- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
L’INCONSCIO E LA QUALITÀ DELLA VITA
- L’inconscio. Perché chi crede di evitarlo finisce col non ragionare
- La ricetta del piacere
- La parola, la vita, la salute secondo l’inconscio
- Chat line: l’amante senza volto
- Il superfluo e la necessità
- L’assurdo
- Quisquiliae
- Come la memoria si scrive
- L’inconscio, la speranza, il destino
- L’inconscio, la genetica e il programma
- L’esperienza originaria
- La cifrematica, la peste e il pericolo giallo
- Perché la vendita esige la sessualità
- La tolleranza, il tempo, l’Altro
L’inconscio. Perché chi crede di evitarlo finisce col non ragionare
Ruggero Chinaglia Questa serie s’intitola L’inconscio e la qualità della vita; sono incontri per “accorgersi” dell’inconscio; non già per conoscerlo, ma per capire e intendere quali sono i modi di questa logica, contro cui sono sorte varie civiltà.
Questo incontro avviene quasi senza informazione, infatti il materiale informativo sarà pronto domani, grazie alla tempestività con cui è stata concessa la sala, sono state espletate le varie pratiche, eccetera, e quindi, una volta tanto, non per merito dei miei collaboratori, ma per altri meriti; però abbiamo ritenuto importante non differire, non rimandare. Insomma, la data era stabilita. Noi cominciamo a raccogliere alcuni dei punti, delle questioni che ciascuno che è qui ha modo di proporre e di segnalare, perché ciascun incontro risulti un’esperienza per ciascuno, perché è di questo che si tratta: l’esperienza della parola.
A questo proposito, vi segnalo un libro che può essere utile per ciascuno, anche per gli incontri che seguiranno, e s’intitola La rivoluzione cifrematica; è l’ultimo libro scritto da Armando Verdiglione, e contiene molto materiale dell’esperienza in corso, che si avvale della rivoluzione cifrematica. C’è anche un altro libro, (che non abbiamo qui stasera, grazie all’intraprendenza e proprio all’abilità organizzativa, questa volta sì, di alcuni collaboratori) che può risultare utile alla lettura, ed è Il manifesto di cifrematica. Sono due libri che ci accompagneranno in questa serie di incontri, e che avremo modo di presentare anche con la presenza di chi li ha scritti: non dell’autore, che non è mai presente, né dello scrittore, che non è mai presente, né del lettore, che non è mai presente. Però ci sarà chi li ha scritti, non trattandosi né dell’autore né dello scrittore né del lettore, che non sono personificabili né rappresentabili, ma questo avremo modo di chiarirlo in seguito.
Questa sera, per chi ha letto l’annuncio sui giornali, non è ignoto il titolo della conferenza; ma, per chi lo avesse letto un po’ distrattamente, ve lo comunico: L’inconscio. Perché chi crede di evitarlo finisce col non ragionare.
C’è chi ha qualche domanda da fare, a questo proposito? Curiosità, proposte? Siamo qui soprattutto per raccogliere indicazioni. C’è chi ha qualche notazione, curiosità, domanda, suggerimenti? Parli adesso o mai più.
Allora leggerò qualche “pensierino della sera”, per vedere se questo ha il potere di suscitare qualche questione.
In nome della trasparenza, la civiltà cosiddetta contemporanea tenta di abolire la parola a favore della chiarezza della visione. Le cose devono essere chiare, trasparenti, visibili, come immobili. Questa immobilità, questa trasparenza può essere, per così dire, tentata abolendo il racconto, abolendo la narrazione, abolendo la scrittura, abolendo la ragione linguistica, quindi a favore dell’ontologia delle cose. La trasparenza presuppone l’ontologia delle cose, l’“essere”, l’immobilità delle cose chiare, cioè senza equivoci, senza sfumature, senza pieghe, senza qui pro quo, senza malintesi, trasparenti; proprio come invece non è la parola, che mai è trasparente, perché è senza ontologia.
La parola entra nel dispositivo linguistico, nel dispositivo intellettuale, ricco di equivoci, di menzogne, di malintesi, di qui pro quo, di increspature, di pieghe che esigono la lettura, l’ascolto, non già la visione, per capire, intendere, ragionare. Queste varie caratteristiche della parola, per l’assenza di ontologia, sono difficili da accettare per chi crede nel fondamento e, prima di ogni cosa, cerca il fondamento, la ragione fondamentale per aggrapparvisi.
Come possono le cose essere senza fondamento, quindi senza la sostanza che le possa significare? Questa caratteristica della parola, l’assenza di fondamento, fa capire perché contro l’inconscio siano sorte tante reazioni, tanti pregiudizi, tante ostilità. L’inconscio è la particolarità, la logica particolare secondo cui ciascuna cosa diviene cifra, secondo cui ciascuno diviene cifra.
E dunque, intanto, il divenire; non l’essere, ma il divenire: il divenire cifra, la logica secondo cui le cose divengono… Questo già introduce alla questione del dispositivo intellettuale, senza ontologia; dispositivo che esige il tempo, innanzi tutto, il tempo, l’infinito attuale; quindi la parola come dispositivo e non come sostanza.
Sono termini questi che occorre tenere ben in considerazione per capire perché, per il discorso occidentale, l’inconscio sia inaccettabile. E questo consente di capire perché contro l’inconscio sono sorte varie fiabe, ognuna delle quali ha tentato di localizzarlo, di significarlo, di renderlo cosa ontologica, quindi di inscriverlo in un discorso, per potere padroneggiarlo. Per il discorso occidentale è inaccettabile che le cose non siano già, non siano tali, perché questo rende impossibile la conoscenza, rende impossibile il concetto, la trasmissione dei concetti, la trasmissione del sapere. Il discorso occidentale si fonda su questa possibilità ritenuta reale di trasmettere il sapere, il sapere sulle cose, quindi anche il sapere sulla parola, il sapere sul destino. Il discorso occidentale ha tentato sin dal suo sorgere di abolire l’ignoto, l’ignoranza e contro questa idea dell’ignoto ha opposto la conoscibilità, l’idea di conoscibilità delle cose, sostituendo alle cose, che non sono conoscibili nel loro viaggio, nel loro itinerario, il concetto delle cose.
La conoscenza proposta non è conoscenza delle cose, ma del concetto delle cose, concetto che renderebbe del tutto inutile la ricerca, perché il concetto è per tutti, è a favore dell’idea dei “tutti”. Ma, appunto, la parola ha l’esigenza, la tendenza di divenire cifra, questa tensione a divenire cifra; non di essere tale, ma di divenire quale. Questa rivoluzione, questo rivolgersi delle cose, di ciascuna cosa, di ciascuna parola alla cifra, alla qualità, è una novità nel panorama intellettuale, perché esige lo sforzo, lo sforzo intellettuale; non già la capacità soggettiva, la facoltà soggettiva, ma lo sforzo intellettuale, che non è una facoltà. Questa rivoluzione della parola verso la sua qualità dissipa l’idea di libero arbitrio: non si tratta più del libero arbitrio soggettivo, del libero arbitrio di ognuno.
Perché sorge la nozione di libero arbitrio? Sorge come modo di liberarsi da una sorta di predestinazione della volontà divina. Dio, il creatore, sa come andranno le cose, ma lascia, nella sua bontà, che ognuno scelga, faccia come vuole. E questo sarebbe il libero arbitrio: fare quel che si vuole. Ma chi, chi vuole? Chi vuole cosa? Chi sarebbe questa entità che quindi potrebbe volere, e dunque, volendo, eserciterebbe il libero arbitrio? È la liberazione dalla predestinazione per volontà divina a una predestinazione naturale. Ognuno sarebbe libero di volere finché vive, per poi morire; intanto può fare quel che vuole, soggetto naturale destinato alla morte; e quindi, in quanto soggetto, fa quel che vuole, sceglie, e, se è in grado di scegliere, è padrone, controlla le cose, può esercitare le sue facoltà, dunque è un soggetto padrone, soggetto del libero arbitrio. Ma cosa accade quando questo soggetto padrone incontra, per esempio, un qui pro quo, un lapsus, una svista, una dimenticanza, un controsenso, un fraintendimento? Ma come, non era padrone? Non padroneggiava la parola? Non era arbitro? Improvvisamente, questo soggetto padrone è esposto all’arbitrarietà della parola. Non è più arbitro il soggetto, ma la parola è arbitraria, per il modo in cui interviene, parlando.
Lo scacco della padronanza.
Ma, come! Il discorso non è perfettamente controllato? Non deve dimostrare il postulato da cui sorge? Ma, come! Se interviene un controsenso, se non è più trasparente, allora c’è un altro potere, non più quello del soggetto, è un altro potere: il potere della parola.
Che ne è della “ragione” del soggetto di fronte a un lapsus? Infatti, contro l’inconscio, è sorta proprio questa nozione di ragione soggettiva: la ragione umana che, insieme al libero arbitrio, affrancherebbe l’uomo per un verso da Dio, per l’altro verso dall’animalità.
Nel discorso occidentale, infatti, la ragione è intesa o come facoltà di guida o come procedimento per la conoscenza. Allora, nel caso della ragione come facoltà di guida, si tratta della contrapposizione fra la cosiddetta ragione e i pregiudizi, i miti, le opinioni fallaci o false, le apparenze. Quindi, questa ragione è la ragione della linea, è la ragione dell’ideologia, è la ragione della retta via, ragione che consentirebbe di stabilire un criterio universale per la condotta dell’uomo. Ovviamente, per l’uomo dotato di questa ragione. E questa ragione come facoltà sarebbe anche la forza che consentirebbe di liberarsi dagli appetiti che l’uomo ha in comune con gli animali, perché gli animali hanno certi “appetiti”!!
L’uomo, dotato di ragione non può avere quegli stessi appetiti perché, come dicevano gli stoici, quel che caratterizza l’animale è l’istinto, che punta al proprio vantaggio e alla conservazione della specie, mentre l’uomo è dotato di ragione che punta a far sì che ognuno viva non già secondo gli appetiti ma secondo natura: ecco la ragione naturale. E chi stabilisce quale sia la ragione naturale, quale sia questa conformità alla natura?
Contro questa concezione naturale già Sant’Agostino ha modo di precisare che la ragione è quel moto della mente che può distinguere e collegare tutto ciò che si apprende; già introduce, quindi, a un dispositivo non ontologico: distinguere, collegare quel che si apprende. Mentre con Cartesio la ragione diventa buon senso, cioè ragionevolezza. “Sii ragionevole!”, “Fai quello che ti dicono di fare, fai secondo ragionevolezza!”. “Ah, questa cosa non è ragionevole”, con quel che segue.
Si apre così la porta alla cosiddetta “nosografia scientifica”, cioè alla psicopatologia. Non è ragionevole, dunque è psicopatologico. Il buon Cartesio apre la via alla classificazione di ciò che è conforme, ragionevole, e di ciò che è difforme e, quindi, dev’essere condannato, esecrato, bandito. Mentre per Hegel la ragione non dirige la realtà, ma giunge dopo il fatto a comprenderla e a giustificarla.
Quindi, nel corso dei secoli, ognuno si è fatto della ragione una sua idea, tentando di applicarla per giungere al conformismo universale, per fare della ragione il quantificatore universale. Tutti gli uomini sono ragionevoli, devono essere ragionevoli, questo sarebbe il dettato, e, in nome di questa ragionevolezza, occorre togliere, abolire, sfrondare ciò che è troppo differente. La stessa idea di tolleranza, quindi, viene abolita in nome della tollerabilità. Il buon senso non tollera: accetta fino a un certo punto, accetta ciò che è tollerabile, ma oltre un certo punto, oltre un certo limite è intollerabile. Non sono rari gli enunciati: “La mia pazienza ha un limite!”, “La mia tolleranza ha un limite”, “Questo è intollerabile!”, “Allora sì che mi arrabbio”, “Sono arrabbiatissimo!”, “Non fatemi arrabbiare!”.
Il buon senso è senza tolleranza, in nome della tollerabilità, in nome del conformismo, dell’accettazione di un certo conformismo condivisibile e partecipabile. Per questa via, quindi, la ragione giunge a significare l’autocoscienza, in quanto procedimento per la conoscenza. La conoscenza comune diventa autocoscienza. Conosciamoci! Partecipiamoci le nostre emozioni, sensazioni, pensieri, idee. Condividiamoci! Partecipiamoci i concetti, i concetti che ci rendono uniti, perché ognuno possa constatare che tutti abbiamo una grande esigenza di unità! Eh sì, in nome dell’autocoscienza, in nome del concetto, in nome della coscienza, sorge l’idea di unità di cui tutti avrebbero una grande esigenza, nel discorso demagogico. Questi sono gli slogans che circolano in questo momento nel panorama politico italiano e internazionale: il grande bisogno di unità. Unità di che? Se la parola è dissidenza assoluta, quale unità? “Unità nella differenza”. Ah, che bello! Unità nella differenza. O c’è differenza o c’è l’unità che vorrebbe abolire la differenza. Né unità, né unificazione, ma dissidenza della parola, dissidenza dell’inconscio. Questa è la logica della parola, la dissidenza originaria, che non è contro qualcosa o qualcuno, ma è in direzione della qualità delle cose, la qualità della vita, la qualità di ciascuno.
La conoscenza, l’ontologia, l’autocoscienza, il concetto sono antidoti alla dissidenza della parola, che è inquietante per chi crede che invece occorra dimostrare che tutti sono uguali di fronte alla morte, che tutti partecipano della stessa ragione e, quindi, devono seguire la stessa linea. La ragione intesa come procedimento per la conoscenza, è una ragione senza tempo, è una ragione senza calcolo, senza racconto, senza narrazione, senza analisi, senza il processo di qualificazione, senza il processo di valorizzazione, presumendo che ogni cosa abbia un valore in sé. Ebbene, non c’è il valore in sé. Ciascuna cosa esige di valorizzarsi, quindi si tratta, in ciascun atto, per ciascuno, della valorizzazione; non già della degradazione, della denigrazione, ma della valorizzazione. Denigrazione e degradazione sono modi per dire che non c’è il valore in sé; è soltanto che questa esigenza di mostrarlo parte dalla credenza che vi sia. Allora, reagendo all’idea di un valore in sé delle cose, ognuno si denigra o si degrada, oppure denigra le cose e degrada l’Altro, quasi a liberarsi da questa idea di un valore in sé, a cui, appunto, si sente attaccato.
Non c’è il valore in sé, né di sé, né dell’Altro, né delle cose, e ciascuna cosa esige di valorizzarsi. Questo processo è secondo la logica particolare, quella logica che chiamiamo inconscio in omaggio a Freud, che ha proposto questa formulazione. Ma, non è una logica misteriosa, non è una logica misterica. Certo, è una logica non comune e riguarda la particolarità di ciascuna cosa in ciascun atto, questo sì, e quindi non è una logica che preesiste all’atto, non è un fondamento. La rivoluzione cifrematica risiede nel fatto che le cose procedono dal due e si dirigono alla loro qualità. Il secondo rinascimento della parola indica che l’itinerario verso la qualità è appunto secondo la particolarità, particolarità diadica e singolare triale. Da qui l’impossibilità di fare sistema.
Chi avesse letto i giornali locali di oggi avrà notato il coro dei lamenti, perché il Nord-est non è in grado di fare sistema. Sono arrivati gli stranieri in città! Voi non ve ne eravate accorti, ma sono arrivati gli stranieri. Guai a voi! Perché bisogna fare sistema contro gli stranieri, altrimenti verremo invasi! Bisogna fare sistema per superare la congiuntura, il sistema delle imprese… Il sistema. La nozione e l’idea di sistema comportano quella di fine, di finibilità, quindi propongono un’algebra e una geometria delle cose, un’algebra e una geometria del tempo. Il sistema, rappresenta la ragione della fine: come accettare ragionevolmente la fine. Ma accade che ogni complicità sull’espunzione dell’Altro è destinata a fallire, volente o nolente, come direbbe il libero arbitrio.
Taluni si pongono la questione: “Qual è l’età della ragione? A che età si può ben dire che si comincia a ragionare?” E allora, prendiamo il caso di una ragazzina che deve iscriversi alla scuola superiore. Accade anche questo. A quale scuola si deve iscrivere? Adesso che non ci sono più gli aruspici, non ci sono più né la Sibilla cumana né altri che possano indicare la via, come decidere? Deve iscriversi a questa nuova scuola. Le viene chiesto qual è il suo calcolo dell’avvenire? No. Le viene chiesto qual è il suo progetto? No. Le viene chiesto qual è il suo programma? No! Il papà, che ha fatto studi artistici, nota che rimpiange di non avere fatto quelli classici, che poi ha dovuto fare da sé, per esigenze intellettuali proprie, e quindi propende per il liceo classico. La mamma, che ha fatto il classico: “Per carità! Io ho fatto il classico e rimpiango di averlo fatto! Tutte cose astratte”. Gli insegnanti, cui, chiaramente, viene chiesto consiglio, dicono che può fare qualunque cosa, può veramente scegliere di fare quello che vuole, tanto è brava; non c’è problema, può fare qualunque cosa. La ragazzina, allora, ci pensa; ci pensa e, dopo averci pensato, sceglie il liceo scientifico. Con grande soddisfazione di tutti, perché ha scelto liberamente, da brava bambina, senza influenze, ragionando. Con quale ragionamento? Beh, il preside del liceo classico aveva dei baffetti veramente ridicoli…
Ci sono domande? C’è chi vuole proporre il suo modo di ragionare? O altri modi. Ecco, c’è un dito appeso alla ragione.
Cecilia Maurantonio Proprio pochissimi giorni fa mi è capitato in classe un ragazzo, che è appunto di terza media, quindi dovrà frequentare le altre scuole. Un momento di decisioni. Non è ancora chiaro cosa fare, dove andare. È molto bravo a suonare uno strumento musicale, bravissimo. È stato proposto da insegnanti privati, dal conservatorio, alla famiglia anche di andare all’estero a frequentare qualche scuola; adesso non mi sovviene quale.
Ci sono delle ipotesi, però sempre tenendo conto di questa sua… E, siccome stavamo facendo un lavoro di pittura, introducendolo appunto ci si auspicava che facendo, lavorando, proponendo, indagando divenisse artista, in ciascun caso, in questo lavoro, lavorando. E, allora, mi ha chiesto: “Ma come, non c’è già l’artista? Allora il genio?”. Altri hanno introdotto la questione del genio. Lui, questo ragazzo musicista, diceva: “Ma il talento c’è”. E, quindi, ho annotato vari termini come il talento. C’è stata un’altra domanda rispetto alla capacità, quindi la fantasmatica intorno al genio, però c’è anche la capacità e il talento, per cui se si può specificare qualcosa intorno a questi termini e a come intervengono in questo contesto di parola. Grazie.
R.C. Altri?
Fernanda Novaretti Volevo dire che in alcune scuole si usano, per gli studenti delle superiori che devono andare all’università, dei test attitudinali. Per orientare se andare all’università o lavorare, vengono utilizzati dei test attitudinali. E allora volevo sapere dove sta e com’è la differenza tra attitudine e talento.
R.C. Altri che vogliano inserire un gettone nel juke-box, per sentire cosa suona?
Intanto queste sono questioni interessanti: il talento, il genio. Genio e sregolatezza, l’uomo di genio. Intanto, sull’uomo di genio, Lombroso ci ha propinato l’antropologia criminale. Eh, il genio! L’uomo di genio e, subito dopo, L’uomo delinquente: opere di questo valente piemontese, cui dobbiamo appunto l’antropologia criminale. Il talento, il genio, la capacità; l’attitudine, l’altro nome della predisposizione. “Per che cosa è portato?”. E chi lo porta? Portato dove, da chi? “Per che cosa è predisposto?”. Sì, ci sono elettrodomestici che sono costruiti per assolvere a una certa funzione: il frigorifero è predisposto per il freddo, il calorifero è portatore di caldo, mentre il frigorifero è portatore di freddo. Di che cosa è portatore questo figliuolo e da che cosa è portato? Ci vuole un test che ne misuri l’attitudine, ossia la sua capacità di portare a sua volta qualcosa? Ognuno è portatore sano di qualcosa. Qualcun altro è portatore malato. Portatore, cioè predestinato, predisposto. Attitudini mentali, attitudini lavorative, attitudini sociali. L’attitudine è un’idea platonica, è un’idea di predestinazione e, quindi, di origine: qual è la sua origine e, quindi, a che cosa è destinato. Di che cosa dovrà morire? Perché “di qualcosa bisogna pur morire”, come diceva un tale. Questa è una chicca che ho avuto modo di ascoltare di recente, “D’altronde di qualcosa bisogna pur morire” e, quindi, ognuno ha la sua attitudine per la sua buona morte. Altra cosa i talenti, che sono ignoti, non misurabili da nessun test. Non c’è il test dei talenti; c’è la parabola, eventualmente, dei talenti, ma non il test. E anche la parabola dice che i talenti esigono la scommessa. Senza scommessa il talento non solo è ignoto, ma è anche sterile. Non c’è predestinazione, e quindi ciascuno ha da fare il viaggio e scommettere, scommettendo sui talenti che non sa di avere, ma che indubbiamente ha. Il talento non è conoscibile prima, né dopo: può venire impiegato nel dispositivo. E, curiosamente, non è il dispositivo che si avvale dei talenti, ma sono i talenti ad avvalersi del dispositivo. Non è che uno sa e allora investe, ha e allora investe, ma investe e quindi fa. Senza ontologia né dell’essere né del talento.
Non c’è comodità intellettuale, nessuna comodità intellettuale.
Scommessa, rischio di impresa, rischio di vita, certamente; e la forza viene da questo, perché i talenti entrano in gioco per forza, non per natura. Per forza, per sollecitazione, per provocazione, non per dotazione naturale. I talenti sono pulsionali, stanno nella domanda. Nessuno ha i talenti e, dunque, li impiega: ciascuno li impiega e, quindi, poi si accorge che c’erano. C’erano, non li ha.
È un altro modo di ragionare, il modo della parola, perché è la ragione dell’Altro; non la mia ragione, non la tua ragione, la nostra ragione, ma la ragione dell’Altro, ragione della parola. È una cosa complessa, ma decisiva per il gerundio della vita, cioè per come ciascuno vive. Altre domande? Queste hanno un po’ riscaldato l’ambiente, vediamo di raggiungere la temperatura opportuna. Non c’è pericolo di fusione. Domande anche per i prossimi appuntamenti, per le prossime riflessioni. Ecco, un altro dito che si leva.
Simone Barison Volevo chiederLe se ha una ricetta contro la noia. A proposito di sollecitazioni e di provocazioni.
R.C. Una sola?
S.B. Più di una, magari!
R.C. Una ricetta universale? La noia. Eh, bella domanda, la noia e la sua ricetta.
S.B. Non ci sono tantissime cose interessanti e che abbiano la potenza di coinvolgere.
R.C. Sì, è vero. Quindi, si tratta di una ricetta ad personam; non la ricetta universale.
S.B. Il sale, ci vuole un po’ di sale, a proposito di universale.
R.C. Esatto. Il sale, certamente. Il sale…
S.B. Peperoncino.
R.C. …e poi la posologia è ad personam. La ricetta vale per la cucina e vale, quindi, per il dispositivo intellettuale. Qual è la ricetta, che non è quella del farmacista o per il farmacista, è un’altra ricetta. E la ricetta non è contro, ma è per.
S.B. Per la noia.
R.C. No! La noia è in assenza di ricetta. Intanto, come prima nota. Poi altre note seguiranno. Intanto, abbiamo preso nota. Altri? Ultima domanda, eccola!
Maria Antonietta Viero A proposito dell’attitudine, si pensa che l’attitudine sia essere portati verso qualcosa che è cosciente, (se c’è qualcosa di cui si è coscienti) e, quindi, essere portati verso quel qualcosa, verso una materia, verso un obiettivo, per fare quella cosa di cui si è coscienti. Mi veniva invece da rivolgere diversamente questa attitudine, che forse è un elemento del sogno libero verso cui andare. L’attitudine sarebbe qualcosa di naturale, si è portati verso quella cosa, per cui c’è una sorta…
R.C. Andare verso il sogno.
M.A.V. Per cui si è, come dire…
R.C. Come dire andare verso l’abisso.
M.A.V. Verso l’abisso?
R.C. O verso la cima. Come andare verso il sogno? Il sogno non è la meta della domanda.
M.A.V. No, mi faceva pensare ulteriormente a qualcosa, perché…
R.C. Il sogno è compagno di viaggio.
M.A.V. Sì, ma l’attitudine sarebbe qualcosa di naturale, per cui si può andare, si può andare verso quel qualcosa che è naturale, per cui si è portati. Mentre invece…
R.C. Questa è l’idea, appunto, che procede dal soggetto incapace. Allora, siccome il soggetto è per definizione incapace, avrà pur una piccola attitudine. Vediamo qual è. Quindi, l’idea dell’attitudine è la conseguenza dell’idea d’incapacità, cioè della negatività del soggetto. Il soggetto, per definizione, è debole, incapace e malato. Quindi, dato che è così, quale attitudine ha? Quale attitudine? Vediamo, poveretto, di capire quale sia, così lo mettiamo lì, nella sua casella, visto che, per definizione, è debole, incapace e malato.
M.A.V. E senza rischio.
R.C. Chiaro, perché l’idea è quella del laboratorio protetto. Vedo un altro mignolo alzato, piccolo, timido, un mignolino.
Sabrina Resoli Un’idea che è passata ora. Sempre rispetto all’attitudine o ai talenti…
R.C. Attitudine o talenti?
S.R. Attitudine e talenti, insomma, questa idea…
R.C. Perché abbiamo precisato che si tratta di due cose ben differenti. Lei vuole di nuovo conciliarli? Li vuole conciliare?
S.R. No, non li volevo mettere assieme.
R.C. Ah, non voleva!
S.R. No, non era questa…
R.C. L’intenzione era buona, però, poi, li ha messi insieme. Dica.
S.R. Allora, quando un insegnante o un educatore, o un genitore crede di cogliere talenti o un’attitudine per questa o quell’altra cosa in chi ha di fronte, non è sempre partendo da un’idea di classificazione, cioè finita, per cui quel talento sarebbe tale partendo da un confronto?
R.C. È una rappresentazione, una presentificazione.
S.R. Cioè, un talento presunto rispetto a un’idea di finitezza, per cui è misurabile quanto questo è di più, è meglio rispetto a…
R.C. Sì, il talento non può fare a meno del calcolo, del progetto, del programma. Questa è la questione. Non è una dotazione naturale, non è un bene di cui si disponga. I talenti sono da tirar fuori, per dir così. Come dicevo prima, insomma.
C.M. Ma c’è una constatazione?
R.C. E sì. Certo.
C.M. Però non ci si può contare.
R.C. Cioè, questo impiego non è per inerzia o per virtù naturale; come dicevo, è per forza. Per forza. Nessuno impiega i talenti per voglia, per volontà, ma per forza. È chiaro questo? Apre un altro scenario, rispetto all’idea corrente di predestinazione? Mi pare di sì. Quindi, nessuno può fare quello che vuole e, facendo quello che vuole, non impiegherà nessun talento. È chiaro? Capisco che, da parte vostra, non è bene accetto, ma è chiaro? Perché è importante. Non è dunque dalla dicotomia che procedono i talenti, ma dall’apertura; quindi non per volontà, non per bontà, non per “voglia”. L’impiego dei talenti esige il dispositivo.
Ecco, adesso mi pare che la temperatura si sia abbastanza raffreddata, per cui, se c’è l’ultima domanda, altrimenti ci diamo appuntamento alla settimana prossima. C’è l’ultima domanda? Ce ne vorrà un’altra per dimostrare che non era l’ultima.
C.M. C’è una precisazione: la particolarità, di cui Lei ha parlato nell’introduzione riguardo alla parola, e il talento sono cose distinte. Vorrei intendere se c’è una distinzione da fare tra particolarità, capacità e se la caratteristica interviene accanto alla capacità in una variazione continua.
R.C. Perfetto. Bene. Allora, ci diamo appuntamento a giovedì prossimo.