- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA SCUOLA E IL PROGETTO DI VITA
- Insegnamento e trasmissione
- Disegno, progetto e programma
- Perché bisogna vivere
- Gioco e lavoro
- L’educazione alla qualità
- L’audacia, la decisione, la soddisfazione
- La battaglia, l’impresa, la riuscita
Insegnamento e trasmissione. L’infinito della parola
Ruggero Chinaglia La cosa migliore che auspico possa avvenire è che questo corso rappresenti soprattutto un’esperienza di parola, d’interlocuzione, di ascolto e un’occasione di un altro svolgimento e di un altro sapere rispetto a ciò che ognuno sa già, o presume di sapere già.
Il pericolo maggiore, per ciascuno, ma per l’insegnante in particolare è quello di presumere di sapere già, di avere già un sapere da distribuire e, quindi, di non ascoltare le istanze che gli vengono poste. Ciascuno, studente o allievo, anche piccolissimo, ha un’esigenza di ascolto e di interlocuzione specifica per ciò che ciascuna istanza pone e quindi, anche, propone.
Viviamo attualmente in un’era di grande trasformazione, di grandi rivolgimenti, di trasformazioni che possono risultare interessanti a condizione che si svolgano sul terreno della parola, cioè secondo la logica e la struttura della parola, secondo quell’apertura che sta nella parola, a partire da cui ciascuna cosa si rivolge alla sua qualità. La logica e la struttura della parola indicano questa procedura: che le cose procedono dall’apertura, dalla diade e si rivolgono verso la qualità.
Qual è la qualità? La qualità non è già data; quale sia il destino di ciascuna cosa non è già scritto, non è già dato. Le cose si rivolgono verso la qualità, c’è questa tendenza, questa tensione delle cose verso la qualità, cioè verso il qualis, verso lo specifico, verso la qualifica. Non c’è cosa, non c’è parola che esista in quanto tale, ma lungo il suo itinerario ciascuna cosa punta a qualificarsi, esige la qualificazione. Come fare perché questa procedura di qualificazione non venga impedita, non venga ostacolata, non venga interrotta, anzi, venga promossa incessantemente da chi occupa quella funzione di provocazione intellettuale che l’insegnante dovrebbe occupare?
Emergeva alcuni giorni fa in un dibattito, lungo un altro corso che è terminato mercoledì, che attorno alla questione dell’insegnante, intorno al ruolo, alla funzione e allo statuto dell’insegnante c’è da parte degli insegnanti stessi molta rassegnazione: la rassegnazione, diceva qualcuno, di occupare un posto e un ruolo marginali nel dispositivo sociale rispetto all’importanza che viene riconosciuta a altri statuti, altre funzioni, altre professioni. Questo, pur venendo indicato e rilevato, portava quasi a una certa rassegnazione che si traduce poi, di fatto, (le notizie sui giornali sono queste), in ingenti quantità di insegnanti, che chiedono la pensione anticipatamente e che vanno in prepensionamento, rivolgendosi quindi altrove, rispetto a ciò che stanno facendo, per trovare soddisfazione, per trovare qualcosa che li qualifichi in modo interessante e in modo soddisfacente rispetto al vivere.
Allora, probabilmente, c’è qualcosa nel modo in cui viene intesa la scuola che è da elaborare ulteriormente, che esige altre proposte, altri modi, altre forme di insegnamento, di attività, altre invenzioni, perché la scuola sia, effettivamente, la sede di attività di soddisfazione, non solo la sede prescritta per l’obbligo e la necessità dell’istruzione, perché in questo caso evidentemente, dopo un po’, viene meno la soddisfazione che può dare. Si tratta quindi della scuola come dispositivo, come occasione, come sede di dispositivi e di invenzioni rispetto alla vita. Allora, può divenire la scuola in cui c’è formazione, non solo rispetto a un sapere da apprendere, il cosiddetto bagaglio culturale, ma anche rispetto alla vita, dove incomincia a dirsi, a proporsi, a formarsi quello che è il progetto di vita per ciascuno, che non riguarda solo il “cosa farò da grande”, ma anche come ciascun caso, secondo le necessità, l’occorrenza di quel caso, può venire affrontato. Ciascun caso comporta, intanto, di venire affrontato e non di venire tralasciato. Quanto poi al modo di affrontarlo, che non va da sé, che non è già dato, questo esige un dispositivo particolare ciascuna volta. Sono molto frequenti i casi in cui quando sorge una difficoltà, quando c’è qualcosa da affrontare, quando c’è un imprevisto viene detto: “Questa cosa non mi interessa più, questa cosa è troppo difficile per me, io non sono all’altezza”, cioè sorgono varie rappresentazioni per giustificare l’astensione. Tutto ciò viene classificato in vario modo, perlopiù in termini psicopatologici, per cui, a giustificazione dei vari modi dell’astensione, dell’astinenza, è stata formulata la casistica della psicopatologia; ma questa non è da accettare in quanto tale, caso mai è da esplorare, perché indica che, nonostante il tentativo che la classificazione fa di costituire un insieme dei casi, ce n’è sempre uno in più che sfugge al catalogo, alla classificazione e ciò indica che le cose si situano nell’infinito, non in un sistema finito, in un ordine finito, in un insieme finito.
Questa è una cosa su cui vorrei soffermarmi qualche minuto, perché è assolutamente rilevante. Sulla questione dell’infinito, soprattutto sull’accoglimento dell’infinito, dell’idea, ma anche, propriamente, dell’esistenza dell’infinito, sorge la generosità intellettuale, sorge cioè l’accoglimento della parola. Per la nostra formazione, che procede dal discorso occidentale, noi non siamo propensi ad ammettere l’infinito, anzi la formazione aristotelica che ciascuno ha acquisito a scuola porta a ritenere che c’è una fine per tutti certa, che le cose hanno un inizio e una fine. Questo ha delle conseguenze in ordine al modo di pensare, di fare, di affrontare le cose, in particolare ha come conseguenza il fatalismo nelle sue varianti, dalla rassegnazione alle dimissioni, all’abdicazione, modalità che si riscontrano spessissimo nel fare. Nelle attività che comportano un collettivo è frequentissimo riscontrare come ciascuno, mettendoci del suo, cioè la sua idea di finito rispetto alle cose che bisogna fare, trova molte giustificazioni per non fare. E queste giustificazioni dove pescano? Nella rappresentazione di sé o dell’altro o delle cose, come rappresentazione finita, cioè con un inizio e una fine.
La questione è, invece, quella dell’infinito, ma non già dell’infinito spaziale o temporale, per cui le cose hanno avuto un inizio, ma poi non finiranno mai, oppure per cui prima di noi ci sono stati altri e dopo di noi verranno altri e poi altri ancora e, quindi, noi non vedremo la fine delle cose perché, se ci sarà, sarà lontanissima. Questo infinito di cui vi parlo non è un’estensione spaziale o temporale: è l’infinito attuale, cioè l’infinito che sta nell’atto di parola, l’infinito delle cose che sono in atto ora, l’infinito delle cose per cui ciascuna cosa esiste in una combinazione infinita, in una molteplicità infinita di modi, quindi di differenza e di varietà. Questo comporta l’inimmaginabile. L’infinito è inimmaginabile. Perché sorgono le varie rappresentazioni del finito? Perché l’infinito non è pensabile, chi tenta di pensare l’infinito non ci riesce, ricade sempre in una qualche rappresentazione del sacco o del cerchio, pur con estensioni molto grandi, ma sono sempre sacco e cerchio le figure in cui questo tentativo di rappresentare l’infinito incappa.
Il discorso occidentale s’imbatte in questa questione dell’infinito e dell’inimmaginabile (praticamente la stessa questione), ma non tollera l’inimmaginabile, ciò che non è in qualche modo rappresentabile, visibile; non tollera nemmeno l’immagine, che non è ciò che si vede. Occorre distinguere tra l’immagine e quel che si vede. L’immagine sta in quel che si vede, ma come ciò di cui non abbiamo coscienza. Noi non vediamo le immagini, vediamo rappresentazioni, vediamo visioni, costituite da immagini. Ma qual è l’immagine? Non lo sappiamo. Nessuno sa ciò che vede, come ricorda Ovidio nelle Metamorfosi a proposito del mito di Narciso, (lo ricordavamo a Udine qualche giorno fa).
Ovidio dice che Narciso non sa quel che vede, eppure, di ciò che vede, rimane affascinato, ma non sa che cosa lo affascini, che cosa richiami la sua attenzione, quale sia l’immagine. Lo stesso vale per le parole: di ciò che diciamo, noi non sappiamo che cosa si sta dicendo; è questa la questione dell’inconscio, dell’infinito attuale. Noi non sappiamo ciò che diciamo perché, in quel che ciascuno dice, c’è qualcosa che si dice di altro. Questo è inquietante. Da quando qualcuno se n’è accorto e ne ha scritto, qualcosa è risultato inquietante e contro questa inquietudine è sorto il pensiero occidentale, cioè un tentativo di definire, di delimitare, di porre un codice fermo, preciso, stabile, che accomuni, in modo che sia chiaro quello che ognuno dice, perché ci sia comprensione, perché non ci siano equivoci, malintesi: su questo sorgono le discipline, le dottrine. Tutto l’apparato del discorso occidentale sorge su questa presunta esigenza di ridurre il numero delle variabili per capirsi meglio. Il problema è che questo progetto non riesce; rimane un miraggio del controllo e della padronanza sulla parola, ma la parola non si lascia padroneggiare, non si lascia circoscrivere, non si lascia ridurre in convenzioni. La logica della parola esiste lo stesso, e funziona a prescindere dalle intenzioni, dalle idee, dalle fantasie di padronanza, di controllo e di dominio sulla parola stessa.
Questo ha un’importanza straordinaria anche per quanto riguarda la scuola: non è indifferente, infatti, quale sia il messaggio che muove sin dai banchi della scuola rispetto a questa idea di controllo, di padronanza, di dominio sulle cose che possiamo anche chiamare soggettivismo. Questo, poi, si traduce in svariati modi, per esempio con l’idea di dover fare da soli, di poter far da soli, di saper far da soli: “Questo lo posso fare o non lo posso fare, lo devo fare o non lo devo fare, lo so fare o non lo so fare. Se lo so fare, lo faccio; se non lo so fare, non lo faccio”. Ma come sapere se si sa fare, se non facendo? Però l’idea di padronanza, quest’idea di soggettivismo è ciò che si antepone al ‘facendo’, viene posta prima, devo sapere prima se posso fare. Il soggettivismo è la sede dove poi prospera anche il fatalismo, l’idea di predestinazione, che può essere predestinazione positiva o predestinazione negativa: “Voleva dire che questo non dovevo farlo, oppure che la tal cosa non doveva accadere. Sta scritto che io non lo devo fare, che non lo posso fare, perché…”. E i perché, poi, per sostenere questa rappresentazione di sé, in quanto inscritto in un contesto circoscritto, possono essere moltissimi. Le circoscrizioni, poi, aumentano, i limiti, le limitazioni aumentano, riguardano le cose, sé, gli altri, i pensieri, le aspirazioni, i progetti, i programmi.
Quanto più vige quest’idea di controllare le cose, di dominarle, di averne padronanza, tanto più piccole diventano le cose che si possono fare, tante meno e tanto più piccole. Tutti modi questi che contrastano quella che prima chiamavo la generosità intellettuale. La generosità intellettuale non è una caratteristica personale, una qualità personale, una dote che Tizio o Caio possono avere per nascita, proveniente dal patrimonio genetico. No. E’ un’acquisizione che segue all’instaurazione dell’infinito. Senza l’infinito attuale non c’è generosità intellettuale, è impossibile che avvenga, perché questa generosità procede dal molteplice, dall’ammissione della molteplicità, che è una virtù dell’Altro irrappresentabile.
Che vi sia molteplicità è una conseguenza dell’infinito e noi non sappiamo quante pieghe possano stare in un dettaglio. Quante pieghe? Infinite. Questa è la molteplicità, che non è il plurale. Il molteplice non è il plurale, indica l’infinita varietà e possibilità di combinazioni, di pieghe, quindi di sfumature, di risvolti; mentre il plurale è, per così dire, il raddoppiamento dell’uno. L’uno che si divide in due produce il plurale. Il pluralismo è la serie degli uni che dividendosi algebricamente, quindi raddoppiandosi, si pluralizzano. Tra il plurale e il molteplice c’è una differenza assoluta, nel senso che il plurale è il raddoppiamento dello stesso, è l’uno che si raddoppia, anche infinite volte se vogliamo, ma si raddoppia; il molteplice invece non è il raddoppiamento di qualcosa, ma qualcosa di assolutamente singolare eppure assolutamente differente. Quindi c’è una simultaneità tra singolarità e differenza, impossibile nella logica binaria.
La logica binaria, cioè la logica predicativa su cui si regge il discorso occidentale, non arriva ad ammettere, per gli stessi presupposti che la caratterizzano, questa simultaneità di singolarità e differenza che invece la parola con la sua logica pone costantemente dinanzi a noi come attuale. Sembra una contraddizione in termini dire singolare eppure differente, ma si tratta proprio di questo, di come ciascuna cosa, ciascuna parola, ciascuna immagine sia singolare eppure differente, rispetto non solo alle altre, ma anche rispetto a se stessa. Questa è la questione della logica della parola, ossia la logica della nominazione, quella che con Freud ha preso il nome di inconscio: un termine che ha evocato cose fosche, che ha evocato una sorta di antinomia con la coscienza, per cui c’è stato chi si è affrettato, allora, a esplorare i modi con cui tutto ciò che era inconscio doveva diventare cosciente, in modo che, espulso l’inconscio, ci fosse la completa padronanza. Ciò che spinge l’uomo nella sua ricerca è sempre l’obiettivo di riuscire a dire: “Finalmente sono padrone io!”, nonostante Freud notasse che l’io non è padrone in casa sua, proprio perché la parola, per la sua struttura, per la sua logica, funzionando, incontra questa molteplicità, rispetto a cui c’è solo da intendere, da ascoltare, da cogliere ciò di cui si tratta, non da stabilire prima che cosa si dice. Questa sorta di prescrizione alla coscienza è da intendere, è da esplorare.
Da dove procede, da dove parte quest’idea di dover essere assolutamente consapevoli, coscienti? “Tutti dobbiamo prendere consapevolezza, prendere coscienza di quello che stiamo dicendo, di quello che stiamo facendo, di tutto”. E cosa vuol dire? Che nulla più ci deve sorprendere? Che non c’è più imprevisto? Che non c’è più sorpresa? Che non c’è più invenzione? Prendere coscienza, come dire: “Tutto è già saputo. Tutto è già noto”. E’ impossibile! Assurdo! Tra l’altro, assolutamente intollerabile. Sarebbe proprio la realizzazione della predestinazione. Se tutto è già noto, tutto è già saputo, allora si è veramente liberi di fare che cosa? Ciò che è già noto! Questa è una prescrizione al soggettivismo, cioè all’abolizione della libertà, perché la libertà, che è assolutamente irrinunciabile, è la libertà della parola. La libertà assoluta, la libertà che nessuno può ammettere gli venga tolta o di perdere, è la libertà della parola di divenire qualità, di qualificarsi, di divenire cifra, cioè di incontrare nel suo itinerario, nella molteplicità infinita, quella piega per cui si specifica in quel caso, che è differente da ogni altro e che si specifichi in quel caso e in quel modo è assolutamente rilevante.
Questa è la libertà: la libertà della parola di qualificarsi. Rispetto a questa libertà, dire che il primato deve essere della coscienza, cioè di una scienza comune per cui sarebbe prescritto alle cose di assumere un loro statuto a prescindere dall’itinerario di qualifica, è la prigionia intellettuale: ciò impedisce e ostacola quella generosità intellettuale che è l’elemento base per lo scambio, per l’interlocuzione, quindi anche per l’insegnamento.
Pensate per esempio al mito della resurrezione: è il mito della generosità intellettuale, il mito per cui le cose non finiscono, per cui, per esempio, il figlio non muore. Senza l’infinito attuale questo mito non potrebbe esistere; nell’ambito del logos questo mito non può sorgere, nella religione politeista non può sorgere, così pure in quella pluralista. Ci vuole il molteplice, l’infinito attuale; ci vuole il figlio non più inscritto in una genealogia, il figlio che procede dal padre, perché si instauri questo mito, che occorre leggere intellettualmente, in termini logici.
Il figlio non muore. Freud ci aveva parlato del mito del padre che non muore. La religione ebraica non arriva al figlio, non ammette il figlio, non ammette che le cose avvengano per integrazione, ma per filiazione, per riproduzione, per genealogia.
Ma, dato che le cose avvengono per integrazione, allora l’infinito attuale, allora la resurrezione, allora la generosità intellettuale, allora può prodursi l’ascolto di ciò che non si sa prima; l’intendimento di ciò che non si sapeva prima, di cui non si aveva nemmeno l’idea, ma che può instaurarsi. Quella che può sembrare una forma di progresso scientifico, ossia quel che può presumersi come l’estrema precisione classificatoria delle varie forme di male per esempio, altro non è che un antidoto alla generosità intellettuale, cioè è il mezzo con cui di qualcosa che è imprevedibile, impensabile, non rappresentabile e che pure ci si pone dinanzi, ci sbarazziamo subito, inscrivendolo in un catalogo delle forme devianti, delle forme di male, delle forme di malattia, delle forme del negativo, anziché esplorare di cosa si tratta, di perché e come nel dispositivo che è in atto si ponga questa anomalia.
Il termine anomalia non è negativo: dice di qualcosa che non è simile a nient’altro, che è unico. L’anomalia è l’assenza di similarità. Perché l’anomalo dev’essere allora moralizzato, catalogato, definito buono o cattivo? Quella che sembra una raffinatezza scientifica è una forma, altrettanto raffinata, d’intolleranza perché, anziché valutare la questione, ciò che ci sta dinanzi, lo inscriviamo in un casellario, in un catalogo; oppure, se non c’è già un posto, deleghiamo a un esperto di trovarglielo. Questa è la via facile per espellere la logica, cioè la particolarità. Logica vuol dire questo: particolare. Ciascun caso comporta la sua particolarità, la sua logica, in quanto logica della parola, della nominazione, in quanto logica secondo cui le cose esistono. E’ facile dire: “Ma la logica vorrebbe che… Questa cosa è differente, ergo è illogica”.
E’ facile, cioè soggettivo, comporta l’applicazione del controllo e della padronanza, è sbrigativo, antintellettuale, anticulturale, antieducativo, antitollerante, oscurantista, direi razzista, se non fosse un termine molto limitato. Molti possono dire: “Beh, io non so come si fa”. Appunto! E’ questa la questione. Non sappiamo già come si fa, per questo occorre indagare, per questo occorre intraprendere modi della ricerca, dell’acquisizione, della formazione, perché non sappiamo già. E il fatto di non sapere già non può costituire un alibi per astenersi, in particolare da parte degli insegnanti che hanno nel loro statuto questa esigenza di provocazione, di promozione intellettuale, di suscitare e provocare la curiosità, dunque la ricerca, di promuovere che ciascuno si informi, indaghi, verifichi come si fanno, come si svolgono, come si articolano, come accadono le cose, non di dire come stanno, dove vanno, come sono fatte; e questo con disponibilità, con disposizione ad ascoltare e a intendere la novità.
Si tratta dell’accoglimento della novità, del nuovo, che può essere rappresentato dal compagno nuovo che arriva in classe e che potrebbe essere male accolto perché parla con un altro accento, ha un altro colore della pelle, ha altre idee, appartiene a un’altra classe sociale. Le rappresentazioni possono essere moltissime, le giustificazioni moltissime, ma si inscrivono sempre nella non accettazione del nuovo in quanto appare differente, quindi appare come un pericolo. Credo sia da indagare da dove venga per ciascuno l’idea di pericolo, quindi la paura dei pericoli: la paura, il terrore, lo spavento, il panico, i vari modi con cui questo si presenta e si rappresenta. D’altronde, chi non si è imbattuto in questo sia nella propria storia sia verificando la propria esperienza d’insegnamento? Quante volte un ragazzo dice: “Ah, ieri non sono venuto perché avevo paura del compito, dell’interrogazione”? Oppure durante l’interrogazione non capisce più nulla e il rendimento non è efficace. Questo viene attribuito alla timidezza, al fatto che è un ragazzo chiuso, che è un ragazzo così, un ragazzo colà, timido, debole, incapace; viene immaginato come un animaletto fantastico, fatto così e basta, che se è troppo diverso dev’essere affidato allo specialista perché se ne occupi. Ma non ci sarà per caso una responsabilità anche del dispositivo che è in atto rispetto a questa rappresentazione paurosa, cioè alla rappresentazione di qualcosa che non è accettato?
La paura indica questo, tutto sommato: l’inaccettazione di qualcosa. E perché questa inaccettazione non può divenire elemento d’indagine, di acquisizione intellettuale, di esplorazione di ciò che è in atto nella classe, per verificare come l’insegnante stia svolgendo in quel momento la sua funzione di direzione del dispositivo o se, per caso, non la stia neppure svolgendo? Molto spesso avviene che questi casi non vengono presi in considerazione per non mettere in discussione il criterio e i modi della pratica d’insegnamento. Certo, non è facile avventurarsi nel terreno clinico perché questo comporta la formazione clinica, cioè cogliere quale piega, quindi quale varietà sia in atto in ciò che sta accadendo. Occorre la clinica, lo strumentario clinico, l’ascolto. Questo non va da sé, certo, ma è questa la formazione di cui effettivamente c’è bisogno. Anche e soprattutto per l’insegnante è indispensabile la formazione clinica, non già la formazione psicologica con la quale non va da sé di poter cogliere queste pieghe, queste sfumature, di poter intervenire a modo, come occorre. Quello che importa in questi casi, quindi in ciascun caso, è la formazione clinica, cioè la formazione intorno al modo con cui la parola diviene cifra, con cui la parola funziona, si rivolge alla qualità.
Allora, una prima conseguenza dell’apertura, dell’ammissione dell’infinito attuale, quindi della generosità intellettuale, è di non credere più nella malattia in quanto tale e, dunque, in particolare nella malattia mentale, in quanto ciascuna cosa si situa nel dispositivo che è in atto ed esige di venire quindi esplorata, analizzata, intesa, perché segue la logica. Non c’è cosa al di fuori della logica perché non c’è cosa al di fuori della parola. Cosa dice tutto ciò? Che l’esperienza dell’insegnamento esige il dispositivo del transfert, cioè il dispositivo in cui la parola funziona, non è tale, ma è in corso di qualificazione, in corso di qualifica in direzione del quale, della qualità, qualità che noi chiamiamo la cifra, il qualis.
Se nella logica funzionale, logica secondo cui le cose funzionano, l’istanza della qualifica esige l’infinito, nella logica operazionale, la logica del fantasma, la logica delle idee, questa istanza di qualifica esige la fede. Quale fede? Non la fede in qualcosa, non la fede in Dio ma la fede di Dio, come precisa Sant’Agostino nel De Trinitate. Dio come operatore logico, Dio come fede, dunque; fede che le cose che accadono vanno in direzione della qualità, senza alternativa esclusiva, senza cioè la serie delle possibili rappresentazioni negative che di solito vengono proposte per indicare che forse sarebbe meglio non fare, i cosiddetti scrupoli, le riserve mentali. Questi che cosa indicano? Semplicemente l’assenza di fede che viene anteposta alla procedura con cui qualcosa accade, avviene, diviene e la sostanza, il sostanzialismo, l’altro modo del soggettivismo, l’altra sua faccia. La sostanza è ciò di cui si pasce la paura. Senza generosità intellettuale e senza fede nessun miracolo, cioè non accade niente, se non ciò che so già. Il miracolo è ciò che non so, è ciò che accade in quanto non ‘lo so già’: questo è il miracolo. Ogni prescrizione e ogni divieto negano il miracolo, sono modi di dire che il miracolo non c’è, non ci sarà, non può avvenire. Sono modi di anteporre alla logica, a ciò che occorre avvenga, la prescrizione del destino prestabilito.
E’ da tenere presente che quando viene formulato un giudizio di incapacità, di irresponsabilità, di malattia, di impossibilità, viene tolta l’eventualità del miracolo, viene tolta l’eventualità che qualcosa accada, nonostante le previsioni negative; tuttavia qualcosa può accadere nonostante noi, contro di noi, a prescindere da noi. Può accadere! Noi non sappiamo, non sappiamo già, eppure possiamo, assolutamente, condizionare il fatto che non avvenga, confezionando etichette, prescrizioni, divieti, impedendo dispositivi, cioè assegnando a ciascuno un’identità. L’identità è l’antidoto al miracolo, il cartellino contro il miracolo, l’etichetta contro il miracolo. In che modo si pone la questione della riuscita?
C’è da chiedersi se si pone l’eventualità di un dispositivo lì dove noi togliamo la generosità, la fede, il miracolo. Comunque, anche ammettendo che possa porsi l’eventualità di qualche dispositivo pur togliendo l’infinito e quindi la generosità intellettuale, la fede e l’eventualità del miracolo, quale riuscita? A che cosa viene affidata per ciascuno la riuscita di un progetto, di un programma, di un’istanza di ricerca, la riuscita di un’idea magari bizzarra? E bizzarra per chi o perché? Bizzarra perché non rientra nelle nostre idee, nei nostri modi di vedere le cose? Quante bizzarrie ha pensato Leonardo! Se avesse trovato dei buoni pedagoghi, quante ne avrebbe compiute? Quante pagine avrebbe scritto di queste idee bizzarre? Sarebbe stato persuaso a formulare idee più coerenti, al passo con i tempi, funzionali alle cose che dobbiamo fare tutti, perché la questione dell’ingegno, del genio è la questione della generosità, di un altro modo. C’è sempre un altro modo, un modo in più, che non avevamo previsto, pensato: è il modo dell’Altro, dell’Altro tempo, non di quell’altro. Dell’Altro! Dell’Altro impensabile, irrapresentabile, dell’Altro che comporta la molteplicità della parola. Potremmo formulare la questione anche così: noi non sappiamo quali sono i nostri talenti, tanto meno sappiamo quali sono i talenti altrui, però, forse, possiamo fare qualcosa per promuoverli o quanto meno per non impedirli, per non impedire che questi talenti approdino alla loro qualità, al loro modo, alla loro riuscita, che non sappiamo quale sia, dove sia, quando avverrà, non sappiamo niente.
Ammettere questa ignoranza esige un’umiltà infinità, ma è indispensabile. Oggi sembra sia importante mostrare di sapere tutto: sapere come e quando avverranno le cose per Tizio, per Caio, per Sempronio, prevedere, situare al momento opportuno, evitare ogni dispendio per razionalizzare, per ottimizzare, migliorare, in una specie di corsa alla perfezione, al perfezionamento, al perfezionismo, per dimostrare che è stato sbaragliato il male dell’epoca: l’ignoranza. No! Occorre per così dire non trascurare mai l’ignoranza. L’ignoranza dell’altro, dell’altro modo. C’è sempre un altro modo che non sappiamo ed è quello di cui si tratta in quel caso lì e, quindi, ecco perché occorre proseguire, insistere, non arrendersi mai, proporre, promuovere, provocare, senza stanchezza, senza pensare che verranno esaurite le energie, senza pensare che c’è stato un esaurimento. Non c’è esaurimento possibile, né delle forze, né delle idee, tanto meno nervoso: non c’è esaurimento! Nell’infinito attuale non c’è l’esaurimento né nervoso, né non nervoso e, quindi, non c’è nemmeno la stanchezza intellettuale. L’idea di affaticamento, di stanchezza è qualcosa che si produce per l’applicazione dell’algebra, in particolare ritenendo che le cose, anziché dividersi, si sommino. Se io penso che le cose si sommino, ebbene, mi affatico molto perché somma una, somma un’altra, ecc., fino a quando potrò sopportare tutte queste cose che si sommano? Ma il punto è che le cose non si sommano, le cose si dividono. Funzionando, nel suo funzionamento ciascuna cosa si divide, cioè incontra la funzione temporale, e il tempo è questa divisione. Tempo vuol dire divisione.
Quello che noi chiamiamo tempo e che misuriamo con l’orologio non è il tempo, è la misura del tempo inteso cronologicamente. Ma il tempo dell’infinito attuale non è misurabile, è la divisione con cui ciascuna cosa è singolare eppure differisce. Singolare e differente: come? Per via del tempo, ossia del taglio; taglio che non divide in due, non è algebrico, non è il taglio del pluralismo, non è il taglio della dicotomia, è il taglio della differenza. Taglio non algebrico per cui non c’è esaurimento nervoso e non c’è stanchezza, né affaticamento, cose che si producono se invece ho del tempo una rappresentazione algebrica e delle cose una rappresentazione per sommazione. Le cose non si sommano, ma funzionando si dividono, per cui non c’è da aver paura a fare, a proporre, a istigare, a promuovere, non c’è da temere di esaurirsi.
La logica della parola non è per sommazione, ma per divisione non algebrica. Non la divisione di Alessandro che arriva con la spada a sciogliere il nodo gordiano, rappresentando quindi questa lama che scioglie. E’ il taglio del tempo che scioglie nel funzionamento, nel senso che per ciascuna cosa la divisione produce la sua piega. Quello che chiamavamo prima la piega, è l’effetto di questo taglio, la sua conseguenza. E dunque, tenuto conto di questo, ancora di più è il caso di ribadire che noi non sappiamo già quali sono i talenti né come impiegarli; ma questa ignoranza non è un difetto, né una colpa, ma una condizione per ascoltare, per l’educazione, per poter dare un’indicazione.
Come dare un consiglio o un’indicazione senza l’ignoranza? Senza questa ignoranza noi assimiliamo un caso a un altro caso, una circostanza a un’altra circostanza che magari non c’entra niente, ma che ci pare simile, per cui diamo in quel caso quell’indicazione perché l’abbiamo data anche quell’altra volta: “Servirà, dato che è servita allora, anche in questo caso”. No! Questo è la modalità facile, analogica, psicologica, sociologica, sessuologica, ma non clinica. Importa che ciascuna indicazione sia clinica, cioè colga quella piega e, dunque, non avvenga lungo un processo di sommazione, lungo l’idea che noi possiamo avere di qualcosa perché si somma. Ecco perché occorre, dunque, procedere da questa ignoranza, intesa non come tabula rasa, incultura assoluta, ma come disposizione all’ascolto, come umiltà di ammettere che non sappiamo già. Per quel che riguarda questa circostanza, questo caso, non sappiamo già e quindi occorre raccogliere gli elementi, gli indizi, i termini della questione, per poi valutarli, cogliere e intendere qualcosa. Non prima! Non prima della ricerca, del racconto, dell’analisi dei termini, non prima cioè che si sia qualificato ciò che occorre si qualifichi.