti, la realtà della soluzione finale, la realtà del cambiamento da fare, per una realtà migliore, una nuova realtà, la realtà che segue la fine del tempo.
La realtà intellettuale è la realtà che poggia sul suo principio, il contingente, dove funziona l’Altro, dove le cose non finiscono, dove non hanno rappresentazione; realtà che si stabilisce nel gerundio: parlando, facendo, vivendo. La realtà ultima, la realtà dei fatti è senza racconto, senza parola, è la realtà delle cose finite. La realtà della parola è la realtà senza soggetto. È la realtà che s’instaura sul principio della parola e sulle sue virtù, sulla leggerezza, sull’anoressia, l’aria, la libertà. Non è la libertà di scegliere ciò che piace, è la libertà di ciascuna cosa di divenire cifra. E la cifra non è già data. Tra queste proprietà c’è anche l’integrità.
La parola è integra, non è malata, non è affetta da qualcosa, è senza negatività. La negatività è attribuita dal soggetto e al soggetto, quindi è qualcosa che necessita dell’ipostasi soggettiva. Non è originaria! La questione è la tensione verso la cifra, la tensione verso la qualità, la rivoluzione delle cose in direzione della qualità, la domanda in direzione della cifra.
La domanda è domanda di cifra. La cifra non è già assegnata, non è già stabilito quale sia. Ciascuna cosa ha l’eventualità di divenire cifra, ma non è una eventualità ontologica, una predestinazione. La tensione, la rivoluzione, la domanda, la direzione verso la qualità non è qualcosa di automaticistico, non è qualcosa di innato, né di ontologico, né è frutto di predestinazione, non è un destino già scritto. Dove, quando, come.
Tutto ciò esige lo sforzo, esige la costruzione, esige che ci sia l’analisi e la cifratura, quindi la conversazione, la narrazione, il racconto, il dispositivo della parola, lasciando che gli effetti si producano. Non negandoli, non ponendo continuamente limitazioni, controllo, modi della padronanza perché la volontà di bene debba prevalere! No, lasciando. E che cosa lascia che gli effetti seguano? È la struttura, che lascia che vi sia l’effetto di senso, l’effetto di sapere, l’effetto di verità. È la struttura. Se la struttura è negata, questi effetti sono tolti.
C’è chi ha inteso, confidando nell’agente taumaturgico, che la cifrematica sia aspettare che la qualità arrivi, senza fare nulla, senza costruire nulla, senza analizzare nulla, solamente aspettando che arrivi la qualità con il suo agente. Questa è la speranza comune di ogni soggetto, la speranza di essere salvato, la speranza di scampare dal giudizio universale. Questa idea non ha nemmeno la chance di essere assurda. È un’idea comune, proprio banale, ma l’esperienza, la nostra esperienza, l’esperienza che è in atto, nulla ha a che vedere con questa ideologia. E esige tuttavia le sue prove, le sue testimonianze, i suoi dispositivi perché esperienza della parola, esperienza della qualità, esperienza pulsionale; e per ciascuno è differente. Occorre quindi che ciascuno indichi la specificità, i modi, i termini, le acquisizioni della propria esperienza, che non è propria in quanto personale, ma esperienza della proprietà intellettuale della parola.
La proprietà intellettuale non è proprietà di qualcuno, non deve essere tutelata come facoltà personale, difesa da ingerenze altrui! La proprietà è proprietà della parola. Questa proprietà, che è la proprietà intellettuale, va indicata. Non va tutelata, va pubblicizzata, perché sta in questo il valore dell’esperienza. Se ciò che è acquisito nell’esperienza trova il pubblico, non viene perso, anzi! È questo il modo per indicare che avviene senza fine, senza limitazione, senza pregiudizio. E allora, per integrazione, a cosa si aggiunge cosa e la ricchezza aumenta. Nulla è perduto, anzi! Abbondanza, ricchezza, fluenza, qualità dell’esperienza, il piacere dell’esperienza, senza più odore di malattia mentale nelle sue varie sfumature, rappresentazioni, banalità e pregiudizi. E non sono pochi.
La battaglia è da combattere perché il pregiudizio sia dissipato! Innanzitutto per chi vi s’imbatte, in grado, avvalendosi dei mezzi e degli strumenti della parola, di dissiparli. E poi anche per contribuire a chi questi mezzi ancora non sa che ci siano, e possa cominciare a avvalersene.
Ecco, se c’è qualcosa da aggiungere, qualche domanda di precisazione, qualche nota per dimostrare che non eravamo qui solo circondati dai muri, ma eravamo in un auditorium, dove giunge l’eco di quel che si dice. L’eco, l’ascolto, qualcosa d’Altro. C’è chi osa dare un contributo?
Fabrizio Moda All’inizio ha usato molto il termine principio, sarebbe una parola che indica una tesi ontologica? Qualcosa di fisso per cui il principio di qualcosa sarebbe qualcosa di immodificabile? Cioè “io non faccio le cose per principio”, o “io faccio le cose per principio”, sarebbe una fissità?
R.C. Quello sarebbe “per partito preso”.
F.M. Fare per principio sarebbe per partito preso?
R.C. Sarebbe per ideologia, per credenza. Avere dei principi, cioè, vuol dire avere dei pregiudizi saldi. Qui si tratta del principio della parola, la parola nel suo principio. Uno dei principi della parola è l’anoressia intellettuale, un altro è la leggerezza, un altro è la libertà. Sono principi della parola. Principi, cioè qualcosa che indica l’originarietà della parola, la libertà di divenire cifra. La parola è libera di qualificarsi, non è racchiusa in un qualche contenitore, ma è libera. Il principio della parola, la parola nel suo principio, per dire la leggerezza, l’aria, l’anoressia, cioè senza sostanza. Principi della parola in questo senso.
F.M. Quindi, quando si dice il principio della parola, s’intende qualcosa di originario, mentre se lo dice il soggetto diventa un’ipostasi, una fissazione.
R.C. Quando c’è il ricorso a un principio, per lo più si tratta di principi morali, principi legali, principi ideologici; i principi sono forme di ancoraggio, per dire che il criterio non è secondo la particolarità, ma secondo una convinzione, secondo un’appartenenza, secondo un’ideologia, secondo una religione. Questi non sono principi della parola, sono principi soggettivi. Il principio della parola è senza l’alternativa fra noi e loro, voi e loro, senza appartenenza. Esige l’infinito.
Altre forme di principi si trovano nel finito, a sancire i confini di un’idea, di una credenza, di una certa modalità. Principio è in un’accezione precisa in questa direzione, che non assegna alla parola una delimitazione, ma ne coglie l’aspetto infinito, di libertà, di assenza di sostanzialità.
F.M. Poi, non mi è ancora chiara l’idea di agente. Significa una cosa attorno alla magia o ha altre connotazioni?
R.C. Senza magia. Dio non è una cosa magica, è una credenza religiosa. Dio non è un personaggio della magia. Riferirsi a dio è un’impostazione magica? No, è un’impostazione religiosa, però pensare che dio faccia qualcosa, vuol dire che dio agisce, sarebbe agente. Quando uno si rivolge a dio e dice. “Fammi la grazia, fammi andare bene questa cosa”, allora dio si mette in moto e fa andare bene quella cosa? Sarebbe il funzionario agente, che in nome e per conto, fa le cose. Quello è l’agente! L’agente è chi agisce. Nulla di magico, ma è una rappresentazione antropomorfica di dio.
Dio agisce? Uno dice: “Dio lo vuole”. E che fa dio, vuole? Ha una volontà e agisce per volontà? Essere nella mente di dio. Cosa fa, ha una mente? È un umano? Questo è l’antropomorfismo: la rappresentazione di dio come un umano, come feticcio insomma. Dio come feticcio, è l’idolo a disposizione. Pronti! “Dio lo vuole”, pronti! Dio sa, dio vede e provvede, pronti! Dio è sempre in allarme, vede e provvede. Ma dove sta per vedere e provvedere? Dove sta?
F.M. Sant’Agostino diceva dove sta, anche se in termini ironici.
R.C. Ma diceva che non ha la facoltà di fare. La stessa idea di dio creatore è, il meno che si possa dire, discutibile, perché vuol dire che può fare. C’è una versione della Bibbia che dice che non ha creato, ma ha dato il nome alle cose. Allora c’erano già, chi le ha fatte? Ci sono vari paradossi che esigono un’articolazione rispetto all’idea di agente, all’idea di inizio, all’idea di origine. L’idea di origine è l’idea di fine. È il suo pendant. Non è che c’è l’idea di origine senza l’idea di fine. L’idea di origine procede dall’idea di fine. Come mai tutta questa preoccupazione dell’origine e della fine, non dell’atto che è in corso? Come mai tutta questa attenzione a dove vanno a finire le cose? Dove vanno a finire, se non finiscono? Se c’è gerundio non finiscono. Possono finire? Può finire il gerundio? Certo, se è negato, allora tutto può finire. Chi si chiede da dove è nato l’universo è perché si chiede quando finirà. Allora vuole calcolarlo, vuole calcolare quando finirà; per sapere quando finirà deve sapere quando è cominciato. È un circolo, una circolarizzazione, siamo in un fantasma di morte.
F.M. Mentre quando si dice che dio opera, la fede opera, s’intende che è da lì, in qualche modo, che nasce la pulsione per…
R.C. Nasce? Nasce da dio? Dio è madre allora. La pulsione è data. No, dio non dà. Se non fa, nemmeno dà. Opera!
F.M. Ecco, opera. E s’intende?
R.C. Opera la connessione, opera, connette. Connette, è la connessione tra…, è operatore. Dire che opera vuol dire che è operatore, ma l’operatore non fa. Il fare è nella struttura. L’operazione è una logica: è operazione sintattica, frastica, pragmatica, è connessione fra la causa, il funzionamento e ciò che si dice e si fa. La fede è operazione. La fede! Dio come fede. Dio è un nome come un altro.
Dio come fede, se proprio vogliamo attribuire a dio qualcosa, dio è la fede. Non la fede in dio, ma dio è la fede. Quando si dice di avere fede in dio è una ridondanza, perché o questo indica la fede o indica, invece, la delega. La delega a dio vuol dire che la fede non c’è più. La fede non è delegare a dio qualcosa perché faccia lui, ma la fede è fede nella riuscita, è la fede per trovare il modo. Nessuna delega, anzi! Comporta che per la riuscita nulla è delegabile e occorre fare quel che occorre. La fede trae con sé l’intensità, il ritmo, la forza, non la delega! Chiaro?
Allora, tutto ciò che la religione propone a proposito di dio è una riduzione, una diminutio, rispetto a dio nella parola, perché lo rende un fantoccio, un burattino nelle mani degli umani: dio a immagine e somiglianza. Quando si dice che creò l’uomo a immagine e somiglianza, in realtà è dio che viene creato a immagine e somiglianza dell’uomo e questa è l’idolatria.
Quando si dice “fammi la grazia”, gli si dà addirittura del tu, confidenzialmente, come a un servitore, no? Tutto ciò esige ben altra elaborazione che non quella spicciola, e direi, piuttosto superstiziosa, che viene proposta dal catechismo. Così come dal Corano. Dio lo vuole. Oppure, Allah, è grande, è piccolo. C’è un dio grande e uno piccolo. Allah è il più grande di tutti. E quanti sono? E dove stanno? C’è un convegno di dei? Gli dei riuniti in convegno eleggono Allah il più grande di tutti, gli altri ci sono, ma sono più piccoli. Chi deve essere convinto di questo? Così come quando partivano i crociati e dicevano: “Dio lo vuole! Dio lo vuole!”. I crociati di serie B, perché c’erano i crociati di serie A, mandati dal Papa e quindi non avevano di che giustificarsi. Poi c’erano quelli di serie B che dicevano: “Ci sono anch’io! Dio vuole che ci siamo anche noi”. E si accodavano. Oppure dicevano: “Dio è con noi!”. Tutti cercano l’avallo, la complicità, la giustificazione, la garanzia o del popolo o di dio. Queste sono agenzie, agenzie di assicurazione. La parola è senza queste agenzie, è nel rischio. Bene, vedo che la cosa non vi interessa per nulla, quindi possiamo anche terminare qui, o c’è qualche altra domanda?
F.M. Un’ultimissima domanda. Allora la differenza a sé dell’uno mi è chiaro che produce risentimento, no?
R.C. No, anzi, tutt’altro! Negando che via sia la differenza dell’uno, allora c’è risentimento. No! La differenza a sé dell’uno è ciò che comporta il desiderio. Quale risentimento? Il desiderio. Forse mi sono espresso male, ma se lei riascolta forse trova che non ho detto proprio questo, quindi le è chiaro secondo il modo soggettivo. E questo la dice lunga. Questo trae con sé delle conseguenze. Eh, se vogliamo tenerne conto! Lei voleva aggiungere qualcosa? Sembra che si sia svegliato.
Pubblico Mi sono svegliato? Stavo ascoltando. Rispetto al titolo, quando aveva chiesto cosa ne pensavamo, all’inizio volevo dire che la voglia è la volontà di giungere alla cifra.
R.C. Ecco, perfetto. Però così resterebbe un’intenzione, dando per scontato la cifra, dando per scontato che c’è, e presumendo anche di sapere dove sta. La cifra è, per così dire, indesiderabile, perché è un approdo, e quando, dove, come, è indecidibile. Accade. Ma non prevedibilmente, è qualcosa di istantaneo. Quindi sì, certamente può porsi, l’idea può esserci certamente, ma è fuori dalla padronanza, per cui interviene imprevedibilmente e desta meraviglia e piacere. Questo è il bello.
F.M. L’idea della cifra invece come prevedibile, potrebbe essere quella che si dice porre un obiettivo? Gli obiettivi aziendali, gli obiettivi personali sono idee di cifra a buon mercato, diciamo così.
R.C. Diciamo così, sì, chiaro. Per lo più costituiscono limitazioni di solito. Anche gli obiettivi sono sempre al risparmio, perché sono presunti sulla base di una impostazione economica. La prima economia è quella della domanda e quindi economia del bene, economia del male. Su questo, anche quello che può essere un programma, un obiettivo aziendale, risulta in modo economico perché è sempre rappresentato sull’idea di sé, quindi sul pericolo del male. Bene, lei Giorgio dice qualcosa? Una notazione?
Giorgio Fornasier Allora, mi resta un dubbio, una curiosità. Com’è che a un certo punto ci sarebbe stata una parola originaria e poi nella storia degli umani c’è un discorso che si sarebbe opposto a questo, se ho capito bene, addirittura in un periodo storico ben preciso, una civiltà precisa, quella greca. Questo sembra un po’ strano.
R.C. Quella greca è quella di cui abbiamo più documenti.
G.F. Sì, ma mi pare, non lo so, prima ci sarebbe stata una fase dell’umanità in cui questa struttura originaria avrebbe funzionato, non lo so, ai tempi degli Egizi, dei Fenici, e dopo arriva il discorso. Sembra strano.
R.C. Non lo sappiamo se c’era prima, perché prima e dopo sono già modalità soggettive.
G.F. Sì, però prendo atto che ho ascoltato più volte che ci sarebbe stata, appunto, questa origine del camuffamento, chiamiamolo, della parola originaria, con i Greci.
R.C. Nello stesso ambito dei greci sono sorti movimenti che non hanno codificato la parola in discorso. Per esempio, abbiamo tracce…
G.F. Sì, i Sofisti, però abbiamo sempre questa cosa di dare un’origine a una questione, e certamente esiste una padronanza, addirittura trovargli un’origine, mi sembra strano.
R.C. Che Aristotele e Platone abbiano codificato alcune cose, prescrivendo Platone il fine di bene, e codificando Aristotele il terzo escluso, questo è materiale testuale. Che vi sia stata una codifica per cui la logica del tre fosse ridotta a binaria, di questo oggi traiamo le conclusioni. Possiamo anche non trarle, però, magari le traiamo; non per assegnare un’origine, ma per indicare che l’impostazione disciplinare poggia sull’esclusione del terzo e sull’esclusione, da ciò che viene chiamata scienza, di tutto ciò che non è ripetibile… Ne abbiamo parlato in varie occasioni… Il principio di esclusione è attuato verso qualcosa che sorge senza giustificazione, senza l’avallo, senza il consenso dell’agente del discorso.
Questa è la questione della poesia.
G.F. Probabilmente, questa formalizzazione non era una legge generale, era come un semaforo. Se si vuole una società fatta così, occorre il terzo escluso. Magari, in un’altra isola, te la fai.
R.C. Era funzionale al governo della città, certo.
G.F. Poi, se si può far di meglio… Noi abbiamo fatto così, escludendo il terzo.
R.C. Questo lo abbiamo sempre asserito che era funzionale alla governance.
G.F. Sì, fosse una cosa tecnica. Se arriva il terzo viene fuori il caos. Poverini, cercavano di tener su delle società. Non era mica facile.
R.C. Appunto. Ecco, su questo poi sorge la classificazione, la categorizzazione, il razzismo, le pulizie etniche, le fantasie di esclusione, di fine, di male, di negatività che sfociano nelle limitazioni della parola.
Sanavia, un’ultima annotazione?
B.S. Devo riascoltare. C’è molta materia, ma adesso seguivo questo ragionamento.
R.C. Certo, c’è molta materia. E Maria Antonietta Viero, se la squaglia?
Maria Antonietta Viero Esatto. C’era una questione interessante: dove si situa la colpa, negando la differenza a sé del significante, cioè funzionando l’uno… Mi sembrava d’intendere come funziona l’enunciato: “Io no, io non posso. Qualcosa mi è vietato, non posso ammettere”. Allora, mi sembra che la struttura del desiderio comporti l’inganno, l’inganno delle immagini che diventano “fatuate”, per cui probabilmente traggono con sé il ricordo che blocca lo svolgimento.
R.C. Se non c’è l’analisi.
M.A.V. Sì, sì, certo, in una fantasmatica. Allora pensavo…
R.C. In un fantasmatica materna che tolga l’originario e che stabilisca invece origine e fine.
M.A.V. Ma si capisce anche, così svolgendo, come il principio di origine comporti, come si può dire, l’idea della vendetta, perché… insomma, ci sarebbe da dilungarsi un po’ su questo. Poi stavo pensando a quando c’è l’occasione per osare la restituzione di un’esperienza, e quindi dissolvere l’idea della colpa: l’assoluzione esige l’analisi. Pensavo che si osa il passo più lungo della gamba, perché ci si trova nel rischio, altrimenti la vita non ti dà l’occasione di dissolvere il fantasma materno. Quindi, c’è la ricerca, c’è la scrittura, la lettura e lì molte fantasie trovano motivo di analisi.
R.C. Occorre non disgiungere la ricerca dall’impresa, occorre non separare la ricerca che è sintattica e frastica dall’impresa che è pragmatica, cioè non si tratta di accontentarsi di studiare. Lo studium sarebbe questo: isolare il funzionamento della rimozione e della resistenza, e quindi la struttura sintattica e frastica, dal funzionamento dell’Altro e dalla struttura pragmatica.
M.A.V. Sarebbe la messa in opera per così dire, invece del fare.
R.C. Sì, il fare è la struttura dell’Altro. Non si possono scindere queste strutture, però la mentalità cosa prescrive? Che prima bisogna studiare e poi fare, oppure che si può studiare senza fare, oppure che si può fare ricerca e accontentarsi senza il risvolto pragmatico. Tutto ciò è problematico: nella parola c’è la simultaneità del tre, quindi c’è simultaneità fra ricerca e impresa. Se la simultaneità è tolta, c’è soggettività, c’è una presa fantasmatica, c’è l’idea della fine del tempo, c’è l’idea di sé. È istantaneo.
La padronanza è l’esercizio della presunta facoltà di decidere come, cosa, quanto, quando, se. Questo è materiale per l’analisi. La parola è messa in attesa da questa soggettività, è chiaro? La parola è messa in attesa perché è assunto il discorso di padronanza.
M.A.V. Padronanza e sapere.
R.C. ovvero il principio di conoscenza. Il materiale da svolgere è ancora ricchissimo, e a questo noi ci rivolgiamo con la prossima serie di appuntamenti. Grazie e arrivederci.