- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
STRESS. LA CLINICA DELLA VITA
- Perché lo stress?
- Lo stress del lavoro
- Lo stress della dieta
- Lo stress dell’impresa
- Lo stress della vita
- La clinica della vita
- Introduzione allo stress
- Lo stress della parola
- La famiglia e lo stress
Perché lo stress?
Ruggero Chinaglia “Stress” è un termine che, a torto o a ragione, quasi ognuno usa. È diventato un termine gergale, perché ognuno lo usa attribuendone un significato che può esser differente, però lo usa, e può accadere che, proprio a partire dal termine stress, ci sia chi si sente d’accordo con gli altri. “Ah, quanto stress… Sono stressato… Questa cosa mi stressa”. A questo punto siamo già d’accordo, ci siamo già capiti, non occorre nemmeno andare avanti, ci sentiamo solidali in nome dello stress. Quindi, di che cosa si tratta?
Con questo termine “stress” ognuno indica qualcosa di differente, ma, per lo più qualcosa di negativo, qualcosa che disturba, qualcosa che dà fastidio, qualcosa che insomma riassume una connotazione negativa. Allora, occorre considerare se è proprio così quanto a questo termine, e come mai questo accordo così esteso per intenderlo negativamente. Se è un termine che non indica di per sé qualcosa di negativo, come mai lo è diventato, nell’uso? Come mai ha raccolto così tanto consenso per indicare qualcosa di negativo?
Questo termine è un termine inglese che poi è stato italianizzato, cioè adottato nella lingua italiana così com’è, senza traduzione. Nella lingua inglese, questo termine che cosa designa? Designa la spinta, la forza, la tensione, la sollecitazione; quindi, come termine non ha niente di negativo. È un termine che dice forza, spinta, tensione, sollecitazione: fin qui niente che possa indurre a demonizzarlo o a respingerlo come qualcosa che non vada bene. Come mai allora, invece, è entrato nell’uso comune con questa valenza negativa?
Le ricerche attorno a questo termine “stress” sono cominciate da più di cinquant’anni. Sono cominciate, in particolare, ad opera di un fisiologo americano, Hans Selye, che faceva delle ricerche intorno a quelli che lui riteneva meccanismi di adattamento: a partire da esperimenti sugli animali, cercava di capire quali fossero i meccanismi per cui l’organismo umano si adatta rispetto a circostanze differenti, e chiamò “stress” la risposta difensiva dell’organismo agli stimoli provenienti dall’esterno. In particolare, una sua ricerca si svolgeva attorno a quella che poi chiamò G.A.S., in inglese General Adaptation Syndrome, cioè sindrome generale di adattamento.
Egli in particolare si occupava di persone che non erano malate, ma avevano l’aspetto di esserlo: questo era il suo movente. Quindi, meccanismi di adattamento, di compenso rispetto a sollecitazioni dell’ambiente o delle circostanze della vita, per cercare di fare una classificazione, sostenendo che l’organismo è un sistema omeostatico che tende all’equilibrio. Questo l’assunto di partenza: dato che l’organismo è un sistema aperto, però sempre un sistema, che tende alla stabilità, che tende all’equilibrio, vediamo di misurare i disturbi, gli stimoli, gli impulsi provocati dall’ambiente, dalle varie circostanze, dalle varie cose.
Allora, qui c’è già una considerazione da fare: si tratta di un fisiologo che considera l’organismo un sistema, quindi c’è una certa visione organicista. Occorre dire anche che, in quanto fisiologo, Hans Selye segue un’impostazione che era stata dettata un secolo prima da Claude Bernard. Claude Bernard è un medico francese, fondatore della moderna fisiologia, cioè quella branca della biologia, della medicina, che tenta di considerare e di classificare quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento del corpo, dell’organismo dei vari organi, quindi di istituire un discorso sulla natura. Fisiologia, discorso sulla physis, sulla natura, sul funzionamento naturale, quindi su quello che dovrebbe essere il modo corretto per tutti di funzionare. C’è questa impostazione di base. Una base medico – organicista – fisiologica.
Però ci sono state ricerche anche in campo psicologico e sociologico che hanno dato dello stress una definizione non già come risposta dell’organismo che tende a ristabilire l’equilibrio – perché questa era la formula: stress, la risposta dell’organismo agli stimoli, risposta che tende a ristabilire l’equilibrio – ma un’altra accezione di stress, che la indica invece come la sensazione della differenza tra le attese che ciascuno può avere rispetto a qualcosa e invece quello che accade realmente; quindi, le attese tra le aspettative e la realtà: tanto maggiore la differenza tra le aspettative e il riscontro della realtà, tanto maggiore lo stress, dicevano, cioè le conseguenze negative dello stress, perché lo stress sarebbe la sensazione di questa differenza.
Ora, ciascuno di noi, pensando alle cose da fare, nella scuola, nel lavoro, nella vita, le pensa in un modo e poi, facendole, riscontra che accadono in un altro. Questo è il riscontro quotidiano. “Io penso a una cosa, penso di farla bene, che mi dia il meglio, poi facendola accade differentemente; oppure “Penso che andrà male” e poi facendola si svolge invece nel migliore dei modi. È la stessa cosa. Questa sensazione della differenza, sia che vada in verso peggiore delle aspettative o migliore rispetto alle aspettative, indicherebbe questo stress. Lo stress come sensazione della differenza; ma, dice, questa differenza, questa sensazione può dare delle conseguenze: ansia, angoscia, rabbia, ira, disturbi del sonno, disturbi dell’alimentazione, disturbi del comportamento…
La classificazione in termini psichiatrici è ampia, no? Potrebbe durare tutta la serata elencare le conseguenze negative, perché poi arrivano sino ai disturbi dell’immunità, quindi sino al cancro, sino all’infarto, sino alle cosiddette malattie mentali, che vanno dalla formula più generica e per altro accreditata di “esaurimento nervoso” sino a quella più temuta e apparentemente peggiore, che arriva anche a costituire insulto, che è quella di “schizofrenia”. Quante volte: “Ah! Sei uno schizofrenico! “per dire che … cose terribili! Ecco, ma c’è quindi questa sorta di differenza tra lo stress, sensazione della differenza e le conseguenze negative. Oggi però, se voi dite “stress”, alludete alle conseguenze negative, solo alle conseguenze negative, che vanno, appunto, dall’ira, alla rabbia, all’angoscia, all’ansia, alle varie cose, sino alle cose cosiddette più “gravi”, tanto che c’è addirittura chi arriva a definire lo stress come “la malattia più diffusa del secolo”.
Partiamo, quindi, da una denominazione che lo indica come “meccanismo di adattamento, risposta dell’organismo agli stimoli, alle questioni che accadono”; poi, “sensazione della differenza tra le attese e i riscontri”, fino a farne una malattia. Come mai questo slittamento progressivo sempre più verso il peggio, quando, per altro, altre fonti di ricerca lo indicano come un laboratorio? Lo stress, lo stress: laboratorio di apprendimento per affrontare le difficoltà della vita; quindi qualcosa addirittura di essenziale per affrontare le difficoltà. Ora, da laboratorio di apprendimento, da occasione di ragionamento, di riflessione, di indagine, di ricerca, diventa malattia. Come mai? Perché è curioso ma, occorre dire che 99,99 volte su cento, l’accezione di stress che viene usata è quella più deteriore, è quella che indica qualcosa di negativo. Allora, cerchiamo di capire che cosa ha fatto sì e fa sì che prevalga, con il consenso quasi unanime, questa accezione negativa, accezione che, peraltro, comincia già dal dizionario.
Se voi guardate sul dizionario della lingua italiana alla voce “stress”, curiosamente trovate una traduzione quantomeno forzata: se cercate sullo Zingarelli, viene mantenuta l’adiacenza a sforzo, tensione, ma viene accompagnata con la versione cosiddetta “medica”, per cui la traduzione del termine diventa “qualunque condizione fisica, chimica, psichica e simili che esercitando uno stimolo dannoso, dannoso sull’organismo, ne provoca la reazione”. Stimolo dannoso. No! Nella premessa della ricerca questa idea del danno non c’era! Non c’era questa selezione per cui lo stress riguarderebbe la risposta allo stimolo dannoso, ma la risposta a ciascuna sollecitazione.
Questa aggiunta da dove viene? Come mai? Garzanti, che è un altro dizionario diffusissimo – ho preso due tra quelli proprio più importanti – non traduce il termine nella sua accezione linguistica, in primo luogo, ma comincia da quella medica e dice che stress è: “ogni stimolo” – quindi lo stress diventa non più la risposta, ma – “lo stimolo che, agendo sull’organismo, ne provochi una reazione nervosa” – reazione nervosa – “talora patologica”. Siamo nella fantasia, nell’assoluta fantasia; però, purtroppo, questa fantasia è negativa, è pessima, introduce uno scenario drammatico, perché c’è la reazione nervosa, e sarebbe da chiarire qual è la reazione nervosa, e poi dice che la reazione può essere patologica.
Questa la prima definizione, però ne aggiunge una seconda, di uso corrente: “Tensione nervosa, logorio”. Com’è che la tensione nervosa diventa il sinonimo di logorio? “Logorio causato da un ritmo di vita troppo intenso”. Ah, bene! È poesia! Rispetto al termine inglese di partenza siamo nella creatività: è diventato “logorio causato da un ritmo di vita troppo intenso”. Per opera di chi? Da dove viene questa traduzione? Poi, alla fine, dopo che ha presentato l’accezione medica, l’accezione comune, quella che mette d’accordo tutti, dice che c’è anche propriamente l’accezione di sforzo, di spinta, che viene come terzo; proprio se uno insiste a cercare, ha costanza proprio di voler fare un’indagine accurata, alla fine lo trova, ma all’inizio c’è questa prospettazione di qualcosa di negativo.
Questo è un dizionario che avrebbe il compito di fornire la traduzione, trattandosi di un termine straniero, e l’accezione semplice di questo termine, non facendone immediatamente una versione ideologica; perché siamo di fronte a una versione ideologica di un termine che, da “tensione, sforzo, spinta”, viene a indicare il “logorio per un ritmo di vita troppo intenso”. Allora, qui siamo dinanzi a qualcosa che ci riguarda, riguarda ciascuno, perché siamo di fronte a una correzione ideologica che è intervenuta. Quando, come e perché? Perché è intervenuta? Incontrando il favore di chi? Perché, ad un certo punto, per diventare di uso così comune ed entrare addirittura nel dizionario che è retto da un Istituto generale del dizionario, con accademie varie che sovrintendono, ecc., evidentemente c’è qualcosa che pesca in un’idea comune, in una sorta di origine comune e che questo termine dovrebbe confermare.
Allora, occorre fare un passo indietro, partendo dalle ricerche di questo fisiologo americano che si ispirava a Claude Bernard, medico e fisiologo francese, che a sua volta si ispirava… A chi? Occorre fare un passo indietro ai primi dell’800, agli studi di tal monsieur Carnot, Nicolas Leonard Carnot, noto perché ha dato il nome a un ciclo, detto ciclo di Carnot, ha dato il nome al Secondo principio della termodinamica. Alcuni se lo ricorderanno da scuola, altri no, comunque i principi della termodinamica, di cui il secondo è proprio importantissimo, è accreditato da tutti, nessuno lo nega. Su questo principio si fonda la civiltà delle macchine, delle macchine! Cosa dice questo principio? “Dati due corpi, il calore si trasmette da quello più caldo a quello più freddo”. È un’applicazione che, anche senza bisogno di teorizzazioni, è di immediato riscontro. Se noi apriamo la finestra d’inverno, l’ambiente si raffredda perché entra il freddo; d’estate, al contrario, entra il caldo. Se avviamo l’aria condizionata, l’ambiente esterno si riscalda, no? Quindi, due corpi, a temperature differenti, messi a contatto, tendono all’equilibrio: il più caldo si raffredda, il più freddo si riscalda. Fino allo stato di equilibrio. Questo principio, secondo principio della termodinamica, è noto anche come principio della degradazione dell’energia. C’è una funzione matematica che esprime questa degradazione che si chiama entropia, un termine che forse qualcuno ricorda dalla scuola o dall’università, perché era un termine anche difficile da capire. L’entropia: l’energia, dopo ogni trasformazione, si degrada. Ogni reazione, avvenimento, ogni cosa che interviene nel sistema. Occorre considerare un sistema chiuso. Quindi se noi facciamo una reazione chimica nell’ambiente della reazione, se consideriamo il mondo come sistema, sistema chiuso, abbiamo pure una formula che ne può in qualche modo riportare la questione all’entropia, ossia l’energia si degrada. Dove l’entropia è massima, l’energia è zero, cioè è raggiunto l’equilibrio. Alla massima degradazione dell’entropia corrisponde la minima disponibilità d’energia: questo è l’equilibrio. A entropia massima, energia zero. Questo è l’equilibrio per la termodinamica, ossia dove non c’è più energia disponibile. È immediato per ciascuno che questo corrisponde alla morte. Chiaro, no? Non c’è più energia, non c’è più calore, non c’è più possibilità della trasformazione degli elementi: ecco l’idea di morte come forma della soggettività.
Ma, consideriamo la formula: “Sono stressato, mi sento stressato”. Essa indica la messa in questione della soggettività, una messa in questione del principio di padronanza, una messa in questione del principio di possibile gestione delle cose. “Sono stressato”, cioè non ho più controllo, non ho più controllo su di me, sulle cose, sugli altri, sul tempo. E quindi enuncia un primo modo del disagio; enuncia cioè che la soggettività, che esige l’inerzia, quindi la soggettività con la rappresentazione fissa, prestabilita delle cose, con la sua rappresentazione del viaggio, dell’incontro, del destino, è travolta dallo stress, è travolta cioè dall’istanza di vivere. Solamente negando questa istanza di vivere può sorgere il fantasma materno della sostanza, fantasma della sostanza inerte, sostanza che necessita, necessiterebbe dell’animazione.
Il soggetto è incompatibile con lo stress, perché lo stress mette a repentaglio la presunta stabilità, la presunta fissità. Con lo stress, il soggetto ritiene incompatibile pure il viaggio, la domanda, la tensione, l’andare e venire delle cose. Ecco perché il soggetto è praticamente la linea stessa della predestinazione, è questa via già tracciata, già segnata, quindi inerte, è questa materia inerte, senza sforzo, senza tensione, senza parola, dunque senza vita. Dire soggetto mortale è già una concessione che Aristotele, per così dire, ha fatto, poiché, in effetti, il soggetto è già morto; stante questa predestinazione è già morto. Non tollera la vita. Ecco perché il luogo comune, il discorso corrente ha dello stress questa accezione negativa che pur tradisce, nella formula “sono stressato”, lo scacco della padronanza che lo stress comporta.
Quella che viene chiamata con una formula neologistica la “stressatura” è l’ammissione dell’impadroneggiabilità della spinta pulsionale, dello stress. Pur nella sua formula paradossale, è dalla “stressatura”, che sorge una prima constatazione che è di qualche interesse, cioè la constatazione che l’Io e il soggetto non coincidono, che l’Io e l’uno non coincidono, che oggetto e significante sono in due logiche differenti. È appunto nella cosiddetta “stressatura” che l’enunciato “Io sono io” non tiene più, al punto che accade di sentir ammettere che: “Ma non sono più io… Non mi sento più io, mi sento proprio stressato”. E da quella che è l’avvisaglia di una risorsa, di una fortuna, può prendere avvio qualcosa di interessante, può prendere avvio il viaggio; non già quindi dalla calma, dalla sicumera, dalla gestione controllata di ogni cosa, dalla prevedibilità di ogni cosa, ma propriamente dalla perdita del controllo, dalla perdita della padronanza e dalla sensazione anche di questa perdita. Insomma, quel che si enuncia come “stressatura” è l’indice del disagio, del disagio originario, dunque dell’ambiguità costitutiva delle cose, della spinta che viene da questa ambiguità in modo non previsto, non gestibile dalla soggettività. Non gestibile dalla soggettività. Insomma, questa “stressatura” è quasi l’indice dell’apertura, sicuramente di una falla che si è prodotta nella soggettività.
È curioso, ma neanche tanto, che il business dello stress si rivolga a chiudere questa falla per ripristinare il soggetto, la soggettività. È questo il business denominato “stare bene”, il business dello stare bene. “Stare bene” è proprio la formula precisa che riassume la soggettività. “Stare bene”, soprattutto “stare”: la formula dell’immobile. Quindi, almeno apparentemente, nel discorso che attiene a questo business della morte bianca, solamente con questa “stressatura” la soggettività avverte una messa in questione; avverte, magari per via “allucinatoria”, la questione dell’anoressia intellettuale, avverte cioè che non c’è la sostanza, né la sostanza buona né la sostanza non buona, perché non c’è il fondamento a cui ancorarsi. E, senza fondamento, anche la padronanza non regge, il controllo non regge.
Come esercitare una padronanza senza un punto fisso? Perché era questo che chiedeva quel tale: “Datemi un punto fisso e io vi solleverò il mondo”, cioè occorre un punto fisso per vedere il mondo, per rappresentarsi il mondo, per rappresentarsi le cose tali, per rappresentarsi il passato, il presente, l’avvenire, il bene, il male. Per rappresentarsi le cose occorre un punto fisso. Senza questo punto fisso non c’è la rappresentazione, non c’è la rappresentazione del bene o del male, non c’è la significazione positiva o negativa delle cose, non c’è il possibile catalogo delle cose nel bene o nel male. Questa è la questione: questo punto fisso, questo punto fermo, questo specchio negato, questo oggetto negato.
Il punto fisso è la negazione dell’oggetto, la negazione del sembiante, la negazione della provocazione, la negazione dell’identificazione; è la negazione della solitudine, della singolarità, è la negazione del sé. È chiaro che, negato il sé, allora c’è il soggetto, c’è la rappresentazione delle cose come devono essere, come devono stare, almeno in teoria. Poi, in realtà, interviene la “stressatura”, attribuita alla velocità della vita, al ritmo delle cose, alla frenesia, a tante cose; avviene questa “stressatura”, cioè questa impossibile tenuta del punto fisso, del punto fermo, del mondo come volontà e come rappresentazione, perché appunto la rappresentazione del mondo, della mondanità parte da questo punto fisso.
È quanto meno da accogliere questa formula della “stressatura”, in un certo qual modo come avvio del racconto. È dalla “stressatura” che può partire un racconto, una domanda, non già dalla soggettività che afferma sé stessa. Cosa potrebbe mai raccontare la soggettività?
Ora, c’è, in questa formula, un accenno all’esigenza della dieta, perché infatti non basta vivere, importa anche il modo, come vivere, in quale modo vivere: ed è appunto questa la questione della dieta. Quindi, quali sono i modi con cui ciascuno vive? Non già secondo cui ognuno può vivere, ma secondo cui ciascuno vive; come dire che questo modo esige il progetto e il programma, progetto e programma di vita, esige il dispositivo.