- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA TENTAZIONE
Cibo e erotismo
Ruggero Chinaglia Cibo e erotismo è il primo di una serie di quattro incontri, per affrontare alcune questioni che ruotano attorno a ciò che possiamo chiamare la tentazione.
La tentazione, attorno a cui abbiamo pensato di convocare ciascuno per indagare, riguarda il cibo e il modo di pensare alla vita; modo che, di fronte a determinate imprese, difficoltà, vicissitudini, spesso induce – anziché a trovare la forza – a cedere, a giustificarsi e a farsi vittima. Poi indagheremo intorno a una delle mitologie più in voga e diffuse di quest’epoca, che riguarda l’alternativa fra lo stress e il relax. Verificheremo, analizzando la questione, qual è il modo intellettuale di considerare ciò che viene chiamato comunemente stress e che indurrebbe a trovare come suo rimedio il relax.
È un’occasione, un pretesto, per indagare attorno a credenze, idee, mitologie, modi di pensare, per discuterne e verificare se queste credenze possono trovare un altro sbocco, un’altra articolazione, e quindi indicare qualcosa che – più che alla mitologia o all’ideologia – possa trarre verso un’ipotesi di qualità e di valore.
Tentazione è un termine che evoca qualcosa di proibito, di negativo, qualcosa che dev’essere negato, vietato, qualcosa che avrebbe a che fare con il male, e che negherebbe il bene verso cui ogni cosa dovrebbe essere orientata, secondo quella che è la concezione comune. Ma il termine tentazione, originariamente, ha questo significato negativo? Il termine greco “tentazione”, peirasmos, indica prova, esperienza; anche tentativo, sforzo, tensione. Originariamente quindi, questo termine non ha l’accezione che gli viene attribuita oggi, qualcosa che avrebbe a che fare con il proibito, con il negativo, con ciò che dovrebbe essere vietato. Accanto a peirasmos abbiamo altri termini, sempre in questa costellazione: peiras, peirasis, che indicano qualcosa della tensione, della tendenza, del tentativo, dell’impresa. Una tensione a intraprendere, questa è la tentazione: tentazione è ciò che risulta necessario per la curiosità e per svolgere una ricerca.
È in tale accezione che noi ci muoviamo per svolgere l’indagine, avvalendoci anche di ciò che nel corso di secoli e millenni è andato affermandosi.
La tentazione che noi abbiamo come evocazione immediata, la più nota, è quella di Adamo e Eva nel giardino dell’Eden, che sorge per un divieto che sarebbe stato impartito loro. La Bibbia dice: “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. Abbiamo un divieto e una minaccia di morte. Qui, come interviene la tentazione? Interviene con il serpente che dice alla donna: “Non morirete affatto, anzi Dio sa che quando voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. A fianco del divieto, della minaccia di morte, c’è la promessa, la promessa di diventare come Dio, di sapere, di conoscere il bene e il male, una promessa di conoscenza. È curioso che dalla promessa, dalla trasgressione, sorga la vergogna: “Si accorsero di essere nudi e provarono vergogna”. Sorge la coscienza come coscienza di colpa.
Accanto a questa tentazione, ne conosciamo almeno altre tre, che riguardano Cristo, le tre tentazioni di Cristo nel deserto.
Cristo, dopo il battesimo, è nel deserto. È a digiuno e la prima tentazione riguarda il cibo. Il tentatore lo avvicina e gli dice: “Se sei veramente il figlio di Dio, comanda, di’ a queste pietre, di’ a questi sassi di diventare pane”. C’è la premessa della tentazione, che non può essere trascurata: “Se sei, allora fai!”. C’è una sorta d’istigazione a dimostrare l’identità, a dimostrare chi sei e, se veramente sei quello che dici, allora fai questo.
Quello che c’interessa, nella combinazione con la questione del cibo, è la prossimità fra questa sorta d’esigenza di mangiare, questa indicazione a far sì che ciò che sta dinanzi divenga cibo, e la dichiarazione d’identità con la giustificazione: “Dai la prova che sei ciò che dici di essere”. C’è una sfida a dimostrare di essere per potere fare. Quante volte accade di sentire qualcuno che si giustifica rispetto a qualcosa che ritiene di non potere, di non dovere, di non sapere fare, dicendo che non è all’altezza, non è in grado e quindi non può? “Non sono, quindi non posso”.
In altri casi può intervenire l’altra ipotesi, di non avere e quindi di non potere. In questo caso, però, consideriamo l’ipotesi del non essere: “Non sono, non sei. Quindi non puoi o puoi”. “Dimostrami!”, “Dimostrami se sei, dimostrami se puoi”. C’è una sfida e un appello a una presunta identità che dovrebbe dimostrare l’origine, la genealogia, l’appartenenza come elementi di ricatto. Ricatto da una parte e giustificazione dall’altra, in quanto l’origine non sarebbe una certa origine, la genealogia non sarebbe una certa genealogia, l’appartenenza non sarebbe una certa appartenenza: allora neanche tentare! Questo è spesso quanto accade.
È da considerare in che modo l’idea dell’origine, dell’appartenenza, della genealogia possa incidere per quanto attiene al cibo e quello che ruota attorno al cibo. Cibo che può risultare gradito o sgradito, commestibile o non commestibile, buono o cattivo, positivo o negativo, con tutto ciò che gli va attorno come disturbo. Ma perché il cibo dovrebbe avere questa oscillazione, questa sorta di alternativa fra il positivo e il negativo? Perché il cibo dovrebbe partecipare dell’alternativa tra il rimedio e il veleno? Perché il cibo dovrebbe essere buono o cattivo? Che cosa chiamiamo cibo? Di cosa si tratta quanto al cibo?
Cibo è un termine curioso, che non ha niente a che vedere con quello che si mangia. Cibo indica ciò che si prende con la mano, che è a portata di mano, che la mano prende. Che cosa prende e che cosa resta nella presa della mano? Con quale mano prendere il cibo?
Leonardo da Vinci diceva che la mano è mano intellettuale. Tanto è vero che Leonardo pone fine alla polemica tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, perché dato che la mano è mano intellettuale, non c’è lavoro servile e lavoro intellettuale, non c’è cosa che possa risultare degradata e cosa che possa risultare intellettuale. Ciascuna cosa, in quanto partecipa della mano intellettuale, tende al valore e esige di trovare la qualificazione. Non è qualcosa che ha già un valore in sé, occorre trovarlo, e è il frutto della ricerca, il frutto della qualificazione.
Che il cibo sia qualcosa che esige la ricerca, l’indagine, il lavoro di analisi e di qualificazione, ce lo dice ancora una volta la Bibbia, testo antico che contiene numerosi risvolti di saggezza, quando dice che per quarant’anni, gli ebrei, che andavano vagando in direzione della così detta terra promessa, si nutrivano di qualcosa che veniva dal cielo e che non sapevano di cosa si trattasse. Tanto è vero che, a fronte di questa cosa che viene dal cielo, si chiedono Man hu?, che i greci poi rimandano con Ti es ti? “Che cos’è?”.
Ma, mentre il greco punta a rispondere in termini sostanziali, come il tentatore nel deserto che dice: “Fai diventare queste pietre pane”, ebbene, la domanda Man hu? non esige un’unica risposta, ma lascia a ciascuno la libertà, il modo della risposta. Infatti, dice la Bibbia, questo cibo sconosciuto resta sconosciuto! Nessuno sa di cosa si tratta, eppure se ne nutrono per quarant’anni e ciascuna volta è differente, mai lo stesso, mai tale per cui potrebbe dirsi: “È la stessa cosa di ieri”. È la stessa cosa di prima? No. È sempre un’altra cosa. Man hu? Che cos’è? Di cosa si tratta?
È la stessa questione alimentare. Di cosa si tratta, quanto al cibo? In che modo sorge l’idea che il cibo che abbiamo dinanzi sia lo stesso cibo che abbiamo già mangiato? In che modo questo comporta che, anziché trovarci dinanzi a qualcosa di nuovo, di sconosciuto, riteniamo di trovarci al cospetto di qualcosa di noto, rispetto a cui abbiamo un ricordo, ricordo che può essere sgradevole o gradevole? È proprio il ricordo che viene a sostituire il cibo nella sua originarietà, e farà in modo che attorno a questo cibo sorga qualche problema. Se il cibo ha come sua natura una combinatoria che non può essere prevedibile, questo ci induce all’assaggio. Non sappiamo di cosa si tratta, lo assaggeremo, lo proveremo. Costituirà una tentazione per capire di cosa si tratta, perché non so. Se invece presumo di saperlo già, ciò mi preserverà dalla prova, dal tentativo, dal provare a capire. È la presunzione di sapere già cosa ho davanti che costituisce il peso, l’impedimento, cioè toglie la manna. Non c’è più la manna, c’è il ricordo della manna, che viene a trovarsi in un’alternativa: buoni o cattivi ricordi, ricordi positivi, esperienze positive, cattivi ricordi, esperienze negative. Ricordi che tolgono la manna, tolgono l’originarietà del cibo, tolgono la domanda, quella domanda ingenua, originaria, curiosa, da cui muove e procede la ricerca.
La questione è: come fare a trovarsi al cospetto della manna e non già dei ricordi? Come istituire il dispositivo alimentare, il dispositivo della nutrizione che risponda in termini originari alla fame, alla curiosità, a ciò che Freud chiamava pulsione e non istituisca quella sorta di cappa che è la presunzione di conoscenza?
Se togliamo questa caratteristica originaria del cibo, togliamo al dispositivo alimentare il suo aspetto immunitario.
Di cosa si tratta nell’immunità? Si tratta propriamente dell’assenza di peso, dell’assenza di mortalità. Si tratta della leggerezza e di ciò che consente di accogliere la novità in ciò che abbiamo dinanzi. È la caratteristica di questo cibo, che può costituire l’alimento, il nutrimento. Non solamente in termini di apporto calorico – come se il corpo fosse meramente una macchina termodinamica – ma come apporto pulsionale, di ciò che ciascuno esige in termini pulsionali rispetto alla domanda, alla domanda di vita, alla domanda “come vivere?”.
È questo che fa sì che ciascuno proceda in direzione della soddisfazione della domanda e che ciascuno trovi il modo, non tanto di vivere nell’accezione di vita comune – che è quella che a un certo punto terminerà per un destino comune – ma nell’accezione di vivenza, cioè nel gerundio in atto. Gerundio, per cui in ciascun istante, per ciascuno, si tratta della vivenza: come fare vivendo?
Allora è un altro tempo che s’instaura, per ciascuno, rispetto alle cose che ha da fare, rispetto a un progetto e a un programma di vita. E il cibo diventa non solamente ciò che s’introduce per acquisire le calorie necessarie, ma il cibo è ciò che occorre in ciascuna direzione.
Per capire meglio quest’accezione di cibo, possiamo ricorrere a una lettera di Niccolò Machiavelli. Nel 1513 si trovava in una sorta di esilio – non era proprio contento di essere lì, mentre puntava a trovarsi a Firenze a curare affari di stato – e scriveva al suo protettore, in Vaticano, raccontandogli come viveva questo suo esilio. Dice che al mattino si leva presto con il sole e si dirige nel bosco, dove ha una tenuta, e per due ore si dedica alla sorveglianza dei tagliatori, perché questi taglialegna hanno sempre qualcosa da raccontare, hanno sempre delle beghe tra loro, hanno sempre qualche guaio. Lui sta a ascoltare e ne ricava elementi utili. Dopo di che si diparte dal bosco e si reca a una fonte, dove legge Petrarca, poeti latini, poeti minori e ne ricava molto conforto. Poi arriva l’ora del pranzo e si dirige verso l’osteria. Dirigendosi verso l’osteria incontra persone e lungo la strada si sofferma a parlare con loro. Ascolta, dispensa consigli e ne riceve. Poi, all’osteria. Dice: “M’ingaglioffo e per quattro ore giochiamo a carte, a tric e trac, a cricca, e volano le parole che ci sentono fino a chissà dove, e per un quattrino succede il finimondo, e non me ne vergogno affatto”. Poi, ultimo dispositivo della giornata: “Torno a casa e sulla soglia mi spoglio di questi abiti quotidiani, vesto abiti regali et curiali e mi rivolgo agli antichi, e gli interrogo attorno a varie questioni e loro hanno la compiacenza di rispondermi. Così trascorro quattro ore senza nessun affanno, dove non sento alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte e tutto mi trasferisco in loro”. E ancora: “In queste quattro ore io mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui”.
Nella giornata di Machiavelli ci sono tante cose e queste cose costituiscono il suo cibo. Eminentemente la sera, dove, scrivendo, leggendo, raccontando, scrivendo i suoi libri, le cose terrene restano dimenticate. Acquistano valore altre cose e da questo valore lui ricava la forza per andare avanti, per proseguire, per non lamentarsi del suo esilio, per procedere perché le cose non finiscono lì. Perché questa difficoltà è transitoria e c’è da andare oltre: si pasce di quel cibo che solum è suo.
Quindi si avvale di un dispositivo. Dispositivo immunitario che è anche dispositivo alimentare, dispositivo pulsionale, dispositivo intellettuale, che è dispositivo di vita.
Questa è la questione effettiva. Non dispositivo nell’alternativa fra la vita e la morte, fra il male e il bene, fra il positivo e il negativo, dove si tratterebbe di scegliere il male minore o ciò che rende possibile l’economia del male, puntando al bene. No! È un altro modo.
È un dispositivo da cui trarre la forza, perché la vivenza esige la forza, e senza la forza ognuno è disposto a cedere alle difficoltà: ritiene di non essere in grado, di non essere all’altezza, di dovere ricorrere a determinati aiuti, a determinate sostanze che possano aiutarlo a affrontare le cose.
Sorge così la fantasmagoria delle sostanze “di conforto”: chi deve fumare, chi deve bere, chi deve drogarsi, chi deve assumere farmaci per trovare la forza.
No! La sostanza non dà la forza. La forza è forza intellettuale. Viene dall’immunità, cioè dall’assenza di peso, dall’assenza dell’idea di mortalità, dall’assenza del fantasma di origine, dall’assenza del fantasma di appartenenza, che sono elementi vincolanti e che impediscono di procedere.
Concludo questa introduzione con un riferimento alla seconda parte del titolo di oggi, l’erotismo: abbiamo indicato alcuni criteri per qualificare il cibo; ora, che cosa intendere quanto all’erotismo? In che modo il cibo può combinarsi con l’erotismo? Quali sono le implicazioni, le conseguenze?
In parte, qualche indicazione l’ho già data e, cioè, che nel momento in cui, anziché la manna, noi abbiamo dinanzi l’idea di sapere già di cosa si tratti, ebbene, abbiamo già introdotto un aspetto erotico.
Presumendo di sapere di cosa si tratta, presumiamo di sapere anche a cosa serva.
La questione dell’erotismo è connessa con il piacere e con l’idea che ognuno può avere del piacere ma, sopra tutto, con l’idea che ognuno può avere di come riprodurlo! Come riprodurre il piacere di cui ho ricordo? Ecco, l’erotismo è questo: l’idea di potere replicare, riprodurre qualcosa che è già avvenuto e di poterlo anche padroneggiare, riprodurre a piacimento, non tenendo conto che il piacere è un effetto imprevisto, imprevedibile, sorprendente, che non risponde alle caratteristiche sperimentali. Un esperimento si ripete in maniera rigorosa nelle stesse condizioni di temperatura, pressione e quant’altro. È il così detto metodo sperimentale.
La pulsione e il piacere, invece, non seguono né il criterio né il metodo sperimentale. Seguono un altro modo.
È proprio per questo che Freud, a suo tempo, ha dedicato un saggio alla questione, dal titolo Oltre il principio del piacere , proprio per indicare che è vano prefigurarsi un finalismo rispetto a cui le cose si fanno per piacere: “Lo faccio perché mi piace”; “So che mi piace”.
È un abbaglio, è un’ipotesi, è un’idea. Sarebbe una forma economica per cui il fare dovrebbe approdare sempre allo stesso risultato. Ma ciascuno può provare per verificare che non è così. Molto spesso quel che è atteso non si verifica. C’è uno scarto tra ciò che accade e ciò che era atteso accadesse. Ebbene, questo scarto in taluni casi viene assunto in termini di mancanza: “Ecco, vedi, è colpa mia: non sono in grado, non sono capace”. “Doveva accadere questo e è accaduta un’altra cosa”.
È chiaro che questo scarto viene inteso come il segno della mia mancanza. In altro modo, questo scarto, invece di venire assunto, viene attribuito in termini di malevolenza: “Ecco, vedi, sei tu che non vuoi, non puoi o mi vuoi male”. Si apre la ridda delle rivendicazioni, dei lamenti, dei litigi. Per lo più, come notava Machiavelli per i taglialegna, sono guai, quei guai di cui i taglialegna erano piuttosto dotati.
Tutto ciò è materia di quelli che vengono definiti, in maniera molto facile e approssimativa, come disturbi dell’alimentazione.
Per il momento lascio la cosa a questo livello, poi la chiariamo più avanti.
Pubblico Nessuna sintesi allora. Il cibo non come apporto calorico ma come apporto pulsionale e si giustifica tutto?
R.C. In che senso si giustifica?
Pubblico Tutto torna, no?
R.C. Non si giustifica e niente torna. Ciascuna cosa va, procede. Dove vada non è già noto e ciascuna cosa costituisce la tentazione per indagare, per capire. Niente torna, perché questa idea del ritorno, in realtà, è una idea di morte, è una idea che nega il cammino e il percorso. Niente torna, ma ciascuna cosa va. Va, ma non ritorna mai. Sopra tutto non ritorna indietro, non ritorna mai al punto di partenza.
L’interessante della questione è che non c’è cerchio. Per questo non c’è conoscenza del bene e del male, come diceva il tentatore. Non c’è conoscenza che possa chiudersi in un sapere definitivo.
La questione è quella d’insistere nella ricerca che non ha da finire e che in nessun caso può prestare il fianco al cedimento erotico. C’è una differenza essenziale, anche per la questione alimentare, fra erotismo e sessualità.
Verifichiamo se ci sono domande e poi vediamo se ci sono punti che esigono chiarimento.
Enrico. Cosa intende lei per dispositivo? È una cosa nuova per me. Mi sembra di avere capito, ma non ne sono sicuro, che sia qualcosa che distingue il bene dal male. Non mi è chiaro questo termine, non afferro il concetto. Il dispositivo è un meccanismo, un concetto, un sistema di organizzazione? Cosa significa?
R.C. Il dispositivo non è né un concetto, né un sistema, né un meccanismo. È chiaro che è una nozione nuova, differente da quelli che sono i termini solitamente usati, perché, nel modo comune di parlare, viene auspicato che ci sia il concetto della cosa, più che la cosa, un sistema in cui questo concetto valga per tutti e, magari, un meccanismo messo in moto nel sistema e che sia chiaro come funziona. Proviamo a ipotizzare l’inesistenza del sistema, ossia, che cosa…
Pubblico Mi scusi se la interrompo. Il concetto della cosa è una cosa aristotelica?
R.C. No. Il concetto sarebbe qualcosa che è comprensibile comunemente a tutti: un valore standard. Se noi c’imbattiamo in una questione, per esempio abbiamo un problema digestivo rispetto a un cibo, e c’è chi dice: “Io non posso mangiare quel cibo”, allora questo diventerebbe un concetto; quel cibo, in quanto tale, non è commestibile. Ma se proviamo a riflettere sulla circostanza in cui quel cibo è stato mangiato, il modo, l’ambiente, può accadere che scopriamo che non era il che cosa è stato mangiato, ma il come è stato mangiato e le connessioni con altre cose, con cui il cibo non c’entra nulla, che, però, hanno fatto sì che la sua digestione ne risultasse rallentata se non impedita. “Qualcosa mi è rimasto qui”. Quel qualcosa non è la bistecca, non è la verdura, è altro. Per riuscire a cogliere questo qualcosa, che non è dato da una sostanza bensì da una particolare combinatoria, occorre un dispositivo dove gli elementi si dispongano non come elementi già conosciuti ma come del tutto sconosciuti. Allora può avvenire l’analisi di questi elementi e è possibile capire qualcosa di più, del perché, lì, qualcosa si è incagliato.
Questo processo, che consente di capire e di restituire la leggerezza a qualcosa che l’aveva persa, necessita non già di un concetto, non già di un sistema, ma di un dispositivo, in cui viga l’ipotesi di combinatorie infinite.
Un sistema è caratterizzato dalla sua finitezza, altrimenti non può darsi come sistema. Qualcosa risulterebbe non previsto né prevedibile. Ciò che caratterizza il sistema è che le operazioni, nel sistema, devono essere finite.
Un dispositivo, invece, è qualcosa che non è finito, dove le combinazioni sono infinite, l’ambiente è un ambiente infinito. Che cosa caratterizza questo? Che risulta impensabile, sfugge alla pensabilità, alla prevedibilità, alla calcolabilità. Sfugge a ogni ipotesi superstiziosa e ciò ne dà già un aspetto di valore.
La superstizione, che è l’idea di qualcosa che sta sopra e che governa quello che sta sotto, si afferma in una sistematica: se il sistema non c’è, anche la superstizione non può affermarsi.
Questa è la parola, questo è l’ambiente della parola, rispetto invece a una sistematica che possiamo chiamare il discorso, come il discorso filosofico, per esempio.
Ecco, non so se sono riuscito a dare qualche elemento.
E. Si potrebbe dire che questo dispositivo sarebbe un insieme di variabili che si comportano in maniera caotica?
R.C. Non si comportano, accadono!
Viene meno la nozione di comportamento, ma interviene quella di accadimento. Ciascuna cosa accade e l’accadere non è regolato da un criterio probabilistico e possibilistico, e ciò ha una portata straordinaria.
Se, invece, credo che il mio fare, il mio ambiente, le cose che mi stanno attorno rispondono a un criterio probabilistico e possibilistico, allora sono piuttosto ancorato, sarò rallentato, impedito nel procedere, perché sono preso e occupato da questa idea di probabilità, che è un’idea superstiziosa.
Adesso vediamo se con altre domande riusciamo a chiarire ulteriori aspetti. Ci sono altre domande? Sì, prego.
Pubblico Un sistema come lo descrive lei, senza relazione – come ha detto l’altra volta – è un sistema che non ha regole?
R.C. Questo non è detto.
Pubblico È un sistema che evolve nel suo opposto. Trova solo nel suo opposto il suo limite, mi sembra. E poi c’è un problema di significazione, perché ogni significante potrebbe avere un’infinità di significati.
R.C. Questo sarebbe un guaio?
Pubblico Se non ci sono le regole. Come in grammatica. La grammatica, in un certo senso, limita il numero dei possibili significati che ogni significante potrebbe avere.
Pubblico Come dice il signore, non essendoci regole, tutto è soggettivo, ambiguo.
R.C. Soggettivo o ambiguo?
Pubblico Per me hanno lo stesso significato. Non c’è l’oggettività allora?
R.C. Non ci sarebbe l’oggettività? Però questo non è un problema. Lei, come qualifica l’oggettività?
Pubblico L’opposto della soggettività. Universale.
R.C. Se noi pensiamo che la cucina sorge proprio perché non c’è questa alternativa tra soggettività e oggettività, ma perché esiste una gamma infinita di combinazioni, noi possiamo considerare la cosa di un certo interesse e possiamo qualificarla come l’arte della combinatoria del cibo. Il cibo non ha già assegnato un significato e un valore ma, proprio per via della combinatoria, acquisisce un aspetto nuovo e differente.
Pubblico Non si torna al Man hu?
R.C. Man hu? Sì, certo. È una chance potere trovarsi al cospetto della manna.
Qual è l’altra faccia dell’idea di conoscenza? È l’idea di fine del tempo. Noi possiamo presumere di conoscere qualcosa solo presumendo che, per quella cosa, sia finito il tempo. Allora quella cosa resta tale. Ma se il tempo non finisce, quella cosa è mobile e, di volta in volta, possiamo chiederci: come interviene? Come interviene quella cosa che non è la cosa già conosciuta, ma è un’altra? Questo processo per cui le cose in cui ci imbattiamo non sono già significate, non va da sé; è qualcosa che esige umiltà e la necessità di capire, non la presunzione di sapere. Se si stabilisce questa istanza, che è istanza per ciascuno, la vita cambia aspetto.
Per riprendere la questione del cibo, vi sarà capitato di sentire una mamma che dice al suo bambino: “Mangia. Fallo per me!”; “Se non mangi tutto mi dai un dolore”. Allora il pasto, per quel bambino, diventa un pasto d’amore, perché o mangia l’amore della mamma, e il cibo diventa il segno dell’amore, o arrecherà un dolore. Sarà combattuto credendo a questo appello, tra pasto d’amore e pasto d’odio.
In quante forme, in quanti modi può istaurarsi la significazione del cibo, come significazione dell’amore o dell’odio o come significazione del cannibalismo?
Vi sarà capitato di sentire dire da qualcuno vedendo un bel ragazzo o una bella una ragazza: “Uh, che bel bocconcino”, oppure la mamma che dice al bambino: “Ti mangerei”. Tutto ciò, al di fuori di un’elaborazione, può diventare significazione. Può diventare cannibalismo bianco.
Voi non ignorate che le forme cannibaliche cruente riguardavano il pasteggiare col corpo del nemico vinto, per acquisire le caratteristiche positive di quel nemico: la forza, l’audacia, il vigore. Ebbene, se viene posta in una sostanza – in un cibo che viene considerato sostanza – una certa significazione, assumere quel cibo vuole dire assumere quella significazione; e se questo non entra in una elaborazione, può produrre delle conseguenze in termini di rifiuto: rifiuto del cibo, rifiuto di ciò che sta attorno. Oppure, al contrario, può indurre a cercare, nell’assunzione di quella significazione, una significazione ampia e definitiva di sé, cioè una forma d’identità, quella stessa identità che Satana chiede a Cristo, dove dice: “Se sei veramente il figlio di Dio, fai così; se non lo sei, non lo potrai fare”. Ecco la prova! La promessa, la minaccia, il ricatto, tutte figure rispetto alle quali, in assenza di ricognizione e d’indagine, si possono produrre titubanze, incagliamenti, cedimenti. L’idea di un limite che, assunto, porta a dire: “Io non posso”; “Non posso farlo”; “Comunque non posso”; “Non potrò mai”; “Non sono all’altezza”.
Ciò può avere dei risvolti nella scuola, nell’università, rispetto a un’ipotesi di relazione, a un’ipotesi di lavoro. Rispetto alla salute può compromettere l’ipotesi di salute, perché, se non si stabilisce il dispositivo immunitario, pure la salute risulta compromessa.
Nadia Vidale Qual è la differenza tra la significazione e la metafora? La significazione la metterei in relazione alla sostanza, alla cosa in sé, alla cosa stabile. Apparentemente potrei sovrapporre le due strutture, cioè dire, che c’è significazione rispetto a “Mangia, fallo per me!”, come significante, e il significato diventa un gesto d’amore, stabilendo un nesso per cui l’assunzione del cibo diventa il segno, la prova dell’amore. Direi invece che c’è metafora, dove dico qualcosa che rimanda a qualcos’altro, ma questo è in qualche modo necessario, ossia io non potrei dire qualcos’altro. Parlo per metafora, perché è la via con cui posso giungere a intendere una cosa che forse non sarà mai saputa, ma che forse non c’era prima.
R.C. Il principio della significazione abolisce e nega l’intervento della metafora. Attribuire a qualcosa un segno, positivo o negativo, in qualche modo nega la possibilità che questo qualcosa possa acquisire un altro senso per via metaforica, nel momento in cui interviene nella concatenazione una sostituzione che produce un’alterazione del senso. Se vige il principio della significazione, il senso è bloccato e non interviene l’ipotesi di una possibile elaborazione di quel termine, di quella cosa, almeno come premessa. Se poi accade che si avvii un dispositivo di parola, ebbene, anche la credenza più radicata in una significazione può trovare articolazione di un altro senso e dissipare quella credenza, quella fantasia monolitica. È questa la chance della parola!
Francesca Volevo chiederle: cos’è che dovrebbe spingermi a riconoscere il fatto che vivere secondo un dispositivo sia meglio che vivere all’interno di determinati schemi? Se quegli schemi sono l’unica mia salvezza e l’unico modo per ottenere la felicità, perché no? Cos’è che mi spinge a modificare il mio pensiero se, effettivamente, la mia felicità è data da quegli stessi fallimenti a cui mi portano i miei schemi? Cos’è che dovrebbe spingere una persona a modificare una sua credenza, cioè eliminare la presunzione di sapere il significato di ogni sua azione? Come può una persona accorgersene, se è convinta dei suoi schemi? E chi mi dice che sia meglio eliminare questi schemi, queste finite possibilità? Non so se si è capito quello che ho detto.
R.C. Perfettamente. Cosa fa nella vita?
F. Studio filosofia, sono al primo anno e prima ho fatto il liceo classico.
R.C. Se non sono indiscreto, perché ha scelto filosofia?
F. La risposta non è scontata, non posso dirlo in pubblico.
Pubblico Evidentemente Francesca non conosce il detto latino primum vivere, deinde filosofare.
R.C. Sì, i latini avevano questo vezzo di classificare le cose in una successione, perché numeravano partendo dall’uno. I latini avevano una numerazione finita, non conoscevano lo zero. Ignorando lo zero, ignoravano anche l’infinito e pensavano che ci fosse un prima e un dopo tra il vivere e il filosofare, cioè ignoravano l’ipotesi dell’integrazione e della simultaneità.
Ma non possiamo assumere questo motto latino per giustificarlo. Per altro Francesca dice che la questione si pone in altri termini: vivere e filosofare, non secondo i latini, ma secondo un’altra esigenza.
La questione non è che si tratta di stabilire qualcosa secondo il criterio del meglio o del peggio, tanto meno secondo quello della salvezza. Se noi ipotizziamo di fare una cosa perché dovrebbe salvarci da qualcosa, quella cosa è gravata dalla minaccia: ogni ipotesi di salvezza è gravata da una minaccia!
F. C’è la possibilità che ci crolli addosso?
R.C. Più di una possibilità che ci si sbatta contro. Cioè, diventa quasi il timone, quella cosa.
F. Ma se riesco a gestirla, non c’è più la possibilità che ci si sbatta contro?
R.C. Certo, se lei sa gestirla! È qui che si gioca la partita, attorno al fantasma di padronanza. Padronanza della salvezza? Padronanza sulla felicità? Felicità: è una questione importante la felicità, no? Ma la felicità è l’altra faccia della salvezza?
F. Per me no! Anzi quasi s’identifica.
R.C. Lei sarà felice quando sarà salva?
F. Anche, sia quando salvo sia quando sono salvata.
R.C. Perché? Lei ipotizza che può salvare?
F. Mi sento un po’ onnipotente in questa sua descrizione.
R.C. Finora noi non abbiamo avuto tante testimonianze di salvatori.
La questione che lei pone è interessantissima, ne teniamo conto per l’argomento della prossima settimana. La sua domanda è importante, perché allude a un’esigenza assoluta: di quale sia il criterio rispetto a cui, per esempio, istaurare un programma di vita. Quale criterio?
Ci sono altre domande?
Pubblico Secondo il suo suggerimento, con umiltà, si tratta di fare emergere lo spirito. Però, prima di questa cosa, se ci mettiamo l’istanza di ricerca di una qualificazione, ciò può cozzare contro la domanda pulsionale? Qui ci vuole un’altra mente che governa queste due (noi ne abbiamo una che si divide in due), insomma un’altra mente che deve governare questa drammatica vicenda, cioè andiamo a cercare la domanda, però andiamo anche a infrangere lo spirito della domanda. Ma, in mezzo a tutto questo, c’è la realtà che, purtroppo, non trova spazio per una collocazione.
Enrico Volevo fare un’osservazione riguardo all’identificazione fra la salvezza e la felicità. Quando si parla di salvezza si parla di salvezza dal male, di conseguenza si tira in ballo la questione del comportarsi bene o male, cioè la morale. Ora, può essere che noi consideriamo la felicità allo stesso livello della salvezza, se noi pensiamo che l’unico modo per ottenerla sia comportarsi bene. Ne risulta che abbiamo bisogno di un metro per giudicare cosa sia bene e cosa sia male. Se, invece, consideriamo la felicità come il compimento, anzi l’intraprendere un percorso per la realizzazione di sé e diventare quello che si è, questo forse non tira più in ballo la salvezza.
R.C. Diventare ciò che si è. È un contributo in vista della settimana prossima.
Maria Antonietta Viero Mi veniva in mente una considerazione a proposito del cannibalismo bianco, la bulimia e l’anoressia, che sono considerate patologie. Credo, invece, che affondino le radici proprio lì, in questo pasto d’amore e pasto d’odio.
Ciò potrebbe dirsi anche per quanto riguarda l’alcolismo. Per esempio in Veneto, nel detto genitoriale: “Sì, un dito di vino fa sangue, fa bene”. Fa bene. Non è detto che non abbia radici, in questo senso, anche un certo modo dell’alcolismo?
Un’ultima questione. Qualcosa che riguarda il dispositivo d’immunità. La sostanza toglie l’immunità. La domanda è: per ragioni di salute, come acquisire lo statuto d’immunità?
Sabrina Resoli Il termine dispositivo allude a disposizione, il disporsi, cioè dove le cose si dispongono rispetto all’infinito e sono libere di qualificarsi. Possiamo chiamare dispositivo quell’ambiente intellettuale, quel dispositivo intellettuale che s’instaura lì, proprio quando non c’è significazione?
R.C. Bene. Questo è un contributo importante.
Concludiamo qui l’incontro e ci diamo appuntamento per proseguire questa ricognizione attorno al modo della tentazione. Il titolo della prossima settimana è La vita come reality, in cui ci saranno alcune ipotesi di articolazione rispetto alle proposte che sono sorte questa sera.
La vita come reality
Ruggero Chinaglia Iniziamo annunciando un evento che ci sarà la settimana prossima, per presentare il volume In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica. Interverrà l’autore, Sergio Dalla Val, psicanalista, scienziato, imprenditore, per discutere insieme a noi sul tema L’impresa intellettuale e la soddisfazione. Il dibattito si svolge alla Sala degli Anziani con ingresso libero. Ci saranno anche alcuni interventi. Il libro, già disponibile nelle librerie, racconta l’esperienza di Sergio Dalla Val, in merito alla sua formazione, al suo lavoro, alla sua ricerca, alla sua impresa e vi si trovano tante annotazioni, tanti pretesti per ragionare, per riflettere, per avviare una ricerca differente. Sicuramente è un libro non convenzionale, un libro di valore che vi consiglio.
Proseguendo l’esplorazione della questione che abbiamo in calendario, procediamo a svolgere l’analisi della tentazione in alcune sue riverberazioni. La settimana scorsa abbiamo analizzato la struttura della tentazione di cui parlano la Bibbia e il Vangelo. Nel caso della Bibbia la formula prevede che si possa fare tutto meno una cosa. È questa la tentazione di Eva, che non può mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Nel caso del Vangelo, la formula è invece: “Se sei veramente il figlio di Dio…”. Può essere anche: “Se sei…allora fai questo o quello”, a indicare una sorta di sfida a dimostrare che la possibilità di fare dipende da un’identità.
Nel caso “Se sei il figlio di Dio…”, è una sfida che riguarda l’inscrizione in una genealogia e ogni genealogia comporta come corollario l’idea di origine, cui corrisponde l’idea di fine. Nel caso di Eva c’è qualcosa da mangiare, la mela. La mela diventa ciò che rappresenta la trasgressione alla prescrizione ricevuta: “Puoi fare tutto, meno questo”, tutte le cose sono buone, tutte le cose sono possibili, meno una.
La formula “Tutti meno uno”, “Tutti gli uomini meno uno”, “Tutte le donne meno una”, è anche la formula dell’incesto, così come è proposta, per esempio, nel mito di Mirra. Mirra può innamorarsi di tutti gli uomini, può andare con tutti gli uomini meno uno, il padre. E è proprio di quello che, invece, Mirra s’innamora e è proprio quello con cui Mirra giacerà. Ovidio fa terminare il mito in un modo che assolve Mirra, che non subisce la punizione, né quella che vorrebbe il mito greco per cui il padre la uccide, né quella che vorrebbe il mito latino, per cui Mirra s’impicca o vorrebbe impiccarsi. Ovidio fa intervenire gli dei e Mirra è trasformata in albero. Non c’è il segno della punizione, non c’è il segno del peccato, dell’avvenuto incesto. Non si realizza questa sorta di prescrizione per cui esisterebbe un atto proibito o che sarebbe da negare, perché non casto.
Incesto vuol dire non casto, un atto segnato dal male, dal peccato, dalla negatività. Con l’incesto, qualcosa fonderebbe la serie di ciò che è proibito, di ciò che è peccato, di ciò che è male. La serie della negatività.
Per restare nell’ambito della questione cibo, che abbiamo esplorato l’altra volta, è da analizzare, da interrogare ciascuna volta che interviene, per esempio, una fobia alimentare, un rifiuto per qualche alimento, per qualche cibo, per qualcosa che viene connesso al mangiare. È da indagare se questo qualcosa non si sia scritto come rappresentante di un atto di trasgressione, di ribellione, come rappresentante di un atto che contraddice la legge, quella legge che è ritenuta valida, anche come legge dell’incesto: “Non puoi fare quella cosa”; per cui, quel cibo, quell’alimento, quella cosa, diventa il segno di un atto che non doveva essere compiuto e, ciascuna volta che si presenta, rinnova le caratteristiche di divieto, di negatività.
Questo ci pone dinanzi alla constatazione che la tentazione che imporrebbe o l’identità o la possibilità di fare tutto, meno una certa cosa, situa il possibile campo di azione tra due possibilità bene definite: una possibilità positiva e una possibilità negativa. O bene o male, o positivo o negativo. Non sarebbe data altra possibilità e ognuno si deve rappresentare il suo ambito d’azione in un’oscillazione tra queste due possibilità: o il bene o il male, senza altra eventualità. È proprio la negazione di quest’altra eventualità che costituisce quella gabbia in cui, come diceva Platone, “Ogni soggetto viene scagliato nella gabbia che si chiama mondo”, in cui ognuno è costretto a oscillare tra bene e male, senza altra eventualità; quell’altra eventualità che interviene con la parola.
La parola non è rinchiusa nell’alternativa fra bene e male, ma per ciascuna cosa che si situa nella parola si tratta di trovare il valore. Non già se è bene o se è male, ma il valore.
Ciò esige un processo di analisi e di qualificazione, perché le cose non sono già date, non hanno un segno o un significato stabile, ma entrano in un processo di qualificazione. È questo che la volta scorsa chiamavamo il dispositivo di parola, una struttura in cui le cose non sono già con un senso, un significato, un segno stabilizzato, stabilito, ma entrano nel movimento, cioè avvengono, divengono, accadono, e non “sono”.
La tentazione che abbiamo esplorato “Se sei, allora fai”, pone il primato dell’essere. In “Se sei, allora puoi fare” o, addirittura “Se sei, dimostramelo facendo questa cosa”, interviene una sfida, ma sempre a partire da un primato dell’essere. Questo comporta, per quel che riguarda l’argomento di oggi, qualche contraccolpo, qualche contrappasso, qualche inconveniente.
Per rimanere nell’ambito della questione cibo, l’altra volta non abbiamo fatto in tempo a affrontare la questione della dietetica come prescrizione a non mangiare o a mangiare certe cose, in quanto potrebbero fare bene o fare male, e occorrerebbe privilegiare alcune cose sulle altre, a prescindere da come quel cibo interviene per ciascuno, ma in nome dell’appartenenza a un genere, che sarebbe il genere umano. A questo genere occorre somministrare quel cibo che dev’essere un cibo, per esempio, sano. “Occorre mangiare cibi sani”. Questo è lo slogan, e il cibo sano dovrebbe assicurare la salute, come se la salute fosse uno stato: lo stato di salute.
Che la salute si possa perdere anziché acquisire è una fantasia piuttosto frequente. Ognuno pensa che è sano e deve temere di ammalarsi. Nessuno pensa alla salute come a un’istanza, come qualcosa che si acquisisce in quanto è il frutto di un’istanza di valore, della tensione al valore e che la salute si produce lungo questa istanza come ciò che si conquista, perché s’instaura il dispositivo immunitario.
Non certo nel modo in cui lo elabora il discorso medico, che fa del dispositivo immunitario un dispositivo di protezione contro ciò che sarebbe ostile, contro ciò che sarebbe nemico, contro l’Altro, sconosciuto, che può diventare agente patogeno.
C’è un’altra accezione di dispositivo immunitario, che riguarda l’immunità come assenza di peso, assenza di munus. Munus era il dono di morte. Munus è anche la fortificazione contro ciò che sarebbe ostile. Ma, che cosa è ostile? Che cosa è nemico? Il problema è che non è dato saperlo prima.
Rispetto al cibo, rispetto all’alimentazione, che cosa sarebbe da escludere e perché? Su che base? Tutto ciò esige per ciascuno una indagine. Non è già dato il perché alcune cose possano risultare vuoi indigeste, vuoi fonte di allergie. Adesso va molto di moda l’intolleranza alimentare, le intolleranze. E nessuno si è soffermato su questo termine, intolleranza, come qualcosa che è strettamente connesso all’immunità. Per quale via? Per la via della tolleranza. Intolleranza alimentare, cioè qualcosa non è tollerato. Ma, come? Da chi e perché? Per quale combinatoria? Intolleranza ai pollini, intolleranza alle polveri, intolleranza agli animali, intolleranza ai cristiani, intolleranza agli islamici. Intolleranza, molta intolleranza. Poi, diventa anche intolleranza alimentare, cioè è un principio di selezione che si estende sempre di più.
Un principio di selezione che parte da dove? Dal principio d’identità? Ci sarebbe un’identità che contraddice qualcosa, per cui quella cosa che verrebbe messa in discussione risulta un problema? Per intolleranza? C’è da indagare, perché, se vige il principio dell’alternativa fra positivo e negativo, senz’altra possibilità, l’intolleranza è prescritta: occorre andare verso il bene e non tollerare ciò che è male. Se l’alternativa è fra due, fra il bene e il male non c’è scelta, bisogna scegliere il bene.
Ma che cosa è bene? Bene è qualcosa che risponde a un criterio morale, religioso? E come si qualifica il bene? Come interviene in un processo di qualificazione, questa cosa che viene detta bene? Come giunge al valore? Ciò apre tutta una gamma di sfumature che, dove vige l’alternativa tra una cosa e il suo contrario, è negata.
La gamma infinita delle sfumature è negata, se vige il principio dell’alternativa esclusiva! Quest’ambiente, dove è negata la gamma delle sfumature, è l’ambiente più frequentato al mondo, perché è il mondo! La sola rappresentazione del mondo che si possa fare è quel mondo retto dal principio d’identità, dal principio di non contraddizione e dal principio del terzo escluso. Qui la gamma delle sfumature è esclusa, perché ognuno è posto di fronte all’alternativa fra una cosa e il suo contrario, in quanto tertium non datur.
Occorre, invece, che s’instauri proprio questo tertium, l’altra cosa che avvia la serie delle combinazioni. Questa è la questione della parola. Questo è ciò cui introduce l’analisi, che non si svolge tra una cosa e il suo contrario, ma consente di qualificare quello che s’incontra, di valorizzarlo, fino a divenire realtà della vita. La questione di qual è la realtà della vita, che non è la realtà dell’essere. È la realtà della parola, la realtà in cui le cose si dicono, si fanno, si scrivono, si compiono, giungono a conclusione e divengono valore. Per divenire valore c’è bisogno di questa processualità, perché le cose non sono uguali per tutti. Ciascuna cosa interviene in modo differente e vario, nel caso in cui ciascuno si trova. Qual è questo caso? Come si articola? È la scommessa in cui si trova ciascuno, che comporta la vita come altro scenario rispetto a chi la pensa come il processo di avvicinamento alla morte. Pensarla così è un modo di svalutarla, di privarla di valore. Ciascun istante della vita è come se non avesse importanza. Se la vita diventa l’avvicinamento alla morte, viverla in un modo o viverla in un altro è la stessa cosa.
Ma non è così e vivere non è vivere con l’incubo della fine. Questo diventerebbe un problema e è ciò che si tratta di analizzare e elaborare: l’idea di una fine incombente, che procede con il fantasma di origine, con il fantasma di genealogia, che trae con sé il fantasma di fine. Cosa che non è rara, non è affatto rara, anzi, è assai frequente. Solo che non è esplicito questo fantasma di fine.
Quando, per esempio, una persona che sta per cominciare una ricerca, un viaggio, si chiede “Ma quanto durerà, quanto dura questa cosa?”, si trova già dinanzi al suo fantasma di morte. Interrogarsi sulla durata delle cose è già un modo di partire dalla fine delle cose, anziché lasciare che la cosa segua il suo corso. Quanto dura? Vi è mai capitato di sentire qualcuno che dice: “Andiamo, facciamo, sì, ma quanto dura il viaggio, quanto dura la ricerca, quanto dura l’esperienza?”. Quanto dura? Quanto dura la vita? Non si sa, non dura affatto. Perché se dura, vuole dire che è trascinata in una costante e affannosa idea che possa finire da un momento all’altro.
L’idea della durata del tempo è un’idea di fine. Il tempo non dura e c’è modo di accorgersene quando intraprendiamo qualcosa in cui c’è soddisfazione. Facendo quella cosa noi non stiamo lì a guardare l’orologio, a pensare a quando finisce e a chiederci “Ma quanto dura?”. In questo caso c’è la soddisfazione che interviene facendo.
Il modo gerundivo di fare sospende l’idea di fine, indica che si è instaurato un altro tempo, che è il tempo della parola e che non ha nessuna durata. La parola dura? Quanto dura parlare? Non dura. Qualcosa si dice, poi le cose procedono e ci sono effetti di senso, effetti di sapere, effetti di scrittura, ma non c’è l’assillo della durata.
Se, invece, interviene questo assillo, già ciò indica una fantasmatica che riguarda la fine che grava sulle cose e impedisce l’instaurazione del dispositivo immunitario.
Quando qualcosa sembra destinata a finire, allora comincia a pesare e si fa fatica.
Non che sia faticosa la cosa in sé, è l’idea di fine che la rende faticosa perché toglie la spinta, e le cose, senza la spinta, pesano. È una cosa semplice, ma esige una procedura particolare, non è automatico che questo avvenga. Come dicevamo la settimana scorsa, esige la dissipazione dell’idea di sistema finito e ogni sistema s’ispira, per lo più, alla termodinamica, dove vige la legge della degradazione dell’energia. A cosa tendono le cose in un sistema finito? Al valore? Alla riuscita? Alla qualità? No, tendono all’equilibrio, cioè tendono a stabilizzarsi e, una volta che il sistema è in equilibrio, per definizione è morto. Sembra paradossale, ma è così. Se ci s’ispira all’idea di ambiente, di vita, di dispositivo, l’incubo della fine è sempre sopra di noi, e allora c’è il pericolo di fine.
Facendo l’esperienza della parola, invece, ci troviamo in un altro ambiente, dove le cose tendono al valore, non all’equilibrio. Vengono dall’equilibrio, caso mai, e tendono al valore, alla riuscita. Allora, è tutta un’altra cosa. C’è un’altra spinta, ma non automaticamente, per via di procedura, per via del modo che s’instaura. E adesso vediamo di capire come.
Innanzi tutto perché ci troviamo in un contesto, in un ambiente e in un dispositivo in cui le cose non sono, ma accadono, avvengono, divengono in un processo che non è indipendente dal progetto e dal programma di vita. Non è un fatto di buona volontà. La realtà della vita segue il progetto e il programma, non è una realtà standard, comune per tutti. Esige quanto meno l’oralità, ossia il processo narrativo, la scrittura, la lettura, la memoria, l’analisi di ciò che accade, l’elaborazione del fantasma di origine che ha il suo pendant nel fantasma di fine. E questo non procede dall’identità prefigurata.
Oggi è in voga, è ricorrente la formula “Sii te stesso”, oppure, “Conosciti, devi sapere cosa sei”, come se questo fosse possibile. Per sapere quello che si è, la medicina ha inventato l’autopsia, con il corpo morto, obiettivamente esaminabile, obiettivamente riconoscibile, per dire “Ecco, è questo”. Allora possiamo conoscere una cosa in quanto è immobile, morta. Questo è conoscibile: l’immobile, ciò che, senza tempo, è così.
Se qualcosa invece si muove, accade, avviene, diviene, allora si trasforma. Come si fa a dire: “La conosco. È così. Io sono così”? Dire: “Io sono fatto così” è una condanna, è la morte civile.
Che vi sia l’ambiguità non è qualcosa di negativo, è proprio ciò da cui prende avvio l’indagine. L’ambiguità è necessaria, ma non siamo noi che rendiamo le cose ambigue. Le cose procedono dall’ambiguità, che è ciò da cui si avvia la domanda, la ricerca, l’indagine. L’indagine si avvia perché qualcosa è ambiguo. Ambiguo in che senso? Nel senso che sfugge, va in più direzioni. Cosa vuol dire ambiguo? Ambigere, andare in due direzioni. Non alternativamente di qua oppure alternativamente di là. No, di qua e di là, simultaneamente, allora qualcosa è ambiguo. Ambiguità si può dire in un altro modo, si può dire anche disagio, , dis-agere, andare in due direzioni.
Ma è l’accezione nobile, perché oggi disagio è usato impropriamente come sinonimo di malattia mentale e si sente dire: “Poveretto, soffre di disagio mentale”. Negli ultimi anni, anche tecnicamente, cioè psichiatricamente. Non si dice più che uno è malato mentale, si dice che è disagiato. Questa sarebbe la tecnologia linguistica.
Il disagio originario è una virtù della parola, non è qualcosa di negativo, non è qualcuno che ha disagio. Occorre astrazione. La parola procede dal disagio, cioè dall’ambiguità, per cui esige il chiarimento, esige di fare chiarezza. La chiarezza non si fa accendendo la luce, come voleva l’illuminismo: accendi la lampadina della scienza e tutto è chiaro. No, quella è la scienza dell’autopsia! Esige l’indagine linguistica, logica, per capire quali sono gli elementi che intervengono e che non sappiamo già quali sono. Ci vuole molta umiltà per capire. Presumere di essere o di dovere essere è veramente una condanna che nega la ricerca, nega il viaggio, nega tante cose, anche la soddisfazione di trovare.
Quando Archimede trovò, disse: “Eureka!”. Disse “Ho trovato” con un atto giubilatorio, di soddisfazione, perché non sapeva e, indagando, giunge a capire qualcosa. E questo vivendo nel gerundio.
Applicando il discorso comune, si appartiene al modello standard, e allora si soffre molto. Non si può prescrivere a nessuno l’appartenenza o il fantasma di origine. A nessuno si può negare la gioia, la felicità, il piacere; ma non come promessa di uno stato di cose. La felicità è un effetto che si produce cammin facendo. Talvolta ricorre la formula: “Il mio obiettivo è la felicità, vivo per essere felice”. Quando? Come? In che modo? È impossibile pensare la felicità, così come il piacere, la gioia, la soddisfazione. La felicità è un effetto imprevisto, giunge per una combinatoria non calcolabile e è istantanea.
Qual è la realtà della vita? A quale realtà possiamo appellarci e fare riferimento? C’è una realtà che possiamo prefigurare, configurare, rappresentare, per riprodurla? La realtà risponde al criterio del probabile o del possibile? Talvolta accade che, rivolgendosi a professionisti o esperti per una previsione di fattibilità di un progetto – accade vi si faccia ricorso o appello per accertarsi se vi siano forti probabilità che qualcosa si possa fare – la risposta possa essere: “No, perché non c’è una statistica in merito, oppure c’è una statistica negativa in merito”. Ma la statistica di che? Di chi? La fattibilità di che cosa? Secondo quale criterio? Un criterio standard per cui le cose si farebbero per tutti nello stesso modo e, in un sistema chiuso, hanno una certa probabilità di fattibilità. Non è superstizione questa? Il calcolo probabilistico è una superstizione.
Nell’infinito non c’è probabilità calcolabile e noi viviamo nell’infinito! Questa è la chance, altrimenti tutto si riduce a prevedere la fine. Infatti, questo vogliono sapere gli umani: quanto durerà la loro vita! Quante probabilità hanno di vivere a lungo, di più o di meno, che è come vivere nell’incubo.
La questione è che la realtà non è né galileiana, né copernicana, né aristotelica. La realtà è contingente, e è contingente perché è realtà intellettuale. Questa è la novità che la parola introduce: la realtà è intellettuale e si avvale dell’arte, della cultura, dell’invenzione. Non della cultura come storia della cultura, ma cultura come ciò che nel percorso viene trovato. La cultura come trovata e l’arte come variazione e, dalla combinatoria, mano a mano, sorge il modo di fare.
Cosa devo fare? Come devo fare? Come se tutto fosse già stabilito, previsto!
La questione della seconda tentazione di Cristo è proprio la tentazione di una vita protetta dall’imprevisto. Cosa dice la seconda tentazione? “Se sei veramente figlio di Dio, gettati giù, buttati, poiché sta scritto: ai suoi angeli darà ordini al tuo riguardo, e essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”. La tentazione sarebbe questa: essendo tu in una genealogia positiva, privilegiata, il tuo piede non deve urtare contro nessun sasso, non devi avere nessuna difficoltà, nessun impedimento, nessun incaglio, hai diritto alla vita facile, quindi sfida pure la sorte e metti alla prova la tua genealogia. C’è l’idea di privilegio, di buona sorte con il suo immediato pendant, la cattiva sorte. Essendo figlio di Dio, hai diritto a un occhio di riguardo? Nell’alternativa fra la possibile volontà di bene e di male, il buon occhio diventa malocchio, e sorge l’invischiamento fra la buona sorte e la cattiva sorte, fra la fortuna e la sfortuna.
Allora ognuno attende istruzioni. Cosa devo fare? Quanto ci vuole per fare questa cosa? Tra gli studenti, per esempio, è assolutamente in vigore la mitologia dello standard, con le relative superstizioni che sfociano nelle diffuse consultazioni. Quanto ci vuole per preparare questo o quell’esame? E gli esperti di turno si pronunciano: questo è un esame facile, questo è difficile, questo richiede tot tempo, quest’altro, invece, un altro tot. Il riferimento della superstizione è allo standard: lo standard della preparazione, delle capacità, dello studio.
È questa la realtà della vita? No, questa sarebbe la vita come reality, la vita dove c’è un copione e tutto è già scritto, obbedendo al criterio di prestanza, di probabilità, di sufficienza. Nella vita come reality, ognuno elegge gli idoli che si tratterebbe di onorare per avere in cambio la buona sorte, la fortuna, la riuscita. Ecco l’idea della scorciatoia, del patto con il diavolo, della sostanza che dovrebbe aiutare a vincere la difficoltà. E ognuno ritiene di avere bisogno dell’aiutino: chi si fa un caffè, chi si fa lo spinello, chi si fa una fumata, chi assume farmaci di un certo tipo o di un altro, pensando che da sé non ce la fa, da sé non ce la potrebbe fare. Perché da sé non potrebbe farcela? Perché ognuno ha di sé un’idea negativa, un’idea di sé degradata.
Occorre esplorare questo: qual è l’idea che ognuno ha di sé? Qual è l’idea che ognuno ha dell’Altro? In che modo l’idea risponde a superstizioni positive o negative? A preconcetti, a mitologie o ideologie? Perché non si avvale della spinta che viene dalla parola in atto, dalla ricerca in atto? Occorre instaurare la parola, così s’instaura l’ambiente come infinito e non già quell’ambiente che possa degradarsi, dove le risorse possano finire, dove tutto possa finire, in cui ognuno sia sovrastato dal pericolo di fine.
In quale realtà vivere? In quale realtà ognuno vive? In quale dispositivo? Nel dispositivo di tolleranza e d’immunità o nell’alternativa dove si tratta sempre di dovere scegliere fra bene e male, e quindi con l’idea di scelta, di scelta obbligata?
La questione di questa sera è qual è per ognuno l’idea di realtà e la stessa idea di vita che talvolta viene impartita con sufficienza.
Questi sono alcuni elementi e ora possiamo chiarire degli aspetti, se non sono stati abbastanza chiari, oppure considerarne altri. Prego.
Pubblico Il concetto di fine incombente. C’è un poeta latino dell’età augustea che dice: Nascentes morimur, moriamo già nascendo. Finis ab originem impendet, la fine è già inclusa nell’origine. Allora, è stata la morale cattolica a non farci elaborare più laicamente questo concetto, secondo lei?
R.C. Per un latino è quasi d’obbligo pensarla così, perché i latini numeravano dall’uno e c’è l’idea d’inizio e il suo corrispettivo è l’idea di fine. Ma, con l’introduzione dello zero, non c’è più questa prescrizione. Lo zero, zephiros, indica che non c’è più l’origine. Le cose incominciano, ma non dall’origine. Incominciano per via dello zero; qualcosa incomincia, quindi prosegue. Come incomincia? Quando e dove incomincia? Con lo zero, tutto ciò non è più rispondente al criterio geometrico o algebrico, ma entra nella combinatoria, entra nella nominazione.
Entra nella combinatoria che è anzitutto linguistica e incomincia l’esigenza dell’ascolto, l’esigenza di capire che cosa stiamo dicendo quando parliamo. Perché, parlando, sembra che le cose abbiano già un senso, ma non è così. Parlando noi diciamo cose che occorre capire.
Pubblico Questo è il concetto di polisemia.
R.C. Se vogliamo attenerci al concetto, possiamo cogliere quest’aspetto. C’è una libertà di combinatoria che interviene e apre. È proprio l’apertura che con la parola si produce. La logica aristotelica o alcune formule latine sembrano proprio escludere l’apertura, sembra che le cose abbiano solo quella direzione, quel fine. Bisogna capire che la logica aristotelica non è una logica originaria. Essa è sorta a un certo punto come reazione, per esempio ai presocratici, Eraclito, Parmenide.
L’esigenza di dovere vietare la contraddizione riguarda la governance, non la parola per come interviene e si produce. Per potere padroneggiare la città, è necessario che la città sia chiusa, altrimenti qualcosa sfugge e la governabilità ne risente.
Occorre distinguere i criteri, i motivi. Ma, la parola pone proprio la questione della ingovernabilità, dell’assenza di teleologia: la parola non ha un fine buono da conseguire, perché non risponde a una morale. La parola è libera.
Pubblico All’inizio fu il verbo.
R.C. In principio era la parola, esatto. En archè en o logos. Non logos come il discorso, ma come parola libera, e questo vale per ciascun atto.
L’esigenza di capire e di ascoltare è vitale, perché per ciascuno c’è l’esigenza della qualità e non di accontentarsi, e ciò esige un percorso. Non è che basta solo allungare una mano.
È il bello della cosa. Però, c’è chi dice: “Allora ci vuole tempo, ci vuole sforzo”. Sì, e con questo? Invece c’è chi vuole tagliare corto e si avvale del discorso standard, del criterio standard, del principio di sufficienza. Così la vita diventa un reality, come se fosse già vissuta. Non è più nel gerundio. Diventa canone, prescrizione, perché interviene la tentazione sostanzialista che nega l’infinito: “Devi accettare che questo cibo sia il segno della tua trasgressione, della tua colpa”.
A quale realtà ci riferiamo? Alla realtà dove ognuno è segno della colpa o dove la realtà è contingente e riguarda come ciascuna cosa accade, avviene, diviene e si rivolge verso la qualità?
Pubblico Scusi, ma il disagio di cui lei prima parlava può essere fonte di angoscia di vivere e, quindi, è più facile riferirsi a teorie statiche che danno sicurezza di vita.
R.C. Apparentemente, perché angoscia è già la sensazione di una strettoia, è angustia.
Pubblico Ma il disagio la dà?
R.C. No, è la reazione al disagio a darla: ritenere di dovere seguire una certa prescrizione, contro un’istanza che prorompe. È lì che si produce l’angoscia, perché c’è il contrasto, la contraddizione che è negata. Dove vige il principio di non contraddizione è avvertita l’angoscia. Può sembrare il contrario, ma è così che l’angoscia si produce. Quando il principio di non contraddizione toglie l’apertura, è tolto anche l’avvenire.
È chiaro che la realtà, proprio perché la vita non è un reality, non è quella che il discorso comune ci rappresenta. La chance è che la realtà non è comune, né è condivisibile. Questo è il bello della faccenda. Invece c’è una certa pubblicità che sembrerebbe indicare il contrario e poi sfocia in una serie di etichette patologizzanti, da analizzare.
Ci sono altre domande?
Fabrizio Moda Si può dire che il reality sia il realismo, l’adesione codificata della realtà?
R.C. L’ha detto, quindi si può dire.
F.M. Vorrei capire se corrisponde al realismo, a una realtà non modificabile, già data, dove non può intervenire la variazione, né l’invenzione.
R.C. Certo.
F.M. Quindi il realismo è già una cosa vecchia.
R.C. È un ricordo.
F.M. Però, per me il termine è nuovo; per esempio, l’arte – il realismo sovietico e cose del genere – era un modo diverso d’intendere la stessa cosa, un qualcosa che sarebbe così: “La realtà è questa”.
R.C. Certo, la prescrizione a essere conforme a qualcosa. Questo poggia su una base di realismo che diventa realismo ontologico, nega l’avvenire, nega l’accadimento, nega l’evento a favore di un obbligo a essere, sia del soggetto, sia delle cose, di ogni cosa. È paradossale dire ogni cosa. Dobbiamo considerare ciascuna cosa, non ogni cosa. Ogni cosa vorrebbe dire tutto? È un paradosso dire ogni cosa, presupporrebbe che ci fosse un tutto e il tutto nega l’intero. Se possiamo invocare la tolleranza è perché le cose procedono dall’intero non dal tutto.
F.M. È facile capire che il tutto nega l’infinito, però la questione dell’intero…
R.C. Perché il tutto nega il pleonasmo e, nell’intero, il pleonasmo ci segnala ciascuna cosa e avvia la necessità della ricognizione, dell’indagine. Nel tutto il pleonasmo è abolito. Il tutto è rigido, è tolto il tempo. Questo forse richiederebbe qualche passaggio ulteriore ma, così, giusto per capirci, abbozziamo qualche cosa di nuovo.
Pubblico La ricerca dell’attività in ciò che non è strutturato secondo il principio di non contraddizione, mi pare di capire sia un po’ la proposta di fondo di questa critica del principio di non contraddizione, secondo cui è strutturata la realtà che poi diventa reality. Ma, se si ricerca questo pleonasmo nelle cose, questa loro ambiguità, non si rischia di sfociare in percorsi puramente personali difficilmente condivisibili? Anche perché la realtà strutturata secondo il principio di non contraddizione è strutturata così per essere comunicabile, condivisibile. Non si rischia, al di fuori del principio di non contraddizione, di entrare in una esistenza sì autentica, basata sulla ricerca dell’autenticità, dell’ambiguità delle cose, però rischiosa? Quali sono gli strumenti per mantenere la condivisione?
R.C. Lei ha già risposto. Nel senso che dice: “È condivisibile ciò che è convenzionale, mentre qualcosa che procede dall’autentico è unico, giunge all’unico, tende all’unicità”.
È l’istanza autentica, e ciò non impedisce la comunicazione. Anzi la comunicazione sorge proprio perché c’è qualcosa che esige di precisarsi, mentre la condivisione tende a negare la comunicazione, in quanto si riferisce a qualcosa di conforme, di standard che sarebbe già lì. Poi accade che nessuno si accontenta di ciò e la condivisione resta, in gran parte, un modo di dire, perché – proprio come lei notava con precisione – c’è l’istanza di autenticità che è importante e questa spinge. È con l’istanza che occorre fare i conti e è importante che abbia modo di avvenire, che non sia contenuta, perché il contenimento ha contropiedi e contrappassi, cioè ha conseguenze proprio in merito alla salute.
F.M. L’idea maestra di psicologi, psichiatri, psicopedagoghi, assistenti sociali è contenere.
R.C. Ecco, io non sono esperto di questo, ma se lei dice così… In effetti basta esplorare la storia della follia, che è la storia dei contenimenti di ciò che non risultava conforme: dai luoghi, l’asylum, al modo, dalla camicia di forza fisica a quella chimica.
F.M. Abbiamo il ghetto qui.
R.C. E quella è un’altra cosa ancora, che si riferisce sempre all’espulsione della differenza.
C’è Francesca qui? Questa sera non ha domande?
Francesca Ho ascoltato con interesse la sua risposta. Poi, personalmente, un grazie per la risposta perché, effettivamente, è una nuova apertura e non ho da ribattere.
R.C. Ma non era proprio una risposta.
F. Un nuovo modo di vedere.
R.C. Qualcosa non per chiudere il discorso.
F. Sì, per metterlo in questione. Ho notato.
R.C. Non ha proposte per la prossima volta?
F. Oddio, mi chiede un po’ troppo. Cosa devo dire?
R.C. Qualcosa che l’ha colpita.
F. Quello che lei ha detto è intuibile, perché quando ci si trova all’interno del sistema si cerca, di solito, l’alternativa al sistema. Il problema, poi, è applicare questa nuova alternativa. Non tanto coglierla, perché coglierla avviene già nel momento in cui si nota il collasso del sistema, dello schema. Il problema è poi applicarlo. Diciamo che la sicurezza o, meglio, quella che si crede essere la sicurezza che propongono gli schemi, attira di più, almeno personalmente, rispetto all’insicurezza che danno l’originalità e l’inaspettato. È una scelta personale, il modo di vivere varia da persona a persona.
R.C. Lei dice che dobbiamo affrontare la questione degli schemi.
F. Riaffrontare? Non è che con un’ora e mezza il pensiero si possa modificare così, facilmente. C’è bisogno di pratica.
R.C. Lei sa che ogni goccia è un contributo all’oceano.
F. E per quello volevo ringraziarla, pian pianino…
R.C. Abbiamo la chance di accogliere ciascun contributo possa giungere. Se c’è l’accoglimento qualcosa può sorgere, senza il pregiudizio.
F. È un po’ difficile da sradicare, ma ce la si può fare insomma.
R.C. Esatto. Anche il pregiudizio più radicato, se trova la ragione dell’Altro, non la ragione di un altro, per cui uno avrebbe ragione e un altro avrebbe torto, ma la ragione dell’Altro, irrappresentabile, non situabile, da cui giunge la differenza, allora qualcosa d’altro si aggiunge.
F. Ci arricchiscono di più gli altri che noi stessi. Noi siamo una fonte piena di risorse, però le risorse che provengono dall’altro sono molto più immediate, più evidenti. Accettarle penso sia la cosa migliore per arricchire anche se stessi.
R.C. Sa qual è l’argomento della volta prossima?
F. Farsi vittima, me l’ha appena detto la signora.
R.C. Che ne dice?
F. Che è un atteggiamento tipico di parecchie persone. Penso possa risalire all’insoddisfazione personale. Dipende dal paragonarsi agli altri, dall’assumere come criterio, come modello, non se stessi, ma qualcun altro.
R.C. Quindi lei la sa lunga.
F. Analizzandoci, analizzandosi, analizzando gli altri diciamo che queste cose… Non che io mi faccia vittima, però delle volte mi è capitato. Poi penso di avere capito perché lo facevo e non è più capitato.
R.C. Per la prossima volta abbiamo molte chance. C’è un’altra domanda?
Pubblico Purtroppo sono arrivato in ritardo, ma mi piaceva riflettere sul titolo che ha scelto, Farsi vittima. Già la vittima indica la passività, ma non è che uno sceglie di essere vittima. Farsi vittima è un po’…
Pubblico Manca il punto interrogativo.
R.C. Non manca niente, non è stato dimenticato.
Pubblico Non so se sono stato chiaro.
R.C. Ho inteso.
Pubblico Mi faceva riflettere l’espressione che lei ha utilizzato: farsi vittima.
R.C. Non entra nella categoria del mobbing che adesso va molto di moda.
Pubblico Anche lo stalking.
R.C. Esatto, sono modi. Ma perché ve lo devo dire oggi, quando abbiamo appuntamento la settimana prossima?
Pubblico Posso dire una cosa sola?
R.C. Assolutamente sì.
Pubblico Prima ha fatto riferimento alla questione dell’ambiguità. Io non ho un livello di preparazione, perché sono una semplice mamma e non ho altro…
R.C. Una semplice mamma?
Pubblico Una semplice mamma, però nel momento in cui non perseguo due strade, o il bene o il male, o mi sposto in due ambiti diversi, che non sto a definire, come riesco a mantenere l’equilibrio? Non l’equilibrio di morte, ma la stabilità nella realtà che il domani mi può già stravolgere, per mantenere comunque la stabilità. Non so se è un termine corretto, però la stabilità…
R.C. Ecco, già le viene il dubbio.
Pubblico Infatti, non mi piace questa cosa, perché se dev’essere una dinamica non ha più senso la stabilità. Però la parola equilibrio, come diceva lei, è associata a uno stato di morte, perché s’intende che non c’è più la possibilità di evoluzione, e questa cosa non mi piace, diciamo l’evoluzione quotidiana…
R.C. Evoluzione?
Pubblico Evoluzione, in quanto comunque la ricerca comporta evoluzione, perché, come diceva anche Francesca, l’idea di avere una versione, una visuale diversa della vita o del concetto, di quello che ti viene sottoposto, cioè la ricerca di questa ricchezza…
R.C. Ecco, però lei ha messo il dito su una questione importante, che è quella dell’evoluzione.
Pubblico La ricerca secondo me consente di evolvere, non necessariamente in qualcosa di fantasmagorico. Secondo me l’idea di conoscere cose nuove è uno stimolo continuo.
R.C. Ma perché l’ipotesi di novità, di qualcosa d’altro di nuovo, per lei corrisponde all’evoluzione?
Pubblico Perché quello che abbiamo acquisito, dettatoci dal nostro passato, nel tempo, non soddisfa. Non è chiaro?
R.C. Perché, per esempio, lei non dice trasformazione, ma evoluzione?
Pubblico Perché – adesso rischio di cadere nell’errore di cui parlava la volta scorsa – ho capito che non mi va, che non mi piace, che non va bene…
R.C. Cosa?
Pubblico Questo che ho acquisito, che ho affrontato, che ho valutato; e qui cado nella presunzione…
R.C. Apparentemente si tratta solo di un termine, ma questo termine trae con sé un’idea. Qui noi non facciamo questioni nominalistiche, nel senso che c’è una parola che va meglio di un’altra. L’uso di determinati termini non è irrilevante per la serie di rappresentazioni, di pregiudizi, di preconcetti e ideologie che questi termini recano con sé. Un termine o un altro non sono casuali, perché indicano anche la traversata.
Giusto per abbozzare la cosa e poi la riprendiamo la settimana prossima, perché mi sembra importante. L’idea di evoluzione è un’idea di origine, magari anche comune, da cui ci sarebbe evoluzione. Ex-volvere: ci sarebbe un punto di origine comune, e da questo parte il cammino che sarebbe il segno di un’evoluzione, di un miglioramento. Sarebbe ancora l’idea di andare verso il bene, ma partendo dall’origine. Questo configura alcuni scenari. Non a caso era un termine caro a Darwin. Ma, a parte il trait d’union dalla scimmia all’uomo – questa sorta di bestialità diffusa di cui ognuno dovrebbe essere latore – c’è un altro panorama che va al seguito di ciò, rispetto all’idea di bene, di origine, di fine. È una questione importante che solo una semplice mamma poteva indicare!
Pubblico Perché ci sono persone così preparate qui, che io abbozzo, perché comunque mi stimolava l’idea…
R.C. Lei pone la questione dell’equilibrio/stabilità, ciò che ne segue e cosa da questo può giungere. È molto interessante e me lo sono annotato.
L’ultima domanda, sì.
Daniela Sturaro Vorrei capire perché i genitori di oggi non smettono mai di fare i genitori che accudiscono i figli, quasi a impedire che ci sia la mancanza; e questo impedire che ci sia la mancanza permette, invece, che ci sia l’insoddisfazione. E d’altra parte i figli non smettono mai di essere figli.
R.C. La questione della famiglia.
D.S. E non solo. La vita.
R.C. Lei dice che questo ha a che fare con i genitori di oggi.
D.S. Oggi, sì. Attuale.
R.C. Lei dice che ha a che fare con l’epoca. Sarebbe un frutto dell’epoca questo maternage a oltranza.
D.S. Sì, non s’è mai visto prima.
R.C. Certo non gravava su Alessandro il Grande.
D.S. Ma neanche su tutti gli altri.
R.C. Su qualcuno magari sì.
Bene, abbiamo alcune traiettorie per mercoledì prossimo.
Farsi vittima
Ruggero Chinaglia Domani sera si terrà un interessante dibattito per presentare il libro In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica di Sergio Dalla Val. È uscito in libreria da qualche giorno, quindi è una novità assoluta, e il titolo del dibattito con cui lo presentiamo è L’impresa intellettuale e la soddisfazione. Non è usuale combinare l’impresa con la soddisfazione, perché molto spesso l’impresa viene gravata da una serie di mitologie, alcune delle quali esploreremo oggi, per cui è sovente dipinta come una fatica, un lavoraccio con tanti pericoli. Invece qui è posta in evidenza la questione della soddisfazione. Ci saranno alcuni interventi e ciascuno è invitato, perché è un’occasione per riprendere questioni che affrontiamo da vario tempo nei nostri incontri, con in più questo ospite, che è testimone da tanti anni. Sergio Dalla Val, tra le altre cose, dirige a Bologna un’esperienza molto importante con una libreria-galleria, quindi editoria e arte. Oltre a essere intellettuale, scrittore, psicanalista, è anche imprenditore, per questo è testimone della cosa e è una fonte autorevole che è il caso di ascoltare. Il dibattito si terrà alla Sala Anziani del Municipio. Anziani di nome, ma non di fatto, perché riguarda un’antica famiglia di Padova. Non è una sala riservata agli anziani, quindi ciascuno può venire tranquillamente senza tema di venire considerato anziano, anzi chi verrà sarà in un’assoluta gioventù.
Precisato questo, proseguiamo con l’esplorazione dell’argomento di oggi, Farsi vittima, che è, come ognuno ben sa, la tentazione più diffusa, in quanto più assecondata, più seguita, più praticata, come un’abitudine. Già un’abitudine è un modo di farsi vittima, farsi vittima di quell’abitudine, perché quando qualcosa diventa abitudine già comporta la sospensione di una serie di virtù, già comporta, per esempio, una sospensione del tempo. Se qualcosa diventa abitudine, già il tempo è sospeso. Se qualcosa diventa abitudine l’occorrenza è sospesa, perché l’abitudine omologa ogni circostanza, ogni variazione e ogni differenza. Non si tratta più, in ciascun caso, di trovare il modo, ma tutto è sospeso a favore dell’abitudine, che diventa una sorta di cappa.
L’abitudine è praticata sopra tutto quando il principio regolatore della termodinamica – che è il raggiungimento dell’equilibrio – viene ritenuto un principio valido. Allora ognuno trova l’abitudine come raggiungimento dell’equilibrio, cioè di una sorta di stasi.
Ma l’equilibrio non è la stasi, è tutt’altro che statico. L’equilibrio non è ciò a cui le cose tendono, se non in un sistema chiuso, termodinamico, come abbiamo esplorato anche precedentemente: l’equilibrio è ciò da cui le cose procedono! Ha come sua caratteristica l’inconciliabile. Tutt’altro che statico l’equilibrio, dato che si tratta dell’inconciliabile, per esempio dell’inconciliabile fra giuntura e separazione.
Le cose devono congiungersi per fare un’unità o devono stare separate per distinguersi una volta per tutte? O invece procedono combinandosi, proprio in quanto procedono da questo inconciliabile, che è ciò che consente che ciascuna cosa tenda al valore, alla valorizzazione e abbia modo di qualificarsi?
L’abitudine esclude che vi sia l’esigenza di valorizzazione a favore della stasi, una sorta di abito che viene vestito una volta per tutte, a favore di una sorta di conciliazione. Invece, nulla può conciliarsi, perché le cose procedono dall’apertura e l’apertura ha come suo modo l’inconciliabile. L’inconciliabile tra corpo e scena, l’inconciliabile tra corpo e psiche, per esempio, dove né il corpo prevale sulla scena, né la scena prevale sul corpo, né il corpo sulla psiche, né la psiche sul corpo. Inconciliabile. Da questa non conciliazione seguono tante cose, per esempio, l’itinerario verso il valore, verso la qualità di ciascuna cosa, che altrimenti sarebbe già assegnata, già predestinata. È proprio qui che si gioca la questione del vittimismo, del farsi vittima o del credersi vittima, cosa frequente, assolutamente frequente, come può capire ognuno. Basti pensare a chi si fa vittima dei luoghi comuni, dei pregiudizi, prima ancora che divenire vittima dell’abitudine al fumo, all’alcool, alla droga, agli psicofarmaci.
Prima ancora, c’è il farsi vittima delle convenzioni, del canone, dell’abitudine, tutte cose molto sfumate, apparentemente quasi incoglibili, impalpabili, ma che costituiscono l’ancoraggio a un’idea, a una nozione di sostanza e il freno alla riuscita per ognuno che partecipi di questa convinzione, di questa abitudine, di questo pregiudizio, di quest’idea.
Anche chi partecipa di una superstizione se ne fa vittima, in quanto s’impedisce alcune cose. Quella cosa eretta a tabù diventa ciò che viene riconosciuto come il proprio impedimento, rispetto a cui ognuno si elegge a vittima e riconosce in essa il suo limite, diventa vittima di quel limite.
Non sempre, anzi quasi mai, la vittima è vittima di un carnefice riconoscibile in qualcun altro. Il più delle volte è vittima di una fantasmatica che elegge qualcosa, qualcuno, una certa idea, a rappresentante di un impedimento, rispetto a cui credersi o farsi vittima. Il vittimismo è una sorta di accoppiamento, non necessariamente con qualcuno, ma con una certa rappresentazione delle cose.
Basti pensare a quanto spesso capita di sentire dire: “Dopo mangiato devo assolutamente fumare una sigaretta, altrimenti non digerisco”. Altri invece dicono: “Dopo cena non posso bere il caffè, altrimenti non dormo”. Ci sarebbe una sostanza che da una parte favorirebbe la digestione e dall’altra impedirebbe il sonno, e occorrerebbe fare uso, in una circostanza, di quella sostanza assolutamente favorevole alla digestione, mentre per altro verso, occorrerebbe astenersene in quel momento, perché impedirebbe il sonno.
In questo caso è una sostanza, ma anche un tabù diviene sostanza, quando uno dice che non può fare certe cose in un dato giorno, perché in quel giorno non si deve fare, perché quella data porta sfortuna, quel numero porta male. Per esempio, passare sotto le scale no, perbacco! Il gatto nero! Ognuno ne conosce molte più di me. Ebbene, quando viene eletta una cosa, una circostanza come impedimento o come viatico per potere fare qualcosa, lì c’è già la vittima, c’è già lo statuto di vittima con tutto l’apparato vittimistico che ciò comporta e che si accompagna, come suo corollario, al fatalismo: fatalismo positivo o fatalismo negativo.
È una totale o quasi totale sospensione del cervello, inteso come dispositivo del ragionamento, non come encefalo: cervello come dispositivo logico di ragionamento. Il panorama è piuttosto vasto, l’ambito è enorme, perché va dall’uso di determinate sostanze, dall’intervento di persone o cose, al modo con cui intervengono le fantasie, che sono molto più condizionanti di quell’intervento che impedisce, con la coercizione, di fare qualcosa. Così, c’è chi dice: “Me l’ha impedito la tal cosa, o la tal persona, sono vittima di questo impedimento”. Ma questi sono casi limitatissimi, rispetto all’enormità dei casi in cui si tratta di pensieri, di abitudini, di pregiudizi. Non le chiamiamo neanche idee, li possiamo chiamare pregiudizi. Ma come nascono? Come sorgono? Questa è la cosa interessante.
Partiamo da quello che sembra il caso più eclatante: le vittime della droga, le vittime dell’abuso, dell’uso di sostanze. Viene chiamata dipendenza da determinate sostanze. Sbrigativamente, c’è un capitolo che riguarda la così detta assuefazione, che produrrebbe la dipendenza da questa o da quella sostanza e anche da alcuni farmaci. È noto che le benzodiazepine producono dipendenza. Questa dipendenza in che cosa si manifesta? Nel fatto che la dose deve sempre aumentare, altrimenti gli effetti si riducono. Allora, c’è chi dice: “È un caso in cui è la sostanza che produce la dipendenza, questa sorta di rapporto in cui c’è la vittima della sostanza”. Eh, no! Questa è una conseguenza chimica successiva. La questione va affrontata prima, l’assuefazione è già qualcosa che sta a valle. Noi dobbiamo considerare ciò che sta, non dico a monte, ma nella congiuntura, nella contingenza in cui qualcuno cede all’idea di non farcela da sé, di non avere i mezzi, di non essere in grado e di dovere fare ricorso a un aiuto, che non è l’aiuto intellettuale che può avvenire in un dispositivo, ma l’aiuto sostanziale, quell’aiuto che deve partire da una sostanza che colmerebbe il varco tra la domanda e il suo svolgimento. Perché di questo si tratta: dell’abolizione dello svolgimento della domanda.
C’è una domanda, un’esigenza che viene avvertita, ebbene, rispetto a quello che quest’istanza chiede che avvenga, ciò non avviene, perché un pregiudizio interviene a far sì di ritenere che qualcosa di sostanziale debba colmare il vuoto, il varco, il percorso che invece occorre avvenga, come per un percorso di studio, un percorso di crescita, un percorso di ricerca.
Ma, a un certo punto, qualcuno dice: “No, io non ce la faccio, io non posso, io non sono in grado, io non so, non so fare”. Qui partono le modulazioni di quella che può essere la formulazione di un ricatto o l’idea di un riscatto e la necessità di dovere assumere qualcosa che renda abili, che renda capaci, che dia quella forza, quel piacere, quella possibilità che, altrimenti, non si sarebbe in grado di conseguire.
Come si afferma questa idea, da dove viene? Che cosa comporta credere di non essere in grado, di non potere, di non avere la possibilità, di essere segnati negativamente da qualcosa? C’è l’idea di un segno negativo cui deve essere somministrato un antidoto per renderlo positivo. In alcuni casi c’è l’idea di dovere dipendere da una determinata cosa, senza cui non si riesce a fare nulla, in altri casi l’idea di non dovere dipendere assolutamente da nulla e da nessuno, l’idea di dovere fare le cose in autonomia. L’altra faccia della stessa logica.
Quest’idea di dovere o non dovere, di potere o non potere dipendere, si chiama soggettività. È l’idea di essere soggetti, soggetti a qualcosa, soggetti a qualcuno. La soggettività è avere una certa idea di sé e basarsi su quella, senza porla in questione, senza un ragionamento, una verifica, senza nessuna analisi.
Occorre analizzare la logica e la struttura di questa impostazione, che porta al credersi vittima, al farsi vittima, al credersi dipendente o a ribellarsi all’ipotesi di ogni possibile dipendenza. È il caso del figlio ribelle o dello studente ribelle, anche dell’eroe, che deve ribellarsi al padre, all’insegnante, all’autorità, a qualunque cosa, in nome di una liberazione; non tanto della libertà, ma della liberazione.
Occorre distinguere tra la questione della libertà e l’idea di dovere liberarsi. La libertà è assoluta, intoglibile. Chi crede di dovere liberarsi, evidentemente coltiva l’idea di trovarsi in una prigione da cui fuggire. Allora la vita si complica, perché si troverà sempre nella situazione di vittima, vittima di un’idea di liberazione, vittima di un padrone che sta dappertutto.
Da dove viene l’idea del mondo prigione, della vita di cui essere vittima, della valle di lacrime in cui trovarsi vittima e dovere soffrire?
Analizzando molti casi in cui emerge la struttura del vittimismo, è reperibile una fantasia di negatività rispetto all’origine. Ci sarebbe un’origine negativa e, data tale origine, ognuno che si trova gravato da questa negatività, sarebbe vittima.
Tra le tentazioni che abbiamo esplorato, oltre alle tentazioni di Cristo, abbiamo la tentazione di Eva e di Adamo, quando, trovandosi nel così detto giardino dell’Eden, arriva il serpente che parla con Eva e dopo un po’chiede: “Ma questi frutti proibiti, chi li ha proibiti? Perché sono stati proibiti?”. Risponde Eva: “Se li mangiamo potremmo morire”. “Ah, errore” – replica il serpente – “Mangiando di questi frutti diverrete simili a Dio”. “Questa è una bella novità”, dice Eva. Allora mangia il frutto e lo dà anche a Adamo, e a quel punto, dopo aver mangiato di questo frutto, si accorsero di essere nudi e provarono vergogna. Udirono i passi del Signore, che passeggiava nel giardino e Adamo si nascose. Allora Dio lo chiama: “Uomo, dove stai?”. Adamo si sente scoperto e dice: “Sono qua, ho sentito i tuoi passi e ho avuto paura”. “Ah, hai avuto paura!”, “Sì, perché ero nudo”, “Ah, e come sai che eri nudo? Hai mica mangiato…”. “Sì”, dice “L’ho mangiato, ma è stata Eva, è stata Eva che me l’ha dato. Io ero lì tranquillo, è stata Eva che me l’ha fatto mangiare”. Allora Dio si rivolge a Eva e dice: “Ma che hai fatto?”. “Niente, è stato il serpente che mi ha ingannata; io ero lì tranquilla, è arrivato il serpente, mi ha ingannata e io ho mangiato”. Siamo allo scarica barile: “Io non c’entro niente, è stato lui, è stata lei, sono stato ingannato, io non volevo, io non sapevo, io non credevo”. Ecco, c’è già la vittima, vittima della tentazione, vittima del tentatore, vittima della sostanza.
Perché vittima? Chi è vittima? Quando? Quando Adamo diviene vittima? Quando ha mangiato il frutto? Quando Eva diviene vittima? Quando ha mangiato il frutto o quando ritiene di dovere giustificarsi? Quando diventa colpa e istituisce la vittima della colpa, l’atto non è più atto intellettuale, è colpa, e come colpa deve trovare giustificazione. E qual è la giustificazione del vittimista o della vittimista, di chi, cioè, si fa vittima?
Accettata l’idea della colpa, l’idea di un atto che non sia casto, l’idea di un atto che non sia intellettuale, di un atto che, quindi, è gravato dal segno negativo, allora ognuno si commisera, si piange addosso, si pensa incapace, colpevole, non in grado, si contempla, s’immobilizza e chiaramente si paralizza, cioè si soggettivizza, diventa quel soggetto fatto così e colà, colpevole di questo e di quello.
E chi, allora, non è colpevole della sua origine? Chi, se c’è questa prescrizione alla colpa, alla colpevolezza, a quella colpa originale di cui tutti i figli di Eva sarebbero macchiati?
Ma la vittima non è solo chi, per così dire, ha la peggio, chi avrebbe subito qualcosa; chi aggredisce, chi rivendica, chi si arrabbia, chi s’infuria è altrettanto nella logica del vittimismo. Perché, con chi s’infuria? Con chi se la prende? Con chi s’arrabbia? Con chi rivendica? Contro il padrone, contro il carnefice, contro l’autore delle sue negatività!
Senza analisi, questa è la visione comune del mondo. Se, anziché leggere il mito come fiaba – fiaba da cui potere elaborare e analizzare la questione – lo prendiamo come una prescrizione, allora diventa un problema.
Consideriamo un’altra fiaba, che di solito veniva raccontata alle scuole elementari (adesso verrà raccontata nei licei, data la situazione delle scuole), che è quella che ciascuno conosce come la favola Il Lupo e l’agnello di Fedro, rilanciata poi da Pirandello nella serie Dal naso al cielo.
Senza l’apertura, senza l’inconciliabile, corpo e scena diventano o corpo o scena; dentro/fuori diventano o dentro o fuori; sotto/sopra diventano o sopra o sotto; anziché essere figure dell’inconciliabile diventano figure dell’alternativa. E, cosa accade dove l’apertura è tolta e si afferma l’alternativa? Dice Fedro: “Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus”. Uno stava sopra, l’altro stava sotto. Per farla breve, il lupo dice all’agnello: “Ma perché m’intorbidi l’acqua?”. “Ma, come, se tu sei sopra e io sono sotto, come faccio a intorbidire l’acqua?”. “Ah, beh, so che sei mesi fa tu hai parlato male di me!”. “Ma io sei mesi fa non ero neanche nato”. “Beh, se non sei stato tu, sarà stato tuo padre”. E se lo mangia. La morale corrente sembrerebbe riconoscere la vittima nell’agnello, no? Povero agnello vittima del lupo. Ma, perché il lupo deve cercare tutti questi pretesti per mangiarsi l’agnello? Chi è il vittimista in questa scena? Chi si nasconde dietro vari pretesti per giustificare qualcosa? Chi si fa vittima? C’è una bellissima fiaba, per restare nell’argomento, che può essere proprio letta come fiaba del vittimismo. Nessuno fa ipotesi?
Pubblico Cappuccetto Rosso.
Fabrizio Moda Hansel e Gretel. No, Il brutto anatroccolo.
R.C. Il brutto anatroccolo! La fiaba del cigno che si crede brutto, la fiaba di chi crede di vivere nella palude, nello stagno, nel mondo dove nessuno ti vuole bene, dove i genitori sono contro di te, i vicini sono contro di te, i fratelli sono contro di te, dove tutto è contro, tutto nero. La fiaba però si conclude con una dissipazione di questa idea di negatività: non c’è più la palude, non c’è più lo stagno, non ci sono più gli animali che ti vogliono mangiare.
Se ogni circostanza apparentemente negativa, se gli elementi che s’incontrano, anziché essere catalogati e classificati attraverso il criterio algebrico del positivo e del negativo, sono attraversati, gli steccati non ci sono più. Avviene un’altra cosa: l’idea che ho di me non c’è più e il progetto e il programma non dipendono più da questa idea. Se questa idea incontra l’analisi, ecco che importa l’occorrenza, ciò che il programma esige secondo il progetto. Allora non c’è più la stanchezza, il rilassamento, il cedimento, l’idea di sé, l’idea degli altri che vogliono, non vogliono, sono contro, dicono male, fanno peggio, con tutte le rivendicazioni e con quella litigiosità che questo comporta, che Machiavelli conosceva molto bene e da cui traeva spunto per il suo statuto di segretario fiorentino. Machiavelli s’intratteneva con i taglialegna che erano sempre pieni di guai e litigavano. Farsi vittima, credersi vittima, fatalismo: è la cappa della soggettività. Quella cappa che, diciamo pure, costituisce il regolatore dei rapporti sociali. I rapporti sociali si svolgono sotto questa cappa.
La questione intellettuale sfonda la cappa e esige l’analisi e la parola, non secondo i principi aristotelici, ma secondo il modo della parola; procedendo non dal principio di non contraddizione, ma dall’inconciliabile e dalla contraddizione, dalla contraddizione originaria, che non ha da essere risolta nell’alternativa. Allora interviene la chance di giungere al valore di ciascuna cosa, senza giustificazioni, senza credere che questo debba dipendere da una fatalità, da un destino già scritto.
Farsi vittima, cioè credere era già scritto che… Un esame va bene, un esame va male, “Eh! Era destino”. Qualcosa va bene, qualcosa va male, “Eh! Era destino”. Quale destino? Destino di chi, di che? La questione è quella del dispositivo, dove le cose si fanno.
Qual è il modo che ciascuna cosa esige per compiersi? Mica è lo stesso modo sempre, comunque, per tutti. Questa è la questione. Quindi, è anche questione temporale. Ciascuna circostanza esige il suo modo: come, più che che cosa. Come!
Come fare, come parlare, come scrivere, come leggere, come intendere, come capire? Eppure, quanti sono vittime del proprio sapere! “Ah, io so benissimo come sono fatto, so benissimo quello che penso, come la penso. Eh, so che io questo non lo posso fare, lo so benissimo, perché io sono così”. Farsi vittima di un’idea di sé, chiamata sapere. In quanti modi ognuno si fa vittima, si crede vittima, partecipa di un vittimismo, cioè di una rappresentazione geometrica o algebrica, nella alternativa fra sopra o sotto? “No, adesso tu sei sopra e io sono sotto, quindi adesso sono io che vado sopra e tu vai sotto”. Sopra, sotto, dentro, fuori, positivo, negativo, bene, male. Tutto giocato in una alternanza o in una alternativa, in un compromesso, in una sorta di conciliazione. E allora ognuno sta nella prigione, come diceva Platone.
Se questo è l’ambiente, cioè se l’apertura è tolta, il mondo diventa una prigione e non c’è più parola, c’è Babele, come dice il Papa. Siamo tornati a Babele, chiaro.
Ma quale Babele? Come leggiamo Babele? Babele, ossia il mito dove ognuno parla un’altra lingua e quindi non capisce. Altra lingua che esige l’ascolto, perché non si sa già cosa questa lingua dica. Babele o il mito della rimozione.
Allora – come giustamente accade – per capire la lingua di Babele occorre umiltà, indulgenza, intelligenza, ascolto, fino alla Pentecoste, dove giunge l’intendimento, perché dall’altra lingua si giunge alla lingua Altra.
Non è che tutti parlano la stessa lingua, no! Ciascuno parla un’altra lingua che non sa di parlare, perché non sa già ciò che dice. Può presumere di sapere cosa dice se partecipa dei pregiudizi, delle superstizioni, dei luoghi comuni, e si fa vittima dei luoghi comuni, delle superstizioni. Ma la parola esige un altro statuto, che è quello intellettuale, per cui nulla è scontato. Allora non c’è più vittima, non c’è più vittima di nulla e di nessuno, e nessuno può togliere la parola, nessuno è padrone della parola, nessuno può essere privato della parola. E dalla tentazione sostanziale giungiamo alla tentazione intellettuale, dove ciascuna cosa è pretesto per la ricerca, è pretesto per capire, è pretesto per intendere e è da indagare per come si combina con le altre, perché ciascuna combinatoria è nuova. Questa è la virtù che ci indica Maria nell’Annunciazione: “Non conosco”, “Avvenga di me secondo la parola”. È un’altra cosa questa parola.
Bene, verifichiamo se ci sono domande, notazioni, curiosità.
Pubblico Lei ha detto nell’incontro precedente che il tempo è infinito (questo lo dico solo come piccola cosa poi passiamo alla domanda), ma il tempo non è sempre infinito. Ho passato la settimana a considerare questa cosa. Volevo sapere se lei può aggiungere qualcosa, se a questo assunto il tempo è infinito, non ci sia per caso da tracciare una qualche condicio affinché si realizzi questo tempo non finito, perché ci troviamo con tante idee e c’è veramente da perdersi. Qualche scienziato dice che se tu viaggiassi al quadrato della velocità della luce (non prendete per oro colato), la distanza che c’è tra il tuo vissuto e questo tempo infinito si riduce. Cioè, non dipende dal tempo infinito, ma sono io che sono lento nella formulazione delle cose. Allora, a questo punto, tale concetto lo volevo avvicinare alla questione, che lei in più riprese puntualizza, del termine (come si chiama quel termine che a me non piace? Ossimoro? È bello, ma non mi piace), che dice praticamente: bene e male, dentro e fuori devono stare assieme. Questo avviene in un certo tempo…
R.C. Non è che debbano, non è una prescrizione.
Pubblico È qui che non ho capito, mi dica allora.
R.C. Non è una prescrizione!
Pubblico E cioè?
R.C. È così!
Pubblico Eh no, guardi, c’è una contraddizione, perché…
R.C. Esatto, è così! C’è contraddizione.
Pubblico Perché, nel momento in cui lei lo asserisce, diventa prescrizione. Cioè, la cifrematica (e questo è un altro pensiero non recondito, ma che avevo fatto in passato) diventa un modo di prescrivere, come qualsiasi altra ideologia. Il fatto che lei dica che non è una prescrizione non è vero, perché se noi diciamo che ci deve essere qualcosa che “non è”, cioè dobbiamo affidarci all’inconciliabilità per capire la sostanza e la qualità delle cose, alla lunga questa inconciliabilità porta a uno shock e alla fine la persona avrà bisogno di psicofarmaci. Nel senso che l’inconciliabilità deve essere comunque risolta. Questo salto deve essere fatto a piè pari, perché un margine d’inconciliabilità ci deve essere, però bisogna anche atrocemente lavorare, fortemente lavorare per andare a risolvere, a dipanare questa inconciliabilità, perché solo da ciò poi può emergere la questione della qualità.
R.C. Lei dice che il lavoro è atroce?
Pubblico È molto atroce, diventa un modo di destabilizzare una mente.
R.C. Così diceva quel monito, che prescriveva la valle di lacrime: “Lavorerai con il sudore della fronte, patirai i tormenti…”. Il lavoro atroce.
Pubblico Questa inconciliabilità è una cosa atroce. Secondo me, occorre quella umiltà che tante volte viene anche dal senso di preghiera, perché ci si affida; io sono scioccato, parlo in modo scioccato questa volta, perché ho incontrato una persona che mi ha scioccato ieri sera, e mi ha dato questa chiarezza d’idea. Perché si può tangere un qualsiasi percorso che porti alla pretesa di una conoscenza, però alla fine c’è un distacco tra questo tempo infinito, questa conoscenza che non matura, in quanto si affida esclusivamente a questo shock dell’inconciliabilità, e ciò diventa traumatico e drammatico, diventa una patologia.
R.C. Perfetto, bene, ho preso nota. Altri?
Pubblico Secondo me, il discorso dell’inconciliabilità è forse quello che muove l’uomo a andare avanti, a procedere, a evolversi, non la vedo così negativa.
R.C. Sì, perché dovrebbe essere così negativa?
Pubblico Il signore dice che comporta un lavoro atroce, penso a un impegno, ma…
Pubblico Posso permettermi? Quando ha finito, vorrei dire ancora una piccola cosa…
R.C. No, un momento, ci sono altre persone che vogliono parlare.
Pubblico Ho finito. Il bipolarismo delle cose non lo sento come una cosa negativa, ma vedo questa inconciliabilità come una cosa positiva, che mi consente di procedere nella conoscenza e nell’evoluzione.
R.C. Ecco, “bipolarismo” io non l’ho detto.
Pubblico L’inconciliabilità presuppone che ci siano almeno due elementi che…
R.C. No. La questione è: c’è il due che non si lascia rappresentare in due cose.
Pubblico Non si lascia rappresentare in due cose?
R.C. Dentro/fuori non sono due poli, due cose; c’è la contraddizione dentro/fuori, che però non è dicotomizzata, e quindi non si costituisce come bipolarismo. Allora qualcosa procede, altrimenti le due cose vengono messe in fila e siamo già nel discorso di padronanza. Proprio in quanto non sono due cose, ma è un ossimoro, è impossibile esercitare una padronanza.
È impossibile diventare vittima o padrone di questa cosa, che esige invece l’interrogazione, esige la domanda, perché non sappiamo già com’è, dove va, quali caratteristiche possa avere. Questo è, propriamente, il frutto della ricerca.
Elio Cecchetto Mi sono chiesto più volte se la cifrematica esclude la questione politica, cioè se non ha niente a che vedere con la politica. E mi sono risposto, diciamo così…
R.C. Ah, quindi lei se la fa e se la dice!
E.C. No, anzi ho scritto un testo che vorrei sottoporle. Posso?
R.C. Bene. Intanto, lei adesso formuli la domanda, poi vediamo.
E.C. La questione sarebbe questa. C’è la libertà da un lato e la democrazia dall’altro. Si potrebbe dire in questa sede che non sono due cose, ma sono un ossimoro. E la questione diventa politica. Libertà e democrazia come ossimoro, e quindi cade il comune discorso politico. Bisognerebbe creare, ritrovare un partito, che è stato soppresso da Mussolini perché proponeva la libertà di pensiero. La libertà di pensiero è stata abolita per legge circa ottanta, novant’anni fa. E, allora, ho fatto questa ricerca, ho sviluppato questa idea.
R.C. Bene, interessante. La leggerò volentieri. Altre domande?
Pubblico L’atteggiamento di vittima, da quello che ho capito, accomuna tantissime persone. Io mi chiedo: la persona nasce vittima, oppure è qualcosa che impara nel tempo? Forse da bambino impara dai genitori, dalla famiglia, dalla società stessa. Avviene nella stessa scuola, all’asilo, alle scuole elementari, quando gli insegnanti ti dicono: “Tu non ce la puoi fare a affrontare questo tipo di studio, tu non hai le capacità”. Allora, non è già quando la persona è piccola che cresce con questa idea di vittima? E ancora, l’atteggiamento di vittima è un atteggiamento sociale, che s’impara dall’esterno?
R.C. Questo l’ho già detto. È il regolatore dei rapporti sociali.
Pubblico Mi chiedo: c’è anche l’interesse a che l’uomo rimanga vittima, perché paralizza la capacità di governare la massa?
R.C. Lei ha messo il dito sulla questione che riguarda la seconda parte di questa conferenza, cioè le implicazioni pragmatiche a livello sociale. Effettivamente, come lei dice, questa diffusa pratica del vittimismo da dove viene? Sicuramente, la famiglia, la scuola, la politica sono implicate, certo, ma non come insiemi o apparati. La questione riguarda ciascuno. È la questione dello statuto intellettuale di ciascuno.
È chiaro che se lo statuto intellettuale è accantonato, abolito, è suscettibile di compromessi, per cui sono accettati cedimenti, relativismi e viene impartito un messaggio che indulge, invita, sollecita, prescrive il farsi vittima o credersi vittima, allora si capisce perché questo dilaghi.
E ciò dipende da come e da che cosa ciascuno dice, in famiglia, a scuola, sul lavoro.
Come ciascuno interviene? Se i genitori per primi invitano i figli a farsi vittima di qualcosa per giustificarsi, li invitano a dovere scegliere il da farsi, in assenza di autorità, in assenza di disciplina, in assenza delle virtù intellettuali, allora è chiaro che Babele impera. Impera non come mito dell’altra lingua, ma come disfattismo generale, dove ognuno può fare quello che pensa di volere, senza attenersi a nessun dispositivo, a nessun progetto, a nessun programma; nell’assenza di parola praticamente.
Questa è certamente una questione che riguarda ciascuno, rispetto alla formazione, all’insegnamento, allo statuto, perché nessuno è innocente rispetto ai cedimenti che accetta; ogni cedimento è un modo di accettare la morte.
La questione intellettuale è la non accettazione intellettuale della morte bianca, ossia delle superstizioni, dei luoghi comuni, di tutto ciò che conduce alla mitologia del farsi vittima.
Qui abbiamo solo cominciato, proprio alcuni accenni, è questione vasta, vastissima, ampia, ma possiamo anche ragionarci ulteriormente, cammin facendo.
Già la prossima settimana, l’incontro su Stress e relax ci offre lo spunto di proseguire l’indagine rispetto al farsi vittima, cogliendo qualcosa di specifico nella mitologia del relax, che ormai è imperante. Relax sarebbe il rilascio, il rilassamento che poi diventa svaccamento, cioè relax! Quindi il relax, a un certo punto, esige la vittima del relax: “Devo assolutamente rilassarmi, non ci riesco. Dov’è che ci si rilassa qui? Dove ci si può rilassare?”. È prescritto che dobbiamo rilassarci. Cosa vuole dire? La settimana prossima esploreremo questa faccenda: relax e stress.
Stress e relax
Ruggero Chinaglia Siamo al quarto appuntamento della serie d’incontri sulla tentazione. Questa sera consideriamo la tentazione dello stress e del relax. Proviamo a cogliere quale sia la questione, perché la scommessa di questi incontri è capire, attraverso l’analisi di tentazioni sostanzialistiche o mentalistiche, quale sia la tentazione originaria, la tentazione intellettuale.
Quella sostanzialista è la tentazione d’individuare una sostanza che possa essere considerata fondante. (Una persona si alza e se ne va). A sentire parlare di tentazione intellettuale c’è subito chi scappa via. D’altronde, abbiamo l’esempio di uno dei cantautori più famosi in Italia, docente di scuola superiore che, dopo aver vinto il festival di Sanremo, rispondendo in un’intervista alla domanda se ci fosse un messaggio intellettuale nelle sue canzoni, disse che assolutamente no, c’erano cose per tutti. Che non si dica che un poeta, uno scrittore, un cantautore possa diffondere un messaggio intellettuale. Per tutti, sì, banale sì, convenzionale anche, mentalistico certo, ma intellettuale, assolutamente no. Che non si dica in giro che è intellettuale, perché crollerebbero le vendite.
Le tentazioni mentalistiche e sostanzialistiche sono rivolte contro la tentazione intellettuale, contro quella tentazione originaria che è la tentazione di indagare, capire, intendere quale sia la particolarità di ciascun atto; cosa accanitamente combattuta dalle proposte sostanzialistiche e mentalistiche, che favoriscono o una sostanza generale o una mentalità generale su cui possa fondarsi una visione comune.
La tentazione intellettuale ha come direzione il divenire cifra di ciascuna cosa, come ciascuna cosa diviene cifra, come ciascuna cosa è particolare e specifica.
Ciò comporta che ci sia l’analisi, la qualificazione, la ricerca, il non cedere a facili interpretazioni, alla facile mitologia di una possibile totale comprensibilità e di una partecipazione generale alle cose. Questa mitologia fonda la mentalità, fonda l’accettazione dell’assenza di cervello. Il cervello intellettuale è quel dispositivo attraverso cui capire e intendere lo specifico. La mentalità, chiaramente, è contro il cervello, contro la particolarità e la specificità. È per una comunità, per la mentalità comune, per la mentalità vigente, per l’idea corrente, l’idea che possa essere diffusamente partecipata, giornalisticamente, televisivamente, comunemente. Chiaro che tutto ciò non è per caso.
Considereremo come e perché ci sia questa impostazione, anche per rispondere alla domanda con cui ci siamo salutati la volta scorsa, e cioè come s’impara a essere, farsi o credersi vittima. Qualcuno ha posto la questione che, effettivamente, è alla base del progetto per cui ci stiamo incontrando. Oggi consideriamo, tra le altre cose, se e come la mitologia dello stress e del relax partecipi della tentazione intellettuale o non sia, piuttosto, una tentazione mentalista e sostanzialista. Ho il sospetto che molti di voi abbiano già la risposta! Verifichiamo.
Stress e relax: tensione e rilassamento, rilassatezza, anche quasi cedimento, ammosciamento. Com’è che queste due cose antitetiche vanno così spesso propugnate insieme?
Lo stress. È noto cosa venga chiamato così. Sarebbe lo sforzo che l’organismo dovrebbe affrontare per ritornare nello stato di quiete precedente, dopo aver subito uno stimolo che comporti l’alterazione della quiete. È un termine che è stato introdotto nella terminologia medica una sessantina di anni fa, dopo gli studi di un fisiologo americano, che constatava che alcune persone, dopo un’alterazione di quello che consideravano uno stato di quiete accettabile, avevano l’aspetto di malati e quindi – gli americani sono bravissimi a fare di ogni variazione una sindrome o una malattia, perché fa parte del business: più malattie ci sono, più cure bisogna approntare, e ciò diventa un business – partì da questa constatazione e inventò la Sindrome generale di adattamento. C’è, così, una sindrome generale di adattamento! Questo ha dei corollari, per cui ogni variazione che comporti un’alterazione poi richiederebbe uno sforzo per ritornare allo stato di quiete, e ciò va inquadrato in una sindrome generale di adattamento!
Tale sindrome già introduce l’idea di un organismo ideale, che risponde in maniera uguale a ogni variazione, istituendo una sorta di normalità, rispetto a cui quanto va oltre sarebbe la malattia. Abbiamo, quindi, lo stress già in un’accezione negativa, come quello che comporta uno sforzo per l’adattamento, dove l’adattamento è considerato il ritorno allo stato di quiete, non ciò che tende a, ma che deve ritornare allo stato precedente.
C’è qui una mitologia circolare, dove ciò che produce una variazione dev’essere annullato, cancellato, per un ritorno. Chiaro che questo risente dell’accezione medica di guarigione. Che cos’è la guarigione per il discorso medico? È il ripristino dello status quo ante. Si chiama restitutio in pristinum. La guarigione dovrebbe fare sì che quello che è avvenuto si cancelli, per un ritorno circolare al punto di partenza. Ciò è totalmente ideale e fa riferimento a un organismo ideale, inteso come sistema. L’organismo come sistema termodinamico, dove le leggi che dovrebbero valere in questo sistema ideale sono le leggi della termodinamica. Dove, quindi, è assolutamente escluso quello che fa riferimento alla vita, al vivere, al gerundio della vita, con le implicazioni intellettuali, con tutto quanto fa riferimento alla tensione come tensione alla qualità, tensione al valore. La domanda è tensione. Ciò che Freud chiamava pulsione è la tensione, tensione al conseguimento e all’attuazione di dispositivi per conseguire, compiere, concludere ciò che occorre rispetto al progetto e al programma. Tutto questo non può essere applicato in termini generali, non è qualcosa che possa valere per tutti, non comporta una psicologia comune, ma una strategia assolutamente specifica caso per caso. Invece è stato inteso come sforzo di adattamento.
Adattamento è un termine piuttosto interessante, che indica un percorso in direzione dell’atto. L’atto, l’adattamento, non è qualcosa di ontologico; comporta, in ciascun caso, che c’è un dispositivo particolare e l’atto esige non tanto il principio d’inerzia, ma la forza, l’energia, un percorso. Ad aptum, adattamento. Nulla di fatalisticamente predefinito. Invece, nella concezione dello stress che è stata, per così dire, proposta, ci sarebbe una sorta di conseguenza negativa, perché questo adattamento richiede uno sforzo. Chiaro che, per bilanciare questo sforzo, è stata immediatamente proposta l’esigenza del relax, del rilassamento.
Tensione-rilassamento è una coppia oppositiva che viene riproposta – che fa seguito a una concezione dualistica delle cose: positivo-negativo, male-bene, stress-relax – senza capire e intendere che cosa, eventualmente, nello sforzo risulta eccedente.
Invece, si parla subito di lavoro stressante, di malattie da stress, in maniera assolutamente indiscriminata, come se lo sforzo, in quanto tale – senza capire quale, come e perché – avesse effetti negativi, potesse minare la salute, che dovrebbe essere uno stato di quiete.
Tutto ciò si basa su un’idea della salute, della vita e delle cose, come fossero regolate dal principio d’inerzia. Non a caso, le metafore che ricorrono a indicare il riferimento allo sforzo sono tese a indicare la totale assenza di cervello. Si tratterebbe di caricare o scaricare le batterie, attaccare o staccare la spina. Ognuno si fa soggetto termodinamico, si riduce a elettrodomestico: ha le pile scariche e allora le deve caricare, ha le pile troppo cariche e allora le deve scaricare. Deve staccare la spina, oppure deve rilassarsi.
Per rilassarsi, quali sono i consigli vigenti? Qual è il modo migliore di rilassarsi? Smettere di pensare! O pensare solo positivamente. Pensare positivo. Questa sarebbe la vera prova d’intelligenza, pensare positivo! Come pensare positivo? Occorrerebbe avere dinanzi tutta una conoscenza del bene e del male, per cui sarebbe possibile espellere tutto il negativo e avere dinanzi tutto il positivo e vivere di quello. Ma questa conoscenza del bene e del male è del tutto ideale. Che cosa possa risultare positivo o negativo per qualcuno, nel corso degli avvenimenti, è assolutamente impossibile stabilirlo prima. Ognuno ben sa che qualcosa che poteva sembrare un avvenimento controproducente, compromettente, magari è stato ciò da cui è partita una serie di cose che hanno portato alla riuscita. Pensare positivo: sarebbe pensare da idioti. L’idiota pensa positivo.
Che cos’è idiota? È cosa priva di caratteristiche, di particolarità. Solamente l’idiota potrebbe pensare positivo o smettere di pensare, come se il pensiero rispondesse a una facoltà. Le idee sono una facoltà umana? Dell’homo elettrodomesticus? Dell’uomo visto come robot? Un automa!
Questa concezione dello stress e del relax come suo rimedio si afferma come tentativo di contrapporsi alla questione intellettuale, si afferma dove la forza e l’energia siano considerate come totalmente svincolate dal progetto e dal programma di vita, dalla domanda, dal desiderio, dall’istinto, dall’istanza di verità, dall’istanza di sapere, dall’istanza di senso.
Tutto ciò è abolito dall’energetistica. C’è la spina da staccare e da attaccare e c’è la prescrizione alle cose cui si può pensare, alle cose che fanno bene, mentre altre farebbero male. E qui siamo nella mitologia sostanzialista e mentalista. Abbiamo il moltiplicarsi di rimedi per sopravvivere con questa mitologia, abbiamo l’applicazione del massaggio che è molto rilassante. Massaggio, “spa”, salus per aquam, e tutte le forme di spa; oppure c’è lo svago, bisogna divertirsi, svagarsi. Perché non è importante quel che si fa e come, assolutamente no: l’importante è essersi divertiti. Le avete sentite mai le interviste agli atleti in televisione? Le interviste alla radio, alla televisione a chi propone una serie di attività? Dicono: “Ci riuniamo per stare insieme, per divertirci e poi, alla fine, l’importante sarà essersi divertiti”. Come? Boh. Perché? Boh. Facendo cosa? Boh. Non ha nessuna importanza. L’importante è essersi divertiti, avere staccato la spina, per poi riattaccarla.
Siamo nella promessa di un godimento, di un bene nell’aldilà, accettando oggi il sacrificio permanente, con qualche pausa. Noi possiamo accettare di soffrire tutta la settimana e nel week-end possiamo svagarci e divertirci, cioè staccare la spina del sacrificio per poi riattaccarla il lunedì mattina. Che bella vita, eh? Questa è la mitologia dello stress e del relax. Cioè, l’accumulo di stress tutta la settimana – le batterie accumulano, l’uomo accumulatore, accumula stress – poi la scarica nel week-end, e l’uomo si scarica, si affloscia, si rilassa e così può continuare a vivere in quest’alternanza di carica e scarica, in quest’alternanza termodinamica, dove progetto, programma, strategia e sessualità non c’entrano niente: carica e scarica, stress e relax. È l’abolizione del dispositivo intellettuale, del dispositivo di una vita che non sia considerata unicamente come vita animale o animalesca addirittura.
Accettato che lo stress è considerato il ricettacolo di tutto quello che non si capisce, uno con un problema va dal medico e il medico non sa che pesci prendere. Dice: “Mah, forse lei è stressato”. E chi dice di no? Salvo uno e salvo l’altro! La colpa è dello stress. È perché viviamo – sarebbe il corollario – in un modo e in un mondo poco naturale, poco naturalistico. Occorre tornare alla natura. Senza questo ritorno alla natura ci sarebbe lo stress, non pensando che questa metafora del ritorno alla natura è una metafora della morte, come evoca ogni ritorno: il ritorno alla polvere, il ritorno alla terra, il ritorno all’origine, il ritorno da dove sei venuto. E da dove sei venuto? Memento homo, qui pulvis es et in pulvere reverteris. Che bello il ritorno, il ritorno alla natura! E è curioso che, a fronte di ogni eventuale stressatura, venga invocato non già il riposo, ma il relax, il rilassamento; un’idea di materia inerte, di materia che avrebbe bisogno di rigenerarsi, di rianimarsi.
Tutto ciò procede da una concezione dove le cose finiscono, dove le cose si esauriscono, dove il tempo è a termine, la forza è a termine, l’energia è a termine, ogni cosa può finire. È un panorama fosco che s’instaura dove c’è una concezione dicotomica, dualistica delle cose, che si contrappongono. Anziché l’apertura, ossia il due originario da cui le cose procedono, questo discorso instaura la dicotomia, la contrapposizione, dove A è contro B.
Sarebbe quello che il Papa ha rilevato come la nuova Babele; il Pontefice ha indicato che ci troviamo in una nuova Babele, non solo lì, in Vaticano, dove chiaramente c’è la punta di questa cosa, ma la nuova Babele. Intendendo la nuova Babele come cosa? La dicotomia dove prevale il personalismo, la contrapposizione e dove, in assenza di progetto, programma, dispositivo, ognuno è contro l’Altro e dove l’Altro è espulso. C’è una logica di contrapposizione. Chiaro, lui l’ha detto in una certa accezione, ma la questione intellettualmente si pone.
Ognuno è disposto a farsi vittima dello stress. La formula sono stressato l’avete mai sentita? Mai nessuno si è rivolto a voi dicendo che era stressato? Né voi vi siete rivolti a altri dicendo di essere stressati? Qualche volta sì! E questo cosa indica? Quale statuto? Sono stressato è una formula che può risultare interessante se è esplorata, analizzata, al di là di quel primo apparente modo di udirla che indica “Ecco, sono vittima dello stress”; “Sono vittima di qualcosa che io non vorrei fare, devo farla e quindi sono stressato”. Vittimismo rispetto a ciò che devo fare, non voglio fare, non so fare, non posso fare o posso fare ma non voglio, cioè vittimismo di un soggetto che si presume contrastato, impedito, comandato, teleguidato, soggetto che indulge alla rivendicazione, che è un modo della vendetta e che è ciò cui ogni vittima tende.
Regolatrice dei rapporti sociali la vendetta, dei rapporti sociali tra vittime. Presunte vittime, ma tanto basta.
Ma come s’impara a farsi vittima? A credersi vittima, dato che quella di vittima non è la condizione originaria, non è la condizione che procede dallo statuto intellettuale, dalla tentazione intellettuale, ma dalla tentazione sostanzialista e mentalista? Dove punta la vittima? A cosa punta la vittima? Chi crede nella vittima, chi crede di essere vittima o di farsi vittima, a cosa punta? Per un verso, abbiamo detto, alla vendetta, che ha come suoi pilastri la colpa e la pena. E su questi due pilastri l’ideologia della vendetta regna sovrana.
Proseguendo, qual è il fine del vittimismo? Qual è il fine del farsi vittima di una tentazione sostanzialista e mentalista che ha avuto la meglio?
Leggiamo la tentazione di Adamo e Eva. Che cosa risulta? Adamo si giustifica, dice che è stata Eva, Eva si giustifica, dice che è stato il serpente. Uno è stato ingannato dalla donna, la donna è stata ingannata dal serpente. Cristo se la cava un po’ meglio, non cede, però anche lui dice che c’è il tentatore. C’è il tentatore! Adamo se la prende con Eva, Eva se la prende con il serpente. E il serpente? È tutta colpa sua! Ecco chi è il capro espiatorio, il capro espiatorio cui la vittima può fare riferimento.
La vittima è vittima del tentatore, che è il vero capro espiatorio! Il capro espiatorio deve racchiudere in sé tutto il negativo, perché possa essere espulso o economizzato in nome della liberazione dal male e dal negativo o in nome della purezza riconquistata, come dimostra ogni inquisizione, come la caccia alle streghe o ogni pulizia etnica contro le minoranze, etniche, religiose, politiche. Quindi, questa dicotomia che isoli ciò che viene presunto come male o negativo, rispetto a ciò che viene indicato come positività, come bene, è assolutamente funzionale alla governance, alla governabilità degli apparati sociali.
Il discorso politico esige la dicotomia, perché è fondandosi su di essa che può tentare di accaparrarsi il consenso. Il discorso politico non è un discorso che va in direzione del compimento del programma, ma un discorso che va in direzione dell’acquisizione del consenso. E come si può acquisire il consenso? Impostando una dicotomia, tra la positività e la negatività. Ognuno, certamente, è fautore della positività. Chiaro che questo consenso, su cui poggia il discorso politico, è un consenso fantasmatico. L’idea di bene è assolutamente ideale, fantastica. L’idea di bene comune è assolutamente fantastica, assolutamente irrealizzabile, eppure è ciò su cui poggia il discorso politico, che si regge sull’idea di bene comune, che è sempre un passo più in là, è sempre da perseguire, sempre da raggiungere. E, al di là del discorso politico, il discorso pedagogico, il discorso filosofico, il discorso medico, il discorso legale, il discorso disciplinare pure si reggono sull’esigenza di dicotomia, di cui proporre la padronanza, il dominio. Ognuno di questi discorsi favorirà l’esistenza del difetto, del disturbo, dello stress generale, facendo diventare quell’alterazione, quell’anomalia, quel disturbo come qualcosa da accettare in quanto tale, contro cui sia inutile, impossibile lottare, anzi, qualcosa di cui favorire la produzione in nome della salvezza.
È un discorso che è cominciato da lontano, non è sorto certo oggi. Il modo stesso con cui viene presentata l’ipotesi della cacciata indica che è un discorso regolatore di antiche provenienze. E oggi questo discorso si tramanda, prospera, prosegue, attraverso quelle che sono chiamate l’ermeneutica e l’epistemologia, che propongono un’ontologia delle cose, in nome di una comprensione universale, di un codice universale, tale per cui non si tratta di capire come e perché qualcosa accade, ma come quella determinata cosa, accaduta pure in maniera anomala, debba essere, tuttavia, interpretata in un codice comune, in nome dei vissuti universali. I vissuti universali! Cioè in nome di fantasmatiche non elaborate che mantengano l’idea di fine, di morte, di origine come fondamento della paura, rispetto a cui potere governare la città, il paese, lo stato, il pianeta e quant’altro.
La questione rilevante, rispetto a ciò che stiamo indagando, è come ognuno accetta o no la produzione del capro espiatorio: di sé come capro espiatorio o dell’Altro come capro espiatorio, di sé come vittima o dell’Altro come vittima. Dove ciascuna vittima fa parte di una catena che deve risolversi nel capro espiatorio universale, generale, locale, comunque nel capro espiatorio, che possa giustificare il fine di bene di ogni azione. Intenzione di bene che, però, si è imbattuta nel tentatore, nella sostanza malefica, nella mentalità malefica, nell’idea malefica che giustifica anche l’azione negativa, perché la natura era buona, l’intenzione era buona. Non sia mai che l’uomo possa pensare male. No. È per via del tentatore, del capro espiatorio.
La questione, radicalmente, è quella della tentazione intellettuale: ciascuna cosa si dirige verso la sua qualità, ciascuna cosa entra nella domanda. Non è immobile in una sfera in quanto tale. Ciascuna cosa entra, per ciascuno, nella domanda. Entra in un progetto, in un programma, nella domanda, e questa domanda esige di svolgersi.
Come? In che termini? Da dove trarre, acquisire la forza perché il progetto e il programma si svolgano, si compiano, giungano a conclusione, senza prodursi come vittima o come capro espiatorio? Perché prodursi come vittima in relazione a un capro espiatorio? Come rivolgersi alle cose che sono da fare? Come rivolgersi all’attuazione del programma senza cedere alla tentazione offerta dal discorso dicotomico, che presenta la possibilità di alternativa? È la questione, è la scommessa che si pone per ciascuno.
Se ci sono domande o esigenza di chiarimenti, possiamo dedicare qualche minuto che ci resta per questo. Certamente avremo modo di riprendere alcune questioni prossimamente. Noi proseguiremo alla Sala Polivalente della Guizza, con una serie d’incontri che hanno per titolo Il terremoto. Dopo La tentazione, ecco Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica nell’impresa.
C’è qualche domanda?
Gianfranco Dalle Fratte Il capro espiatorio potrebbe essere inteso anche come una causa, come una visione dell’origine del male.
R.C. Sì, la visione.
G.D.F. Credo che possa essere individuata una causa. È sempre puntare sulla causa.
R.C. Ma è la causa finale. Occorre distinguere. Se lei intende la causa in termini di causa finale, d’accordo, ma non se intende causa come ciò che si pone come provocazione, provocazione dell’atto, provocazione della domanda, di cui non c’è conoscenza. Perché questa causa è triale; non è quella del rapporto causa-effetto, ma è la causa che è causa di godimento, causa di desiderio, causa di verità, in una simultaneità che non lascia modo di saperlo prima. Esige un percorso, esige un’indagine: è la causa dell’identificazione.
Non è il tentatore questa causa: “Sono stato tentato da…e io non volevo”. No, questa è la tentazione sostanzialista. La causa è ciò per cui qualcosa accade. Rispetto a cui non c’è l’esigenza di giustificarsi, perché è ciò che entra nella domanda. Il tentatore, il capro espiatorio, viene posto in sostituzione della causa, perché un conto è la causa e un conto è l’agente. La causa non è l’agente.
G.D.F. Ma l’agente non c’è.
R.C. Chiaro.
G.D.F. Quindi viene inteso l’agente come causa. Una rappresentazione della causa.
R.C. Viene idealizzato un agente con cui giustificare qualcosa in una logica dicotomica, per mantenere una concezione morale, politica, disciplinare, che consenta la dicotomia per attuare un discorso di padronanza sulle cose, che però è del tutto impossibile. È ipotizzata in nome della governance, in nome di una possibile mentalità di riferimento. In nome del vittimismo. L’agente può essere sia l’agente del bene sia l’agente del male, agente rispetto a cui situarsi, con cui rapportarsi, in relazione a cui assumere un posto, un’identità, uno statuto fantasmatico.
Altri?
Pubblico Ho due domande. La prima è quella della questione dell’homo elettrodomesticus, cioè la faccenda dello stress e del rilassamento, come attaccare e staccare la spina. Non ho capito l’alternativa di questa cosa, l’alternativa intellettuale di questo fatto. Mentre la seconda domanda è sulla questione della natura. Diceva della natura che è il ritorno alla polvere, che è qualcosa di polveroso, mentre a me la natura dà l’idea di qualche cosa di vivo; più che la polvere mi viene in mente l’erba, l’albero, il cosmo.
R.C. Un conto è ritenere che un certo sforzo sia nocivo per definizione. Io posso pensare che lo sforzo che mi è richiesto dal lavoro quotidiano possa risultare poco salutare, primo perché non lo faccio volentieri, secondo perché ritengo di non essere adatto e terzo perché ritengo che questo sforzo mi esaurirà e via dicendo. Possono essere molte le fantasie che intercorrono. Così, ognuno si ferma lì, non indaga perché questo lavoro risulti gravoso, a cosa sia collegata questa idea di peso. Magari non dipende dal lavoro, dipende da come lo svolgo, dipende da come sono le relazioni con chi ho attorno a me, rispetto alle quali possono esserci fantasie disparate. Però tutto ciò non viene indagato e costituisce un peso. Questo è chiamato genericamente stress e ci accontentiamo di dire che qualcosa è stressante. È chiaro che, alla lunga, l’idea negativa produrrà qualche inconveniente.
Altro conto è istituire un dispositivo in cui questo lavoro sia in connessione con la soddisfazione. Perché c’è chi presume che facendo un certo lavoro sia preclusa la soddisfazione? Perché presume che facendo questo, in realtà, non può fare dell’altro, che sarebbe ciò in cui veramente troverebbe soddisfazione. Ecco, la mitologia delle cose contrapposte è ciò che occorre analizzare, che occorre sfatare, perché è la mitologia del terzo escluso. Faccio questo, non posso fare quest’altro. Una cosa nuoce a quell’altra, io sono in mezzo e soffro.
È vero che questa cosa m’impedisce di fare quell’altra cosa? È vero? Siamo sicuri? Perché? Come? O c’è modo d’integrare le due cose? O addirittura c’è modo di farne un’altra, che si aggiunga? E che, instaurando un altro dispositivo, A non è più contrapposto a B, ma anzi A, B e addirittura C s’integrano per la soddisfazione?
Fino a che ho questa idea delle cose che si contrappongono non troverò mai C, né apprezzerò B. C’è chi dice: “A e B non li posso fare perché devo fare A, e posso fare solo A”. Ma perché? “Non lo so, però sento che è così”.
Non indagando su questa costruzione, che è una costruzione fantasmatica, uno va avanti così e sicuramente non va avanti bene, diventerà rivendicativo, se la prenderà con i vicini. Sicuramente non troverà modo della riuscita, perché c’è l’idea negativa che prevale, l’idea di peso, l’idea di negatività, l’idea di contrapposizione.
Questo è il modo di fare nella concezione energetistica dello stress, che si fonda sull’idea che le cose si contrappongono, che A impedisce B, che B impedisce A, addirittura B impedisce A e anche C; e sulla base dei divieti e degli impedimenti e dell’idea di non poter fare né questo né quello, uno sta chiuso in un recinto sempre più stretto. È chiaro che come modo di vivere non fa sprizzare soddisfazione.
Anche la questione della natura è da considerare in tale contesto. La natura è intesa come ciò che si contrapporrebbe alla cultura, a tutto quanto è artificiale. Consideriamo la parola natura: è un termine che non ha niente di naturalistico, non indica una contrapposizione tra due mondi diversi, uno che sarebbe il mondo naturale e uno che sarebbe il mondo artificiale. Natura vuol dire struttura. La natura delle cose è la loro struttura. Qual è la struttura? La questione della esperienza per ciascuno è cogliere la struttura in cui le cose accadono. Accadono, avvengono, divengono e si trasformano. Questa struttura non è fissa, non è inerte, non è affatto ontologica. È una struttura che, se non viene indagata, non rilascia il modo di accorgersi come avviene e, allora, può accadere che ci sia chi persegua il mito di una naturalità da raggiungere e pensa che, se fosse attuata, la sua vita sarebbe felice, pura, facile. Facile!
Elio Cecchetto La decrescita felice.
R.C. Esatto, come se la felicità fosse uno stato delle cose anziché l’effetto, l’effetto temporale che in una certa congiuntura si produce.
E.C. E quando la natura si ribella?
R.C. Quando la natura si ribella, c’è la vittima della natura! Il capro espiatorio fonda l’antropomorfismo: antropomorfismo di Dio, antropomorfismo della natura, antropomorfismo della tentazione. Allora ognuno si rappresenta l’Altro, la causa, le cose, in maniera antropomorfica, cioè speculare, vittimistica, in modo anti-intellettuale, senza cogliere quale sia la ragione, quale sia il modo, quale sia il viaggio.
E.C. Nel caso del serpente, mi sembra che il serpente proponga una lettura diversa da quella che Dio aveva dato, quasi rovesciata.
R.C. C’è la dicotomia tra Dio e il serpente. Dio sarebbe l’agente buono e il serpente l’agente malvagio.
E.C. Il serpente propone una lettura rovesciata del frutto: “Ti viene proibito perché se mangi quel frutto diventi come Dio”.
R.C. E quindi siamo nell’alternanza tra Dio come capro espiatorio e Satana come capro espiatorio. Per Satana il tentatore è Dio.
Pubblico Perché in tutto il mondo deve esserci la conoscenza del bene e del male?
R.C. Il testo del Genesi è preciso. Possono esserci tante varianti, tante letture, però il testo che ci è stato tramandato è preciso come formulazione rispetto alla struttura della tentazione sostanzialista e mentalista, rispetto alla quale molto resta da dire. E quindi noi proseguiremo a dirne.
E.C. Quindi è meglio usare un Cynar!
R.C. Un Cynar?
E.C. Contro il logorio della vita moderna.
R.C. Ah, sì, appunto, anti-stress! Ringrazio ciascuno per aver contribuito a questi incontri