- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA QUALITÀ DELL’ASCOLTO NELLA COMUNICAZIONE
- La parola: logica e struttura
- Il disagio e la difficoltà
- Credenze e luoghi comuni sulla comunicazione
- La comunicazione efficace
- L’ascolto e la clinica
La parola: logica e struttura
Mi chiedevo, mentre preparavo questo incontro, su che cosa si trattasse di aggiornarvi: se sulla tecnica e i modi della comunicazione, o sui modi dell’insegnamento. Ritengo che soprattutto si tratti di aggiornarvi sulla parola, sulla sua logica e la sua struttura. In altri termini, su che cosa è la parola contrariamente a quel che è chiamato parola, e, sopra tutto, sul modo in cui funziona la parola, al di là di quel che si crede o di quel che si dice intorno al suo funzionamento, perché proprio da questo dipende la comunicazione.
Oggi, la scuola si trova in una situazione particolare rispetto a ogni altra epoca, in quanto mai è accaduto prima che, al di fuori della scuola e, molto di più che nella scuola, esistessero fonti d’informazione superiori a essa: i giornali, la televisione, le banche dati, i video, i mezzi informatici, i CD rom, il computer, a parte i libri che esistono da secoli. Tutto ciò ha trasformato il modo dell’approccio all’informazione da parte degli scolari, che sin da giovanissimi possono avvalersi di questi mezzi d’informazione e in modo anche più rapido.
Allora, all’insegnante è richiesto qualcosa di più del fornire informazione. Questo comporta la trasformazione dell’insegnamento e un altro modo della comunicazione e dell’ascolto. E’ richiesto qualcosa di più in direzione della documentazione e dell’informazione propria, ma, sopra tutto, per quel che riguarda l’interlocuzione, lo scambio, la parola, il messaggio con i cosiddetti allievi, con i ragazzi, sia che si tratti di bambini, di ragazzi o di adolescenti, perché questa interlocuzione in nessun caso può venir assicurata dagli altri mezzi, cosiddetti di comunicazione. L’insegnante, in alcuni casi, ancor più dei genitori, ha questa importante funzione di interlocuzione. È questo un punto su cui torneremo.
M’interessa, per il momento, porre la questione, e rilevare che è proprio in questa direzione che si deve esigere una particolare formazione da parte dell’insegnante, nella direzione dell’interlocuzione.
E ora, un invito. Il tema e la materia di questo corso sono impegnativi. A ciascuno è richiesto uno sforzo particolare, in quanto, lo scopo di questi appuntamenti è l’incontro con qualcosa di nuovo, di inedito, cioè l’eventualità, per ciascuno, di incontrare la novità, un effetto di novità in quel che si andrà dicendo. – In questo sta la questione dell’aggiornamento. – Quindi, un effetto di intendimento anche, differente rispetto a ciò che siamo soliti pensare, ritenere, giudicare, intorno alla questione comunicazione, intorno alla questione parola. Bisogna, pertanto, fare uno sforzo per intendere, in quanto la questione è difficile e non può venir resa facile. Con lo sforzo c’è l’eventualità che giunga al semplice. E’ questa la procedura della ricerca, dal difficile al semplice, senza mai passare per la facilità, per il facile. La facilità è una mitologia, in realtà non esiste. E’ una mitologia che riguarda il discorso occidentale, e poi la esploreremo, ma, in realtà, non esiste, perché sarebbe come dire l’esercizio della facoltà di dominio. Quella sarebbe la facilità. L’idea della facilità delle cose viene da un’idea di dominio.
La facilità è una mitologia che fa capo a una presunta possibilità di padroneggiare le cose, di riuscire a dominarle, a controllarle. Nel campo della parola questo è impossibile, addirittura impensabile. La procedura va dalla difficoltà, da ciò che pone lo scacco della presunta facilità, della facoltà, al semplice, appunto con lo sforzo. Non automaticisticamente. L’automaticismo, ciò per cui una cosa difficile potrebbe risultare semplice, da sé, è impossibile. Tuttavia, è una fiorente mitologia, piuttosto in voga, quella che vorrebbe che le cose risultassero facili o venissero rese facili, per cui frequente è l’accusa all’altro, agli insegnanti, a chi detiene una determinata funzione anche sociale, di non rendere facili le cose e quindi di non assolvere bene alla sua funzione.
Una certa protesta è fiorita nell’ultimo ventennio proprio in questa direzione: un’accusa rivolta all’altro di non rendere facili le cose, da cui una contrapposizione.
Perché le cose non possono risultare facili? Perché non c’è cosa, non c’è parola che esista in quanto tale. Ciascuna cosa si trova in una procedura di qualificazione per divenire qualità E’ con la qualifica, con la qualificazione, che una tal cosa diviene quella cosa, diviene quale. Esistono tante cose, tante parole, tante idee, tante cose, ma quante sono? e quali sono? Quindi, da una serie indistinta, man mano qualcosa si precisa, si qualifica, diviene quale.
La qualità è qualcosa cui si approda. Non esiste già, ma è qualcosa che esige lo sforzo, esige la ricerca, esige la procedura.
Insieme allo sforzo, addirittura prima dello sforzo, e intendo dire sforzo intellettuale, dell’intelligenza, dell’intendimento, sforzo della ricerca, è necessaria, in modo assoluto, l’umiltà: quell’umiltà che costituiva il motto di San Carlo Borromeo: humilitas, quale disposizione all’ascolto. Che cos’è la disposizione all’ascolto? E’ il non farsi assordare, cioè il non diventare sordi a causa di ciò che si sa o si crede di sapere già intorno a qualcosa.
Questa è la prima questione, per cominciare: disporsi a udire, lasciando che quel che si ode si combini arbitrariamente, in modo nuovo e vario, per interrogare questo modo e per interrogarsi; perché, se non lo fate voi per primi, sicuramente è inammissibile che lo lasciate fare, poi, ai ragazzi. Se non c’è tolleranza, disposizione all’ascolto, se non c’è tolleranza verso il nuovo, verso quel che non si sa già, è impossibile accogliere una formulazione differente da quella che riteniamo giusta perché ci risulta consueta. E risulta impossibile cogliere qualcosa che non sia conforme all’abitudine.
E’ chiaro che quel che si ode in una combinazione nuova, in un modo differente o in una logica particolare, può risultare inquietante. E, quindi, viene rigettato. E’ un processo, comprensibile, di salvaguardia di un’ideologia, per esempio di un discorso corrente, dell’abitudine; di ciò che costituisce l’abito, l’abito che poi diviene l’habitat, l’ambiente. E’ un modo di ripararsi. Ma questo mette al riparo dalla ricerca, dal nuovo; mette al riparo, per esempio, da quel “folle volo” di cui parla Dante Alighieri a proposito di Ulisse, folle volo che è essenziale per qualificarsi e perché ciascuna cosa si qualifichi. D’altro canto, occorre dire che, se per un verso il nuovo risulta inquietante, ciò che è dato per scontato, per acquisito, per inerte è quanto di più angosciante e soffocante possa esistere. L’angoscia viene proprio da questa strettoia a cui ciascuno si condanna, se rifiuta la ricerca, l’indagine, se rifiuta il folle volo, se si mette al riparo cacciandosi in un habitat angusto. E’ lì che avverte l’angustia, l’angoscia, perché viene meno la novità. La noia lo dimostra, e non c’è insegnante che non abbia modo di confrontarsi con la questione della noia in classe, durante le ore di lezioni. La noia è un fantasma da ascoltare, qualcosa che dice che nel dispositivo in atto c’è qualcosa che non va in direzione dell’ascolto.
Quindi, prima di tutto, bisogna non presumere di sapere già. E’ cosa difficilissima. E’ l’appello che, per esempio, rivolge San Agostino al lettore, nel primo capitolo della Trinità, quando lo esorta a leggere il frutto della sua penna, senza aderire alla ragione dominante, alla ragione degli “scienziati del discorso”, cioè gli esperti dei luoghi comuni, dei pregiudizi vigenti. E’ l’appello che rivolge anche Leonardo da Vinci quando disputa contro quelli che chiamava gli umanisti dell’epoca, cioè gli assertori del senso comune.
In ciascun caso, la novità viene non cedendo alla tentazione sostanzialista di accogliere la cosa più facile, la cosa più comune, il senso più comune. Nel caso di Leonardo che si definiva “homo senza litterae” non intellettuale, secondo i criteri dell’epoca, perché non conosceva il latino, l’aderire al pregiudizio dell’epoca avrebbe comportato che non sarebbe sorta la prosa moderna, non sarebbe sorto il romanzo moderno, non sarebbe sorta la scrittura dell’esperienza, che è ciò che qualifica la scrittura di Leonardo da Vinci. Non già scrittura dell’accademia, la sua, come scrittura del discorso vigente, ma scrittura dell’esperienza; scrittura che viene dal processo di qualificazione delle cose. E’ essenziale questo per Leonardo da Vinci; è essenziale anche per noi, che possiamo leggere, quindi, la sua scrittura.
Ora, leggiamo il titolo di questo corso: La qualità dell’ascolto nella comunicazione. Qualità, ascolto, comunicazione: tre termini che occorre considerare non già qualificati, non già noti, non appartenenti al nostro sapere. Ciascuno di questi termini esige di venire qualificato. Ed è questo che vuol dire il titolo, che ciascuna cosa non va da sé.
La comunicazione nasce dal fatto che niente va da sé e ciascuna cosa esige di qualificarsi. Non c’è parola che esista in quanto tale. Se esistesse la parola in quanto tale, allora potremmo comunicare telepaticamente; non avremmo nemmeno bisogno di parlare. Noi parliamo, ciascuno parla per questa esigenza di comunicazione, che c’è proprio perché la parola non è in quanto tale, ma diviene quale. Ed è per questa esigenza di comunicazione che ciascuno parla, perché questa esigenza trovi accoglimento, trovi ascolto, in modo da lasciare avvenire la qualificazione, senza impedirla.
In particolare, che cosa ciascuno ascolta di ciò che ode? Non dipende dalle parole dette, ma dalla lettura che di queste parole viene fatta da ciascuno. Quel che vado dicendo, sicuramente, viene letto e ascoltato da ciascuno in modo differente, perché ciascuno fa una lettura di ciò che ode, una lettura che risente di tante cose: di formazioni differenti, di idee differenti, di disponibilità differenti ad ascoltare, di informazioni differenti. Questo è fondamentale per la struttura della comunicazione, per intendere come avviene la comunicazione, cosa viene comunicato.
Come avviene la lettura di quel che si dice? E di che cosa si avvale?
Questo riguarda lo statuto e la formazione dell’insegnante. Perché occorre pur chiedersi se all’insegnante spetti tramandare modelli di riferimento noti, e quindi farsi portavoce di un pensiero vigente, o se oltre a questo non si tratti di fare sì che ciascuno approdi alla sua ricerca, e, lungo la sua ricerca approdi a un’invenzione che può risultare differente, quindi a un altro modo di pensare, di dire.
Questo è l’aspetto più impegnativo, più difficile perché richiede quell’umiltà di cui parlavo prima e una tolleranza infinita, cioè la tolleranza di accogliere anche ciò che risulta sgradevole o in contrasto con le nostre opinioni.
Le implicazioni sono di estrema rilevanza, perché, spesso accade, invece, che a quel che risulta difforme, differente, altro, viene comminata un’etichetta di diversità, che spesso sfocia nella classificazione inerente la patologia. Anziché cogliere la differenza, anziché intendere il modo con cui qualcosa si staglia differentemente, un certo modo tecnologico di applicazione della conoscenza, che cosa fa? Etichetta, discrimina; etichetta e discrimina ciò che sta, diciamo così, nella norma e ciò che, invece, resta al di fuori. Non importa, in quel caso, il modo della differenza. Importa la quantità di “diversità”, cioè importa se questa differenza è tollerabile o no, se disturba o no, quanto disturba, e se disturba più di un tot, allora viene stabilito che non va bene. Voi sapete benissimo, che anche nella scuola, si è posto e si pone il problema: una volta c’erano le classi differenziali, adesso ci sono gli insegnanti di sostegno, ma, comunque, anche senza giungere a casi limite, ci sono ragazzi “difficili”, i cosiddetti disadattati, o altro, che sempre più negli ultimi anni vengono affidati agli “esperti”; l’insegnante, sempre più, delega all’“esperto” di prendersi cura di questi ‘casi limite’ della differenza, e sempre più, questo “esperto”, è un’esperto in classificazione, per dire di quale disturbo si tratti, più che indicare in quale direzione andare. Per dire di quale entità nosografica si possa trattare, per classificare, non già per intendere quale procedura sia in corso. Classificare, etichettare , questo è il modo facile. E’ il modo facile di fare. E’ il modo che espelle la parola a favore di una classificazione dei comportamenti.
Su questo torneremo, perché tutto ciò che è sorto sotto l’insegna del comportamentismo, è un modo di espulsione della parola, della sua logica, della comunicazione stessa, dell’ascolto, dello sforzo che la parola esige per intendere.
Ciascun insegnante si trova davanti a decisioni nella sua pratica, ciascun giorno: se essere un buon ‘passa parola’ del libro di testo o del programma ministeriale, quindi, se costituire una fonte di trasmissione neutrale di dati, o se invece considerare la questione di una sua formazione per collocarsi in una posizione particolare come interlocutore, come paradigma, come esempio, come provocatore intellettuale nei confronti del bambino, dell’alunno, del ragazzo, nella sua crescita: quindi in una esigenza di ascolto, nell’esigenza di cogliere anche le sfumature e di dare indicazioni, che sono molto particolari caso per caso e che richiedono anche una formazione particolare; richiedono di accorgersi di che cosa si tratta nella parola, in quel caso, per non dover solo discriminare tra bene e male. Anche se è una questione importante, la discriminazione tra bene e male, che vedremo poi, in dettaglio.
La funzione di interlocutore dell’insegnante segue una decisione, che riguarda ciascuno e che comporta che la scuola non sia il luogo del senso comune, del pettegolezzo, della superstizione, della creazione o del mantenimento del pregiudizio. Perché questo avvenga, per ciascuno, è richiesta una formazione che consenta l’attraversamento di quel che si pone come luogo comune, come fantasticheria, come mitologia, come cosa facile; che consenta, quindi, all’insegnante di trovarsi nella tranquillità e nella serenità. Tranquillità e serenità intellettuali che, in prima istanza, esigono che si trovi come ricercatore egli stesso, come indagatore nella parola, altrimenti è impossibile accorgersi di cosa accade intorno a noi. Diceva, in un interessante articolo Jean Oury, psichiatra e psicanalista francese, in un articolo in cui si occupava dell’affaticamento nella scuola, che, quando si crea un sintomo nella classe, è perché sfugge all’insegnante ciò che sta accadendo, e bisogna domandarsi che cosa sta accadendo, in termini di collettivo. Non in termini di gruppo o di “insieme naturale”, ma come collettivo, cioè come dispositivo che, in quel momento, esiste e funziona artificialmente, in un funzionamento, in un’identificazione, in una varietà di ruoli e di funzioni, che, se non sono calcolate e indagate, finiscono per far sì che non si capisca cosa accade e che, quindi, la disciplina debba essere poi ripristinata con l’autoritarismo anziché con l’intervento. Tutto ciò non è secondario al funzionamento della scuola, dell’insegnamento, del modo con cui avviene.
Dunque, perché vi sia ascolto di quel che veramente si dice in una parola, in una frase, in una domanda, bisogna tener conto, dicevo, che la parola non è tale, ma che, dicendosi, diviene quale, si espone alla procedura di qualificazione. Quindi, qual è lo sforzo? Che ciascuna cosa giunga alle nostre orecchie come qualcosa di nuovo. Non sappiamo già cosa abbia voluto dire Tizio o Caio. Non sappiamo. Quante volte, rispetto a una richiesta, a una domanda diciamo: “ah, sì, so benissimo cosa vuoi, so benissimo cosa stai chiedendo” – questa è la via facile, secondo cui, cioè, non ho nemmeno bisogno di pensare, di fare lo sforzo di interrogare. So benissimo! Questo “so benissimo” equivale sempre a una chiusura, alla sordità. E’ la tentazione più facile per chiudere ogni questione: sapere già, sapere benissimo di cosa si tratta. Ammettiamo invece che non sappiamo, che non sappiamo già, e ammettiamo che la parola, dicendosi, tende a qualificarsi , che non è già qualificata. Tende a questa qualifica. Cosa vuol dire questo? Che la parola, nel parlare, è presa in un funzionamento, funziona, e, funzionando, approda alla sua cifra, alla sua qualità. Ecco, questo è un aspetto di ciò che nella scienza della parola chiamiamo transfert della parola, cioè l’itinerario della parola verso la sua qualifica.
In realtà, che la parola funzioni e non esista in quanto tale, è constatabile per ciascuno, nel senso che ciascuno parlando, avverte gli effetti di senso, di sapere, di verità che si producono parlando. Più o meno. Ciascuno parlando incontra la metafora, la metonimia, la catacresi; ciascuno parlando incontra l’equivoco, la differenza, il malinteso, così come l’umorismo, il motto di spirito e il riso. Tutto ciò fa parte del funzionamento della parola. In che misura noi accordiamo a questo funzionamento l’ascolto? Questa misura è essenziale, perché questa misura è indice della mente e della sua non chiusura in mentalità. La mente, mens, mensura, misura: sono termini che indicano il funzionamento delle cose. La mentalità invece, indicherebbe come devono essere, come devono rimanere, senza funzionamento particolare.
Diceva Parmenide, mi pare, che l’uomo è la misura di tutte le cose. Si può leggere differentemente questo motto, intendendo che c’è questa misura nelle cose con cui si deve fare i conti: questa misura, questa mens, questo funzionamento. Invece, s’instaura la mentalità quando rigettiamo l’eventualità di un funzionamento, per aderire a una fissità delle cose, a qualcosa che deve rimanere tale.
La mens è questo funzionamento, il transfert della parola, non dominabile, non controllabile, non dipendente dalla volontà e dall’intenzione. E’ da ascoltare, da intendere, da elaborare, magari da articolare, da svolgere in un dispositivo, che quindi occorre sia dispositivo d’indagine, di ricerca, d’interlocuzione.
Non è dominabile, eppure è integrante quanto alla comunicazione. Ma perché, può chiedere qualcuno, non è dominabile, non è padroneggiabile, non è controllabile e, quindi, non è applicabile a piacimento? Perché la parola funziona secondo la logica singolare triale. Cosa vuol dire singolare triale? Singolare, in quanto logica funzionale, cioè particolare al funzionamento; triale, in quanto ci sono tre funzioni, che già Freud aveva approssimativamente indicato: la funzione di rimozione o nome, la funzione di resistenza o significante, la funzione vuota, o dimenticanza, o funzione di Altro, con la “a” grande. Tre funzioni che funzionano simultaneamente parlando: rimozione, resistenza, dimenticanza; nome, significante, Altro. Per questo, la parola risulta in quanto segno (non segno di qualcosa, ma segno), tripartita in nome, significante e Altro. In questa tripartizione della parola sta la sua incontrollabilità.
Domanda dal pubblico: “Può fare un esempio di parola come rimozione, come significante e come Altro?”.
R. C. Ha presente un lapsus? Lei vuole dire una parola e ne dice un’altra. Ecco, il lapsus è indice di questa assenza di controllo sulla parola, cioè, va così: c’è un senso che lei vorrebbe dire, si produce un altro senso. Poi, quale sia il senso effettivo del lapsus è ulteriormente da indagare, poiché non è che un lapsus voglia dire il contrario di quello che si voleva dire, oppure ciò che sembra evidente, ma è un indice della rimozione, del controsenso in cui la parola risulta presa. Un altro modo è lo spostamento: se io dico “Sei bella come una rosa”, qui c’è una metafora. Può accadere, invece, che tizio parli con una ragazza e dice : “ah, che bella pianta!”, anziché dire alla ragazza che è bella, dice: “Ah, che bella pianta, che bella via, che bella giornata”, cioè sposta dalla ragazza a un’altra cosa, il suo giudizio. Questo è indice della resistenza, cioè della differenza. Si tratta sempre di una bella cosa, ma c’è uno spostamento. E’ qualcosa che Freud aveva ampiamente indagato quanto al sogno, ma ciò che poi è stato recepito di questo è che solo sognando, cioè dormendo, avvengano questi processi. Quando Freud parla di lavoro onirico, parla esattamente del lavoro della parola: lavoro della rimozione, della resistenza e della dimenticanza. Il sogno è un aspetto del funzionamento di quel che si dice; proprio parlando c’è sogno, c’è l’onirico, che è dato dal funzionamento della parola, dal transfert della parola. Dunque, parlando c’è metafora, metonimia, catacresi, cioè abuso linguistico, qualcosa che sfugge alla controllabilità. Kata to Creon: qualcosa si dice secondo l’occorrenza. Catacresi: abuso, abuso linguistico, quindi, insoggettivo. Adesso, forse, può risultare meno difficile intendere perché la parola non sia padroneggiabile. Eppure, il controllo sulla parola, la padroneggiabilità della parola sono stati sempre la preoccupazione principale del discorso occidentale. Tutta la filosofia greca, e non solo, fino ai giorni nostri, va nella direzione di dimostrare che è possibile il controllo sulla parola. E’ per questo che, anziché alla parola, il discorso occidentale ha posto l’attenzione al discorso, perché, il discorso, in quanto sottoposto all’episteme, sottoposto alla gnosi, alla conoscenza ritenuta possibile delle sue cause, in quanto già codificate, risulterebbe dominabile.
Risulterebbe dominabile, cioè applicabile, come discorso corretto, discorso giusto, ideologia giusta, comportamento giusto, perché ci sarebbero i canoni che verrebbero dall’applicazione della conoscenza. Questo è il discorso dominante, che si fa in assenza di libertà di parola. Ma non si tratta della parola e della sua scienza, si tratta del discorso. E c’è una bella differenza, perché non si tratta più di comunicazione, si tratta delle ideologie. Proprio del contrario, si tratta, cioè dell’assenza di comunicazione. E’ un bel fraintendimento. Però, è proprio questo che è avvenuto nel discorso occidentale: questa coltivazione, diciamo così, di una scienza del discorso, rigettando sempre, ciò che emergeva come scienza della parola.
Quindi, tenendo conto di quanto dicevo prima a proposito della rimozione, della resistenza e della dimenticanza, o funzione di Altro, esiste una struttura della parola che è data dalla sintassi, dalla frase e dal pragma. Sintassi, come struttura della rimozione; frase, come struttura della resistenza; pragma, come struttura dell’Altro.
Domanda: “Che cos’è la sintassi?”.
Sintassi, frase, pragma. Dove la Sintassi è data dalla funzione del nome preso nella funzione, adiacente a un altro significante; la Frase è data dalla funzione del significante preso nella funzione, adiacente a un nome non preso nella funzione. Adesso vi sembra difficile, perché probabilmente, è la prima volta che vi imbattete in questa formalizzazione. Eppure è ciò in cui v’imbattete in ciascun momento, parlando, solo che non è formalizzato. E’ qualcosa che è considerato naturale, parlando e che non è stato formalizzato in termini scientifici. Ecco, ma era solo per dire, che questo funzionamento indica anche una struttura; ed è per questo che la parola tende a qualificarsi, perché non è un monolito, non è qualcosa di totale, anzi è qualcosa che si precisa, diviene, per integrazione. In questo senso, la parola, è parola cattolica, perché avviene secondo l’integrazione dei suoi componenti. In nessun caso la parola manca di qualcosa. Anche quando un enunciato vi sembra assolutamente difforme da ogni idea accettabile, ebbene non manca di nulla, non è patologizzabile. E’ l’indice di un’altro percorso, di un’altra integrazione, di altre logiche, di altri modi. Che ci sono! Sono lì! Perché la parola avviene per integrazione, secondo l’integrazione delle sue logiche e dei suoi componenti. Questo è importante e, ancora, forse, è difficile. Ma è importante introdurre questi termini, per la comunicazione, altrimenti noi restiamo sempre al grado minimo della comunicazione, cioè quasi in assenza di comunicazione. Restiamo nei convenevoli.
E’ molto differente fare convenevoli dal comunicare. In un caso c’è la generosità, comunicando; nell’altro caso c’è l’indifferenza. Ciascuno sta com’era prima, tranquillo e beato, anzi angosciato, senza quella generosità intellettuale che comporta la comunicazione. Ora, questo accenno che ho fatto alla struttura, era per indicare, come sia importante un dispositivo in cui avviare l’ascolto e la comunicazione, e è importante altresì intendere che la comunicazione non avviene “naturalmente”, ma esige un dispositivo, che è dispositivo di ascolto e di comunicazione, dispositivo intellettuale e artificiale.
Dunque, anche maestro-allievo è un dispositivo: occorre che funzioni come dispositivo della comunicazione e non già come coppia oppositiva. Il più delle volte, anche questo trova le sue radici nella civiltà occidentale, maestro e allievo vengono considerati i due componenti di una coppia, i due protagonisti del dialogo. La coppia maestro e allievo sorge sul raddoppiamento della coppia padre-figlio, per esempio, medico-paziente, schiavo-padrone, dove il modello è quello della rivoluzione circolare, per cui ciò che sta in basso, poi, starà in alto, e viceversa; cioè dove il modello è quello di diventare l’altro: l’allievo deve poi diventare il maestro o addirittura superare il maestro, il figlio deve diventare il padre o addirittura superare il padre, lo schiavo deve affrancarsi per diventare padrone. Questo sarebbe il segno della realizzazione del processo di realizzazione del cerchio. Ecco, tutto ciò non comporta comunicazione, ma eventualmente, comporta tutta una serie di fantasticherie che, se non sono elaborate, articolate, svolte, sfociano nella psicopatologia.
Ciò che oggi si chiama psicopatologia è la serie delle rappresentazioni della varietà di queste coppie, di questi accoppiamenti, di come fare per diventare l’altro; dove può avvenire ora una accentuazione dell’impossibilità, ora un’accentuazione della difficoltà, ora un’accentuazione della capacità e, abbiamo tutta la gamma delle rappresentazioni di ciò che si chiama ossessione, fobia, depressione, euforia, disforia, falloforia, che altro non sono se non rappresentazioni della realizzazione o della impossibile realizzazione di questa presunta coppia. La psicopatologia si fa di questo.
Se leggete il libro di Freud, La psicopatologia della vita quotidiana, trovate esempi del quotidiano, esempi di realizzazione di fantasie di appartenenza, di genealogia, di inclusione, di esclusione, che fanno sì che si formi un personaggio a cui Tizio, a un certo punto, ritiene di dover restare fedele; un personaggio che è il personaggio incapace, il personaggio malato, il personaggio debole, il personaggio euforico, e così via, in una gamma infinita che, se trova l’accettazione, se trova la conferma, si fissa. Trovate qui la spiegazione del perché, oggi, l’industria più fiorente è l’industria psicofarmacologica. Per questo. Perché tutto ciò, oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, viene trattato a psicofarmaci, perché non c’è, fuori dalla cifrematica, chi dedichi ascolto a queste istanze, facendo sì che giunga a elaborazione ciò che viene annunciato come impossibile, come insopportabile, come disagevole.
Eppure l’insegnante ha l’opportunità di trovarsi nell’occasione d’istituire un dispositivo in questa direzione, perché la classe si costituisca come dispositivo, in cui qualcosa che accade non venga né criminalizzato, né patologizzato, ma accolto, indagato e svolto. Certo, non è la cosa facile, ma non siamo qui per parlare delle cose facili. E’ ciò che nella scuola potrebbe avvenire, talvolta avviene, il più spesso non avviene, per una adesione al pregiudizio, a una ideologia, a uno sbarramento intellettuale. Non perché ciascuno non abbia i mezzi intellettuali per arrivare a questo, ma perché se li preclude aderendo a una certa mitologia, a una certa impostazione.
C’è un libro molto interessante di Massimo Venuti, ricercatore di teoretica, docente di estetica al conservatorio di Piacenza, che si intitola La retorica del logos , in cui esplora la logica del discorso occidentale e dice che, insomma, fino a 14-15 anni noi, per forza di cose, siamo tutti aristotelici, perché l’orientamento dell’educazione, che abbiamo ricevuto è conforme alla logica aristotelica, al primato del logos di cui vi parlavo prima. Occorre cominciare a incidere su questa uniformità di educazione, accorgendoci che non esiste solo la scienza del discorso, ma esiste la scienza della parola.
Che cosa comporta, per esempio, accogliere la scienza della parola, cioè, la parola? Comporta la messa in discussione dell’algebra del discorso. Come? Quali sono le operazioni dell’algebra? La somma, che può essere positiva o negativa e la divisione.
L’algebra applicata al discorso è assolutamente responsabile della fatica. La questione dell’affaticamento è il prodotto di un’operazione algebrica, cioè di una somma, di una somma senza integrazione, dove qualcosa che avviene viene immediatamente ricondotta all’unità ideale che deve rappresentare, per sommazione. La risultante è un peso. E non c’è modo della variazione e della differenza, perché il risultato dell’algebra deve essere sempre un’equazione, dove il polinomio del primo membro deve essere uguale a zero. Comunque, tutto ciò che accade è trattato come una somma. E la divisione è sempre divisione dell’uno che si divide in due. Il motto su cui si basa la procedura della parola è propriamente antitetico a quello dell’algebra.
Secondo l’algebra, le cose procedono dall’unità e all’unità debbono ritornare; invece nella parola le cose procedono dal due e si rivolgono alla qualità, non debbono sempre dare come somma il risultato noto. E’ questa la differenza. Con l’algebra, noi abbiamo una prescrizione al risultato conosciuto, quindi abbiamo una prescrizione alla conoscenza; con la parola, noi “non sappiamo”. Non sappiamo dove la parola si rivolga, perché procede dal due e si rivolge alla qualità. Quindi c’è un processo di qualifica da fare e non sappiamo già dove sta l’approdo. Questa è la sovversione che la parola comporta rispetto al discorso occidentale. Per questo, il discorso occidentale ha cercato di lasciare fuori la parola, perché metterebbe in questione il primato dell’algebra, il primato della conoscenza, il primato della gnosi. E’ per questo primato, in difesa di questo primato che noi troviamo nella scienza del discorso il soggetto, il soggettivismo.
Che cos’è il soggetto? Ciò che “sta sotto”, l’upokeimenon, ciò che sta sotto alle cose per governarle. Il soggetto è un altro modo di chiamare la sostanza, sub-stantiam, ciò che sta sotto la parola. Il discorso occidentale si muove tra ciò che sta sotto, la sostanza, il soggetto, e ciò che sta sopra, la superstizione. Ma della stanza, cioè della parola non se ne occupa mai. Si occupa del soggetto e della sostanza, della sostanza che sta sotto o della sostanza che sta sopra, cioè la superstizione, e, sempre, il soggetto dovrebbe rappresentare questa possibilità di governo del discorso. Chiaramente, con la parola, data la sua struttura, data la logica, questa ipostasi non c’è più. Questa pregiudiziale non c’è più.
Ciascuna volta è da intendere di cosa si tratti, quale sia la questione. Su questo, sulla paura di ciò che potrebbe venire ammettendo la parola e la sua scienza, sono nate le discipline che sorgono sul mantenimento dell’ipostasi, cioè del soggetto come ipostasi. Ora, lo statuto di interlocutore esige invece di non prefigurare l’ipostasi, di non partire da un’ipostasi, ma di ascoltare ciò che si dice, ciò che si comunica, quindi, intendendo come accade. Ecco, ci sarebbero ancora varie altre cose, ma ritengo che sia il caso anche di verificare se ci sono notazioni, domande, questioni da parte di ciascuno di voi. Quindi mi fermo qui, per il momento, per valutare se ci siano ulteriori precisazioni da fare, in merito a quanto detto sin qui.
Domanda A: La conferenza tenuta da lei è molto estesa, molte sono le provocazioni. Notavo questa insistenza all’ascolto che interveniva insistentemente nel suo discorso. Volevo chiederle questo: come ci si può mettere o disporre meglio in questo ascolto? L’ascolto non è certo l’udire, ma presuppone, a mio avviso, una certa formazione dove tener conto soprattutto dell’inconscio, perché, come diceva lei prima, degli atti mancati, dei lapsus…, di tutti questi interventi da parte dell’inconscio, bisogna tener conto. Come, allora, ascoltarlo?
B: Che cosa intende per angoscia? Lei parla di angoscia, di persona angosciata, quando una persona preferisce mettersi nella posizione di chi trasmette e quindi chiude la comunicazione e si rifugia in una situazione di sicurezza e di fine, in un certo senso. Non capisco il senso dell’angoscia in questa situazione. Mi sembra più un senso di tranquillità, troverei più angosciante aprire la comunicazione e mettersi di fronte al non definito.
R.C. Apparentemente tranquillizzante
B : Ho capito che ci deve essere qualcosa da definire, da chiarire.
R.C. Vediamo se ci sono altri, così magari alcune cose possono venir riprese accanto ad altre.
Intanto partiamo da qui. Come lei ha ben colto, la questione della parola pone la questione dell’inconscio, ma in che termini? Nei termini della logica particolare. C’è inconscio in quanto c’è logica particolare. Anche intorno all’inconscio è fiorita una mitologia che contrappone l’inconscio alla coscienza. Una coppia anche lì, una coppia di contrari: inconscio e coscienza. Occorrerebbe, secondo questa mitologia, che l’inconscio diventasse cosciente. Questa è la riconduzione gnostica che fa sempre riferimento a un’idea dell’inconscio come qualcosa da governare, da padroneggiare.
Se noi cogliamo la questione dell’inconscio come idioma, cioè come la particolarità, secondo cui parlando, qualcosa si dice, non abbiamo più da ricondurlo a nessuna coppia, a nessun accoppiamento. L’inconscio è il parlare, il parlare secondo la logica particolare a ciascuno. Questa logica non è già conosciuta. Questa logica non è la logica predicativa, non è la scienza del discorso. Chiaramente, questa logica è da indagare. Certo, lei dice, questo comporta una formazione particolare. Prima della formazione specifica, tuttavia, occorre un’ammissione, diciamo così, un accoglimento; l’accoglimento dell’esistenza di questa particolarità che, finora, c’è stata in misura ridottissima, da parte, diciamo così, dei vari apparati disciplinari, delle varie discipline che, proponendo un sapere da tramandare, va da sé, negano la particolarità. Se si tratta di tramandare un sapere che dev’essere quello stabilito, questa modalità di trasmissione della conoscenza, la stessa idea e nozione di conoscenza negano la particolarità; perché la particolarità è tale in quanto è in atto ciascuna volta.
La questione della particolarità mette assolutamente in questione e in discussione ogni disciplina. Ecco perché, dove sorgono le discipline, c’è l’esaltazione della coscienza, proprio l’apoteosi della coscienza: tutto deve diventare cosciente, tutto deve diventare consapevole, tutti devono giungere alla consapevolezza. Consapevolezza di che? Di cio che tutti siamo! E, cosa siamo? Prima di tutto, non siamo tutti. Questa idea della coscienza, questa nozione della coscienza è un invito all’accorpamento, alla generalizzazione, alla standardizzazione, all’uomo medio, al bambino medio, al comportamento medio, alla mediazione, a scapito della particolarità, a scapito dell’idioma.
La questione dell’inconscio è importante, ma non è necessario mitologizzarla; l’inconscio è in quel che si dice, in quanto idioma. E’ l’idioma, cioè la particolarità, la logica particolare a ciascuno. Il primo passo è ammettere che c’è. Già questo è un passo notevolissimo, perché, dove viene proposto il primato della coscienza, la particolarità è negata. Anche se venisse detto che non è vero, è così logicamente. D’altronde non c’è pubblicistica, leggendo giornali, riviste, dove non avvenga questo invito a “prendere coscienza”. Prendere coscienza cioè costituirsi come scienza comune, come comunità. Badate bene: dall’esortazione al prendere coscienza, alla prescrizione di essere “massa” corre pochissima differenza, perché l’invito, ma, più che l’invito, la prescrizione al prendere coscienza è la prescrizione all’essere inerte. Può essere presa coscienza, cioè può esservi conoscenza comune solo di ciò che è fermo, stabile. Non può esservi conoscenza di ciò che è in divenire, di ciò che in movimento, di ciò che è in un processo. Allora, l’invito alla consapevolezza va indagato; in certo qual modo, va in direzione opposta alla comunicazione. Questa coscienza dovrebbe garantire in fin dei conti che cosa?
B: La comunicazione diretta, quasi.
R. C. Sì, da cervello a cervello, senza neanche bisogno di parlare. Per potere concludere che la pensiamo tutti allo stesso modo, che facciamo tutti le stesse cose, che parliamo tutti la stessa lingua. Che non c’è idioma: ecco l’angoscia. Questo, che potrebbe sembrare molto rassicurante, è la massima rappresentazione dell’economia e l’angoscia viene proprio da lì. Dove la pulsione, il dispendio, viene impedito, lì c’è l’angoscia. Dove avviene la rappresentazione del godimento nell’inerzia, nella stabilità, lì c’è l’angoscia. E’ un paradosso, praticamente, è una modalità paradossale, perché, per esempio, in quella che Freud chiamava la “nevrosi ossessiva”, il pericolo maggiore sarebbe quello dell’instabilità dell’io, cioè di un mancato controllo. Ebbene, proprio dove il controllo sembra realizzarsi, dove sembrerebbe realizzarsi una stabilità dell’io, lì c’è l’angoscia. Questo è la clinica che ce lo segnala, in modo molto preciso. D’altronde, non è una cosa che segue la volontà, un’intenzione; non posso, come dire, governare l’angoscia. Ma proprio questo è l’aspetto più interessante: dove funziona al massimo l’ideologia soggettivistica del controllo sulla pulsione, sulle idee, sull’intenzione, a fare lo scacco di questa padronanza, apparentemente riuscita è l’inconscio, perché mantiene aperto un varco rispetto alla possibile chiusura del cerchio.
D: Per me la comunicazione è una cosa molto importante. Lei parlava della coppia insegnante-alunno, oppure genitore-figlio e lo rappresentava con questo cerchio. Praticamente, si chiude e si rovescia nello stesso tempo. La comunicazione in termini di rapporto, esiste,quando diceva che ogni insegnante ha la chance di questo? Io la coppia la vedo diversa dal rapporto o è la stessa cosa?
R.C. Diversa da?
D: La coppia, da un rapporto insegnante-alunno, oppure genitore-figlio, perché c’è la possibilità di un’integrazione.
R.C. Lei quindi la intende non come coppia.
D: Se io miro alla comunicazione, attraverso il rapporto posso arrivare a questo, cioè io mantengo la mia identità e l’alunno la sua, ma nello stesso tempo c’è uno scambio, c’è una comunicazione; se lui parla, io l’ascolto; se io parlo, lui ascolta.
R.C. Lei intende per rapporto, lo scambio. Lei dice rapporto, ma intende lo scambio.
D: Ma nel senso che io, genitore a contatto con il figlio, ho qualcosa da comunicare al figlio, ma il figlio, nello stesso tempo, ha qualcosa da comunicare a me. E lo stesso è insegnante-alunno. C’è anche un rapporto oltre che…
R.C. C’è scambio. Molto spesso, viene chiamato rapporto qualcosa che rapporto non è, perché il rapporto vorrebbe indicare qualcosa di stabile. E’ una frazione il rapporto, è una divisione algebrica. Sulla nozione di rapporto, si mantiene anche la genealogia, ogni idea di appartenenza. In fin dei conti, anche la coppia, in qualche modo, si sostiene su questa idea del rapporto, perché ha sempre a che fare con l’idea dell’unità.
Per esempio: nella coppia, si dice, siamo in due, ma facciamo coppia, cioè facciamo unità. L’idea è sempre quella, che tanto più siamo coppia tanto più saremo armonici, per poi constatare che è il contrario: che tanto più funziona l’ideale di coppia tanto più viene evidenziata la disarmonia, cioè la distanza rispetto a questo ideale, l’irrealizzabilità, potremmo dire, di questo ideale armonico; perché, c’è nella questione della coppia, (e questo vedremo la prossima volta di esplorarlo in modo più ampio) la rappresentazione di quel due di cui dicevo prima: le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. Ma non per fare uno. Invece, in termini di discorso, due cose devono sempre venir ricondotte a un’ipotetica unità da cui discendono. E non è così, nella parola.
Quindi, paradossalmente, quanto meno rapporto, quanto meno coppia esiste tra due, tanto più scambio! e quindi tanto più comunicazione, tanto più qualcosa funziona. L’ideale massimo della coppia è l’immobilità, è l’uno immobile, estremizzando la cosa. E’ su questo che occorre riflettere.
La questione dell’idioma è qualcosa che va in direzione dello scambio. La questione della coppia andrebbe in direzione dell’assenza dello scambio, perché ci dovrebbe essere qualcosa che si soddisfa lì, senza che niente accada. Questo è qualcosa che, quanto alla comunicazione, è proprio basilare. Voglio dire, non è che si tratti di dissolvere le coppie. Non si tratta di dissolvere le coppie, perché non esistono, in realtà. Non è che due che vivono insieme, che sono sposati, ecc., fanno coppia, però c’è una pubblicità, una pubblicistica, c’è una prescrizione ideologica a pensare questo che è sintomatica, e che è l’occasione tuttavia per indagare propriamente la questione che pone, come logica della parola. Come logica, come procedura e, poi, come aspetto pratico.
Tutto ciò non è teoretico, cioè privo di applicazione. Tutto ciò ha dei riscontri molto pratici nella vita che ciascuno vive giorno per giorno, nelle cose che dice, che fa, nei progetti. Nel modo con cui questi progetti si concludono, giungono alla soddisfazione, oppure no.