- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA SCUOLA DEL DISAGIO E DELL’ASCOLTO
- La scuola e l’itinerario intellettuale
- La scommessa dell’avvenire
- La forza, l’orgoglio, la missione
- La scuola, l’intellettualità, il merito
- La democrazia
- L’autorità e la disciplina
- La decisione
- Chi intende. Quale programma
- I dispositivi economici e i dispositivi finanziari
- L’economia e la finanza
- La scuola: per tutti o per ciascuno?
- Generalmente, normalmente, comunemente
- La scuola senza etichette
- La necessità pragmatica. Come e perché l’educazione dissipa il tabù della vendita
- La direzione e la bussola – school brain
La scuola e l’itinerario intellettuale
Ruggero Chinaglia Abbiamo dei bellissimi libri, che è il caso di indicare e che sono a disposizione, per chi intenda leggerli, basta solo acquistarli. Questo è il libro che abbiamo presentato la settimana scorsa alla Sala degli Anziani, Libro della origine delli volgari proverbi, un capolavoro della letteratura italiana del ‘500. Un libro che, tuttavia, è poco noto, perché ha subito la censura, è stato il primo libro censurato dalla Repubblica di Venezia, messo all’indice anche dal Vaticano, da quello che era il Sant’Uffizio, per via di alcuni suoi contenuti ritenuti irriverenti verso la Confraternita di San Francesco della Vigna. È un libro pregevole, dove l’autore inventa una lingua che all’epoca non c’era: non è il fiorentino di Dante, non è il volgare di altre regioni d’Italia. Un libro straordinario. Contiene quarantasei proverbi, svolti in endecasillabi, una vera e propria rarità. Nel libro sono contenuti alcuni sonetti di Pietro Aretino, con le illustrazioni di Giulio Romano. È un libro che si presta benissimo per la lettura e anche per regalarlo a amici, parenti, conoscenti; adesso si avvicina il Natale: quale cosa migliore di un libro, per farsi presenti agli amici? Il prezzo è straordinario, la casa editrice ha deciso che doveva avere un prezzo politico. Per un capolavoro di questo tipo, in questo formato, con carta molto bella, trentacinque euro è un prezzo molto buono.
Un altro libro molto bello è Diario dal manicomio di Giorgio Antonucci, medico, scrittore, poeta. Per molti anni ha prestato servizio nel manicomio di Imola, dove ha restituito alla libertà molte persone e questo libro contiene le sue annotazioni, testimonianze e riflessioni su alcuni di quegli ultimi anni, in forma di aforismi, di poesia. Molto distante dall’ordinamento manicomiale, dalla scrittura psichiatrica, è un esempio di saggezza, un libro molto interessante. Prossimamente, invece, faremo un dibattito qui a Padova su quest’altro libro di interesse pubblico, Questione cancro, in cui viene posta la questione del cancro anche in relazione all’idea che gli stessi ricercatori ne hanno. È un modo per capire quale possa essere la via della terapia, esplorando le fantasmatiche attorno all’insorgenza del cancro. Uno dei modi più frequenti con cui è affrontato il tumore, il cancro, la cura è che si tratta di debellare il male. La questione che si pone innanzitutto è se la cura possa sorgere su questa ipotesi di debellare qualcosa. Male contro male, bellum, fare la guerra per stabilire la pace, sulla facilitazione della tabula rasa; ora, tutto questo non ha molto dibattito. Noi, invece, siamo per il dibattito e il questionamento, grazie anche agli autori di questo libro, che sono Georges Mathé, Elisabetta Pontiggia e Paolo Pontiggia. Un altro libro della produzione recente di Spirali è Contro la pena di morte, di Robert Badinter, che è stato anche ministro della giustizia, in Francia. Insomma, ci sono varie questioni sul tappeto, varie direzioni per affrontare ciascuna cosa nello statuto intellettuale e non già solamente in conformità a pregiudizi, credenze e quant’altro.
Questa sera, proseguendo la collaborazione che è in atto già da molti anni con il Consiglio di Quartiere 1, siamo presenti in questa sala dove abbiamo già svolto altri incontri, con altre questioni, dopo essere stati ospitati, anni fa, nella Sala Consiliare del Quartiere Centro e, grazie anche alla dott.ssa Saia, nella sala della ex Chiesa delle Zitelle; proseguiamo questa nostra diaspora per la città frequentando varie sale, vari quartieri, varie istituzioni.
Questa sera incominciamo la serie che si intitola La scuola del disagio e dell’ascolto. La nostra esperienza cifrematica è anche esperienza di scuola: scuola della parola, scuola di clinica, scuola di edizione, scuola di scrittura, scuola di qualità. È scuola in cui si tratta dell’insegnamento e della formazione quali aspetti della memoria. Quando, nell’interlocuzione tra la dottoressa Saia e Cecilia Maurantonio, è sorta l’ipotesi di affrontare la questione della scuola, abbiamo ritenuto che fosse argomento degno di venire discusso: non della scuola in generale, di cui si sta dibattendo nelle piazze, sui giornali e non solo, in questo periodo, non di “quella” scuola. Non entreremo nel merito della riforma, delle questioni che vengono sollevate al proposito. Poniamo qui la questione della scuola del disagio e dell’ascolto. Non del disagio a scuola, ma della scuola del disagio, cioè della scuola che procede dal disagio, quindi in un’accezione del disagio ben precisa e che forse esige qualche precisazione, che questa sera vedremo di proporre. La nostra esperienza, l’esperienza cifrematica, sorta trentacinque anni fa, è constatabile anche come esperienza di scuola. È scuola per i dispositivi che nel corso di questi anni sono stati inventati, sono sorti, sono in atto e per gli effetti di scuola che questi dispositivi producono e hanno prodotto. Non è sorta come una scuola, cioè la nostra esperienza non si è posta come uno spazio per insegnare qualcosa. Oggi ognuno può improvvisarsi come insegnante di qualcosa, come docente di una scuola, sulla scia della new age, in cui si tratta di raccogliere le schegge del luogo comune per metterle assieme in una shakerata un po’ differente e proporre luoghi comuni come novità o come panacea ai vari mali.
La nostra esperienza, invece, ha effetti di scuola, consegue risultati di scuola, nel senso della formazione intellettuale, nella educazione alla qualità quanto alla produzione di scrittura, di progetti, programmi, quanto all’invenzione di dispositivi, a come verificare lo statuto intellettuale, perché non si tratta solo di dire che lo statuto intellettuale può esserci, si tratta anche di dare prova che ci sia. Quindi è scuola, per di più senza l’idea di fine e senza finalità di bene. Vedremo di chiarire cosa intendo. Intanto, è constatabile che nel contesto di questa esperienza sono sorte varie associazioni culturali, case editrici, società: la Fondazione di cultura internazionale Armando Verdiglione, l’Università internazionale del Secondo Rinascimento, il Progetto artistico e culturale del Secondo Rinascimento, il Movimento cifrematico internazionale, il Museo della villa San Carlo Borromeo, la stessa Villa San Carlo Borromeo come centro internazionale di scambi artistici e culturali e quindi come museo vivente. È innegabile che tutto ciò è sorto, è in atto e prosegue come attività in corso: la produzione di libri, di testi, di convegni, congressi, festival lo testimoniano; l’attività in varie città, in varie sedi, in Italia e all’estero. Tutto ciò è in atto e questa è anche la scuola. Quindi scuola in un’accezione ampia, non come scuola di questa o quella disciplina, di questo o quell’insegnamento, ma propriamente come scuola di vita.
La questione della parola, della cifrematica, della formazione intellettuale pone la questione della vita: come vivere, come fare, come scrivere, come pensare, ma senza punto di domanda, senza chi, dinanzi alla questione come vivere, come fare, come scrivere possa porre la risposta, proponendo il modo prescrittivo, ma lasciando che ciascuno trovi il modo, trovi il modo della qualità.
In questo senso questa scuola è unica, ma non è che deve restare unica o deve restare questo l’unico ambito in cui possa svolgersi questo modo, per cui ciascuno, ciascuna cosa possa rivolgersi alla qualità. Questa scuola, oggi, può dare un contributo, delle indicazioni anche a quella che viene chiamata l’istituzione scuola, la scuola “per tutti”, dove già la formula “scuola per tutti”, risulta un inghippo, risulta demagogica e esige una riflessione, perché, se è pur vero che occorre che la scuola accolga ciascuno, è anche vero che deve consentire a ciascuno di trovare il modo della qualità, il modo di dare compimento alla domanda che tramite la scuola può sorgere.
Già così si pone, in adiacenza alla scuola, la questione della domanda che occorre non trascurare anche lì dove si tratti della cosiddetta scuola dell’obbligo. Questo chiama in causa non tanto la scuola in quanto tale, come ente, ma ciascuno che si trovi nella scuola per un servizio, che occorre sia un servizio intellettuale, servizio per l’insegnamento, servizio per la formazione, servizio per l’istruzione, servizio per l’educazione. Servizio in quanto servizio intellettuale.
Ciò che è constatabile, in questi trentacinque anni è che, sorta da qualche parte, è nata nel pianeta una scuola che è la scuola della parola e che è scuola di vita. La sfida e la scommessa sono che il modo della parola, la scommessa intorno alla parola possano essere assunti anche da altri, anche da chi, in particolare, ha a che fare con questo significante “scuola” perché non resti solamente una parola vuota.
Spesso, accanto al termine scuola, per indicare una scuola per tutti, figura il termine istituzione: la scuola come istituzione, l’istituzione scuola, e questo sembra già definire la scuola. La scuola è un’istituzione: ma che cosa indica il termine istituzione? Come intendere l’istituzione? Leggiamo, per esempio, il Grande dizionario dell’uso della lingua italiana di Tullio De Mauro, uno dei dizionari più recenti, dizionario dell’uso! Non il vocabolario di una lingua morta, ma un dizionario dell’uso! Questo lo rende, almeno nella sua definizione, interessante. Alla voce “istituzione”, tra le altre cose, dice: modo stabile di organizzazione della vita individuale e sociale, regolato da norme sociali, religiose, giuridiche e profondamente radicato nella coscienza della vita collettiva, che produce comportamenti uniformi.
Quindi l’istituzione sarebbe qualcosa di stabile, profondamente radicato nella coscienza collettiva, che produce comportamenti uniformi. Se l’istituzione è questa, è qualcosa di divino, di immutabile, di statico, la cui mansione, il cui atto è quello di autocontenersi, immobile, immutabile. È l’essenza stessa della burocrazia, del potere invisibile, è qualcosa di assolutamente fantasmatico: nulla di attuale, nulla di pragmatico. Questa è la definizione dell’istituzione dove non deve accadere niente perché qualora accadesse qualcosa non potrebbe più soddisfare la sua definizione, cioè il modo e lo stato dell’organizzazione individuale e collettiva, regolato da norme sociali… che produce comportamenti uniformi.
Freud aveva affrontato, all’inizio del secolo scorso, la questione dei mestieri impossibili e aveva posto gli esempi dell’educare, insegnare e governare. Impossibili in quanto governare, insegnare e educare facevano riferimento a masse organizzate in maniera rigida (la chiesa, l’esercito, lo Stato) che rendevano impossibile l’esercizio, nel senso dell’attuazione di qualcosa che fosse in movimento, che fosse in atto e che non seguisse una prescrizione ontologica.
Ora, se questo fosse il criterio di impostazione della scuola, ci sarebbe già molto da discutere, nel senso che nulla potrebbe avvenire nella scuola in termini di insegnamento e di formazione, perché incontrerebbe già una contraddizione nella stessa definizione di partenza; che poi la scuola debba produrre comportamenti uniformi è discutibile. Allora, in che termini oggi si pone la questione dell’istituzione, di qualcosa che possa chiamarsi istituzione? Nella nostra esperienza abbiamo qualificato l’istituzione come ciò che si pone nel registro pragmatico. L’istituzione che abbiamo incontrato nella nostra esperienza di organizzazione, di attuazione di dispositivi, di programmi non ideali, ma pragmatici, è qualcosa che si struttura alterandosi: non nella sua immutabilità, non nella sua stabilità, ma nella sua alterazione. L’istituzione non già come modo stabile dell’organizzazione ma, eventualmente, come modo variabile e differente dell’organizzazione, come modo variabile e differente del fare. Questa è l’accezione di istituzione che noi abbiamo preferito, elaborato, inventato nella nostra esperienza. Nulla che assicuri l’inerzia, nulla che assicuri uno statuto ontologico di qualcuno, anzi: qualcosa che esige, per ciascuno, che dica, indichi, si situi nell’istituzione, che esiga quindi un’istanza di continuo aggiornamento, continua formazione, continua acquisizione rispetto a ciò che si fa. Un’istanza incessante di acquisizione che mai può ritenersi soddisfatta. Questa è istituzione, ma questa dunque è anche la scuola in quanto istituzione, la scuola come istanza di insegnamento e formazione in costante divenire.
Questo è il registro linguistico in cui noi ci troviamo a riflettere e a qualificare qualcosa in cui ci imbattiamo, per esempio l’istituzione. Ma che dire dunque della definizione di istituzione del dizionario dell’uso, in cui è evidente uno slittamento dal registro linguistico a quello ideologico, a questa prescrizione ideologica di produrre comportamenti uniformi, di dovere, in quanto istituzione, garantire una stabilità delle cose, un immobilismo che è incompatibile con la questione intellettuale? Ciò che si pone come immobile può produrre al massimo una mentalità, una appartenenza ideologica, morale, fantasmatica. Nulla di intellettuale può risultare fisso. Intellettuale è come dire temporale, sessuale. La questione intellettuale è la questione temporale; come presumere che possa diventare stabile, fissa, ontologica? Sarebbe la negazione stessa del tempo, della temporalità, dell’intellettualità. Intellettualità è un termine molto bello, interessante se non viene letto in termini ideologici, se non viene letto come qualcosa che individui una élite, un settore, un recinto, quello degli intellettuali. L’intellettualità indica qualcosa che è per ciascuno, a condizione di non togliere il tempo dalle cose, che vuol dire non dare per scontato nulla, ma far sì che ciascuna cosa risulti in un processo di qualificazione costante. Questo è il dispositivo intellettuale, dove nulla è già dato, nulla è scontato, nulla è privo di valore, nulla ha, peraltro, un valore assegnato, stabile. Allora, se questo vale per ciascuno, per ciascuna cosa, se questo vale per il dispositivo intellettuale, vale anche per la scuola che, dunque, non può risultare quel mero spazio dove si tratta di somministrare un sapere, che, in quanto somministrabile, sarebbe stabile e immutabile. Allora, l’esigenza effettiva della scuola, della questione scuola, di chi si pone l’istanza della scuola è quali siano i dispositivi della scuola, qual è il modo della scuola. La questione del “cosa” − cosa insegnare, le materie, le discipline − è meramente pretestuale al modo, al fare in modo che risultino esche, perché si instaurino dispositivi in cui si ponga effettivamente per ciascuno la domanda e il suo svolgimento in direzione del valore, della qualità. Questo è il corso della scuola. E il corso di studi ha da essere un corso di ricerca, un corso di lettura, un corso di rivolgimento delle cose in direzione del valore. Non per studiare le cose, non per vedere le cose, non per sapere le cose, ma per capire. La scuola per capire, non la scuola per sapere. Sapere, che importa? Dinanzi a una novità, dinanzi a un imprevisto, dinanzi a un interrogativo, dinanzi a ciò che occorre fare, il sapere non aiuta un granché. Essenziale è capire come, non sapere. Ciascun caso è differente da un altro, esige ingegno, cioè l’altro modo; non il modo abituale, ma l’altro modo, che si attagli al caso specifico, al caso in questione. Dunque occorre capire, l’educazione a capire, la formazione per capire, non già per sapere. Occorre anche qualificare questo termine scuola, capire di che cosa si tratta, cosa indichi il termine scuola. Gli antichi chiamavano scholé l’ozio, il tempo libero, l’agio di capire, di acquisire cose nuove. Scholé: l’agio con cui ciascuno poteva alimentarsi di cibo intellettuale. L’agio: non già la comodità, ma l’adiacenza; accanto a altre cose, questa, quella e altre ancora. L’agio di accogliere ciascuna cosa: skholé. Un tempo, questa skholé, il tempo dell’ozio; non uno spazio, ma un tempo, il tempo della skholé. Com’è che da “tempo”, questa scuola, nell’accezione comune, è diventata solamente uno spazio? Uno spazio, per di più, che sembrerebbe debba essere senza tempo, oppure dove il tempo è il tempo misurato dalle ore di servizio, dalle ore di lavoro, dalle ore di lezione, il tempo cronologico. Il tempo non è cronologico, il tempo è senza misurabilità, è quel taglio che interviene a sancire la differenza di qualcosa rispetto a un’altra cosa. Questo è il tempo. È ciò per cui avviene l’intendimento, ciò per cui qualcosa si qualifica. Nulla quindi che indichi la cronologia, la successione, la misurazione, la fine del tempo. La mentalità della fine del tempo è rovinosa. Ognuno, pensando alla fine del tempo, si toglie l’intellettualità, acquisisce una mentalità, acquisisce una credenza, si costituisce come soggetto, si inscrive in un comportamento. Si tratta di capire, oggi, qual è lo statuto della scuola. Molti si pongono la questione di quale sia il fine della scuola, a quale fine dovrà rispondere. La scuola deve essere finalizzata all’apprendimento o all’istruzione o all’educazione o alla formazione o alla visione del mondo conforme e condivisibile, all’accettazione di un’impostazione generalmente condivisa, o deve preparare all’ingresso nel mondo del lavoro? Già dire “mondo del lavoro” offre una visione, uno standard, un pregiudizio! Qual è il fine della scuola? Deve avere un fine la scuola? C’è da scegliere quale sia il fine della scuola? E qual è il modo della scuola? Chi si interroga intorno al modo della scuola? Il termine modo dissipa l’ontologia. Il modo, la moda, introducono il tempo nell’atto; il modo è il modo del tempo, il modo che già volge verso la questione intellettuale, verso la variazione, verso la differenza. Dove si instaura la questione del modo, è chiaro che non si tratta più di trasmettere qualcosa in quanto tale, ma si tratta di fare. La scuola come tempo del fare. Dove può darsi per acquisita questa accezione di scuola, dove si tratta non tanto di stare a sentire, a vedere, a imparare per sapere, ma si tratta di fare, del modo del fare?
È fuori di dubbio che una certa ontologia imperante rivendica anche l’ontologia dell’insegnamento, l’ontologia dell’educazione, l’ontologia della formazione. Perché ognuno deve diventare “qualcuno”. Cosa vuoi diventare da grande? Cosa vuoi essere da grande? Questa è la formula corrente, e uno capisce che deve diventare, che deve essere, che deve inscriversi, sottoporsi a un’ontologia per essere, per diventare qualcuno; che deve inscriversi in un apparato stabile, uniformemente. Questo è il messaggio che nessuno impartisce apertis verbis ma che, tuttavia, le formulazioni in uso rilasciano. Questa ontologia, poi, dove sfocia? Nel purismo e nel naturalismo, nell’evoluzionismo, nell’idea di evoluzione e di progresso: progresso della specie, evoluzione della durata. È chiaro che questo purismo si esercita sempre in nome del bene e, soprattutto in questo settore, in nome del bene dei giovani. I giovani diventano il nome e questo soggetto ideale collettivo realizza la prescrizione all’ontologia. Noi non entreremo qui nel merito di questa o altre riforme della scuola, perché è perfettamente inutile. Ogni riforma non entra nel merito della questione radicale, ossia se la scuola sia scuola della parola oppure no, se sia la scuola dove si esercita il primato del discorso di padronanza, il primato dell’ontologia, il primato del soggetto sul tempo e sulle cose. Ogni riforma non potrà incidere se non sugli aspetti marginali, amministrativi, organizzativi, forse ideologici, certo, ma non strutturali, non in merito alla questione autentica della scuola, cioè della scuola come tempo della scholé, quindi come scuola di vita, non per apprendere un metodo o un sapere. Il metodo non si apprende, si incontra, si attua lungo il cammino. Senza cammino, quale metodo? Metodo è un termine bellissimo che indica, appunto, l’esigenza di andare. Senza andare, senza fare, non c’è metodo, ma metodologie, discipline applicate; nessuna istanza intellettuale, ma solamente l’applicazione di un sapere e questo non è il metodo.
Abbiamo intitolato, ancora nel 1981, un numero della rivista “Vel” Il metodo della psicanalisi, non già per dare delle istruzioni sull’applicazione della psicanalisi come strumento per Tizio, Caio e Sempronio, ma a indicare l’esigenza di un cammino, di un percorso, di un itinerario, di una ricerca per ciascuno, onde imbattersi nel metodo del proprio itinerario, nel metodo che s’instaura secondo la logica della parola. Questo è il metodo per ciascuno, un metodo che non si può imparare per poi applicarlo, ma che si attua cammin facendo. Camminando: il gerundio, non l’infinito potenziale! Per ciascuno, importa il gerundio.
A proposito del titolo della serie di incontri di questo laboratorio, inteso come laboratorio intellettuale, La scuola del disagio e dell’ascolto, non si pone un’alternativa tra il disagio e l’ascolto. Non c’è da scegliere, non c’è nulla da escludere, non c’è la scuola dell’ascolto senza il disagio. È un titolo che viene da una constatazione: la scuola procede dal disagio e va in direzione dell’ascolto, lo esige, perché ciò che i dispositivi della scuola propongono possano concludersi in direzione del valore, della qualità, della cifra. Come, dunque, intendere questo disagio? Quale accezione ha questo termine disagio? È un termine che viene molto usato, ultimamente. Chi non può vantare qualcuno nei paraggi che è, “purtroppo”, nel disagio? “Eh, sì, sta attraversando un periodo di disagio. Tizio ha un periodo di disagio, Caio è appena uscito dal disagio, Sempronio non vede l’ora di uscirne”. Insomma, disagio è un termine che sta vivendo la sua stagione di successo in un’accezione meramente psichiatrica, in un’accezione macabra che, attraverso un rivestimento buonista, vorrebbe indicare, più che alludere, una malattia mentale. Il disagio, oggi, è l’altro nome, nel gergo comune, della malattia mentale, però addolcita, resa cosmeticamente accettabile. Perché dire a uno che è pazzo è una brutta cosa, perbacco! Il mondo dei manicomi, il mondo della malattia mentale ha qualcosa di squallido; il mondo del disagio è una cosa umana, è una cosa che quasi merita il “premio bontà notte di Natale” a occuparsene. Ma del buonismo bisogna diffidare sempre! Diffidare, perché il disagio proposto in questa accezione esige il suo rappresentante, che è il disagiato, il debole, il debole mentale, il pazzo che non è pazzo ma è il disagiato che bisogna curare, preservare. E come? Prescrivendogli la morte bianca, che va dall’etichettatura psicopatologica, alla condanna alla somministrazione di psicofarmaci a vita. Questa bella denominazione, molto umana, mostra, in questa accezione, tutto il suo squallore. Se noi, invece, esploriamo il disagio in termini di secondo rinascimento, di industria della parola, nei termini di statuto originario, troviamo che questo termine indica una virtù del principio della parola, indica, cioè, qualcosa che nulla ha a che vedere con il marchio dell’infamia che è la malattia mentale, ma è qualcosa di essenziale, è qualcosa che indica da dove viene la pulsione, da dove viene la domanda, da dove viene la curiosità. Viene dal disagio originario. Dis-ágio, dis-agěre, dys-àghein: qualcosa va in due direzioni, qualcosa spinge in due direzioni. Quindi intanto c’è la spinta e c’è il due. Impossibile scegliere quale delle due direzioni! Impossibile tagliare questa diade, questo due, se non facendo immediatamente cessare la spinta. Questa spinta esige che qualcosa si qualifichi, che il qualcosa attorno a cui sorge la domanda entri nel processo di qualificazione. Disagio: virtù del principio della parola. Nessuna cosa, nessun elemento ha già un valore prestabilito. Nessuna cosa si contrappone a un’altra cosa; il due è originario, ciascuna cosa procede dal due. Disagio: modo dell’apertura, modo della contraddizione originaria che è impossibile risolvere con la dicotomia.
Essenziale il disagio, ma che non si contrappone a nulla perché non ha la sua altra faccia nell’agio, agio e disagio non sono una coppia oppositiva. Disagio viene dal dys-àghein, dall’andare in due direzioni. Agio è invece un termine che indica l’adiacenza di ciascuna cosa, dove ciascuna cosa sta accanto a un’altra cosa senza contrastarla, senza contrapporsi, senza negarla, come virtù della scholé. Disagio, nessuna parola è positiva o negativa ante litteram, nessuna cosa; nessuna parola ha un segno algebrico posto dinanzi. Nulla significa. Non c’è cosa che sia significata da un’altra cosa o che significhi a sua volta qualcosa con un segno positivo o negativo davanti. Per via del disagio ciascuna cosa esige di qualificarsi e quindi si rivolge alla qualificazione, si rivolge alla sua cifra. Questo rivolgimento è la pulsione, è la domanda stessa. Ciascuna cosa tende a qualificarsi: questa tensione è la domanda. Dunque, la questione intellettuale non esige certo la calma, che è la virtù dei morti, ma esige la tensione verso il valore. Pulsione, tensione, domanda, senza bisogno di nessun tranquillante. Ben altra cosa dall’impostazione psichiatrica che prescrive la calma, senza capire nulla, senza proporre nessun processo di qualificazione, nessun dispositivo di formazione e di insegnamento, solamente calmarsi! La scuola in cui dovesse uscire questo messaggio sarebbe la negazione dell’istanza della scuola, la negazione dell’intellettualità; tuttavia, come funziona la faccenda nelle varie scuole? Lasciamo che ognuno si informi!
La questione del disagio indica la scuola originaria, la scuola che si instaura quando le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. Procedendo le cose dal due, quale classificazione è possibile? Quale catalogazione, quale trasmissione di un sapere sulle cose se, anziché un’ordinalità delle cose dovuta a una localizzazione dell’origine, abbiamo che ciascuna cosa procede dal due?
Procedendo dal due ciascuna cosa si trova in uno statuto di ambiguità, nello statuto dell’ironia, nello statuto della domanda. Quale statistica, procedendo le cose dal due? Impossibile una statistica, impossibile una previsione. Essenziale è il ragionamento, il calcolo del caso specifico, non la statistica sui casi ipotetici generali.
Chi, dunque, può accogliere la proposta della scuola originaria, se mina alla base alcuni capisaldi del discorso di padronanza? La statistica è il discorso di padronanza, poter dire: “C’è, nel suo caso, un trenta, un quaranta, un cinquanta, un sessanta, un ottanta per cento di probabilità positive”. Probabilità! Che cosa sono le probabilità? Vuol dire che c’è un ottanta, novanta, cento per cento di constatazione che non ne so dire nulla, che non so valutare nulla, che non capisco nulla e mi affido alla statistica; come dire agli aruspici, ai lettori del volo degli uccelli, delle viscere degli animali, dei fondi di caffè! La statistica ha valore scientifico zero, perché il caso in questione è abolito. “Il caso statistico dice…”, “Nel mio caso la letteratura dice che…”. La letteratura! Quale letteratura? Chi si arrischia a valutare, cioè a considerare il caso come caso che va in direzione del valore e non in direzione della fine e della morte, quindi in cui si tratta di approntare un dispositivo per la vita? Chi assicura questa formazione? Quale istituzione, quale scuola, quale corso di studi, che non si affidi dunque alla media, allo standard, quindi alla mediocrità?
Leonardo diceva, in una sua notazione nel Codice atlantico: “Non insegnare e sarai eccellente”. Come dire: in nessun caso tu puoi insegnare. L’insegnamento è l’effetto di un dispositivo in cui maestro e allievo sono statuti della ricerca, ma non c’è chi possa insegnare il suo sapere se non facendo un torto all’insegnamento stesso.
Non insegnare e sarai eccellente. Questo messaggio di Leonardo oggi non è che sia molto seguito. È la scuola come scuola d’artista, come bottega dove, appunto, si tratta già di fare, non d’imparare a fare. Non si tratta d’imparare per poi fare, si tratta di fare e, facendo, s’impara e, imparando, si sbaglia per poter fare un’altra cosa. Chi sarà mai pronto a fare se è convinto che prima deve sapere come fare? “Devo prima sapere come fare, e poi, piano piano, magari un giorno farò qualcosa”. Un giorno! Ma quando, fino a che c’è questa idea del soggetto preparato? Quando possiamo dire di essere preparati all’esigenza di ciò che si para dinanzi? Disposti, questo sì. Disposti a ragionare, mai preparati! Già saputi, già preparati!
La scuola, prima di porsi la questione della formazione e dell’insegnamento degli allievi, occorre che si ponga la questione della formazione e dell’insegnamento per i docenti, nel senso che occorre che ciascuno, in quanto interviene nella scuola, nell’istanza della scuola, si trovi non già in una fantasmatica di padronanza, ma nella parola originaria e dunque nel dispositivo intellettuale.
Abbiamo posto alcuni argomenti per gli incontri che daranno il modo di svolgersi in questo laboratorio: La forza, La memoria, I talenti, Il merito, Il valore, Il voto: premio o pena? L’autorità, La disciplina, La direzione, L’abitudine e l’affaticamento, Il folle e il pazzo, La clinica, L’istituzione e l’odio, Financialbrain, Schoolbrain.
Ci siamo posti un panorama, giusto per cominciare, ma vediamo di ampliare man mano. C’è qualche domanda, qualche annotazione, qualche precisazione, qualche esigenza di chiarimento?
Emanuela Macario Lei dice che le cose procedono dal due, quindi non sono catalogabili. Mi sfugge questo due.
R. C. Sì, perché lei tenta di vederlo, di rappresentarlo e infatti, dinanzi all’irrappresentabilità del due, finora cosa hanno fatto i filosofi? Si sono rappresentati il due in due cose, due cose contrapposte.
E. M. Volevo chiederle, magari è la contraddizione, questo due?
R. C. Esatto.
E. M. Che si cerca sempre di abolire!
R. C. Già. Allora, questo due ha come suo modo la contraddizione, la contraddizione originaria, senza rimedio e senza composizione. È una contraddizione che non ha da risolversi nella contrapposizione, contraddizione senza contrapposizione. Contraddizione, dunque, senza dicotomia, contraddizione senza alternativa. Aristotele ha educato all’esigenza di risolvere la contraddizione per dare una linea, una uniformità, un’impostazione generale per gestire la città. Per gestire la città occorre che le contraddizioni siano sanate. Contraddizioni di ogni genere: di classe, individuali, collettive, di gruppo. La città è ingestibile se le contraddizioni non sono risolte in una morale che sancisca come vanno risolte, questo è il discorso filosofico. La parola non esige di risolvere la contraddizione, procede dalla contraddizione come contraddizione originaria, come apertura originaria. L’arte procede da questa contraddizione. Quale arte senza la contraddizione, quale variazione alle cose? Sarebbe la codifica. La contraddizione impedisce la codificazione generale o uniforme, l’applicazione di un codice preventivo e lascia a ciascuno di indagare sul codice. Come funziona il codice? Questa è la funzione di rimozione, impossibile abolirla. Abolita la rimozione avrete il gergo, lo slang, avrete la lingua morta. È impossibile abolire la rimozione, così come è impossibile togliere il due.
E. M. Quindi c’entra anche con le dimenticanze?
R. C. Le dimenticanze, i lapsus, le sviste sono indici della impossibilità della consapevolezza e della padronanza di sé, su di sé, sulla parola. Lapsus, sviste, dimenticanze, tutto ciò che impedisce il modo stabile dell’organizzazione della vita individuale, che impedisce la radicazione nella coscienza della vita collettiva. C’è chi riesce a vivere collettivamente? La vita collettiva sarebbe mors tua vita mea? Vivere in due la stessa vita? Vivere tutti quanti la stessa vita? Stare sulla stessa barca? Dire tutti la stessa cosa? Pensare allo stesso modo? Questa sarebbe la vita collettiva, la mente collettiva, la coscienza collettiva, la memoria collettiva? Sono modi di dire diffusi, molto diffusi, perché consentono di evitare qualcosa di nodale. Questa idea del collettivo consente di eludere, di evitare di considerare il nodo della vita, la questione aperta, cioè la domanda che non sa già la risposta, che non ha già la risposta, la domanda che esige la ricerca, la domanda la cui risposta non può appellarsi a un sapere già dato o la domanda la cui risposta non può venire dall’Altro. Tutto questo ha delle implicazioni ideologiche, fantasmatiche. Se le cose procedessero dall’uno, sarebbe tutto più facile. Se procedono dall’uno, l’uno poi si divide in due, abbiamo le coppie oppositive, scegliamo quella che ci fa più comodo, stiamo nella media, abbiamo localizzato l’origine, possiamo prevedere il ritorno all’origine, abbiamo istituito il cerchio, tutto programmato! Invece la parola procede dal due, dal disagio, dalla contraddizione, dall’apertura. Il bello della vita sta lì. Tolto questo, ognuno è predestinato. Si tratta di capire questo: dove stia la libertà e come. Dove stia il valore e come. Per rispondere, riprendere, proseguire queste questioni, a meno che non ci sia chi voglia dare adesso una risposta − ma mi pare che nessuno abbia fretta di rispondere a questa questione − ci diamo appuntamento alla settimana prossima, giovedì alle 21, in questa sala, senza le porte chiuse, magari spalancate!
La scommessa dell’avvenire
Ruggero Chinaglia Questa sera per cominciare il dibattito ha annunciato un suo intervento Cecilia Maurantonio.
Cecilia Maurantonio È constatabile che la scuola non si può abbandonare mai in quanto esperienza e scuola di vita di ciascuno. Dalla dissidenza e senza proteste, lungo la procedura e la struttura della parola, a rischio che la qualità originaria approdi a qualificare, vivendo, ciascuna cosa. Questa, dunque, è la scuola di cui si tratta nell’esperienza cifrematica, esperienza della scienza della parola originaria, che procede per integrazione. E allora c’è l’ipotesi che ciò che occupa e preoccupa il nostro paese divenga, più che un’occupazione statale, statuto intellettuale, inoccupabile, poiché qualità e proprietà sono della parola, quindi efficaci. L’efficacia di ciò che si fa, la riuscita di ciò che si fa, questo è il rischio nell’esperienza di scuola della parola. Quale dunque il rischio? Quello che procede dall’ignoranza originaria, senza fondamento gnostico. Il pericolo invece è conseguente all’idea che vi sia il soggetto pensante, rappresentante del bello e del valido pensiero fino a quello che rappresenta l’ideale: ecco l’ideologia, ecco lo scarto tra l’idea originaria e l’ideologia. L’idea non vanta alcun primato poiché non ha soggetto, proprio perché non ha alternativa, né possibilità di scelta. Le cose sono banali senza essere significate dal soggetto. Dal latino medioevale banum, bando, lego, lo vinco, lo piego; dal greco lalein, leggere, parlare, parallelo a lagr, anteriore a lex, giacere, porre, legato, regola.
Oltre il soggetto della scelta, del giudizio, della valutazione tra due valori prestabiliti in quanto significati, sorge l’idea che la legge possa essere resa nota al popolo. Che si possano censurare, sistematizzare le cose, che queste siano raccoglibili nella codifica dei significati, quindi comprensibili, quindi disciplinarizzabili, catalogabili, decodificabili e finalizzabili, costituendo il gergo; perciò il gergo ha tanto successo, perché è applicabile. Che poi il gergo del successo giunga alla riuscita, quindi a produrre, concludere alla qualità, soddisfacendo istanze intellettuali è da verificare. Come mai nella scuola “istituzionale” le contraddizioni che sorgono proprio dall’impossibilità di scelta divengono conflitti? Perché ciò che è la domanda originaria, proprio ciò che spinge come curiosità, forza pulsionale verso la ricerca, l’impresa originaria, dal mito alla sua qualità, viene volta in richiesta sostanziale indirizzata ai patetici soggetti? Perché chi accoglie domande nella forma di richiesta si crede soggetto. Da qui tutte le insorgenze fantasmatiche del sospetto, che esige il controllo, la prova dimostrabile, certificabile, inconfutabile nelle più svariate situazioni che si presentano. Il servizio viene rappresentato dal servile e dal potente, e la legge, che se non è quella divina, cioè quella creduta assoluta, è romana, quindi forzatamente uguale per tutti, viene facilmente soppiantata dalla burocrazia che serve a dimostrare l’innocenza. Colpevole di fronte a chi? Alla propria soggettività che deprime l’istanza del progetto e del programma di vita di ciascuno. Il soggetto del ruolo che deve imparare a dire, a scrivere, a leggere ciò che invece è inedito, quindi incensurabile. Il tempo dell’invenzione e della variazione, il percorso culturale e il cammino artistico della ricerca e dell’impresa non sono contabili, non sono cronologici, ma se il luogo dell’intervento intellettuale diviene una prestazione soggettiva da suddividere ogni volta in vari spazi, si vive da forzati alla dicotomia. “Ne parlo come mamma”, “Ne parlo come insegnante”, “Ne parlo come…”, come un soggetto sotteso alle varie maschere da imparare e da indossare. Caricature di ruoli assunti e mai acquisibili. Il ruolo e lo statuto non sono in alternativa. Resta la domanda originaria, informulabile proprio perché non si conosce. Esige la propria scrittura. Formulazioni come: “Le parlo francamente”, “Mi creda, perché sono una persona che dice quello che pensa”, sono modi di confermare la presunzione di valere a se stessi. L’animalità, la naturalità sarebbero dunque l’equivalente del valore dell’uomo? E allora perché tanto stupore intorno all’attuale situazione della scuola? Questa non è la scuola. La scuola intellettuale esige che per ciascuno s’instaurino l’insegnamento e la formazione che sono in continuo divenire, lungo la trasformazione della stessa cosa nell’altra cosa, nella cosa differente, sessuale.
R.C. Bene. Allora già ci sono vari elementi. Ci sono altre notazioni, domande, anche rispetto a ciò che abbiamo discusso la settimana scorsa? Riflessioni o anche senza riferimento a quanto abbiamo già discusso, notazioni intorno a questo tema?
Margherita Sulla contraddizione di cui aveva parlato la settimana scorsa. Cioè sembrerebbe che fosse una cosa… Che si debba essere coerenti con se stessi, che si ha un disagio, la contraddizione, e quindi non mi è chiaro come…
R.C. Sembrerebbe a chi, questa esigenza di coerenza con se stessi? Perché di questo non abbiamo parlato.
M. No infatti, per quello accolgo più volentieri quello che ha detto lei la volta scorsa rispetto a questa esigenza comune di eliminare la contraddizione.
R.C. Ah ecco, lei rileva che c’è questa esigenza comune?
M. Chiunque vada da uno psicologo e avverta la contraddizione in tutte le cose, sembrerebbe una cosa da dover eliminare, come anche quando si esprime un pensiero: “Se la pensi così non la pensi colà”, cioè come se una cosa fosse contrapposta all’altra. Però lei diceva che, appunto, non c’è questa contrapposizione, però il disagio c’è. Cioè come si fa a vivere nella contraddizione se si continua di pensare di dover scegliere una o l’altra cosa?
R.C. Ecco questa sembrerebbe un’alternativa, no?
M. Appunto.
R.C. O la contraddizione o la scelta.
M. Esatto. Siccome non si può scegliere, ad esempio nel fare, si deve fare ciò che occorre e non c’è possibilità di scelta. Però poi io, nel quotidiano, mi trovo a rimanere comunque invischiata, a essere convinta che si possa scegliere. Cioè, quale idea tra le tante…
R.C. Lei ha posto una questione importante, adesso la riprendiamo. Ce ne sono altre? Domande, proposte. Eh, la vita è dura, difficile fare proposte.
M. Praticamente, oggi, la società borghese, perché ti coinvolge e ti distrugge? Ti distrugge perché ti crea un’immagine che non dovrebbe esistere, perché l’immagine non è quella che ti pongono, che ti danno gli altri, ma è quella che dovresti crearti tu, magari anche dissacrando tutto, capovolgendo tutto il discorso, per uscire, sostanzialmente. Quindi la contraddizione fa parte dell’essere umano, secondo me. Non credo sia possibile uscirne. E bisogna vivere con essa, secondo me, cercare il fuori soprattutto. Si può eliminare la contraddizione mettendosi al di fuori.
R.C. Ah, ma allora prima lei dice che non si può eliminare e adesso già propone come eliminare.
M. Cioè diciamo, per assurdo, come paradosso, si potrebbe cercare di eliminarla uscendo da uno schema.
R.C. E perché cercare di eliminare?
M. Appunto io ritengo che non si possa eliminare.
R.C. Ah quindi lei ritiene che questa sia dovuto a un impedimento? Cioè è un limite dell’uomo.
M. Secondo me sì.
R.C. Ah, sembrava una cosa invece è tutt’altra.
M. Volevo dire una possibile forma di eliminarla, però è impossibile secondo me.
R.C. Quindi lei sarebbe del partito dell’eliminazione?
M. No, io non voglio eliminare niente sostanzialmente.
R.C. Però la contraddizione sì.
M. No, tutto sommato visto che è impossibile eliminarla bisogna conviverci.
R.C. Ah, cioè è come un male minore.
M. Che poi bisogna vedere se è anche un male.
R.C. Eh, vediamolo allora.
M. Io non credo che in fondo sia un male da parte dell’essere umano. Secondo me può essere anche una pulsione.
R.C. Quindi intanto bisogna chiarire di che si tratta in questa contraddizione.
M. Certo. Questo è un problema aperto.
R.C. Certo. Non è un problema, ma sicuramente è una questione aperta. Bene. Ho visto un’altra mano, prego.
Maria Antonietta Viero. Un termine che non è stato posto era la contraddizione originaria e il termine budget, la nozione di budget, e come questa nozione contrasterebbe la contraddizione originaria, e introducendo il limite impedisce l’infinito o probabilmente non tout-court l’infinito, ma qualcosa che ha a che fare con l’abbondanza.
R.C. Sì, e come c’entra il budget con la scuola?
M.A.V. Beh, l’insegnamento e la formazione, per esempio, qualcosa che ha a che fare con lo statuto, perché…
R.C. Sì, esatto. Qual è il budget di insegnamento e il budget di formazione. Sì.
M.A.V. Sì, perché si tratta di un’applicazione o, invece, come diceva anche Maurantonio prima, l’ascolto di qualcosa che è inedito, che è in atto, non sai prima.
R.C. Bene, ho visto un’altra mano. Prego.
M. Io penso una cosa, che la coerenza sta nel tempo e la contraddizione nello spazio, cioè è uno standard mediatico che impone una certa coerenza e tutto ciò che vediamo e ci vogliono far vedere e ci vogliono far credere; e quindi si vive sotto un’ottica di coerenza, per forza. Ogni personaggio che noi vediamo in televisione, faccio un esempio banale, Maurizio Costanzo è Maurizio Costanzo perché è fatto così e la pensa così, quindi è una persona coerente, quindi il pubblico… Non vorrei dire Sgarbi o altri. E io invece penso che la contraddizione sia molto bella perché spazia, sta nello spazio, cioè non è limitata e è bello contraddirsi, perché un giorno ti svegli in un modo e un altro giorno in un altro, un giorno la pensi in un modo e in un altro giorno la puoi pensare diversamente. Ecco credo che tutto ruoti intorno allo standard mediatico che impone una certa coerenza.
R.C. Lo standard.
M. Sì. Lei nell’altra lezione parlava di standard. Ecco io penso che sia una questione di standard mediatico, cioè noi viviamo in funzione di cosa viene proiettato e di cosa ci fanno vedere. Non siamo liberi e invece la contraddizione è libertà e la coerenza non credo che sia libertà. Forse, l’unica persona coerente fino in fondo è stata Cristo, ma neanche tanto alla fine, anche perché si è suicidato Cristo.
R.C. Si è suicidato?
M. Eh, certo.
R.C. Ah, lei ha un’altra lettura del mito di Cristo. Come è avvenuto questo suicidio?
M. Beh, certo, lui ha scelto.
R.C. Cioè ha scelto come?
M. Sono cattolica. Ha scelto, è una missione. È stato coerente Cristo, però anche lui ha dato vita a qualcosa di mediatico, per forza perché poi la gente si attacca.
R.C. Cioè è stato coerente con…?
M. Con se stesso sicuramente e con le sue linee di principio.
R.C. Con se stesso.
M. Vabbè, quello che è riportato dai vangeli ufficiali di Matteo, Luca, Marco sono più o meno attendibili, insomma. Ci sono quelli apocrifi come quello di Tommaso che sono più…, adesso non è che me ne intenda più di tanto, però mi è venuto di pensare questo. Forse i tempi erano anche diversi, però anche all’epoca c’era la pubblicità, diversa da quella di oggi, ma c’era. O era un grandissimo attore che si è suicidato sul palco.
R.C. Sempre suicidato.
M. Beh certo, perché è lui che si è messo nelle condizioni di farsi ammazzare. È come se io dicessi “mi sparo un colpo in testa”, cioè in realtà mi sono suicidato.
R.C. Quindi lei alla morte ci arriva, alla resurrezione non ancora.
M. No, alla resurrezione ci credo perché, ripeto, sono cattolica, qualcosa mi impone, uno standard mediatico mi impone di credere.
R.C. Ci crede.
M. Ci spero, più che ci credo.
R.C. Ecco, ma non ci è arrivata.
M. No. Forse è qualcosa di troppo alto, troppo altro e troppo oltre, nel senso che umano, che il limite umano è una…
R.C. È questa la fregatura, il limite umano. Eh, allora noi siamo qui a parlare di scuola, e quindi come implicazione e come conseguenza e anche come premessa e condizione, siamo qui per mettere in questione l’idea e la nozione di limite umano, perché fino a che questa idealità prevale, la parola è tolta. Gli umani possono gergare, ma fino a che il limite umano è presunto costituire la condizione stessa di esistenza, questo fonda l’impedimento.
M. Eh, ma infatti la condizione sta nel limite e viceversa, cioè forse il limite sta nella condizione.
R.C. Un momento. Intanto occorre che qualifichiamo e analizziamo questa nozione di uomo e del limite che questa nozione trae con sé. Altrimenti rischiamo di comprenderci, o meglio, più che rischiare di comprenderci, corriamo il pericolo di comprenderci. Ossia, io posso parlare qui per secoli e voi non mi udite, perché credete di comprendermi. Anzi, perché siete convinti di comprendermi, perché voi siete certi di comprendermi, perché voi praticate la comprensione sulle mie parole. Ma io non sono qui per parlare invano. Proviamo, provate a ascoltare.
Se noi diciamo contraddizione, ebbene alludiamo alla contraddizione originaria, a quella contraddizione che, intoglibile, costituisce una logica da cui la parola procede. Ma se questa contraddizione, che quindi è logica della parola, è modo della parola, è virtù della parola, viene convertita nella contraddizione umana, allora non si tratta più della contraddizione, non si tratta più della parola, ma dell’idea che ognuno ha di un fondamento che dovrebbe risultare comune. Nemmeno l’uomo è un fondamento, nemmeno la nozione di uomo è comune. Di questo si era accorto anche Aristotele che ha dovuto, su questo, istituire e fondare un sillogismo per creare una comunità fondata sulla comune origine animale, sul comune destino mortale. La contraddizione non investe né la comune origine animale né il comune destino mortale. È contraddizione originaria. Contraddizione intoglibile, senza mediazione. Il modo della contraddizione, quindi, è l’inconciliabile: chi può scegliere e cosa può scegliere? L’idea di scelta è l’idea stessa di abolizione della contraddizione. Mentre la contraddizione comporta che mai c’è alternativa, la scelta introduce immediatamente l’alternativa, introduce anzi l’ipotesi che possa esserci l’esercizio sulla contraddizione, scegliendo. E questa sarebbe la facoltà umana, la facoltà di scelta, cioè la facoltà di ricondursi alla comune origine e al comune destino. Tutto ciò toglie la parola. La parola, per suo statuto, è incomprensibile, non vuole dire nulla. In ciascun caso occorre capire, intendere, qualificare ciascuna cosa, che di per sé non vuole dire nulla, ma senza questo processo di qualificazione della parola voi “vi comprendete”. Cioè senza ascoltare, senza capire, senza intendere, comprendete il luogo comune che sembra collegare l’uomo all’uomo, ogni uomo all’uomo ideale rappresentato dall’entità uomo. E questo vale per l’uomo, per ciascuna cosa. Questa entità uomo è un’entità ideale. L’esperienza della parola è l’esperienza anche del processo di qualificazione che è necessario per cogliere il valore di ciascuna cosa, che non è un valore standard, non è un valore comune, non è un valore condivisibile. Il valore, in quanto valore assoluto, non è condivisibile. Il valore s’instaura per via di divisione, il tempo è divisione, il tempo, intervenendo, man mano attua un processo di differenza e di variazione, per cui le cose procedendo si qualificano e giungono al valore, ma non al valore standard, al valore generale, ma al valore in quel caso, potremmo dire in quell’istante. È valore assoluto, cioè senza relazione con il generale, è un valore specifico, non è un valore per sempre, non è un valore per tutti, non è un valore condivisibile. Non è un valore che si possa spendere, non è capitalizzabile; è il capitale, non è capitalizzabile. Non lo posso accumulare, non lo posso trasmettere, non lo posso dare, non lo posso ricevere. È un valore cui si può giungere per via di acquisizione intellettuale, ricerca, impresa, non è un valore che si possa acquisire per studio, studiando. Già questa nozione di valore mette in questione la nozione stessa di scuola, perché questa nozione di valore non procede dal sapere. Non conta un sapere da cui possa attingere il valore, attingere quindi la parola dalla sua cifra. Dunque è un’altra scuola che si annuncia con la parola. La scuola che è in atto nel pianeta, quella che viene chiamata l’istituzione della scuola, a indicare questo luogo in cui viene impartito un insegnamento e un sapere, è una scuola sul modello della scolastica, ossia una scuola in cui viene impartito un sapere, ossia una scuola che si fonda su una nozione di sapere come qualcosa di trasmissibile e dunque insegnabile. Su questa idea di sapere trasmissibile sorgono i cosiddetti tecnici che sanno, hanno appreso e sanno, e quindi a loro volta possono trasmettere questo sapere. Allora ecco i corsi, i corsi per insegnare questo, quello, quell’altro, come fare questo, come fare quello: una tecnologia del sapere. E in questo modo il sapere diventa una sostanza, come una pozione, qualcosa che possa essere somministrato, ma la trasmissione è una proprietà della parola, non del sapere, perché il sapere è un effetto della parola nel registro frastico. È un effetto temporale: qualcosa, enunciandosi nella funzione di resistenza, incontra la lettera e questa lettera produce come effetto il sapere, un effetto di sapere, ma non un effetto stabile, è un effetto temporale.
Questo è il sapere che si produce parlando, un sapere che non vale di imparare perché, parlando, ciascuno non fa riferimento a ciò che è stato, ma parla nell’attuale e occorre dunque intendere l’atto di parola nella sua attualità, non con il riferimento a qualcosa che è stato. La questione della psicanalisi ha aperto un varco in questa credenza che parlare fosse la riproduzione di un sapere e dunque che nulla di nuovo potesse avvenire parlando, ma che quel che si dice andava tradotto sulla base del sapere saputo. Su questa base nessun ascolto. Come capire quel che si sta dicendo se quel che dico è convertito in un codice, in un sapere già stato, perché non tiene conto dell’attuale? La questione della parola è la questione dell’attuale, non del passato. Se noi facciamo riferimento al sapere come sapere disciplinare, allora quello che udiamo non è da intendere, ma ha da inscriversi in ciò che dobbiamo condividere e in ciò che non dobbiamo condividere, presumendo di poterlo fare. Questo si chiama conformismo. Se noi applichiamo il conformismo, cioè la conformazione di ciò che udiamo a quello che già sappiamo e che deve essere mantenuto, noi siamo già nell’alternativa, ma soprattutto siamo già nella sordità. La psicanalisi è sorta non come nuovo codice, non per la comprensione, non come nuova disciplina da applicare, non come nuova visione del mondo, come nuova ideologia con cui sostituire qualcosa di precedente, ma la sua portata sovversiva, già con Freud, è stata quella di introdurre l’ascolto e, se vogliamo, proprio anche la sola ipotesi, l’ipotesi dell’ascolto lì dove non c’era, lì dove non era praticato, lì dove non doveva esserci. Questa è la portata sovversiva che con Freud ha avuto questa proposta, che all’inizio non si chiamava nemmeno psicanalisi, ma talking cure, cura di parola. Apparentemente quanto di più aspecifico, quasi banale, ma proprio il banale dice della originarietà della parola. Ciascuna cosa è banale, ossia esige di qualificarsi, non è già dato il suo valore. Quindi niente è banale nel senso gergale, ciascuna cosa è banale nel senso che, dicendosi, incontra l’interdizione, e dunque esige di qualificarsi. Il banale è questo: è quel che si dice in quanto procede dalla contraddizione e dunque non è già noto. L’abitudine al sapere impedisce di ascoltare, perché ogni cosa deve inscriversi in quel sapere senza alterarlo. In questo senso ciò che odo viene convertito, deve essere convertito nella lingua comune, nel sapere comune. Questo sapere comune è la negazione della scienza. Perché ciò che oggi, nonostante Leonardo, è inteso come scienza, non è ciò che incorre nell’invenzione, ma ciò che la comunità scientifica ha approvato come tale; il sapere come fondamento toglie anche la verità come verità effettuale, e fonda una verità fondamentale cui tutti debbono attenersi. Questa è la negazione della scienza. La scienza trova che la verità è la sua punta, cioè il suo effetto conclusivo, non il suo punto di partenza.
Occorre distinguere quindi tra scienza come scienza della parola, scienza dunque che va in direzione della verità, dal cosiddetto discorso scientifico e discorso scientistico che pone la verità come fondamento e quindi in questo modo toglie anche la ricerca, o meglio, ammette solo quella ricerca come conclusione della ricerca al fondamento da cui era partito, perché se incontra un’altra verità contraddice al discorso su cui questa presunta scienza si sostiene, e dunque non vale. Se contraddice non vale. Allora noi abbiamo un’ipotesi in cui la contraddizione in quanto intoglibile è ciò che instaura il parlare, come qualcosa di nuovo in cui il dire è ignoto e questo dire esige l’ascolto, esige l’intendimento, esige l’analisi e la qualificazione, e quindi anche l’elaborazione, perché ciò che si dice non si riferisce a un sapere, è una produzione nuova. Oppure abbiamo invece l’altra impostazione in cui il fondamento è già dato e ciò che contraddice a questo fondamento è da escludere, perché contraddice all’umano, a ciò che nella comunità degli umani deve valere per tutti. Allora un conto è lo statuto intellettuale per ciascuno in cui è il ciascuno che vale, oppure il sapere comune per tutti, tutti in quanto tutti uguali. In questa idea di comunità, in questa idea di totalità la parola è tolta. Anche il processo intellettuale è tolto. Abbiamo lo standard, abbiamo il gergo, abbiamo la lingua comune che ci impedisce di parlare, e soprattutto ci impedisce di ascoltare, e dunque ci impedisce la comunicazione. Consente solamente di comprenderci. Cosa vuol dire comprenderci? Stare insieme? Prenderci insieme? Credersi insieme? Appartenere a un insieme, a condizione di accettare le condizioni di questo insieme. Quali sono? L’origine comune e il destino comune. In questo discorso che ha questo fondamento l’arte stessa non è accolta. L’arte come ciò che si produce nella variazione è inaccettabile. La differenza come ciò che è imprevedibile, irrappresentabile è inaccettabile. Sorge allora la classificazione per poter stabilire ciò che accettabile e cosa non lo è. Ma qui siamo fuori dalla parola. In questo discorso non c’è parola, non c’è parola libera, non c’è la parola che giungendo al valore produca anche effetti di soddisfazione, effetti di piacere, effetti di verità, che sono gli effetti cui concludono la ricerca e l’impresa. Il discorso invece, il discorso comune, il discorso che esige lo standard è il discorso che esige la piattezza. È un discorso che si regge sull’ipotesi e sulla probabilità statistica. L’ascolto è senza statistica. La parola è senza statistica. La combinatoria che si produce parlando, nel racconto, non è statisticamente prevedibile, ma non per questo è meno importante, anzi, è proprio lì che si gioca la partita: capire cosa si sta dicendo, capire qual è l’istanza per cui qualcosa si sta dicendo, perché non è già noto, nessuno lo sa già.
Allora la questione della scuola è la questione della parola. L’educazione, l’insegnamento, la formazione, l’istruzione stessa, come procede? Procede per applicazione di un sapere comune? O procede attraverso dispositivi, in cui attraverso lo scambio, la parola, la qualificazione si producono effetti di insegnamento, effetti di formazione, effetti di lettura, acquisizioni che hanno la caratteristica di risultare perenni e di dare la direzione verso la qualità? O si tratta di istruire e formare soggetti, cioè cloni? La riforma della scuola non ha nessun interesse. Quale può essere l’interesse di una riforma che è di natura ora ideologica, ora sindacale, ora economica in cui comunque la base è quella della scolastica in cui la parola è negata, in cui viene invece fomentata la credenza che si tratta di diventare soggetti, di acquisire la coscienza, ossia un sapere comune condivisibile, dove non viene praticato il parlare, ma il gergale, dove nessuno è protagonista di un itinerario, ma si tratta per tutti di finire gli studi? Di finire. L’educazione è a finire. Ogni cosa deve finire. Deve finire la lezione, deve finire la giornata, deve finire l’anno, deve finire il biennio, il triennio, c’è sempre da finire, per conseguire il certificato che certifica che hai finito. Ma questo in che direzione va? In termini intellettuali, in che direzione va? Quale formazione rispetto all’istanza intellettuale, cioè alla vita, che noi diciamo intellettuale, ma si tratta della vita, del modo della vita. Il modo della vita è il modo della parola. Una scuola che si regga quindi sull’ontologia del sapere è qualcosa che nega la stessa denominazione scuola. Noi abbiamo esplorato la settimana scorsa alcuni aspetti della scholè, cosa gli antichi chiamavano la scholè, ossia il tempo dell’ozio, inteso come il tempo dedicato agli effetti intellettuali della ricerca della vita, e cioè non al lavoro quotidiano, ma qualcosa che interveniva fuori dal lavoro, dalla necessità del lavoro, in un altro statuto della necessità, necessità non ontologica, necessità temporale, un’istanza di curiosità, un’istanza di soddisfazione, un’istanza di ricerca. La scholè, nel rinascimento, si è volta nella bottega, dove non veniva impartito un sapere, quel sapere che Leonardo attribuisce ai trombetti, agli umanisti, agli insegnanti, ai dottori; nella bottega ciascuno andava e nel dispositivo che si instaurava con il titolare della bottega, ma anche con gli altri allievi, chiamiamoli così, in quel dispositivo avvenivano effetti di formazione, di insegnamento. Avveniva l’acquisizione di tante cose, per cui si avviava un itinerario che poi andava nella sua direzione, imprevedibile. Che ne sarebbe stato di Leonardo senza il Verrocchio? Sicuramente non sarebbe stato Leonardo, ma non è che ha imparato dal Verrocchio, il quale gli ha spiegato come doveva fare. Certamente, in quel dispositivo c’è stato insegnamento, c’è stata formazione, ma chi era l’insegnante e chi l’allievo? Tra Leonardo e il Verrocchio chi era il maestro e chi era l’allievo? Sicuramente c’era uno scambio. Allora, se togliamo lo scambio, togliamo anche il dispositivo, creiamo apparati, ma lo scambio non è “io do a te questo e tu dai a me quello”. Lo scambio è nella parola, è nello statuto intellettuale. Io non so che cosa ci scambiamo questa sera, procedendo, qualificando. Proseguendo, qualcosa di questo scambio può scriversi, può andare nella direzione della qualità, ma non per inerzia, non per predestinazione, perché un dispositivo sorge e prosegue. Non finisce, prosegue. L’importanza del proseguimento, quindi non dell’idea di fine, ma del proseguimento. Invece la fantasia più comune che c’è modo di ascoltare è che ognuno deve finire, ha da finire qualcosa, ha cominciato e deve finire. Già nel modo di enunciare le cose si avverte la logica, qual è la fantasia, qual è il fantasma e quindi anche qual è la direzione. Se io credo che qualcosa debba finire, va a finire che finisce, cioè la parola non scherza. Allora l’importanza della contraddizione come intoglibile, contraddizione originaria, contraddizione il cui modo è l’inconciliabile, è che acquisendo i termini di questa logica risulta impossibile porsi nell’alternativa, stabilire un progetto e porre questo progetto nell’alternativa. Il modo più comune di pensare, per esempio, ciò che nella scuola è posta come prova, l’interrogazione, l’esame, il modo più comune di pensare è che questa prova è nell’alternativa, può andare bene e può andare male. Allora sorge la paura. Il futuro, l’avvenire posto nell’alternativa è avvolto dalla paura. E il paradosso diventa che ognuno ha paura dell’avvenire. Come aver paura di qualcosa che non c’è? Questo è il paradosso umano per eccellenza. Ma in realtà è paura non dell’avvenire, ma è paura della rappresentazione dell’avvenire che ognuno fa, per lo più della rappresentazione della fine negativa o della possibilità negativa. Il possibile, il probabile tolgono l’avvenire. L’avvenire non è né possibile, né probabile. L’avvenire è sicuro se non viene praticata l’alternativa, cioè se non viene tolta la contraddizione. L’alternativa si stabilisce togliendo la contraddizione, cioè dove la contraddizione comporta l’ossimoro. Dentro-fuori, per riprendere un termine che è stato posto prima, sotto-sopra, bene-male non sono alternative, sono ossimori. Non c’è da scegliere tra dentro e fuori, sopra e sotto, bene e male. Non c’è da creare l’alternativa scindendo questo ossimoro nella sua coppia oppositiva, che allora diventa o dentro o fuori; allora abbiamo la minaccia, o sei con me o sei contro di me, o sei dentro o sei fuori, o andrà bene o andrà male. Abbiamo la minaccia, non più l’ipotesi dell’avvenire, ma la minaccia dell’avvenire. Quanto di più comune, lì dove ci sia la dicotomia dell’apertura, la dicotomia della contraddizione. Invece, con la contraddizione, la questione è aperta, è senza minaccia, è questione è aperta. E dalla questione aperta allora può instaurarsi la direzione verso la qualità, verso il valore, la valorizzazione di quel che si fa. Con la minaccia nessuna valorizzazione. Ognuno tenta, spera di evitare ciò che sta nella minaccia. Ma cosa accade in questo tentativo di evitamento? Che il negativo della minaccia fa da timone e uno ci va a sbattere contro, tranquillo tranquillo; tranquillo magari non tanto, però volendo evitare, volendo, assumendo mille precauzioni per evitare… Boom, lì va, perché ha questo timone, ha questa meta, ha questa idealità dinanzi a sé e a quella si dirigerà, perché l’idea opera, non è che è nulla, e con l’idea del negativo dinanzi, verso il negativo mi rivolgo. Questa è la questione che spesso non viene intesa. Anzi, raramente viene intesa, occorre dire. “Farò il possibile. Farò il meglio per quanto mi è possibile.” Beh, poca cosa, perché questo possibile è già il marchio del limite. “Cercherò di fare il mio meglio.”. E già qui non è il meglio assoluto, è il mio meglio. E che idea hai di te? “Beh insomma, ho i miei limiti.”. Ecco, appunto. In quanti modi quindi il discorso comune, il discorso di padronanza, la soggettività tolgono l’avvenire, impediscono l’avvenire introducendo questo possibilismo, questo probabilismo. “Probabilmente accadrà che…”, probabilmente, perché la possibilità, il probabilismo, il possibilismo cercano di attuare una sistematica. Non c’è più la libera combinatoria, ma una sistematica. In questa sistematica ognuno tenta di adeguarsi al sistema o di adeguare il sistema a sé. Ma se non c’è sistema? Può l’infinito diventare un sistema? O c’è l’infinito, l’infinito della parola, o c’è il sistema, questo è il punto. Allora può darsi scuola nella condivisione dell’idea di limite, della coscienza di limite, della coscienza di sé, della coerenza con se stessi? Sono tutte formule queste che contrastano l’ipotesi del divenire e mirano invece a una stabilità, a un essere, a un’ontologia, a un’accettazione della stasi. La scuola non può procedere da queste risposte. Questa è intanto una questione. Allora occorre fare uno sforzo e non convertire ogni cosa in cosa umana, in rappresentazione dell’umano, in rappresentazione di sé, in rappresentazione dello standard, in rappresentazione del bene comune. Occorre fare lo sforzo di andare nella direzione della qualità, che è per ciascuno, non è la stessa per ognuno, non è per tutti, non c’è più totalità. Questo dovrebbe essere il motto della scuola, non c’è più totalità, ma statuto intellettuale per ciascuno. Allora come questo motto può divenire dispositivo, può dar luogo a dispositivi, questo è quanto noi possiamo discutere. Intanto se ci sono ulteriori domande, questioni possiamo parlarne. Prego.
M. Allora, io stavo pensando, per quanto riguardava la statistica, anche la media matematica è statistica. Lei ha detto oggi giustamente, e lo condivido, che ogni cosa è diversa dall’altra, oggi è diverso da domani e diverso da ieri perché non si può fare…
R.C. Ma non solo, anche mentre lo dico, qualcosa è differente da se stessa, allora…
M. Sì, ma già da ciò che si pensa a come si dice è diverso.
R.C. E certo. Esatto.
M. Esatto, allora io faccio un esempio, se oggi prendo venti caramelle e domani ne prendo cento non vuol dire che mangio sessanta caramelle al giorno, cioè un giorno ne mangio poche e un giorno ne mangio tante.
R.C. Chiaro.
M. Quindi anche la media matematica non ha senso.
R.C. Ma infatti, è quanto di più assurdo. Poi voler riportare strumenti e procedure che sono di natura sociologica, economica a livello invece di quello che è il registro intellettuale è ancora più aberrante. Può darsi la media intellettuale? Può darsi la media della domanda? Può darsi la statistica della domanda? Qual è la statistica della domanda, di una domanda? In che modo ciò che è l’istanza da cui muove una domanda può essere ricondotta a un’altra? Ciò è assurdo, occorre intendere caso per caso.
M. Però c’è un automatismo, comunque, che spinge chi manovra la regia, chi dirige, qualcuno che probabilmente…
R.C. Nessuno manovra la regia. La regia, proprio perché è regia, è senza manovratore. Chi è il regista? Regista è l’istanza di verità. Chi può manovrare l’istanza di verità?
M. Sì, interpretabile, interpretata però.
R.C. No interpretata, attuata. Non c’è manovratore. Non c’è da credere nel manovratore, altrimenti ci costruiamo la cappa sotto cui penare.
M. Quindi anche l’ipotetico leader che, cioè il manovratore può essere inteso come il leader.
R.C. Il leader è un’altra cosa, ma il leader…
M. Cioè il leader politico pinco pallino…
R.C. Il leader non è che manovri, è già un’altra accezione. E qui potremmo discutere, ma nemmeno il leader ha facoltà di manovrare, manovrare chi?
M. In casi estremi, tipo adesso mi viene in mente la Corea del Nord, cioè il presidente ha il potere assoluto di decidere e di fare, bla bla bla. Poi sicuramente avrà chi, comunque, funge da pesce pilota e…
R.C. Sì vabbé, lì siamo in un regime dittatoriale. Lui non è che manovra, lui manda l’esercito, altro che. Cioè occorre distinguere tra ciò che è nel registro fantasmatico, come l’idea appunto di essere manovrati da qualcuno, e altri registri. Se c’è un regime dittatoriale non è che uno manovra, lì c’è chi da ordini e li fa eseguire, ma siamo in un altro registro che nulla a che vedere con la parola mi pare, no?
M. No, è assenza totale di parola.
R.C. Assolutamente. Qui stiamo parlando invece di quel che avviene nel registro della parola.
M. Sì, ma proprio per quello che lei diceva prima sembra che tutto ruoti intorno a questo bisogno di centralizzare tutto, di unificare tutto.
R.C. Ma appunto, siccome non c’è il tutto, allora se noi già analizziamo il tutto, troviamo che il tutto è un pleonasmo e non esiste in quanto tale. Bene, altre domande?
M. Allora lei ha detto prima che la coerenza contrasta con l’ipotesi del divenire, giusto? E mira alla stabilità, all’accettazione della stasi e quindi la contraddizione è il presupposto del divenire, cioè da questo deduco che lei possa intendere che la contraddizione sia il presupposto del divenire, solo che io concepisco invece la contraddizione come un blocco, cioè un tira e molla, un’impossibilità di un’evoluzione, di un divenire e quindi non riesco a capire, cioè per me la coerenza è necessaria per un’evoluzione.
R.C. Cosa sarebbe questo tira e molla?
M. È un modo molto semplice per dire il concetto di contraddizione, nel senso che quando uno è in contraddizione non è come essere in prigione, cioè non riesce a andare avanti secondo me.
R.C. Può fare un esempio di contraddizione a cui si riferisce?
M. Sto parlando idealmente, in maniera astratta.
R.C. Non possiamo che parlare in maniera astratta.
M. Perché adesso non mi viene in mente, cioè parlando penso che la coerenza sia necessaria per andare avanti, ecco concepisco la contraddizione come un modo di essere in confusione, cioè magari la contraddizione può essere necessaria per una complessità, per un inizio per arrivare alla coerenza, cioè penso che la coerenza sia lo scopo e magari la contraddizione può essere l’inizio.
R.C. Già quindi niente di negativo, no?
M. No, non sto parlando di negatività.
R.C. No, ma prima diceva che è una prigione, no?
M. Sì, una prigione per farle intendere una sensazione, più che altro di tormento ecco, il mio tormento l’ho paragonato alla prigione.
R.C. Tormento, sì. Quindi dice la coerenza come fine, come scopo.
M. Sì, un possibile scopo.
R.C. Ma coerenza rispetto a cosa, con che cosa, con chi.
M. Una coerenza interna, coerenza con se stessi, con le proprie idee.
R.C. Con se stessi cioè? Può precisare questa idea di se stessa?
M. Io agisco in base a ciò che penso, ma adesso non lo so, cioè mi è venuto da dire così, poi magari in realtà non la concepisco così, era solo una maniera molto banale.
R.C. Ecco. Mi sembra da non trascurare no?
M. Sì, sì.
R.C. Lei agisce in base a ciò che pensa, quindi a un pregiudizio, a una convinzione, a un pensiero.
M. Dovrebbe essere naturale.
R.C. Adesso non ci appelliamo a leggi di nessun tipo. Cerchiamo di capire, non di adeguarci a un precetto, altrimenti non serve più capire, cioè ci adeguiamo al precetto e basta. Mi pare importante, quindi, lei dice, prima pensa a qualcosa, al da farsi e poi lo fa.
M. Non so, sì.
R.C. E che cosa chiama coerenza?
M. Coerenza, ciò che sono e ciò che faccio. È ciò che presento.
R.C. Ah ecco. Allora lei può fare solo ciò che è?
M. Tutti possono fare solo ciò che sono.
R.C. Non andiamo adesso a metterla sul generale che già abbiamo messo in questione. Atteniamoci a questo caso. Lei ritiene di fare solo ciò che è?
M. In quel presente sì.
R.C. E può fare un esempio di riuscita di questo progetto?
M. No.
R.C. Di riuscire a fare quel che si è?
M. No, no lo so fare questo esempio.
R.C. O lei dice che si tratta di attenersi coerenti a un principio?
M. Ma non è tanto un principio astratto, è coerente a ciò…
R.C. Ecco facciamo un caso ipotetico, lei che cos’è?
M. Io? Una ragazza.
R.C. E poi?
M. Ma cosa c’entra questo, stiamo parlando più che altro di azione
R.C. Si però lei dice che l’azione deve conseguire, non contraddire e essere coerente con ciò che lei è. Allora che cosa è lei?
M. Ma si vede nelle situazioni concrete cosa sono io, cioè non riesco a definirmi, a fare un esempio concreto, però, parlando in astratto, non so se mi capisce.
R.C. Lei è studente?
M. Sì.
R.C. Cosa studia?
M. Giurisprudenza.
R.C. Che anno?
M. Secondo anno della specialistica.
R.C. Secondo anno della specialistica. E è in regola con gli esami?
M. Sì.
R.C. Questo vuol dire che è una persona regolare?
M. Dipende che cosa s’intende per regolare, in quale campo.
R.C. Quando si laurea? Non l’ha ancora stabilito.
M. No, mi mancano ancora degli esami, mi mancano ancora sei esami.
R.C. E quando conta di farli?
M. Quest’anno. È difficile programmare, secondo me.
R.C. È difficile. E quindi siccome è difficile, allora…
M. No, io provo a programmarlo, ovviamente, e è naturale programmarsi un corso, qualcosa nel corso di studi, poi la realtà non è mai come si programma oppure è distante da quello che si programma. Noi facciamo un programma che si può dire perfetto e che mira alla perfezione, poi la realtà è un’altra.
R.C. Quindi lei non è perfetta.
M. No, ma nessuno lo è.
R.C. Ah, deve trovare conforto?
M. Beh, adesso non sto trovando conforto.
R.C. È la terza volta che rispetto a un’ipotetica caratteristica dice: “Beh, ma tutti siamo così, beh, è naturale fare così”.
M. Ma la perfezione non esiste.
R.C. Chi lo ha stabilito?
M. Nessuno lo ha stabilito, ma nessuno è perfetto.
R.C. Cosa intende per perfezione?
M. Lo dice la parola. Non si può definire la perfezione.
R.C. Ma come, se noi abbiamo sin qui sostenuto questa posizione e cioè che la parola di per sé non vuole dire niente e che ciascun caso esige la qualificazione, lei invece dice: “Beh, lo dice la parola stessa!”.
M. No per me la parola ha significato di per sé. Ogni parola ha un significato.
R.C. Ha un significato. Ah ecco, lei appartiene alla schiera del gergo.
M. Non so se sia quella la mia schiera. Penso che ogni parola abbia un significato, cioè per poter comunicare.
R.C. Già dato.
M. No, no ha il significato che vuole e che lo percepirà in maniera diversa, però ogni parola ha un significato, secondo me. Sto dicendo la mia opinione da ignorante.
R.C. Da ignorante. Quindi lei è ignorante?
M. No, era un modo di dire.
R.C. Questa sua ignoranza…
M. Ignoranza in questo campo stavo dicendo, io studio un’altra materia quindi non saprei dire.
R.C. Nel suo campo è sapiente.
M. Ma non l’ho detto io questo. Io sto dicendo che studio.
R.C. Quindi questa sua ignoranza le consente di avere opinioni.
M. Tutti hanno opinioni.
R.C. Tutti hanno opinioni. Quindi per lei è importante questa idea di tutti.
M. Tutti. Ognuno.
R.C. Ognuno.
M. Certo.
R.C. Sì, ognuno, cioè tutti.
M. Sì.
R.C. E sono compreso anch’io?
M. Ovvio.
R.C. Beh, mica tanto. Siccome lei si arroga il diritto di inscrivermi…
M. Beh, visto che lei tiene la sua lezione, lei dice la sua opinione.
R.C. Questa è una conclusione avventata.
M. Non è una conclusione, è un’ipotesi.
R.C. Ah è un’ipotesi.
M. Sì, stavo parlando di ipotesi.
R.C. Ah, e che scuole ha fatto prima dell’università?
M. Il classico.
R.C. Il classico? E dopo aver fatto il classico lei sostiene quello che sta sostenendo adesso, cioè nessun dubbio, solo certezze?
M. Non ho detto questo, assolutamente.
R.C. Eh, dice così, “tutti siamo così”, “la perfezione non esiste”.
M. Ma no, questa è la mia opinione in questo momento, questo non significa che possa cambiarla, cioè questa è la mia opinione in questo discorso, in questo ambito, non comprende tutto.
R.C. Allora lei è non è?
M. Cosa vuol dire questo?
R.C. Lei ha detto che può fare solo ciò che è e che deve essere coerente con se stessa, sta dicendo cosa?
M. Sto dicendo la coerenza rispetto al divenire, è molto differente. Stavo parlando della contraddizione in riferimento al divenire, della coerenza in riferimento al divenire, cioè io non sono nel mio personale. Non stavo parlando di me in tutto questo. Né di me né di lei. Assolutamente.
R.C. Ah ecco. E infatti ci mancherebbe. Non mi permetterei mai. Esatto. È una conversazione del tutto impersonale.
M. Beh sto parlando io, quindi è personale, comunque in ogni caso…
R.C. È impersonale, ma proprio per questo importa la parola, importa la qualifica di ciascuna parola, di ciascun termine. Allora quanto lei sta dicendo assolve alla coerenza con se stessa o magari si trova a rispondere a quesiti che non si era posta prima.
M. No, prima non me li ero posti, me li sono posti nel momento in cui io ho sentito dire questo.
R.C. Perfetto. La risposta che lei dà a questi quesiti assolve a un’istanza di verità o di coerenza?
M. Non riesco a capire.
R.C. Esatto, ma riprendiamo magari la prossima volta. Bene, c’era il nostro amico.
M. Beh forse penso un attimo a quello che avevo da dire perché seguivo questo dibattito interessante comunque cercando di proseguire il suo discorso lei pensa sia auspicabile una congiura per eliminare la storia, lo storicismo, la trama e soprattutto l’immagine come imbellettamento, insomma come ci viene proposta adesso, non so se…
R.C. Dunque, la domanda qual è esattamente?
M. C’è una congiura in base al suo discorso per cercare come ipotesi per l’eliminazione dello storicismo, delle trame, dell’immagine che ci viene proposta praticamente ecco, cioè l’eliminazione dell’immagine.
R.C. Ecco, bella questione che risulta conclusiva. Il registro intellettuale ha come suo corollario che niente è imposto per nessuno. Perché ciascuna cosa, ciascuna istanza, ciascuna questione può entrare nel processo di qualificazione, può entrare nel dispositivo intellettuale e dunque trovare in prima istanza assoluzione rispetto a ogni idea di fondamento e quindi volgersi alla qualità. Nessuno è suddito di nessuno. Questo è il primo corollario della questione aperta, della questione intellettuale, pertanto, ciò detto, occorre analizzare la fantasia di obbligo, di coartazione, di imposizione, di soggiacenza, di sudditanza, dunque il fantasma di soggettività. Questo fantasma necessita in prima istanza l’analisi dell’idea di essere qualcosa e di essere qualcuno. Strettamente connessi a questa idea di essere, quindi il fantasma di origine e il fantasma di fine. Questi sono alcuni elementi del mare magnum di elementi che concorrono all’apparato della morte bianca. Che cos’è la morte bianca? Questo ve lo dico la prossima volta.
La forza, l’orgoglio, la missione
Ruggero Chinaglia Martedì prossimo, 18 novembre, presentiamo a Bologna il quinto numero della collana “La cifrematica” che s’intitola La nostra psicanalisi. È chiaro che qui ciascuno ha già letto questo volume, no? No! Nessuno ha già letto questo volume La nostra psicanalisi, quindi non c’è chi abbia una nozione benché minima di che cosa stia parlando! Allora, si tratta della collana “La cifrematica” che è giunta al suo quinto numero. Il primo numero: La vita. Il suo numero, la sua scrittura, il suo valore. Poi il secondo numero dal titolo L’intellettualità e il piacere. Il terzo numero: Il cervello e la bussola. Il quarto numero: Lo statuto di art ambassador, e il quinto, che è uscito da poco, La nostra psicanalisi. Questa collana raccoglie i contributi di intellettuali, scrittori, cifrematici, artisti attorno alla questione, che riguarda ciascuno, dell’esperienza della parola, di come ciascuno incontra la parola e restituisce quel che la parola gli ha dato, gli ha consegnato; non come qualcosa da custodire, ma come qualcosa da restituire in termini di valore. Non restituire così come è stato ricevuto, ma restituire in qualità, in valore. Questa restituzione comporta un processo di qualificazione, di valorizzazione, quindi comporta anche la prova, la prova di realtà e la prova di verità intorno all’incontro con la parola, a come sia in atto lo statuto della parola, lo statuto intellettuale. Quindi la prova di non appartenere all’epoca, cioè ai pregiudizi dell’epoca, ossia ai pregiudizi correnti e la prova di non appartenere al luogo comune, di non appartenere a ogni sorta di ideologia e mitologia della sostanza che fanno l’epoca. Sono due modi, per così dire, di vivere. Uno è quello secondo l’epoca e quindi condividendo i pregiudizi comuni, l’altro modo è secondo la parola, nell’era della parola e dunque senza conformismo all’epoca. Questo non è qualcosa di automatico, che possa avvenire per inerzia, ma richiede l’attuazione di dispositivi opportuni, di dispositivi intellettuali, di dispositivi dove la parola sia in atto. Questi dispositivi sono rari, non sono diffusissimi, non sono comuni, pertanto, almeno giungere all’eco, per così dire, a cogliere l’eco di questi dispositivi, questo ritengo sia un atto inaugurale per ciascuno, che non impegna a nessuna appartenenza, ma quanto meno indica qualcosa dell’incominciamento, qualcosa di inaugurale, qualcosa sulla via dell’accoglimento dello statuto intellettuale, per instaurare l’altro modo di vivere, l’altro modo rispetto al modo dell’epoca. Allora, se ancora nessuno ha avuto l’informazione che questa collana era non solo incominciata, ma giunta al suo quinto numero, adesso noi colmiamo questa pecca e dunque, d’ora in avanti, niente più giustificazione per non aver letto ciascun volume. Il prossimo uscirà tra una quindicina di giorni e ha per titolo La follia, la pazzia, la clinica.
Ma come leggere il sesto volume senza aver letto gli altri? Già è impegnativo leggere i primi cinque, incominciare dal sesto come si fa? Occorre avere letto gli altri, anche perché non si tratta di una lettura dolorosa. È invece un piacere leggere i testi, ciascuno dei quali è l’indice di un modo di accogliere la parola. Quindi è indice di umiltà, di generosità, una proposta intellettuale per contribuire al secondo rinascimento delle arti, delle scienze, della cultura non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa che sia in atto per ciascuno. Oggi si parla molto di globalizzazione, mercato globale, comunicazione globale, civiltà globale ma nell’accezione in cui viene proposta la globalizzazione risulta la somma di tutto ciò che è stato e che viene riproposto come globale nel senso della somma. Così nessuna novità in questo mondo globale: è la stessa nozione di mondo che è stata proposta duemila anni fa e che oggi viene riciclata con questo vezzeggiativo di “globale”, che dovrebbe indicare chissà quale prerogativa. Ecco, il globale, nell’accezione intellettuale, è il secondo rinascimento, il globale senza ideologia è il secondo rinascimento. La questione intellettuale è la questione del globale, ma non come la somma risultante di ciò che è stato: eventualmente è ciò che risulta dalla testimonianza di ciò che ancora non è, e quindi è la questione attuale, la questione di ciò che ciascuno annuncia, parlando e facendo nella direzione della qualità delle cose. Non è una direzione qualunque o addirittura in assenza di direzione.
Allora, per cominciare, la proposta è questa: incominciare a leggere questi volumi per capire qualcosa di più e di cosa si tratta quanto alla parola. Non importa che poi sia la cosa più facile del mondo, o dire invece che sono cose difficili, e nell’oscillazione tra facile e difficile intanto ognuno si crogiola; richiede piuttosto l’uscita dall’alternativa tra il facile e il difficile. Cominciamo a leggere il testo, a interrogare il testo per restituirlo, questo allora rende ciascuno protagonista. In particolare, la restituzione in valore è ciò che conta. Bene, questo per introdurci nel clima di questa sera. L’incontro a Bologna è martedì 18 novembre, ore 20,45 nella Sala dello Zodiaco del Palazzo della Provincia, in via Zamboni, 13 a Bologna. Nel centro storico di Bologna, in una sede molto bella e, solo chi sarà assente avrà il rammarico di non esserci stato. D’altronde, noi ci saremo.
Allora, rispetto a quanto andiamo dicendo ci sono domande riguardanti, per esempio, il dibattito della settimana scorsa, di quella precedente o di altre cose ancora, di letture che sono in corso, questioni che non erano ben chiare, che possono chiarirsi adesso?
Cecilia Maurantonio Volevo fare una domanda rispetto a quello che ha detto adesso.
R. C. È troppo facile.
C. M. Perché?
R. C. Così è troppo facile. Allora, chi ha preparato una questione? Ecco, infatti, c’è chi! Allora, dica.
Emanuela Macario La volta scorsa ha parlato della paura…
R. C. La paura!
E. M. …che impedisce l’avvenire, che è la rappresentazione di ciò che si fa nella paura e quindi la rappresentazione che le cose vadano male, che si possa fallire e quindi, inevitabilmente, questo poi accade. Io mi chiedevo se fosse allora necessario eliminare la paura, cioè dissipare la paura. Cioè se si deve fare nella paura, visto che c’è l’ipotesi che poi possa andare male, e quindi non è necessaria la paura?
R. C. Non solo non è necessaria, non è nemmeno originaria!
E. M. Ma, quindi, occorre prima che non ci sia la paura per potere fare, forse a questo punto la…
R. C. Eh già, questo è l’alibi più facile! C’è un discorso che, diciamo così, “ci marcia” su questo. “Prima devo… e poi… Beh, allora, poi, potrò. Prima, però, elimino la paura”.
E. M. No, io ho sempre pensato che anche con la paura si possa fare, però, appunto, se poi ciò che si fa va a cadere nell’alternativa male-bene, quindi finisce, finisce male, vorrei sapere se invece non è così!
R. C. L’ipotesi di potere convivere con la paura e fare, nonostante la paura, è simpatica, è benevola. È un bel tentativo di aggiustare le cose, ancora prima di romperle. Ma dove trae? Dire “nonostante la paura” è come dire che, comunque, la paura è sempre lì davanti a noi e quindi ogni gesto, ogni atto è atto eroico, perché avviene “nonostante la paura”. Ogni atto è comunque gravato dalla paura, gravato dalla superstizione, cioè da quel pregiudizio che mantiene la paura. La questione non è tanto se la paura c’è, è debellata, è dissipata, ma perché. Perché la paura? Perché, che cosa la consente, che cosa la instaura, che cosa la fomenta, che cosa la mantiene? La paura è senza la parola. Possiamo anche dire così: la parola è senza paura. Allora, vivere con la paura è la buona volontà di vivere senza la parola, cioè di mantenere l’espulsione della parola e quindi, è la buona volontà di vivere secondo l’epoca.
E. M. Non è nemmeno soddisfacente!
R. C. Non è nemmeno soddisfacente! La soddisfazione non viene dall’eroismo, viene dalla qualità, è quell’ effetto che segue alla qualità. Il piacere è lì, la soddisfazione è lì, non viene dalla buona volontà di vivere eroicamente, perché l’eroe è coerente con il suo pregiudizio. La coerenza, accennavamo qualcosa la volta scorsa sulla coerenza, con Margherita, che questa sera ha pensato bene di restarsene coerente, senza rischiare che, per caso, questa coerenza trovasse qualche incrinatura!
E. M. Quindi, come fare? Se tento di debellarla prima non è…
R.C. “Debellare” è un’immagine bellica; debellare la paura, è una delle mitologie dell’epoca: il debellamento, cioè la guerra a fine di bene. Come debellare il male, come debellare la povertà, come debellare le malattie, come debellare il cancro, come debellare: la guerra a fine di bene. E intanto si fa la guerra. E intanto questa mitologia di dovere andare contro il male, quindi di localizzare il male, di situarlo in qualcosa, persiste, anzi viene confermata. In fin dei conti, quale guerra non è a fine di bene? Allora, debellare la paura, ma la paura non è originaria, la paura è una forma di reazione, è l’affermazione di una superstizione. Ma come debellare la superstizione? Debelliamo i superstiziosi? Togliamo di mezzo tutti i superstiziosi, come quel tale che diceva: “Nel nostro regno non esistono più assassini, abbiamo ucciso l’ultimo poco fa”? La purezza, la purificazione, ogni campagna di debellamento punta a questa purificazione. Ma come debellare la logica? Si può debellare la logica o si tratta di intendere la logica, intendere la logica dell’epoca, intendere la logica della parola? Ma per intendere la logica dell’epoca occorre avere assunto la parola, non è che prima io capisco qual è la logica dell’epoca e poi capisco la parola nella sua logica. Può avvenire il contrario. Quindi è dalla non accettazione intellettuale dell’epoca, con i corollari che l’epoca trae con sé, che l’epoca non c’è più, senza doverla debellare. L’epoca non c’è più se c’è la parola, senza dovere fare nessuna guerra. Quindi la questione non è debellare la paura, debellare il male, debellare il sintomo, ma accogliere la logica della parola, situarsi nella parola, fare l’esperienza della parola originaria. Come, dunque, mettere in questione le abitudini? C’è chi dice: “Ma io non ho abitudini”, e magari non si accorge che dice: “Ma io, solitamente, di solito, quando io faccio… quando io prendo… quando io dico…”. Questo già comporta l’idea di pluralità di gesti, di parole, di pensieri, di occasioni, di momenti in cui dovrebbe avvenire qualcosa che si ripete, di solito. L’idea del plurale è l’idea del solito, è l’idea dell’abitudine, è l’idea di qualcosa cui fare riferimento, come qualcosa che si ripete in quanto tale. Questo è già mentalità, mentalità e abitudine. Per un verso è l’idea del passato che ritorna, che può ritornare, per l’altro verso è l’idea di un’ipoteca sull’avvenire. “Quando io dico, quando io faccio così” è l’ipoteca su quello che farò, perché lo farò così, è un’ipoteca su quello che penserò. Il plurale come modo dell’abitudine, come modo della mentalità, come modo della riserva. Ciò che è in atto è senza relazione con il passato, quindi è in atto come inedito, come qualcosa che non è già stato. Non si sta ripetendo qualcosa che è stato, ma è qualcosa da capire nella sua singolarità, nella sua attualità. Il discorso occidentale è il discorso dell’abitudine, e l’abitudine volge l’avvenire in promessa come minaccia. Dunque il discorso occidentale è il discorso dell’alternativa tra la promessa messianica e la minaccia apocalittica; da questa ipotesi dell’abitudine sorge lo stupido, il quale si qualifica in due modi, ottimista o pessimista. Lo stupido, quello che vede l’avvenire in modo ottimistico o pessimistico senza ragionare, senza la parola. L’ottimista è per la salvezza a ogni costo, “comunque sarò salvo”, quindi crede nella promessa del bene. Il pessimista è per l’apocalisse totale, salvezza negata, il male, trionfo del negativo. Apocalittici e messianici partecipano della morte bianca, che è la vita senza la parola, dunque la vita senza adeguamento, la vita ontologicamente intesa secondo una credenza nel male o nel bene, secondo una credenza nel canone vigente, nella superstizione prevalente, dunque senza adeguamento. Ma non adeguamento a qualcosa, adeguamento a qualcuno, adeguamento a una ideologia, non l’adeguamento inteso come conformazione, conformismo ma adeguamento senza predestinazione, adeguamento come indice della contraddizione, adeguamento che procede dall’equità. Equità della superficie, intesa sia come apertura, sia come squarcio, adeguamento, quindi come indice della contraddizione, del due, come abbiamo visto la settimana scorsa, contraddizione il cui modo è l’inconciliabile, senza alternativa alto-basso, senza dicotomia bene-male. Senza dicotomia, quindi contraddizione il cui modo è l’ossimoro. E contraddizione del tre il cui modo è quello dell’equivoco e che ha la sua sede nella sintassi. Quindi, l’adeguamento è sia indice dell’apertura e sia indice dell’equivoco, adeguamento in un’accezione assolutamente nuova rispetto all’accezione comune che prevede un adattamento. Qui si tratta dell’adeguamento senza adattamento a qualcosa di già dato; se vogliamo proprio indicare una prossimità, è adeguamento alla logica della parola, adeguamento alla parola. Il modo intellettuale esige questo adeguamento, questa equità, dove, data l’equità, non c’è più equazione, non c’è più il riporto a zero, non ci sono più i due termini dell’equazione che devono equivalersi; ciascuna cosa si trova nell’assoluto e nel suo estremismo senza equazione possibile. Questo è l’adeguamento all’assoluto, adeguamento all’estremismo della parola. L’adeguamento è il modo della relazione originaria. Nessuna relazione interpersonale, nessuna relazione soggettiva, nessuna relazione sociale, ma la relazione originaria che trae il suo modo nel modo del due, cioè nell’inconciliabile. Allora, adeguamento senza coerenza. O c’è questo adeguamento originario o c’è la coerenza, ma la coerenza di cui abbiamo accennato qualcosa la settimana scorsa a cosa si appunta? Possiamo anche qualificarla come l’altro nome del conformismo. La coerenza come conformismo, conformazione. Quest’idea di coerenza esclude l’infinito della parola e esige invece il sistema di riferimento, il sistema dove ogni elemento dipende e è in relazione con gli altri elementi. Ma dunque, dicevamo dell’adeguamento. L’adeguamento che è ironico per quanto attiene alla relazione e all’apertura è equivoco per quanto attiene alla sintassi. Come padroneggiare l’adeguamento? Come presumere di potere maneggiare, padroneggiare, rendere volontario l’adeguamento, se attiene all’ironia e all’equivoco? Questa è allora la questione. Tolta la parola, tolta questa impadroneggiabilità dell’adeguamento, ognuno gioca la carta della padronanza: “Chi è padrone?”. Chi è padrone dell’adeguamento o chi è più padrone, così questa istanza dell’adeguamento si volge allora in un’altra cosa, verso la coerenza, che però può incontrare un dubbio, un dubbio metodico, che si volge in pericolo. Questa coerenza mi porterà alla dipendenza e dunque, come forma della padronanza, sorge l’oscillazione fra dipendenza e indipendenza. “Io non voglio più dipendere, voglio essere indipendente. Io non voglio più dipendere dalla famiglia, dal padre, dalla madre, da te, da lui, dal marito, dalla moglie, voglio rendermi indipendente”. Questa indipendenza, questa dipendenza a cosa si riferisce? Dipendenza – indipendenza è l’altra faccia dell’oscillazione tra padronanza e schiavitù. Padrone e schiavo, indipendente e dipendente. Schiavo e padrone è l’alternativa proposta dalla rivoluzione circolare: chi sta sotto deve poi stare sopra, poi tornerà a stare sotto ancora, ma intanto c’è stata un’alternanza. Alternanza al potere, alternanza nell’esercizio del potere, alternanza delle classi, alternanza quale forma della democrazia, alternanza come realizzazione del fantasma della rivoluzione circolare come rivoluzione possibile. Fantasma della gestione del potere, fantasma di padronanza, fantasma della circolarità. Questo fantasma si chiama paranoia, che è il discorso di padronanza per eccellenza e dove può anche non essere importante chi sia il padrone, purché vi sia, purché sia garantito che vi sia e che vi sarà. Perché questo padrone garantisce il sistema, che vi sia sistema, cioè sistema come mondo ideale, dove tutti stanno insieme. Questo è il sistema, un luogo dove tutti stanno insieme, senza più il tempo a dividere, senza più il tempo a istituire la differenza sessuale, quindi uno spazio senza tempo e senza memoria. Solo così è possibile stare insieme, solo così sarebbe possibile stare insieme, esercitare il potere, esercitare l’autorità, padroneggiare le cose. Solo a partire da questa nozione di sistema che abolisce il tempo è possibile pensare il potere come esercitabile, l’autorità come esercitabile, ciascuna cosa come padroneggiabile da tutti, dove tutti sanno, quindi, come fare, sanno già cosa essere, cosa sono, cosa diventare, perché il tempo è tolto, l’equivoco è tolto, il malinteso è tolto. Ma se il tempo è divisione, se il tempo è taglio, come condividere, come stare insieme, come comprendersi? Tutto ciò è prerogativa del sistema, sono caratteristiche della sistematizzazione, dunque è impossibile condividere il tempo, impossibile condividere il viaggio, impossibile condividere l’esperienza, impossibile condividere il dettaglio, impossibile condividere l’emozione, impossibile condividere l’entusiasmo, impossibile condividere la verità, impossibile condividere il senso, impossibile condividere il sapere. Tutto ciò esige il tempo e ciò che esige il tempo non è condivisibile. La condivisione è miraggio del sistema. Solo nel sistema può darsi l’ipotesi della coerenza, cioè l’ipotesi di andare insieme, di stare insieme, che qualcosa consenta la co-erenza; coerenza con ciò che è stato prima, coerenza con ciò che verrà dopo, coerenza con ciò che è, ma quale coerenza con ciò che diviene? La coerenza, il fantasma di coerenza, l’idea di coerenza esclude sia la contraddizione, sia la disdicenza. Dunque esclude l’adeguamento nei termini che dicevamo prima, esclude l’ironia e l’equivoco, esclude il processo di qualificazione di ciascuna cosa, esclude questa disdicenza, cioè l’impossibilità di convertire quel che si dice nel detto. Per via del tempo quel che si dice non è mai detto, non è mai detto tutto, non è mai detto abbastanza, non è mai detto in termini tali che resti così, immutabile. La disdicenza, quella che Freud chiamava la Versagung e che si attua tanto con la rimozione, tanto con la resistenza, tanto con la funzione vuota. “Per coerenza, io devo dire che…; per coerenza penso che…”. Come dire, già l’ipotesi della coerenza è una reazione alla disdicenza. La necessità della coerenza è il tentativo di mettere un rimedio, un riparo a ciò che sfugge, a ciò che risulta impossibile controllare, per questo sorge l’idea di coerenza; il massimo in questa idea è la coerenza con se stessi, come dire “io sono Napoleone”. La coerenza con se stessi, “io sono, io sono colui che sono, io sono quello che sono, io sarò sempre così, noi saremo sempre così”. Per coerenza, per naturalismo, per idiozia noi saremo sempre quello che siamo. E cosa siamo? Chi siamo?
Dunque la coerenza. Magari c’è chi pensa che sia una virtù, ma la coerenza è la coerenza morale, coerenza mentale, coerenza alla superstizione. La coerenza esclude l’insegnamento e la formazione, esclude il divenire, esclude l’acquisizione, esclude quel che si aggiunge e che esige l’integrazione. La coerenza è parente prossima, trae con sé l’idea di dipendenza come dipendenza sistematica. La dipendenza sarebbe l’altro nome della schiavitù, dipendenza dalle droghe, dipendenza dal gioco, dipendenza alimentare. C’è chi dipende dalla cioccolata, chi dipende dal gorgonzola, ognuno ha le sue dipendenze. Ci sono varie dipendenze, quelle più accreditate sono ovviamente le dipendenze dalla droga, anzi, quella è la dipendenza che va debellata, in nome della sostanza. Quindi il fantasma di padronanza insorge contro la possibile dipendenza, la quale minerebbe la padronanza, la libera volontà di bene. La dipendenza come limite della razionalità, della ragione, della libertà di volere. C’è chi ritiene di dipendere dai genitori, di dipendere dal padre, dalla madre, dall’insegnante, dal maestro, dal cattivo maestro, dalle cattive compagnie. Come dipendere dalla parola? “Sento che dipendo, non voglio dipendere, mi rendo indipendente”. Dipendere, essere di peso, dipendere da, qualcosa dipende. C’è un peso. “Non voglio più pesare, dipendo, peso, non voglio più pesare! Non dipendo! Non peso più!”. E intanto c’è l’idea del peso: essere un peso, avere un peso. Ognuno ha i suoi pesi, i suoi pesi e le sue misure e intanto, qualcosa pesa. Che cosa pesa? Qualcosa pesa, perché non c’è l’immunità. Teorema del peso: non c’è più peso. Dispositivo immunitario, dispositivo dove non c’è più sostanza e ciascuna cosa è nel suo statuto intellettuale, dunque senza peso, senza appartenenza, senza genealogia. “Essere indipendenti da… Pesare solo su se stessi”. La dipendenza è un altro modo di pensare la genealogia, l’ereditarietà, la relazione naturale, l’appartenenza a un sistema genealogico. Sono chiaramente questioni che si pongono per un’elaborazione, per un’articolazione, sono un materiale fantasmatico dell’epoca, di chi ritiene di appartenere all’epoca, di vivere nell’epoca e quindi, per così dire, di attendere l’assoluzione. L’indipendenza ha tuttavia un’altra accezione. L’indipendenza: senza pendio, senza dispendio. Come pensare che qualcosa sia senza dispendio, ovvero senza pulsione? Automatica, naturale, quest’idea del dispendio come fatica, cioè quest’idea energetistica, che traduce la pulsione in energetistica, che trae con sé l’idea di rilassamento, l’esigenza di doversi rilassare. Carica, scarica, tensione, rilassamento, concentrazione, rilassamento, concentramento, rilassamento. Alternanza tra la riuscita e lasciarsi andare, falloforia della riuscita, positivo – negativo. Come assegnare a ciascuna cosa un segno. Faccio bene, faccio male, se faccio bene, allora sono bene, allora mi posso rilassare, lasciarmi andare, fare qualcosa di negativo, così poi posso tornare a fare qualcosa di positivo. Positivo, negativo, euforia, disforia: alternanza.
Bene, diciamo che per ora questo è quanto, vediamo anche se c’è del quale. Ci sono domande?
Nadia Vidale Diceva stasera, anche la settimana scorsa, che qualcosa che è in atto è senza relazione con il passato. Volevo chiedere, il passato inteso come? Allora, che valore ha quello che sembra ripetersi? Mi veniva in mente prima, mentre parlava, che in una lettura di moltissimi anni fa, quindi il ricordo è approssimativo, nei Tre saggi sulla vita amorosa, mi pare, Freud a un certo punto parla di quelli che si trovano in una serie di storie, di relazioni sempre sbagliate. Mi viene in mente questo, ora, dove sembra esserci qualche cosa che ripete qualcosa di già stato.
R. C. Qual è la sua versione?
N. V. Non ho una versione al momento e mi sembra plausibile; poi lei proseguiva, stasera, dicendo quel che è in atto non è già stato. E questo non posso dire che lo condivido, perché c’è il tempo, ma sennò, direi che lo condivido.
R. C. Sì.
N. V. Però, apparentemente, a me pare di…, ci sono delle cose che pare che tornino!
R. C. Certo, sembra, chiaro!
N. V. Ci sarà pure la differenza tra il caso in cui sembra che tornino e quello in cui invece non sembra che tornino.
R. C. Ci sarà pure! Bene, bene. Altri? Ecco! Sembrava addormentato, invece no.
Pubblico Ho dormito, perché purtroppo sono stanco, faccio degli sforzi inumani per ascoltarla!
R. C. Se sono inumani non sono neanche sforzi.
Pubblico Esatto, esatto. No, quello che io volevo dire, quello che credo di avere capito, che si tratterebbe di negare, è la dialettica che c’è sempre stata tra servo e padrone, tra soggetto e oggetto come due facce di una stessa medaglia, dove una sintesi, una collaborazione è sostanzialmente impensabile per l’uomo. Questo secondo me è quello che ha voluto dire.
R. C. Perbacco! Questo volevo dire e perché non l’ho detto? In realtà non l’ho detto, però volevo dirlo! Però è quello che ha capito lei.
Pubblico No, io quello che ho capito è che voglio la conferma da lei.
R. C. Ah, ecco! Esatto, perché c’è il commento, c’è la testimonianza, c’è l’annotazione, la nota, il canto, la canzone e poi il commento con attribuzione della volontà o dell’intenzione di dire qualcosa. Dicevamo prima che non c’è da avere paura. Esporsi a dire, esporsi a parlare non è esporsi alla Rupe Tarpea! È un’esposizione, è accogliere un’eventualità che qualcosa si disponga in un certo modo. Questa esposizione non è la messa a nudo, eppure quanto è difficile sentir dire: “Io ho capito questo! Azzardo questa ipotesi. Non ho capito nulla, pertanto azzardo questa ipotesi”. È inquietante, no?
Pubblico Certo.
R. C. L’epoca preferisce il commento, cosa ha veramente detto tizio, ma ancora più profondo, il commento di chi capisce cosa voleva dire. La volontà.
Pubblico Sì, io volevo aggiungere una piccola cosa…
R. C. Si!
Pubblico …che poi forse è estrema. Il rifugio nel fuori da quel che può essere qualsiasi filosofia o ideologia o altro, come rifugio, per arrivare a non sapere piuttosto che sapere certe cose… In questo senso il fuori è una via di fuga, di salvezza probabilmente, cercare di non capire certe cose e quindi è meglio non sapere, a questo punto.
R. C. È meglio non sapere piuttosto che sapere. Perché sarebbe meglio non sapere?
Pubblico Per difendersi da questa melma che ti viene proposta giornalmente.
R. C. Ah, ecco, come difendersi!
Pubblico Cioè, come paradosso, voglio dire, non che uno debba non capire…
R. C. Esatto. Come difendersi è l’altra faccia di come debellare, quindi la paura ha due facce, la difesa e la reazione: come reagire, come debellare, come difendersi. Ma c’è il terzo modo, c’è il terzo modo che anche la paura non esclude, ma anzi indica nel suo estremismo: come accogliere. Come accogliere, come instaurare il dispositivo dell’accoglienza, dell’accoglimento, che non è la casa dell’accoglienza dei reietti, dei rifiuti, no, è il dispositivo di accoglienza, di quanto si annuncia Altro. Altro, dunque incatalogabile, inclassificabile, non già catalogato, non già visto, non già sentito, non già noto, non già detto. Altro, differente, somigliante. Somigliante è differente. La somiglianza è la punta della differenza. Avete mai sentito: “Oh, che bello, questi due bambini come si somigliano, somiglia tutto a…”? Chi dice così ha colto la differenza, è stata colta la differenza, l’elemento differente, che differisce. La somiglianza, l’analogia, l’omologia, simile, cioè differente. Ma anziché cogliere l’elemento per via di differenza, l’epoca, invece tenta di omologare la differenza e fa della somiglianza quasi un’identità. L’idealità di sintesi, che pur la dialettica in qualche modo persegue, indica, come lei diceva, che c’è questa impossibilità dell’analogia ma, appunto, che questa impossibilità non dovrebbe esserci, e occorrerebbe giungere a quella sintesi unificante. Perché? Se il tempo divide, questa sintesi unificante quale sarebbe? Dove starebbe? Perché questa idealità di sintesi lì dove si tratta invece del dettaglio, del frammento, di quell’indice della differenza che indica lo specifico, l’unicità di qualcosa? Perché l’unicità è respinta? Perché l’unicità, invece, deve essere ricondotta a una sintesi, per cui questa unicità non c’è più e c’è invece l’unione. L’unione nega l’unicità. Ma l’unione è unione sistematica, mentre l’unicità è senza sistema.
Pubblico Le sue parole sono talmente semplici che danno anche a me, personalmente, una certa carica, perché io, pur non essendo un esperto e frequentando da poco questo tipo di, chiamiamola scienza o proposta, non so, io sono ignorante in questo senso, reagisco attraverso degli impulsi della mia storia. Ma lei dice delle cose, e poi le dice in modo talmente semplice, diciamo elementare anche, semplice, che quindi danno anche una certa carica come progetto. Io sono sempre stato “intorcolato” in queste situazioni, diciamo complicate. Ho sentito il suo linguaggio, universale, semplice, non è che uno debba fare difficoltà per capire il senso, perché lei parla della parola e questo come sintesi, come fulcro di tutto un discorso.
R. C. Bene, allora c’è un’altra domanda, poi un’altra ancora, altre due, due sono già prenotate. Ce ne sono altre? Raccogliamo prenotazioni solo adesso, poi ogni altra prenotazione sarebbe tardiva. Va bene, prego.
E. M. Dunque, mi pare di avere capito, non so nemmeno cosa voglio dire in realtà, però questo discorso di padronanza dove c’è il padrone e c’è lo schiavo, come interviene l’idea di uguaglianza? Questa idea di essere tutti uguali, di avere tutti gli stessi diritti, gli stessi doveri, cioè sembrerebbe l’altra faccia della stessa medaglia. Però c’è l’idea di dover togliere il padrone, di dover togliere lo schiavo, cosa comunque a cui ci si continua a sottoporre.
R. C. Sì, sì, questo è il supplizio del discorso di padronanza.
E. M. Quindi il discorso di uguaglianza è la stessa cosa?
R. C. Cosa è uguale e a cosa?
E. M. Cioè, appunto, per me nulla, però il sistema si erge sull’illusione che siamo tutti uguali, che abbiamo gli stessi bisogni.
R. C. Esatto! I bisogni del popolo, i bisogni della massa, i bisogni di tutti!
E. M. Però il padrone e lo schiavo non hanno gli stessi bisogni.
R. C. Il padrone ha altri bisogni, quindi non appartiene ai tutti, il padrone.
E. M. Ci sono tanti padroni e tanti schiavi, è una categoria alla fine!
R. C. E già, bene, questa è una questione seria.
E. M. E un altro accenno, perché non sono sicura di aver capito. Lei diceva che senza il tempo e senza memoria, c’è l’autorità esercitabile, tutte le cose sono esercitabili e quindi è tolto l’equivoco e si sta insieme. Cioè, questo stare insieme è un’illusione, effettivamente, o l’ho intesa male io?
R. C. Un’illusione? Beh, sì non è necessaria, ma può essere un’illusione.
E. M. Non è necessaria?
R. C. No, neanche come illusione è necessaria. Però, sì, può essere anche una credenza, un’illusione.
E. M. Cioè non è possibile stare insieme?
R. C. No.
E. M. Appunto.
R. C. Già stare è impossibile, insieme poi!
E. M. Sì, sì, infatti, non ne ero sicura.
R. C. Bene, bene, bene.
Maria Lombardi Volevo un chiarimento sul concetto del fantasma; lei prima parlava di fantasma di padronanza, fantasma di gestione del potere, ecco, mi sfugge un po’ l’accezione, in questo caso, del termine fantasma e poi una riflessione su qualcosa che ha detto la volta scorsa. Qualche tempo fa mi è venuto in mente qualcosa sul concetto di parola. Lei diceva che la parola è in assenza dell’uomo e che l’uomo è in assenza di parola. Dunque, è una riflessione sull’uomo in quanto ricordo che riteneva che non siamo esseri viventi e quindi, per analogia, l’ho collegato al concetto di fantasma e…
R. C. …ah, in quel senso?
M. L. Mi è venuto in mente pensando al fantasma, però, appunto, dato che sono mancata alle conferenze successive, ero curiosa di sapere se la conferenza era giunta a dire se non siamo uomini cosa siamo. Mi piacerebbe scoprirlo.
R. C. Esatto. Direi che è una domanda legittima. Bene e c’era un’ultima domanda.
Elisa Ruggiero Io sto leggendo un libro che s’intitola La scrittura e ci sono interventi di vari scrittori tra cui Armando De Armas che scrive, io mi sono appuntata una frase: Tuttavia, chi scrive oggi in occidente, dovrebbe incominciare a dissentire dagli interessi che si nascondono dietro la manipolazione del linguaggio e non per una questione di altruismo, bensì di sopravvivenza sia come scrittore, sia come uomo. Allora in relazione a questa conferenza, fatalità, di stasera, la manipolazione del linguaggio, cioè gli interessi che si nascondono dietro la manipolazione del linguaggio…
R. C. Io non ho parlato di manipolazione del linguaggio.
E. R. No, no, no, questo è l’intervento, il contributo di Armando De Armas, mettendolo in relazione con la conferenza di questa sera dove abbiamo parlato di esposizione alla parola, alla paura e quindi per il fatto che, se c’è la paura e non ci dovrebbe essere paura, l’adeguamento…, ecco, in relazione a tutto questo, la questione della manipolazione del linguaggio posta da Armando De Armas, secondo lei, come la intende? Questa è la prima domanda, la seconda invece è: riflettevo quando parlavate di debellare e poi, appunto, la questione di come difendersi che è l’altra faccia di debellare e, di conseguenza, il reagire e via discorrendo. Tutti questi termini e in particolare, poi, la questione della guerra. Allora, riflettevo sul panorama politico attuale dove il nostro governo, e soprattutto quello dell’Unione Europea, proclama “non guerra”, ma bensì “missioni di pace”, allora, in relazione all’intervento di Armando De Armas, al contributo della sua conferenza a questo cambiamento di posizione può essere una manipolazione linguistica il fatto di considerare i vertici di pace, non come agenti in territorio straniero…
R. C. Ho inteso. Bene. Le questioni poste sono numerose e ne ho annotate sicuramente alcune e quindi nel prossimo incontro terremo conto di queste varie domande. Sono questioni interessantissime. È chiaro che ciascuno, nei prossimi giorni, può svolgere alcuni degli elementi proposti e altre cose, per intervenire, anche la settimana prossima, con proposte, domande, annotazioni. Insomma, la questione della parola è la questione dell’avvenire. La questione della parola è da instaurare, per ciascuno. L’era della parola è senza passato, è senza ritorno, è questo il bello, quindi è senza origine, è senza padronanza. L’era della parola trae ciascuno allo statuto che non c’è ancora, che non c’è già stato, trae all’avventura, trae all’impresa, trae alla scrittura, trae all’invenzione, trae all’audacia, trae al rischio, al piacere, trae al valore. Ma come per ciascuno può attuarsi questo itinerario, questo dispositivo, questo modo dell’era della parola? Questa è la scommessa intellettuale posta in gioco, questa è la direzione. È in questa direzione, quindi, che va la nostra scuola, importa questa nostra scuola. Alcuni elementi sono reperibili anche qui, per esempio, in questi testi che mi permetto di consigliare per leggere, per discutere, perché siano materiale per la scrittura, per procedere, per proseguire, per l’era della parola.
La scuola, l’intellettualità, il merito
Ruggero Chinaglia Veniamo da Bologna, dove abbiamo svolto un dibattito intorno a La nostra psicanalisi, il quinto numero della rivista “La cifrematica”. È un po’ il nostro breviario, per ciascuno. I vari numeri della rivista per ciascuno sono oggetto di consultazione non dico quotidiana, ma ora per ora. La nostra psicanalisi, il numero cinque della rivista, preceduto da altri quattro, e seguito poi dal sesto, per ora. Chi era a Bologna martedì sera sembra che non si sia pentito; chi non c’era sì, ha avuto dei pentimenti, però tardivi, come ogni pentimento. Quindi veniamo da Bologna e andiamo verso il decimo festival della modernità, La democrazia, che comincia giovedì prossimo alla Villa San Carlo Borromeo di Senago. Per questo, giovedì prossimo il laboratorio non si tiene qui, a Padova, perché si tiene a Senago, durante i lavori del festival. Ciascuno può regolarsi e attivarsi, organizzarsi e intervenire a questo festival che è un appuntamento straordinario a cui parteciperanno vari intellettuali da paesi differenti, dalla Cina, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’Iraq, dall’Afghanistan… Esponenti di varie dissidenze, occasione unica e irripetibile. D’altronde basta scorrere gli atti di alcuni dei festival precedenti per accorgersi come questi appuntamenti siano assolutamente straordinari. Quindi questo prossimo comincia giovedì 27 e si conclude domenica 30. Questa sera il titolo dell’incontro è noto a ciascuno, ciascuno si è informato per prepararsi, per intervenire, per dare un contributo. Chi ignora qual è il titolo di questa sera? Nessuno. Lei ignora? Ah, è la sola. Anche lei? Tutti gli altri sono al corrente, quindi. Ah, lei ride… Sembra saperla lunga. Lei è al corrente… che nessuno lo sa. Quindi non c’è chi legga i giornali, era riportato sul Mattino e anche sul Gazzettino, ma tanto è inutile perché nessuno va a vedere. Quindi sarà una sorpresa, la sorpresa di Natale. Allora, il titolo è questo, semplice semplice: La scuola, l’intellettualità, il merito. E io che auspicavo che vi foste preparati; adesso vi tocca prepararvi di corsa. Chi ha qualche domanda da formulare? Ah, lei, l’aveva preparata, quindi
Pubblico Giovedì scorso e anche negli incontri precedenti parlava di statistica, ma soprattutto giovedì scorso quando diceva che se ci fosse la parola non esisterebbero le guerre. Allora io ho trovato due aforismi. Il primo, che riguarda la statistica, è un discorso che ha fatto Jack Folla, non so se qualcuno di voi lo conosce. È un condannato a morte che è stato giustiziato nel 1999, un italiano, negli Stati Uniti. Lui ha tenuto una specie di seminario quotidiano, radiofonico, dove, negli ultimi 260 giorni che mancavano all’esecuzione esprimeva dei suoi concetti.
R.C. Questa era la fiction, quanto meno.
Pubblico Sì, dicono che sia stata tutta una farsa montata dalla Rai, che non sia mai esistito questo Jack Folla…
R.C. No, non una farsa, una fiction.
Pubblico Come tante cose, d’altra parte.
R.C. C’era un autore dei testi.
Pubblico Sì, esatto. Comunque, che sia vero o non vero, secondo me è molto sottile il libro, si chiama Alcatraz, di Cugia, che probabilmente è lo stesso autore dei testi
R.C. Alias Jack Folla
Pubblico Comunque secondo me ci azzecca quando dice che statistica è una parola eufemistica per dire che da solo non vali un cazzo ma tutti insieme facciamo un’opinione, e penso che qui sia sintetizzato molto bene. E dopo, per quanto riguarda la guerra, lei diceva che se ci fosse la parola non ci sarebbero le guerre, questo non so di chi sia, ma dice: “Combattere per la pace è come fottere per la verginità”.
R.C. Ah, ecco. Bè, questa è già più discutibile.
Pubblico Ma anche la prima è carina.
R.C. Sì, anche la prima è discutibile.
Pubblico Non so di chi sia quest’ultima, comunque si trova nel libro Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, quindi sarà di un comico…
R.C. Che sono due in questo caso. O due o tre.
Pubblico Esatto. Due e uno che è l’alter ego.
R.C. È la formula “combattere per la verginità” che è…
Pubblico No, dice “Combattere per la pace è come fottere per la verginità”.
R.C. Sì, in qualche modo dice “combattere per la verginità”.
Pubblico “Combattere per la pace è come fottere per la verginità”. Sì, oppure di “fottere per la pace”.
R.C. Sì, detto così sono concetti. Invece la verginità non è un concetto.
Pubblico No, però è vero che gli aforismi sono quelle bellissime cose che sintetizzano qualcosa che a certa gente non basterebbero mille pagine per dire.
R.C. Perché così enuncia ancora una concezione soggettiva delle cose, mentre la verginità è una virtù non soggettiva ma del tempo. Avremo modo di chiarirlo. D’altronde ci sono vari modi di combattere.
Pubblico Sì, però lei giustamente diceva che se ci fosse la parola sarebbe un combattimento un po’ diverso, sicuramente non fisico.
R.C. Esatto, c’è un’accezione di combattere che non comporta la guerra, non è cruento, ma comporta invece il dispositivo intellettuale. La battaglia intellettuale senza cruenza, e quindi un’accezione differente, non guerresca. Quindi combattere per la pace è molto meno paradossale di quello che sembri. Dipende dall’accezione di questi termini.
Pubblico Sì, certo. Probabilmente questo personaggio era molto distante dal concetto di parola.
R.C. Quindi, in qualche modo, ci approssimiamo alla questione del merito, per questa via. Ci sono altre domande?
Pubblico Riguarda più che altro quanto aveva detto la volta scorsa, delle considerazioni e una domanda: se c’è una differenza, e se c’è, quale, tra l’equivoco e il malinteso. Siccome la volta scorsa diceva che l’ossimoro è il modo del due, quindi della contradizione, e l’equivoco è il modo del tre, quindi mi stavo interrogando su questo. Contraddizione cioè può essere questo o quello, quindi modo del due, però equivoco, come modo del tre, vuol dire che può essere questo, quello e qualcos’altro? Perché pensando all’equivoco mi verrebbe in mente il malinteso, cioè cogliere che le cose non sono, o che non sono come crediamo che siano. Quindi mi chiedevo quale fosse la differenza tra equivoco e malinteso.
R.C. Esatto. E, giusto per accennare la risposta, cosa dice?
Pubblico Che sicuramente ha a che fare col dubbio, il dubbio che le cose non sono. Però non ho colto una differenza tra equivoco e malinteso, cioè pensando anche a quello che aveva detto riguardo al sistema, che l’uomo crea il sistema per fare in modo che le cose coincidano con l’idea delle cose.
R.C. La coincidenza… Quindi lei dice che l’equivoco sarebbe per evitare la coincidenza?
Pubblico Cioè che il sistema nega il malinteso, ho pensato io, proprio per tenere confermata la ripetizione. Nel senso che un’altra domanda che mi ero posta riguarda la ripetizione, che cosa fosse effettivamente la ripetizione, perché ho pensato che la ripetizione è la conferma che le cose “sono”, e quindi, ovviamente, nega il malinteso.
R.C. Bene. Quindi equivoco e malinteso, e perché si tratta della contraddizione del tre.
Pubblico No, perché appunto del due sarebbe la contraddizione, e del tre non so se è della contraddizione…
R.C. Contraddizione secondo il due e contraddizione secondo il tre. Ci sono due modi della contraddizione. Bene. C’è altro? Dietro di lei c’è un’altra mano.
Maria Antonietta Viero. A Bologna diceva qualcosa a proposito della crisi come istanza giovanile. A proposito di questo diceva che era importante introdurla come crisi costante. Chiedo: il costante che cosa ha a che fare con il ritmo, la continuità, o se invece è qualcosa di differente da questa irruzione del tempo. Cioè il modo costante che cosa ha a che fare con il tempo, anche nella sua differenza o vicinanza con la continuità, quindi il ritmo, continuità, costanza… Perché mi viene in mente che molte volte, in alcuni discorsi, c’è il tabù della costanza, perché sarebbe, per così dire, senza fine. La costanza potrebbe essere presa per qualcosa che non finisce, proprio per quello non si instaura un ritmo.
R.C. Perfetto. Bene. C’è un altro dito, poi un’altra mano, un mignolo, un’unghia…
Pubblico Volevo chiedere a proposito della crisi globale, economica di cui si parla anche nei giornali.
R.C. Globale o economica?
Pubblico Globale – economica, vedendola dal punto di vista economico.
R.C. Lei ha un punto di vista economico?
Pubblico Diciamo così, per il momento. Cosa succede quando calano i fatturati e tuttavia occorre far fronte a impegni presi in momenti più floridi, apparentemente più facili nel mercato, e quindi può subentrare il terrore o altre forme di paura, di panico. E quindi avviene una sorta di immobilismo e si instaura un’attesa, può succedere questo.
R.C. E lì allora la rovina è sicura.
Pubblico E cosa può intervenire invece per far sì che la molla si ripristini.
R.C. La molla?
Pubblico Sì, non so come chiamarla… Che il gioco riprenda. La fiducia, ecco.
R.C. Chiaro. Bella domanda. Altri? C’era qualcuno che aveva annunciato una questione, ma non c’è. Prego.
Lucio Panizzo Lei, l’altra volta aveva parlato anche della paura e aveva detto che la paura è senza la parola e la parola è senza la paura. Allora volevo chiedere se anche il significante restituzione, se la paura sia una rappresentazione, una parata contro la restituzione che la parola rilascia, perché senza la restituzione, la generosità, l’indulgenza, l’umiltà, non trovano una loro logica.
R.C. Eh, no… Le piacerebbe. Non c’è questo pericolo. Con o senza paura, la logica non dipende dalla restituzione. È il contrario. La logica non è sequestrabile, non è ricattabile, non dipende dall’esperienza. È l’esperienza che è secondo la logica, non viceversa. È per questo che la parola è originaria ma è secondo la logica. Quanto alla restituzione, qual è il dispositivo della restituzione? Non è che vada da sé o sia automatica. La restituzione esige un dispositivo specifico, che per ciascuno non è scontato. Certamente imprescindibile perché si instauri la qualità. Ma la generosità, l’indulgenza, l’immunità non dipendono dalla restituzione. È il contrario. Adesso vediamo più in dettaglio. C’era l’unghia dell’indice.
Cecilia Maurantonio Mi sono interrogata intorno alla differenza tra i termini “merito” e “valore”. Questa interrogazione sorge rispetto a ciò che incontro lavorando a scuola, per esempio. Allora, per esempio, c’è il ragazzo o la ragazza che studia sembra con facilità, costanza ritmo, imparando tutto ciò che viene assegnato da imparare, e ripete quanto è stato dato. E fatto anche bene, in modo corretto, c’è anche chi non riesce a farlo, quindi con vari interrogativi intorno alla famiglia, intorno alla salute, intorno a tante cose, o intorno alla voglia, alla volontà, eccetera. Però, intorno a questa discontinuità, irregolarità di percorso, nel caso in cui non c’è quanto viene richiesto dagli insegnanti per dare una valutazione apprezzabile, c’è qualcosa ogni tanto, ci sono dei punti astrusi che sono interessanti, non sono quantificabili, valutabili, e tuttavia hanno un valore perché si coglie che c’è qualcosa che esula, che ha più valore rispetto a quanto è impartito, è come se si trattasse di una proprietà. Qui non c’è chi possa attribuire il merito, e il valore non è visibile.
R.C. Bene. C’è un’altra domanda.
Gianfranco Dalle Fratte Lei ha detto, qualche anno fa, durante il corso La scienza nuova, che la malattia è sempre malattia mentale. Allora, la domanda è questa. Malattia mentale come idea della malattia mentale? Cioè, la malattia mentale esiste oppure c’è l’idea della malattia mentale? A me sembra che c’è l’idea della malattia mentale, la malattia mentale esiste come idea. Perché allora lei dice che quando si tratta di malattia si tratterebbe sempre di malattia mentale, che sarebbe l’idea che ne ha il soggetto? Chi non è soggetto non crede alla malattia mentale, e quindi non crede alla malattia? Grazie
R.C. Bene. Forse occorre precisare che la malattia, secondo la medicologia, è sempre malattia mentale. Così è più chiaro, no? Distinguo tra la medicina e la medicologia.
G.D.F Per medicologia intende il discorso medico?
R.C. Esatto.
G.D.F Per il discorso medico esiste la malattia mentale.
R.C. È sempre malattia mentale. La malattia è sempre malattia mentale. Soprattutto per il discorso medico.
G.D.F Anche psichiatrico.
R.C. No, no. Nella medicologia. Adesso vediamo di svolgere la cosa.
L’insegnamento e la formazione sono due aspetti della memoria come struttura e come esperienza originaria che si scrive. Nulla di statico, se la memoria esige di scriversi e non di venire rimemorata. Le cose della memoria si scrivono in direzione del modo gerundivo cioè del programma, dell’agenda, di ciò che occorre fare. Dunque è la struttura che insegna e non qualcuno: insegnante è la struttura temporale. La parola, nella sua procedura dall’oralità alla scrittura, alla cifra è esposta agli effetti del tempo che sono effetti strutturali. Come accade che quel che si dice incorra nell’equivoco, nel malinteso o nella menzogna? Menzogna in quanto menzogna strutturale, non il mentire come facoltà, menzogna come proprietà del significante che differisce da sé. Questa è la menzogna nella sua precisa accezione, come differente da sé; il significante è menzognero in quanto differente da se stesso, e questa differenza, questa equivocità risultano per sostituzione, per via quindi di metafora e di metonimia. Ciascuna metafora, ciascuna metonimia è il modo della sostituzione per cui un significante, un nome sta accanto a un altro significante, a un altro nome, e un nome sta accanto a un altro significante. Questa struttura in cui il nome e il significante stanno accanto, esige già il malinteso, è il modo del malinteso. Questo stare accanto è l’adiacenza che si situa nell’ intervallo tra la funzione di rimozione e la funzione di resistenza, nell’intervallo tra l’equivoco e la menzogna, dove appunto risiede il malinteso. Il malinteso è questa adiacenza data da un aspetto della funzione di Altro; quindi tre modi del funzionamento: la rimozione, la resistenza e la funzione di Altro. Per questa via, l’equivoco è il modo della contraddizione secondo il tre, dove cioè un nome sta accanto, funziona accanto a un significante, e un significante funziona accanto a un nome, e nome e significante funzionano accanto a Altro. Equivoco, menzogna, malinteso. Si tratta di qualcosa che risulta impensabile a chi tenta di riportare la parola a un sistema di segni, di significati, a un sistema binario, dove la prevedibilità, la calcolabilità possano consentire l’esercizio della padronanza sulla parola. Ma proprio questo modo del due e questo modo del tre impediscono l’esercizio della padronanza, comportano l’impossibilità di prevedere quel che si dice e quel che si dirà; esigono invece l’ascolto, la necessità di capire, di intendere ciascuna volta senza il riferimento a ciò che si è detto, a ciò che si è capito, a ciò che si è inteso, quindi senza il riferimento al passato o a un presunto fondamento del dire, dello scrivere, dell’oralità, della parola stessa. Parola senza fondamento, senza riferimento al passato, senza riferimento al precedente e senza riferimento al susseguente, parola senza cronologia, senza successione. L’idea della successione è l’idea stessa della genealogia, è l’idea stessa della morte, è quell’idea per cui ciascuno, o meglio ognuno, che si rappresenti soggetto, rappresenta la malattia come segno della sua appartenenza; e questo è il modo sancito, prescritto, codificato dalla medicologia sotto il nome di ereditarietà. Ognuno, anziché ereditiere della parola e della sua logica, come ereditiere dell’originario, si rappresenta invece come chi ha ereditato per esempio una tara, un male, un segno, ha ereditato il suo segno dell’origine. Questa fantasia di ereditarietà è chiaramente una superstizione e è ciò che impedisce a chi incappi in un contropiede, in un contrappasso, in un inghippo della rappresentazione, di stabilire il dispositivo della cura. Chi crede nell’ereditarietà certamente crede che questa certa malattia è inevitabile e dunque è incurabile; per questa via si affida allo stregone di turno, al medico non in quanto un elemento nel dispositivo della cura, ma al medico come soggetto che sa quale sia il destino, e questa è la prognosi; al medico che dunque sappia la diagnosi, di conseguenza faccia la prognosi e di conseguenza sappia indicare che cosa resta, nella specie di cosa resta da vivere. Ma la cura non è ciò che resta da vivere. La cura sta nel dispositivo che si tratta di instaurare innanzi tutto per capire, per intendere e fare quel che occorre fare in direzione della salute. Occorre innanzi tutto capire di cosa si tratta in quel che viene definito malattia. La malattia, in quanto forma del male, economia del male che diviene economia della morte, è per ogni soggetto ciò che consente la chiusura del cerchio dall’origine alla fine. E questa malattia che deve rappresentare la morte, che deve significare la morte, la mortalità del soggetto è la malattia mentale. In questo senso ogni malattia in quanto malattia mentale è incurabile e ha come sua guarigione la morte. Questa è la guarigione per la medicologia; già nella sua prescrizione costitutiva chiama guarigione la restitutio in pristinum, il ritorno allo stato di partenza, il ritorno all’origine. Ma il ritorno all’origine si compie con la chiusura del cerchio; quindi, l’unico vero ritorno all’origine è la morte che significa il ripristino, il ritorno, il compimento della circolarità. Non è questa la restituzione di cui si tratta per l’ereditiere, per chi non appartenga alla schiera dei mortali, ma si trova invece nel viaggio in direzione della qualità la cui istanza è la salute; la salute importa, non già la guarigione. La salute come istanza di qualità, la salute che esige, per la sua conquista, l’instaurazione di dispositivi intellettuali. Chi credesse nell’ereditarietà, come può instaurare con il medico, con se stesso, con chi occorre che intervenga nel caso in questione, un dispositivo in direzione della salute? Si troverebbe a dover accettare il fatalismo, le superstizioni, la prescrizione alla morte propria di ciascuna logìa. In fin dei conti il motto più comune reperibile tra i medicologi è che di qualcosa bisogna pur morire, quindi si tratta solo eventualmente di durare il più a lungo possibile e la vita viene misurata secondo la durata ossia secondo l’idea di fine. La durata della vita è l’idea della fine della vita che viene applicata alla vita così come a ciascuna cosa quando intervenga la preoccupazione della durata. Quanto dura la cura? Quanto dura il lavoro? E lo studio, quanto durerà? È l’idea stessa di morte. Come opera il fantasma di morte caso per caso? È questo che non è vietato indagare, è questo che comporta, in molti casi, inciampi, inghippi, contropiedi, contrappassi, più comunemente riassunti dal termine malattia, malanno, disturbo. Malattia di cui il discorso medico tenta di fare l’elenco rispetto a cui poter vantare una casistica, ma a che pro? Per poter stabilire la diagnosi, la prognosi e la terapia su base statistica, sulla base di una letteratura nel merito, sulla base quindi di una presunta appartenenza di ogni malato alla malattia. Quindi non si tratta più di capire, intendere, indagare sul caso in questione, ma sulla malattia rappresentata statisticamente. Ognuno che si ammala è un caso di malattia, di quella malattia. Si tratta di applicare i criteri della malattia, le conoscenze sulla malattia, la statistica sulla malattia, ma in che modo il caso in questione si combina con la malattia? Quali sono le specificità, quali sono le caratteristiche, qual è la combinatoria, quali sono le combinazioni? In che modo dunque entrano nella questione il modo del due e il modo del tre a indicare la particolarità e la specificità di quel caso? Lì dove il principio è il principio di malattia e non il principio della parola, la particolarità e la specificità sono completamente trascurate. Questa è la medicologia, ossia il discorso sul male dell’Altro, dunque la malattia dell’Altro come malattia mentale. Questo è il sistema, è il modo cosiddetto scientifico nel sistema chiuso, nel luogo dove tutti e tutte le cose stanno insieme, dove importa l’idea di inizio, l’idea di fine, l’idea di origine e l’idea di morte e dove queste idee di origine e di fine possono seguire un’algebra e una geometria, dentro un sistema binario. Questo sistema binario che governa la maggioranza del pianeta nei secoli, ogni tanto è incrinato dall’irruzione del tempo, e questa è la crisi, ossia il tempo irrompe nel sistema: allora il sistema non c’è più, è incrinato dalla crisi. Uno squarcio, nulla da temere, ci sono delle chances. Certo non per chi rimpiange il sistema, non per chi ritiene di doversi riparare nel sistema, non per chi fa del sistema il suo apparato morfologico-dinamico di riferimento e che dunque si inscrive in una genealogia e nella superstizione e che a questa genealogia fa seguire il destino assegnato. Nulla di negativo dunque nella crisi, e tanto più è estesa, tanto più dilagante, tanto più debordante nei diversi settori, tanto più indica che ci sono delle chances di novità, di invenzione, di variazione. Si tratta di cogliere queste opportunità, di non stare lì a contemplare, a rimpiangere il sistema che non c’è più, ma di orientarsi nella direzione che la crisi indica, occorre leggere la crisi. Per chi legge nelle cose e quindi in ciò che accade, la crisi non è del tutto una sorpresa: gli indizi della crisi qua e là c’erano. Per chi non ha bisogno di ripararsi dal tempo, la crisi è persistente. L’antidoto all’irruzione della crisi è l’abitudine. Chi si trincera nelle abitudini chiaramente è sorpreso dalla crisi e è assolutamente contrario a ogni crisi perché mina l’abitudine. L’abitudine è l’abito del sistema, è − per così dire − la camicia di Nesso applicata al sistema, quella camicia che vorrebbe imbrigliare il tempo. La camicia di forza, la camicia sulla forza. Allora dicevamo che la crisi possiamo chiamarla anche una virtù della gioventù, un’istanza della gioventù. Ovviamente si parla di crisi dell’adolescenza, adolescenza come momento di crisi, proprio perché l’adolescenza comporta l’istanza della crescita, l’autorità e la crescita, l’aumento imprevedibile, irrefrenabile; niente di male dunque nella crisi, che comporta per ciascuno l’adolescenza, dunque la costanza dell’aumento, della crescita, della sostituzione per via di equivoco. Comporta dunque la trasformazione del mercato, questa crisi, su questo versante, e se calano i fatturati non è per via della crisi, ma del sistema, dell’idea di sistema, applicato a ciò che si fa. La crisi è favorevole ai fatturati, con la crisi i fatturati aumentano, certo se non si instaura l’abitudine, il meccanicismo, il fatalismo dell’atto, il meccanicismo dell’atto, l’idea di poter fare oggi e rifare domani, l’idea quindi di un ritorno, di una ripetizione delle cose, ripetizione come ritorno, perché la ripetizione originaria è senza ritorno, e è ciò per cui il significante rilascia una lettera che nella sua insistenza non è mai la stessa lettera, è sempre una lettera differente. Dunque dicevamo la restituzione da parte dell’ereditiere. E che cosa può venire restituito? Per ciascuno si tratta di restituire gli elementi intellettuali in termini di qualità, perché questa restituzione comporta la qualificazione stessa del proprio viaggio, della vita. Allora, la restituzione esige intanto l’intellettualità, la dissipazione di ogni idea di sostanza, di fondamento, di appartenenza, la dissipazione della superstizione, della soggettività. Esige la generosità, l’indulgenza, l’immunità. Esige le virtù del tempo e le virtù della parola, in particolare ciò che sta nel principio della parola come principio originario; la libertà, la leggerezza, l’aria, l’anoressia come anoressia intellettuale, la tentazione intellettuale con l’anoressia, che mai può divenire così anoressia mentale, che è sempre il modo di inscrivere il segno della propria genealogia per esempio in ciò che viene ritenuto il pasto di amore o il pasto di odio, cioè in una rappresentazione dell’amore e dell’odio come cannibalismo. La generosità è una virtù dell’Altro per cui non c’è cosa che sia gravata dal peso, che sia significata da un segno positivo o negativo che sia anteposto o posposto. Nulla e nessuno sono significati, nulla e nessuno sono rappresentati. Nulla e nessuno “è”. Nulla e nessuno può venire classificato, catalogato o venire inscritto in qualche catalogo per la rappresentazione che sta facendo, dicendo, per la soggettività che sta magari transitoriamente proponendo. Questa la generosità, essenziale all’accoglimento della domanda. Generosità senza diagnosi, senza psicopatologia di riferimento. Generosità che comporta quindi che ciascuna cosa venga indagata per il contesto, per il suo testo, testo di cui occorre fare la restituzione in termini di qualità. Questo è il modo della clinica, il modo della cifrematica, che esige la generosità originaria, e dunque per questa via non c’è più idea di durata, non c’è più idea di fine, non c’è più idea di genealogia, non c’è più nemmeno malattia come modo di incasellamento, come modo di inscrizione in un elenco dei mali dell’Altro. Questo non vuol dire che non possano accadere contrappassi, contropiedi, ma non come mali dell’Altro e quindi in ciascun caso si tratta di capire, intendere, attuare un dispositivo di cura, attuare un dispositivo con chi è incorso in queste rappresentazioni del male. La cura non è standard, non può essere standard, la clinica non è standard, la vita non è standard. La nozione di ascolto che implica questa dissipazione del riferimento allo standard è chiaro che è inaccettabile per gli apparati medicologici e disciplinari in genere, psicologici, sociologici, filosofici, dove viga l’idea di un sapere da trasmettere, un sapere sull’Altro, un sapere sul suo bene e sul suo male. Posta la questione dell’intellettualità, che va dall’analisi come preambolo per cui si dissipa il riferimento alla sostanza, all’idea di soggettività, all’idea di mortalità, fino alla qualificazione di ciascuna cosa, fino all’instaurazione di dispositivi di valorizzazione delle cose che intervengono lungo l’itinerario, accanto, senza esclusione, senza contrapposizione, senza alternativa, ma accanto, allora qual è il merito, per la scuola? Di che si tratta quanto al merito, qual è il merito di ciascuno? Dicono che la nuova riforma abbia reintrodotto il merito nelle scuole. Di quale merito si tratterebbe? Chi ha merito? Chi ha i meriti? È la scuola secondo il merito o il merito secondo la scuola? Che cosa si merita ognuno? Dice qualcuno che alla fine ognuno riceverà secondo i meriti. E che cosa riceverà? Il premio o la punizione. Si sarà meritato il premio o la punizione. La meritocrazia. Anticamente cos’era il merito? Era la ricompensa del soldato, la ricompensa per aver servito l’esercito, il guadagno, il salario. Meritare: fare per soldi; il meretricio: la meretrice fa per soldi, per guadagnare, senza dunque la soddisfazione. Questa è la condizione del merito: avere la ricompensa che possa valere la soddisfazione. I soldi come ricompensa, la ricompensa come soddisfazione, dunque senza soddisfazione. L’accordo sul merito è l’accordo sull’espunzione della soddisfazione. Questo è il meretricio nella sua convenzione. Dunque servire, servire Dio, servire il popolo, servire la patria, servire l’esercito, servire a fine di ricompensa, a fine di bene, a fine di male. Benemerito, malemerito, ma dunque questo merito parte dall’idea di fine; il merito avrà la sua ricompensa a cose fatte, a cose finite. Così come il professore emerito, colui che ha servito, colui che ha insegnato, colui che non lo fa più, che ha finito di insegnare, quindi emerito. Questo è il merito secondo l’idea distributiva, secondo la nozione di circolazione. Il merito senza indulgenza, senza generosità, senza il tempo. Perché può darsi anche un’altra accezione di merito, quel merito che non preveda né la ricompensa né la pena. Quel merito che trova il suo statuto non nella ricompensa, non nel premio o nella pena, ma nella perennità, nella persistenza, il merito quindi come persistenza in direzione della soddisfazione. Indulgenza. Di cosa si tratta nell’indulgenza? Che non c’è più pena, non c’è più il sistema del premio o della pena, il sistema dell’alternativa applicata alle cose secondo il criterio del bene o del male. L’indulgenza esige la logica della nominazione: nulla è ontologico, nulla è già dato, nulla è già assegnato ma ciascuna cosa entra nel merito linguistico, il merito che comporta come le cose si dicono, come si scrivono, dove si scrivono, come si combinano, qual è la combinazione, qual è la combinatoria. Il merito a cui risultano essenziali l’arbitrarietà e il disagio, non il premio o la pena secondo la convenzione, secondo l’abitudine, secondo il sistema ma il merito secondo l’arbitrarietà e il disagio. Allora, per via di questo merito, può instaurarsi il dispositivo clinico, il dispositivo pragmatico, il dispositivo cifratico.
Ma capisco che queste sono cose noiose, noiosissime, cose un po’ trite e ritrite anche, cose che fanno venire un po’ la noia, sonno, molto sonno, no?
Pubblico Stasera non tanto
R.C. Ma guarda… Perché il colpo di sonno è il colpo di diagnosi. Non crede? Ne parleremo.
Pubblico Su quello che ha detto ultimamente, mi sembra di capire che se tizio si comporta bene… Sul comportamento.
R.C. Io non ho parlato di comportamento.
G.D.F No, lo dico io. Mi sembra che comunque, da quello che lei dice, ci sarebbe un male da sanare, e quindi un medicamento, e quindi un trattamento. È evidente. In quello che lei ha detto si legge questo.
R.C. Infatti, io parlo di cura e non di trattamento.
G.D.F. E poi, lei non ha parlato di comportamento, ma comunque insinuava che c’era la questione morale; cioè se ti comporti bene…
R.C. Esatto, quell’accezione di merito che dicevamo prima è un’accezione morale. Qui poi noi però abbiamo anche accostato un’accezione non morale ma cifrale.
G.D.F. Mi sembra che sia il discorso della psicologia. Comportamento come il modo corretto di comportarsi, e quindi se c’è qualcosa di anomalo si tratta di correggere l’anomalia.
R.C. E questa istanza di correzione dell’anomalia si chiama psicopatologia.
G.D.F. Della vita quotidiana.
R.C. Anche non quotidiana. Quello era un titolo di Freud, purtroppo c’è invece un criterio della psicopatologia che non riguarda Freud ma che è applicato da chi crede nel soggetto e si trova in vari apparati. Bene. C’è un’altra… Addirittura due braccia levate al cielo!
Pubblico Secondo lei, in base a quello che ho cercato di capire, non è possibile cercare o creare la propria liberazione per il tramite di spossanti dialettiche tra soggetto e oggetto.
R.C. No.
Pubblico Anche perché, poi, l’esperienza da cui si parte è sempre quella dello sradicamento, secondo me, dove l’individuazione e il suo potere passa attraverso la sopraffazione.
R.C. Ecco, questa dello sradicamento è una questione interessantissima. La riprendiamo non la prossima settimana, in cui teniamo il laboratorio al festival La democrazia, ma la successiva. La questione dello sradicamento e quindi quali radici. Quali sono le radici? Perché lo sradicamento comporta che vi siano delle radici, che vi sia un terreno e che queste radici vengano asportate. Poi c’era ancora Elio.
Elio Questo intervento era per dire una mia impressione. Mi riferisco alla filosofia di Emmanuel Levinas, e mi sembra che molto spesso, anche se ho letto poco di questo filosofo, che ci sia una continuità fra cifrematica e quello che propone con la sua filosofia. È vero che capisco poco e della cifrematica e del filosofo francese, però chiedevo a lei se è un discorso che regge, non che sia lo stesso discorso che fa la cifrematica, ma insomma non sono incompatibili. Quindi vorrei dire che la cifrematica sconfina nella filosofia e Levinas è un cifrematico senza saperlo.
R.C. Quindi lei dice che o la cifrematica non esiste perché è una sezione della filosofia, o Levinas non è un filosofo perché sfocia nella cifrematica.
Elio Comunque dovrei studiarlo meglio.
R.C. Ecco, provi a leggerlo senza studiarlo. Provi a leggere il testo. Perché qui non si tratta di Levinas come uomo, ma del suo testo. Il testo è fatto di parole, frasi… Non è una totalità, il testo, è per questo che si può leggere. Se fosse una totalità sarebbe illeggibile. È per questo che chi considera il testo una totalità non lo legge, non giunge alla lettura. Ma qual è il modo migliore per giungere a leggere il testo di Levinas? Avvalendosi degli strumenti che ciascun volume di questa rivista costituisce. Se lei giunge a Levinas attraverso questa collana, lei riesce a leggere Levinas, a capire Levinas, il suo testo e anche il testo della cifrematica. Non è invece garantito che ottenga lo stesso risultato facendo all’inverso. C’era un’altra mano alzata.
Pubblico Mi pare di aver capito che chi crede nell’ereditarietà, crede che la malattia sia inevitabile, la malattia genealogica, cioè, eredita una malattia, può ereditarla dai genitori, dai nonni…
R.C. È questa la nozione, il concetto diffuso: ognuno, nascendo, eredita. Cosa eredita, soprattutto? Le malattie. La malattia o le malattie, malattie ereditarie. E perché sono ereditarie? Perché sono il segno di appartenenza alla famiglia, il segno genealogico.
Pubblico Però non tutti le scoprono da grandi, da soggetti appartenenti a un club; tanti neonati quando nascono gli trovano queste malattie ereditate dai genitori o dai nonni. Quindi noi nasciamo già credendo nell’appartenere a una genealogia? Cioè nasciamo già soggetti e dobbiamo fare dopo lo sforzo… Cioè non riesco a capire come ne viene implicato anche uno che è appena nato.
R.C. Occorre distinguere la combinatoria dal fantasma di genealogia. Una combinatoria è arbitraria, il fantasma di genealogia no, è fatalistico. Noi non neghiamo nulla, accogliamo ciascuna cosa. Non come segno del destino, non come segno fatalistico, non come dono di dio, non come segno di qualcosa. Se lo accogliamo secondo la generosità, l’indulgenza, l’immunità, quindi secondo la combinatoria noi possiamo indagare questa cosa e coglierne gli aspetti vari e anche stabilire come fare. Se invece la inscriviamo in una superstizione e quindi come segno fatalistico, questa cosa risulta un macigno, risulta un segno, è qualcosa che dirige e orienta la vita in termini di maleficio. La questione è intellettuale. Non è morale, non è filosofica, non è medicologica. È intellettuale.
Pubblico Quindi può essere che a esempio un neonato a cui si trova una malattia cosiddetta genetica, sia una combinatoria a cui i medici hanno dato questo nome di malattia genetica, però poi magari ha un altro valore. Quindi si può mettere in discussione questa etichetta.
R.C. L’etichetta certamente.
Pubblico Cioè la genetica è stata una etichetta che è stata messa a una determinata combinatoria, come fanno con le malattie…
R.C. Occorre mettere in questione il pregiudizio.
Pubblico Poi lei ha detto che per il merito si può instaurare il dispositivo clinico. Io ho ancora qualche problema con la cronologia. Quindi il merito non viene dal dispositivo clinico. Cioè, permette l’instaurarsi del dispositivo clinico.
R.C. Il merito linguistico. Per questa via può giungere a instaurarsi il dispositivo clinico. Il dispositivo clinico esige il merito linguistico. Possiamo dire così, in maniera forse più semplice.
Pubblico Però non viene prima il merito e poi… cioè non c’è cronologia.
R.C. Non c’è cronologia ma simultaneità. Bene, allora giunti a questo punto ci diamo appuntamento qui tra quindici giorni, per chi invece interviene al festival La democrazia l’appuntamento è giovedì prossimo.
La democrazia
Ruggero Chinaglia Ci sono domande? C’è vita? C’è chi sia in vita? Due mani si sono alzate. Magari c’è qualcuno che resuscita! Prego.
Maria Antonietta Viero Volevo chiedere se il dono o il premio possono costituire o trovarsi come forme algebriche del debito e se partecipano, e come, alla questione della gratuità.
R.C. Bene, grazie.
Pubblico Ci siamo visti due settimana fa, perché l’altra settimana non sono potuto venire.
R.C. Non è venuto?
Pubblico No, e siccome eravamo rimasti d’accordo, si ricorda l’ultima volta che ci siamo lasciati?
R.C. Lasciati?
Pubblico E volevo riprendere il discorso che avevamo lasciato, e allora stanotte, siccome non riuscivo a dormire, ho scritto due cazzate.
R.C. Dopo che ha scritto queste cose s’è addormentato?
Pubblico Dopo ho chiamato l’ambulanza!
R.C. E si è addormentato?
Pubblico No, ho dormito poco.
R.C. Forse perché c’erano altre cose!
Pubblico M’interessa il tema della follia e della pazzia. Il titolo, Il folle e il pazzo, una conversazione a cui mi piacerebbe assistere. Di solito per follia s’intende ciò che si sottrae a un ragionevole controllo. Credo che la follia sia l’estrema “godezza” dei sensi. Godezza tra virgolette. Sto leggendo un libro, Tutto quello che sai è falso, forse lo conoscerà, un manuale dei segreti e delle bugie, potete trovarlo nel sito disinfo.com. Ci sono citazioni, frasi, aforismi e altro. Una frase: “La follia non è illuminazione, ma la ricerca dell’illuminazione può essere scambiata per follia”. E qui a momenti mi crolla un mito, Rimbaud, ma non si può fare di tutt’un’erba un fascio, l’erba è bella, spesso verde, l’erba è buona e sono uno di quelli favorevoli alla somministrazione dell’erba droga a fini terapeutici; e poi i fasci li odio. Gli psicofarmaci non sono forse droghe? E l’alcol? Eppure c’è un meccanismo di ritorno che si chiama guadagno o speculazione. E chi l’ha ostentato e chi lo ostenta lo rende socialmente accettabile, la grande scusa. L’alcol è legale solo perché è quasi impossibile trasportarlo illegalmente, questione di volume, e poi i danni che esso provoca e che si tenta di arginare con le cure, sono irrilevanti. C’è più guadagno sulla vendita che sulla cura, sulla guarigione. E poi l’alcolismo non è una malattia, nessuna droga è malattia, è una condizione, uno stile di vita a volte un concetto. E i farmaci? I giochetti delle case farmaceutiche? La droga illegale è invece facile da trasportare clandestinamente e è questa la convenienza per tutti. Lo stato sfrutta l’alcol con il francobollo, il monopolio e al diavolo il discorso socioculturale. L’alcol è sempre esistito: i greci, i romani, Cristo, ma anche le droghe. Chi fa i moralismi di circostanza, come l’associazione cattolica, e io sono cattolico, vorrebbe la droga al patibolo, ma non la loro, quella degli altri. E con il boia mascherato, incappucciato, ovviamente. La psichiatria ― che reato, cazzo! ―, la vorrei al patibolo e non sono moralista. E il boia senza cappuccio, ma con la maschera del clown. E tutto questo potrebbe comodamene passare come malattia mentale, dipende dalla posta in gioco. La benevolenza del trattamento obbligatorio è una trappola: fino a che punto lo stato può ordinare il trattamento nello stesso modo in cui procura i pazienti? La gente teme le risposte. La malattia mentale rappresenta per la psichiatria ciò che l’alchimia rappresentava per la chimica. Stabilire che la psichiatria è una scienza della natura, del comportamento umano, è stabilire che la malattia mentale non esiste. Questo è pazzo direbbero alcuni. Ma la […] è una scusa, usiamo la parola e la scrittura. La parola è fatta di suoni e di silenzi, come la musica, e i suoni e i silenzi sono la punteggiatura. Ma c’è una differenza fondamentale tra scrittura e parola. La scrittura è più ragionata, meno improvvisata, si passa avanti e indietro, la si può correggere, senza che nessuno possa notare la correzione. Sembrerebbe quindi più sciolta, più lineare dell’uso della parola. Ma la scrittura proprio perché prevede la correzione tecnica e non l’improvvisazione, è molto […], questo è il suo grande svantaggio. La parola è anche mimica, uno spettacolo live.
Parliamo di queste scritture, di queste frasi. Uno: nessuno arrossisce al buio; due: nessuno è ateo in trincea; tre: nella vita come nel tram quando ti siedi sei al capolinea; quattro: il cuore è come una puttana, quando smette di battere è finita. Potrebbero farmi un TSO. Come dicevo, la gente teme le risposte, la gente arriva dove la porti. Basta.
R.C. Altri? Altre domande? Altre annotazioni? Intanto è uscito un altro volume della collana “La cifrematica”, che s’intitola La follia, la pazzia, la clinica, con contributi veramente rilevanti. Dire che sia il caso di leggerlo è ancora poco. È ancora poco, ma voi potete anche farlo, anche per tenere conto di alcune differenze che contrassegnano questa rivista, i suoi testi, i contributi, le proposte che vi sono contenute, da quelle per esempio di altri libri, pur recenti, che sono usciti in questo periodo nell’ambito di quella che viene chiamata letteratura psicanalitica. Questo è uno dei tanti. Si intitola Civiltà e disagio: forme contemporanee della psicopatologia. Contiene testi di alcuni cosiddetti psicanalisti, cosiddetti lacaniani, e è considerevole la distanza dal testo di Lacan.
Alla punta delle pubblicazioni psicanalitiche contemporanee questa illustra le “forme contemporanee della psicopatologia”! Quando Freud ha scritto Psicopatologia della vita quotidiana, era qualche secolo fa, si riferiva alla psicopatologia in modo ironico, parlava in realtà di lapsus, di sbadataggini, di motti di spirito, di questioni linguistiche che nella loro formulazione ponevano una questione di contraddizione: contraddizione diadica, contraddizione sintattica, rispetto all’intenzione, rispetto a ciò che si diceva. Forniva esempi di questa contraddizione, modi della psicopatologia della vita quotidiana rivolti all’ascolto della lingua e del modo della lingua. Qui c’è chi ha trovato l’esigenza di dedicare un libro alle forme contemporanee della psicopatologia! Per via del cambiamento di segno dell’imperativo sostenuto dal super-io sociale ― non abbiamo trovato riferimento, nei testi di Freud e Lacan, al super-io sociale ― …super-io sociale contemporaneo rispetto a quello freudiano, e la diffusione epidemica ― c’è un’epidemia nel pianeta! ― …di tali forme del disagio psichico. ― Disagio psichico, cioè malattia, il disagio è diventato malattia, l’ispirazione alla psicopatologia comporta che il disagio è diventato malattia! ―
La diffusione epidemica del disagio rileva un declino della clinica classica delle nevrosi, un declino a partire dal quale Freud aveva edificato la dottrina psicanalitica, in quella clinica ― nella clinica edificata da Freud, in primo piano c’era la funzione costituente della rimozione, dell’inconscio, del sogno, atti mancati, c’erano questi aspetti in quella clinica lì ― …che vengono considerati ritorni cifrati del desiderio di morte. Invece l’attualità esige riferimenti alla psicosi, alla personalità borderline, alle perversioni, ai così detti disturbi post-traumatici, agli attacchi di panico, alle dipendenze, alle tossicomanie, alle anoressie; l’attuale esige l’adozione della terminologia psichiatrica. Eh, è questo il grande avanzamento! Grazie a cui c’è l’epidemia del disagio! Queste sarebbero le testimonianze della “psicoanalisi contemporanea”, testimonianze dell’applicazione psichiatrica al disagio, ossia l’etichettatura. Ascolto? Macché! Esplorazione, indagine? Macché! Etichettatura! Applicazione di una classificazione.
In questo volume, che pur esplora la questione, La follia, la pazzia, la clinica, troviamo come ouverture, queste annotazioni: Chi Leonardo da Vinci chiama pazzo? Chi è pazzo nel testo di Machiavelli e chi è pazzo nel testo di Ludovico Ariosto? È pazzo tutto ciò che nega la vita originaria, le sue proprietà, le sue virtù? In che modo il discorso occidentale è pazzo? In che modo si frappone alla libertà, al diritto dell’Altro o alla giustizia come modo d’intervento dello specchio, dello sguardo e della voce rispetto al viaggio? La clinica non ha luogo. La mitologia medica e psichiatrica istituisce il luogo della clinica, attribuendo la piega all’uno. Ma la piega segue al tempo e all’Altro. Il concetto di nevrosi e di psicosi, come la loro distinzione, sono ideologici. Il ‘discorso scientifico’, psichiatrico e medico, ha secolarizzato e laicizzato il discorso demonologico. La demarcazione stessa tra psicosi e nevrosi ripercuote la demarcazione fra esorcismo e confessione. Al posto dell’esorcismo, viene operato un intervento coercitivo, che va dalla camicia di forza all’elettrochoc, alla camera a gas, allo psicofarmaco. Al posto della confessione, si stabilisce la gamma variegata della psicoterapia. Una certa psicoterapia viene ritenuta possibile anche come sussidiaria della farmacologia. Psicosi e nevrosi a seconda della scala della gravità del male? Che cosa la mitologia medica e psichiatrica chiama psicosi? Qual è il disturbo assoluto per tale mitologia? È la materia! La materia della parola, irriducibile al concetto, alla convenzione, al naturale, al codice.
È un altro orizzonte. Da una parte abbiamo il realismo, rispetto a cui si tratta di purificare l’ambiente, purificare il soggetto, togliere i disturbi, classificare i disturbi, dall’altra abbiamo un modo della generosità che accoglie la domanda di ciascuno, quale sia il modo con cui viene formulata e propone dispositivi per capire. Da una parte abbiamo già capito tutto, c’è l’epidemia, la pandemia che esige l’aggiornamento della classificazione. Dall’altra abbiamo un’interrogazione, dove si dice la demarcazione è questa: il postulato impossibile “io so, io non so” assegna il soggetto alla biografia. Il soggetto è già istituito e viene assegnato alla biografia. È la demarcazione tra l’anoressia intellettuale e l’anoressia mentale. Il postulato impossibile inaugura l’anoressia mentale nella repubblica occidentale: lasciarsi, lasciarsi andare, pensarsi, presumersi. La presunzione sta alla base di ogni assunzione di ciò che si percepisce come negatività. Il postulato impossibile “io so, io non so”, sancisce il discorso come causa, toglie alla biografia le virtù del principio della parola, cioè la leggerezza, la libertà, l’arbitrarietà, la tentazione, l’intellettualità, l’integrità, che non è mai territoriale. La biografia senza fantasma materno e senza postulato che lo consacri sta nella pagina nuova, la cui virtù principale è l’anoressia intellettuale. Con questa virtù non c’è chi possa farsi carico del negativo, non c’è chi possa enunciare “io so, io non so”, “io so di me, io so di te, io so dell’Altro”, e tantomeno “io sono, io non sono”, “io ho, io non ho”, e neppure “io vedo, io non vedo”. La psicanalisi senza la questione intellettuale non esiste. Diventa un modo umano della psichiatria. Il modo umano della psichiatria è il modo democratico della psichiatria, e, non a caso, Psichiatria democratica è stata una delle correnti che ha propugnato l’umanizzazione della psichiatria, cioè la condanna di ogni soggetto a meritarsela!
Come notava giustamente il nostro amico, la settimana scorsa eravamo al decimo festival della modernità dal titolo La democrazia. È stata un’occasione molto interessante per ascoltare le testimonianze di intellettuali di vari paesi, dissidenti, scrittori, filosofi, politici; dall’Italia, dalla Francia, dalla Russia, dalla Cina, dall’Iran, ciascuno con un contributo alla nozione di democrazia.
Democrazia è un termine che risulta impiegato oramai da ogni settore, ma che cosa viene inteso per democrazia? Qual è l’ipotesi democratica? Che cosa viene inteso, che cosa viene proposto quando il politico, lo psichiatra, il giudice, propone il metodo democratico?
Democrazia sociale, democrazia magistrale, democrazia psichiatrica, magistratura democratica, metodo democratico. Alcuni intendono per democrazia libertà, altri intendono uguaglianza, altri parità sociale, altri equità, altri intendono il potere del popolo, secondo l’etimo. Ma di che cosa si tratterebbe in questo potere e in questo popolo? Da chi sarebbe costituito il popolo? Chi è il popolo? Quale popolo? In molti casi per democrazia viene inteso il consenso. Il metodo democratico sarebbe il metodo che accoglie il consenso. Il consenso di chi? Di molti, della maggioranza. Ma bisognerebbe che fosse il consenso tutti. Ma, come notava già Erodoto, il modo della democrazia è il modo della maggioranza, ma questa maggioranza ha come ideale quella di divenire la totalità. Democraticamente! Con il consenso di tutti! Perché, notava Erodoto, en tò pollò estì tà pànta nel molto, nella maggioranza, ci sta ogni cosa, ci sta il tutto. È curioso, no? La maggioranza si prende tutto! E questo è il modo democratico! Ma il ciascuno? Chi si occupa del ciascuno? Il ciascuno sta nella maggioranza, deve stare nella maggioranza? E se stesse nella minoranza? Qual è il diritto di ciascuno se la democrazia si occupa del diritto della maggioranza? Anche la minoranza ha il suo diritto! Allora c’è il conflitto tra il diritto della maggioranza e il diritto della minoranza. Ma questo conflitto vale per assicurare il diritto di ciascuno?
Allora la psicopatologia. Qual è il criterio della psicopatologia? È il criterio della maggioranza! La maggioranza è normale e la minoranza è psicopatologicamente affetta da disturbi che la relegano nella minoranza: il disturbato, il minorato, il diverso. Come può la maggioranza tollerare il disturbo, la diversità della minoranza? La storia ci dice che questa diversità è risultata intollerabile. Dalla Nave dei folli agli ospedali psichiatrici, agli asili, alle varie forme di reclusione, di circoscrizione della differenza, la storia dice che la maggioranza non tollera la minoranza. Allora, questa democrazia è una democrazia intollerante, il discorso occidentale, che è il discorso sorto in nome della democrazia, è il discorso della maggioranza, è il discorso dominante. Che ne è del caso di ciascuno nel discorso dominante? La scuola può seguire il criterio democratico per assicurare a ciascuno il suo corso? Non diciamo il corso di studi, ma il corso di ciascuno; e occorre anche precisare in merito a che cosa.
Il riferimento della democrazia è il sistema. Una democrazia senza sistema non ha la maggioranza. Nell’infinito non c’è la maggioranza o la minoranza, il più e il meno, il più grande il più piccolo, la nozione di maggioranza o di minoranza hanno una loro ragion d’essere in un sistema finito, contabile, nel sistema della contabilità. In questo sistema la caratteristica qual è? Tutti sono uguali! Quindi ci sono i tutti. Chi sono questi tutti? I sudditi appartenenti al popolo eletto. Eletto o eleggibile. Il popolo, il polo democratico è il popolo eletto, che troviamo non solo in Israele, ma anche nelle democrazie occidentali. Il popolo eletto, ossia il popolo come ciò che rappresenta il plurale dell’uno, la clonazione dell’uno. Il suddito è la figura dell’uno che si divide in due e, lungo questa divisione, abbiamo il popolo. Il popolo tutto. Ma che ne è del popolo se giunge il pleonasmo, il di più, a rompere la totalità, en tò pollò estì tà pànta? Nel più non c’è più la totalità. Il più di uno dissipa la totalità. Il tutto non evita il pleonasmo, quel che si aggiunge, e quel che si aggiunge squarcia la totalità. Tutto ciò sta nella proposta della democrazia, ma chi enuncia l’ideale democratico, come si accorge del paradosso della democrazia come paradosso dell’uguaglianza, come paradosso della totalità? Occorre inventare un’altra nozione di democrazia, senza riferimento al suo etimo, senza riferimento all’ideale del discorso occidentale, ma che tenga conto della questione intellettuale, che tenga conto che la questione intellettuale non procede dall’appartenenza a un genere o a una comunità, ma procede dalla parola, non dal soggetto, ma dalla parola, dalla parola originaria, dalla sua dissidenza e dal suo modo.
Una delle caratteristiche, degli assunti dell’ideale democratico è il consenso, la condivisione. Ma l’idea di condivisione procede dall’idea di totalità, non dalla nozione di ciascuno, non dal diritto dell’Altro, ma dall’idea di qualcosa di ripetibile, di uguale, di condivisibile, che marchi un’appartenenza a qualcosa di comune, a qualcosa di generico, a qualcosa che è meramente ideale, a qualcosa che, in realtà, consenta il fronteggiamento. Il modo democratico è il modo dell’affrontamento. Noi e voi. Noi la maggioranza voi la minoranza.
Idealmente, noi e voi saremmo la totalità, ma il pleonasmo lo impedisce, perché la totalità, l’unità, l’unificazione è un’idea di ritorno, è un’idea di morte, è un’idea di fine. La totalità è finita, la totalità sarebbe senza il pleonasmo, senza la crescita, senza l’autorità. Che cosa più di ogni altra la democrazia non tollera? L’autorità, che viene immediatamente tacciata di autoritarismo. L’autorità che è invece ciò che indica come le cose incominciano e che comporta l’accrescimento, la crescita, l’aumento. In questo ideale democratico noi e voi non sono più l’indice dell’infinito, noi, voi, loro, ma sono noi e voi, noi contro di voi. Voi contro di noi. Loro, poi, non contano proprio nulla. Tertiun non datur! Questa nozione di democrazia, che sorge dal pensiero greco e che si è affermata nel discorso occidentale, è un fantasma di padronanza, non è altro che il fantasma di padronanza della presa di quel vuoto che impedisce il tutto per continuare a credere nella totalità come possibile. È un fantasma di padronanza in termini di governabilità, di gestione, di controllo sulle cose. Non è che per questo debba essere abolita come modo di governo, ma occorre ragionare. Democratico, antidemocratico, ma cosa vuol dire? Io sono democratico, tu sei antidemocratico, o viceversa. Intanto “io sono”, “tu sei”, “io ho”, “tu hai”, e quest’idea rende possibile la contabilità dei soggetti, la contabilità, la classificazione, l’etichettatura e tutto quello che questo metodo trae con sé.
Diceva Augusto Ponzio che democratica è la paura di commettere errori. Democratico è il sapere ritenuto trasmissibile. Rassicurante perché ritenuto comune. Democratico è l’essere umano, che democraticamente si attiene al suo destino. E notava che la democrazia è un fantasma di morte. Mentre Uwe Peters, notava che il motto democratico per eccellenza è: “Noi e voi parliamo la stessa lingua”, e in nome di questo è sorto il prontuario planetario dei disturbi mentali, per poter essere diagnosticati, classificati, scritti, comunicati nella stessa lingua. Nella unilingua, che diventa così l’ideale democratico: tutto il pianeta parla democraticamente la stessa lingua per condividere la classificazione dei disturbi! Questo è democratico, è molto democratico, è veramente democratico. Ci sono applicazioni democratiche che sono queste.
Occorre inventare la nozione intellettuale di democrazia, quella vigente è una nozione mortifera, ispirata all’idea di un potere da esercitare. Dove, come, quando, da parte di chi? Chi ha il potere? Dove sta il potere? Di chi è il potere? Potere su cosa? Come? Come gestire il potere? Demo-crazia. Ma non si tratta allora del popolo, non si tratta del soggetto, non si tratta di ognuno, non si tratta di tutti, ma si tratta del ciascuno, del caso di ciascuno. E il caso di ciascuno non attiene alla psicopatologia. La scuola può quindi fondarsi sul criterio democratico? Questo criterio esige la classificazione dei casi! L’insegnamento, la formazione possono istituirsi sul criterio democratico della classificazione? Sulla previsione? Sulla previsione del destino in base alla classificazione? Può il motto ispiratore della scuola essere “tutti sono uguali di fronte alla scuola”? Al di là del diritto all’istruzione che assicura al cittadino il diritto alla scuola dell’obbligo, può la scuola fondarsi sulla prescrizione alla parità, all’uguaglianza, all’omologazione, all’omogeneità per istituire come criterio di valutazione la classificazione delle differenze? Se il criterio è quello dell’eccellenza non può esservi parità né omologazione. Si tratta di non aderire al fantasma dell’invidia, condivisione del mondo paritaria, antisessuale, omologante, fantasma che favorisce l’elezione del debole: ecco il popolo eletto! Popolo eletto è il popolo debole, eletto in quanto debole, suddito. Il popolo d’Israele eletto da Dio, suddito di Dio, il popolo democratico, popolo eletto, suddito del suo rappresentante.
Non dell’invidia quindi si tratta, ma di favorire l’emulazione. L’emulazione in direzione del compimento del progetto e del programma di vita. Nessuna emulazione del popolo. Nessuna emulazione dell’uno rispetto all’uno uguale a se stesso. L’emulazione esige la differenza, esige la sessualità, esige la politica del tempo. Nessuna vendita senza emulazione, nessun messaggio.
A sancire il debito perenne del suddito è il fantasma di gratuità, che possiamo chiamare l’altra faccia della meritocrazia, e che si accompagna all’idea del soggetto debole, malato, incapace. La gratuità, ossia l’assenza di grazia. La gratuità, ossia il marchio assegnato a ognuno, marchio dell’assenza di grazia e l’attribuzione al soggetto, al suddito, del suo peccato. Mentre la grazia è un teorema che indica che non c’è più peccato, la gratuità sancisce il peccato e la conseguente incapacità, debolezza, malattia di ogni soggetto. Per questo soggetto debole, malato, incapace, è escluso il rendimento. È un soggetto senza rendimento. “È intelligente, ma non rende”. Quante volte nei giudizi degli insegnanti troviamo questa formula di assenza del rendimento? “È intelligente, ma non rende”, dunque, o è debole o è malato o è incapace.
Chi si interroga intorno al rendimento come proprietà del progetto e del programma di vita? Del dispositivo pragmatico che il progetto e il programma esige? No, il giudizio sanzionatorio si ferma al soggetto, sancisce il soggetto, condanna il soggetto; democraticamente.
Ma dove c’è rendimento? E come? Il rendimento è di tutti o è di ciascuno? È un rendimento ideale o è un rendimento pragmatico? Rendimento: qualcosa dovrebbe tornare indietro? Dovrebbe essere reso, restituito? Qualcosa ritorna? Dare e rendere? Una partita doppia che dovrebbe concludersi in parità? È questo il rendimento? Si tratta del rendimento scolastico o del rendimento intellettuale? Del rendimento ideale o del rendimento pragmatico? Si tratta del rendimento occasionale o del rendimento in termini di capitale intellettuale? Dove sta il rendimento? Senza esperienza intellettuale, il rendimento è escluso. Rendimento e reddito sono proprie all’impresa, sono virtù intellettuali per ciascuno, esigono la memoria come scrittura dell’esperienza, esigono il parricidio e la sessualità, l’economia e la finanza, esigono l’ipotesi dell’avvenire.
Se prevale l’idea di fine, se prevale l’idea che non c’è avvenire, quale rendimento? Quale reddito? Per il soggetto inscritto nel fantasma di morte è impossibile il rendimento. L’unico rendimento è il redde rationem, è la resa dei conti finale, e ognuno s’istituisce il suo tribunale dinanzi a cui rendere ragione, la ragione sufficiente! Rendimento e reddito non sono termini aziendali, sono termini intellettuali, sono termini dell’impresa intellettuale, sono i termini che s’istaurano in relazione all’ipotesi dell’avvenire. Ma senza questa ipotesi non s’instaurano affatto. “È intelligente, ma non rende”. Né renderà senza l’ipotesi dell’avvenire, senza il progetto e il programma di vita, senza la decisione di vivere per questo progetto e per questo programma; decisione che non può essere sostituita da nessuna volontà. Non è una decisione soggettiva, è decisone intellettuale, è la decisione per l’avvenire, per la vita. Allora, il modo per l’instaurazione del rendimento, del reddito, non può essere quello democratico, ma è il modo intellettuale, è il modo narrativo che sta nella procedura della parola, modo narrativo che esige il rischio, il rischio d’impresa, il rischio di verità, il rischio della riuscita, il rischio dell’avvenire. Rischio e rendimento qualificano il dispositivo finanziario e il dispositivo clinico. Rendimento e valore qualificano il dispositivo di cifra. Questo modo esige il rischio, l’impresa, l’avvenire, i dispositivi pragmatici, il calcolo e la narrazione e il racconto dello statuto di ciascuna cosa. Statuto non sostanziale, e esige la qualificazione, ma non secondo il criterio termodinamico, o mentalista, o psicologico, o geometrico, o algebrico, ma secondo la parola originaria e il suo idioma, secondo il criterio della qualità.
Alla scuola attiene la qualificazione e la valorizzazione del rendimento. “È intelligente ma non rende” è propriamente ammettere che non è in atto il dispositivo intellettuale, non è in atto un’esperienza intellettuale. E il rendimento viene dall’emulazione, non dall’eguaglianza, non dall’appartenenza a un genere comune. Emulazione senza rivalità e senza competizione, senza meritocrazia, per via del narcisismo, che è la vicenda della cosa. Non del soggetto, della cosa. La vicenda della pulsione! Con ciò che esige, accanto, intorno, in aggiunta, adiacentemente, secondo l’occorrenza. Non già democraticamente, ma secondo l’occorrenza! È questa la questione della clinica connessa alla scuola. Giusto per dare qualche cenno. Se ci sono domande, abbiano ancora qualche minuto.
Cecilia Maurantonio. Un altro termine che ricorre nella programmazione organica della scuola…
R.C. Organica?
C.M. Sì, è un termine che c’è, ricorrente nella struttura istituzionale.
R.C. Perché se noi diciamo che c’è qualcosa di fantasmatico, allora non è reale. Lei invece dice che c’è una struttura reale!
C.M. Sì. C’è questa necessità, questa esigenza di organizzare e di giungere allo specifico delle cose.
R.C. Appunto! E è una struttura organica?
C.M. Questo è un termine scientifico. Se viene ritenuto raggiungibile un aspetto scientifico nelle cose che si fanno nella scuola, procedendo da una base gnostica, scientifica, si può programmare su un’ipotetica base gnostica; così c’è sempre questo agire attorno al cerchio.
Volevo chiederle, non so se ho inteso male io attorno alla maggioranza e alla minoranza. Lei diceva che la maggioranza non accetta quello che dice la minoranza in quanto tale, ma non è detto che sia la maggioranza che non accetta quello che dice la minoranza, perché sono due figure che rappresentano la dicotomica nella stessa credenza. Perché anche la minoranza, ammesso che esista, non fa altro che rappresentare la sua protesta. E poi se può precisare qualcosa attorno al pleonasmo, come interviene il pleonasmo, come esclude la totalizzazione, almeno per chi si trova in una dissipazione o per lo meno in una defaillance.
R.C. Non per lo meno. Per lo più. Per lo più in ciascun caso. Ho preso nota. Altri?
Pubblico Dall’ultima cosa che ha detto mi viene in mente la parola criterio; da quello che ha detto questa sera mi sembra che emerga la parola criterio. Per esempio, criterio per fare o criterio per classificare le anomalie. Se c’è un criterio per fare allora non c’è conoscenza, se invece c’è un criterio per classificare allora si parte dalla conoscenza di un caso già conosciuto e quindi un nuovo caso rientra in un caso generale. In pratica ci sarebbe il criterio della conoscenza e il criterio della non conoscenza che sarebbero in antitesi, due modi di intendere ciò che accade. Intendere ciò che accade è il criterio per fare, e intendere quello che è già accaduto sarebbe il criterio della conoscenza, delle varie psicologie, psichiatrie, psicoterapie ma non della psicanalisi. Grazie.
R.C. Sì, certo, si tratta di stabilire se importa il criterio dell’avvenire o il criterio del passato! Se l’avvenire è ipotecato dal passato, oppure se è l’ipotesi dell’avvenire che indica quali dispositivi attuare per l’occorrenza. Bene. Poi? C’è una mano che si gratta, un grattacapo. C’è un grattacapo!
Pubblico Il discorso è questo, io credo che l’uomo sia proiettato, per una sua logica, all’infinito. Cioè, si sente dire che noi non riusciamo a avere un’idea dell’infinito, cerchiamo e creiamo sempre qualche cosa. Non penso che l’ateo esista. Uno può dichiararsi ateo, ma non esiste. Perché l’uomo vive in funzione di una proiezione.
R.C. Questa è la sua prescrizione?
Pubblico Sennò non ci sarebbe il mondo. Io ho un amico che è ateo, ateo convinto, ma io gli dico: ma come fai? Cosa pensi? Che dopo è tutto finito? Magari è vero che l’universo è infinito!
R.C. È chiaro che l’ateismo è il colmo della speranza. Il colmo della speranza in un contesto di fantasma di morte.
Pubblico Sì, però bisogna, bisogna, altrimenti non ha senso. Se io decido di fare qualcosa, lo faccio anche perché verrò ricordato per questo. Magari questa è un’idea troppo foscoliana, oppure anche per lasciare un segno, lasciare qualcosa. Magari la mia è un’idea un po’ troppo cattolica. Come diceva Foscolo, i morti rimangono nel ricordo dei vivi, ma penso non sia proprio così, nonostante Foscolo.
R.C. La questione si potrebbe porre anche così: se dio opera, che necessità c’è di credere o non credere?
Pubblico Sì, opera, ma senza anestesia!
R.C. Ah, in quel senso lei dice. No, non chirurgicamente! C’è un’altra mano alzata.
Pubblico Volevo chiedere qualcosa attorno al pleonasmo.
R.C. Ha cambiato grattacapo? Ha cambiato mano però è sempre un grattacapo.
Pubblico Non so, non me sono accorta. Al pleonasmo, pensavo al “di più”, alla questione della crescita, all’aumento, e mi domandavo se in qualche modo c’entra con la questione del cancro o del tumore quantomeno, inteso come un di più che si rappresenta nel corpo in questo caso. E se questo di più, questa crescita che non trova sbocco in un progetto pragmatico, dove va a finire? Un’ipotesi, pensavo al cancro al tumore, ma potrebbe essere la follia, il rappresentarsi in altri modi, non so. Oppure pensavo, se c’è il funzionamento come rimozione e resistenza, c’è anche la variazione se ho capito bene, e non so se c’entri con il pleonasmo, cioè una variazione che continua. In questo senso pensavo al di più, di più. Anche in questo caso, se non trova uno sbocco pragmatico si rappresenta…
R.C. Lei dice sbocco pragmatico. Può precisare?
Pubblico Sì, pensavo nel senso di un progetto del fare, di fare qualcosa in modo che l’effetto abbia modo di palesarsi, ma non in una rappresentazione, ma in un facendo, in un fare, in modo che la variazione non giri su se stessa, non ci sia l’implosione o l’esplosine, interno-esterno, ma ci sia un’ondata, un defluire, un andare comunque.
R.C. Sì, certo. Altro? Prego.
Pubblico C’era un tale, un capo di stato, che diceva che la democrazia è piena di difetti, ma non sapeva immaginare un modo migliore per governare. Chiedevo se ha un’idea di un sistema differente per il governo di un paese. La seconda domanda, invece, è sulla proposta di rendita e di rendimento, se c’è una misura del reddito, del rendimento e della riuscita. Quando si possa dire o constatare la riuscita o un reddito eccellente. Quando si può dire questo?
R.C. Altri?
Sabrina Resoli. Riguarda la meritocrazia. Mi pare un’idea molto democratica, in quanto si fonderebbe sull’idea di potere misurare il rendimento, di classificare il rendimento, di misurarlo e in base a questo attribuire il merito, quando invece, mi pare che il rendimento non comporti la misura e il merito non sia attribuibile. Ecco, facevo queste considerazioni. Meritocrazia come idea democratica in quanto sarebbe attribuibile da un soggetto a altri soggetti, mentre il merito è qualcosa di intransitivo.
Pubblico Io volevo sapere il nome di quei due libri, se si possono acquistare o dove si possono trovare. Non so se li leggerò, ma intanto ho il piacere di acquistarli. Al posto di acquistare capelli o scarpe, compro libri, ognuno ha sue manie.
R.C. Il piacere sta nell’acquisto e non nella lettura?
Pubblico Io parto dal presupposto che l’essere umano non solo non è come vorrebbe essere, ma addirittura non è come dovrebbe essere e, allora, per questo disagio, è attratto dall’immagine, e l’immagine gli viene imposta attraverso il mediatico, il religioso, l’attore famoso, il politico, per cui non cerca più il simbolismo, ma cerca l’immagine. E allora è fregato. E credo che l’importante per una eventuale liberazione sia eliminare l’immagine, o almeno questa immagine che ci viene imposta.
R.C. Ah, bene. Questioni intense. La questione, come dicevamo, è aperta, e dalla questione aperta procede il modo intellettuale. Con la questione aperta procede ciascun dispositivo, che è dispositivo attuale. Il rendimento, il reddito, il valore nel dispositivo attuale, sta non nella sua o loro quantificazione, che varrebbe a sostantificare, a descrivere termodinamicamente questi aspetti, ma sta nella loro formalizzazione, e nella formalizzazione insiste la necessità del reddito, del rendimento e del valore, come ciò che si rivolge al valore, in una costante attualità. Mai questo processo può terminare per consentire al soggetto di guardarsi indietro. Il processo è senza ritorno e esige la sua formalizzazione costante, non l’ipotesi di fermarsi per potere guardare indietro – così Orfeo perde Euridice – ma in una costante formalizzazione dell’ipotesi dell’avvenire. Qui dimora la riuscita, e il capitale è il capitale della vita.
Così per dirla in breve, dato che stiamo terminando. Però la prossima volta riprendiamo ulteriormente questi e altri aspetti
L’autorità e la disciplina
Ruggero Chinaglia Abbiamo sempre con noi il nostro testo di lettura. In questo caso è “La cifrematica”, numero 6: La follia, la pazzia, la clinica. Chi ha già incominciato a leggerlo? Il titolo è un po’ scabroso, però, magari, dentro ci sono cose meno scabre. Se non si leggono come si fa a sapere? Allora cominciamo, per capire come mai, a tutt’oggi, questo libro non è stato ancora letto da nessuno. Come mai? Cosa ha impedito, questa settimana, quella precedente, quella precedente ancora di leggerlo? Che cosa si è frapposto alla lettura? Chi comincia a dire qualcosa?
Pubblico Io l’avevo ordinato a lei, ma…
R.C. Ecco. Lei l’aveva ordinato? Esatto, e noi l’abbiamo qui! Ma quindi lei ha aspettato!
Pubblico No! Ma lei mi pareva l’ultima volta che me lo procurava. Io non so…
R.C. Non sa andare la libreria?
Pubblico In libreria, sì! Ma pensavo, non so? Che non c’è in libreria!
R.C. Secondo lei i libri dove stanno?
Pubblico Sì! Giustamente, ma a volte in libreria non si trovano tutti i libri che uno vuole.
R.C. Eh, beh! Questo è chiaro. se in libreria dovessero trovarsi tutti i libri…
Pubblico E non sapevo i titoli! Mi ha proposto due libri, ma non che li sapessi, cioè i titoli,
e ho detto: “Me li procuri”. Basta, tutto qua. Poi lei, naturalmente… sarà un po’ pigro e si è dimenticato.
R.C. Ecco!
Pubblico O non ha avuto il tempo? O la voglia? Non lo so. Non la sto mica accusando, eh?
R.C. Oppure, volevo metterla alla prova!
Pubblico Mah? Se lei me lo dà, io lo porto via!
R.C. E noi qui l’abbiamo! L’abbiamo portato.
Pubblico Allora facciamo un passaggio di proprietà: io le do i soldi e lei mi dà il libro.
R.C. E quindi lei, così, si sente giustificato.
Pubblico No, no! Io non mi sento giustificato, io ero talmente tranquillo… Ma ci sono sempre delle discrepanze nelle relazioni umane, per cui è normale che sia così.
R.C. Quindi non avendo potuto procurarsi questo libro, se n’è procurato altri?
Pubblico Ma io ne leggo. Normalmente ne ho una decina che leggo contemporaneamente, ce ne sono alcuni che ho cominciato da due anni, da tre anni, alcuni da due giorni, poi un po’ alla volta li escludo. A volte in un libro basta anche una sola frase. Io ritengo che valga la pena leggere un libro anche per una frase.
R.C. E nei libri che sta leggendo, ha trovato questa frase memorabile?
Pubblico Beh, io non credo a una frase memorabile, perché sennò sarebbe come credere in Dio. Cioè, uno crede in Dio? Boh? C’è? Non c’è?
R.C. Però dice che lei legge un libro anche per trovare solo una frase.
Pubblico No! Non è che legga anche per trovare… Può darsi che in un libro ci sia anche una sola frase che mi interessa.
R.C. Perfetto.
Pubblico Evidentemente, però, nei romanzi che fanno adesso c’è una pletora di trame, che io odio! Per cui io un romanzo normalmente riesco a leggerne una pagina, due, e poi non mi interessa! Non so perché, ma è così!
R.C. Quindi, i libri che sta leggendo non…
Pubblico Non sono romanzi, no!
R.C. E rispondono al requisito?
Pubblico No! Adesso ho scoperto un grande scrittore che non conoscevo, Conrad. Per me è eccezionale! Ecco, lo sto leggendo!
R.C. E cosa le sta dicendo Conrad, di così importante?
Pubblico Beh, Linea d’ombra, Al limite estremo, Cuore di tenebra, qualcosa del genere adesso non mi ricordo. Ma specialmente Linea d’ombra mi sembra che sia un capolavoro. C’è un po’ di tutto lì!
R.C. Ma ha trovato una frase che per lei ha squarciato le tenebre?
Pubblico Ma le dirò che non credo possa esistere una frase che possa risolvere i problemi della vita, anche perché…
R.C. Adesso lei, salta subito a risolvere i problemi della vita. No, dicevo che ha squarciato le tenebre.
Pubblico No! Le dirò che in Conrad ci sono molte situazioni che sono attualissime. La personalità di una persona è sempre un paravento che non corrisponde alla personalità ufficiale della persona, che è un paravento, una pagliacciata in confronto a quello che noi siamo, a quello che noi dimostriamo di essere, probabilmente questo contrasto lo trovo molto interessante in Conrad. Questa facciata, tutti questi imbellettamenti che continuiamo a vedere tutti i giorni alla televisione, queste immagini pesanti, idiote, per me, dopo non lo so. Io odio le immagini, sostanzialmente, perché credo anche nei simboli, praticamente. Mentre la gente, oggi, cerca solo le immagini: l’immagine del Natale, l’immagine del Capodanno, l’immagine degli acquisti, che sono cose che a me lasciano indifferente. Insomma, tutto lì.
R.C. Ah, bene.
Pubblico Non vorrei abusare del tempo, vorrei lasciare la parola a qualche fanciulla o fanciullo.
R.C. Allora sentiamo, se ci sono altri che danno un’eco.
Emanuela Macario. Io non voglio giustificarmi, però volevo solo chiederle se c’è un ordine di lettura, nel senso se lei consiglia di cominciare dal primo volume oppure non c’è ordine e ognuno può tranquillamente, magari, cominciare dal sesto, poi leggere il terzo, poi il quarto. Cioè, lei cosa consiglia? C’è un ordine, magari il primo dà delle basi per poter capire il sesto?
R.C. Ecco, quindi è questo che l’ha trattenuta?
E.M. Sì! Io non so perché, ma in tutte le cose io ho questa esigenza di cronologia, diciamo.
R.C. Era indecisa se dovesse proprio cominciare dal primo? E seguire, poi?
E.M. Sì, mi pareva di aver capito questo, mi pare dalla penultima volta che ci siamo trovati qui, che lei avesse detto di cominciare dal primo, ma forse ho capito male io. Se devo andare a titoli… mah? Mi può interessare di più magari il sesto? Non so? Poi magari non sapendo che cosa?
R.C. Perché lei ritiene che il primo possa essere più facile del secondo? Il secondo più facile del terzo?
E.M. Non so. Io sono attaccata alla cronologia. Non riesco ancora a disfarmene. Per tutte le cose, anche nella quotidianità. Per poter fare una cosa devo già sapere cosa devo fare prima, cosa devo fare dopo. E quindi devo sempre trovare quest’ordine. Cioè essere sicura, prima di dover fare una cosa, e quindi anche con i libri, cioè, se c’è una collana… Come in un film: se ho perso l’inizio, poi non mi interessa più.
R.C. Ma perché una collana dovrebbe cominciare dal più facile? Cioè, come potrebbe stabilire l’editore che ciò che seguirà sarà più difficile?
E.M. Ma io non credo che sia più facile o più difficile, semplicemente che ci sia un ordine, è quello che mi frega!
R.C. Ah, ecco! Un ordine, prestabilito!
E.M. Esatto!
R.C. Che occorre seguire.
E.M. Cioè non facile e difficile, ma magari un ordine, ecco!
R.C. Cioè, quindi, dice un protocollo?
E.M. Sì. Va bene, mi ha già risposto.
R.C. L’ordine protocollare.
E.M. C’è anche, non so, magari l’esigenza di dire: “Devo prima realizzare questa cosa, per poi capire quell’altra”. Cioè, c’è sempre questa cosa che tendo a fare. Poi magari è un errore, ma è più forte di me.
R.C. Quest’ordine consentirebbe la lettura?
E.M. Quella sistematica, sì!
R.C. Ecco!
E.M. Forse ho troppi ricordi scolastici ancora, che mi limitano.
R.C. Quindi ci sarebbe un sistema del sapere, l’ordine del sapere e il sistema del sapere. Quindi questo sarebbe il protocollo dell’apprendimento?
E.M. Esatto! Che non ha niente a che vedere con la lettura, eh!
R.C. Sarebbe la pedagogia dell’insegnamento?
E.M. Esatto!
R.C. La pedagogia dell’apprendimento?
E.M. Mi fregano i ricordi! Continuamente. Soprattutto della scuola! Di ciò che è considerato cultura, sapere…
R.C. Esatto! Ma la parola originaria, e dunque la lettura, con ciò che comporta, può seguire un piano standard di lettura, un piano standard di apprendimento, una cronologia dell’apprendimento? Come stabilire cosa è più facile o più difficile per ognuno? Come stabilire che cosa è da cogliere? Come privilegiare una questione piuttosto di un’altra?
E.M. Ma io non lo so! Io faccio, credo, una distinzione tra facile e difficile e ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Per me non sono la stessa cosa, perché a scuola, magari, riuscivo di più a fare una cosa considerata difficile dall’insegnante, perché magari c’era la sfida e mi riusciva facile, piuttosto di una facile! Invece la questione dell’ordine è come se mi perdessi un pezzo per strada, cioè il bisogno apparente di tenere tutto sotto controllo, di sapere che non mi sono persa niente. Non so come spiegarle.
R.C. Perfetto!
E.M. Cioè non c’entra, forse, quello che sono le cose facili o difficili.
R.C. Bene. Altri? Magari altri che invece, avendo letto qualcosa, vogliano porre una questione? O che avendo udito qualcosa, si sono posti una questione? Ecco, prego!
Gianfranco Dalle Fratte. Buonasera. Sono tre domande brevissime. La prima domanda è questa: il pregiudizio e il canone, logicamente dove si situano? Sono logiche? Dove si situano? Sono logiche inintellettuali? E se sì, perché? E come?
R.C. Dunque, il pregiudizio!
G.D.F. Il pregiudizio e il canone, logicamente dove si situano? Sono logiche inintellettuali?
R.C. Che cosa lei chiama pregiudizio?
G.D.F. Un’idea ancora non qualificata, da qualificare.
R.C. Sì. E canone?
G.D.F. Un attenersi a una regola prestabilita.
R.C. Prestabilita da chi?
G.D.F. Da chi crede di uniformarsi a un qualcosa di comune, a qualcosa che accomuna, che potrebbe accomunare.
R.C. Quindi lei chiede se pregiudizio e canone siano intellettuali?
G.D.F. Esatto.
R.C. E questa è la prima domanda.
G.D.F. La seconda: se la tessitura, cioè il tessuto linguistico è l’arte! O l’arte sta nella tessitura!
R.C. Cosa chiama lei tessitura?
G.D.F. Come premessa direi il parlare. Il parlare secondo un non sapere già cosa si sta dicendo, quindi dove non c’è la conoscenza di quel che si sta dicendo e in quel che si va dicendo, un qualcosa che procede dall’apertura.
R.C. Bene. Poi?
G.D.F. Il piacere è una prova che c’è viaggio o il piacere sta nella parola, oppure altro da questo? Grazie.
R.C. E lei sta leggendo questa collana “La cifrematica”?
G.D.F. No, purtroppo no.
R.C. Per questi motivi qui?
G.D.F. Quali motivi?
R.C. Questi che ha indicato.
G.D.F. No, assolutamente no. Sto leggendo altri testi di cifrematica.
R.C. Però non questi?
G.D.F. Diciamo così, è da poco che ho capito che ci sono questi testi. Saranno le mie prossime letture.
R.C. Altri? Sì, Prego.
Pubblico Volevo farle una domanda riguardo alla comunicazione, all’efficacia di ciò che interviene nella comunicazione. Una constatazione è che, se ci sono tante cose da fare, non c’è il tempo di pensarsi, di pensare quello che può accadere, forse c’è l’ipotesi che qualcosa avvenga. La domanda verte appunto se, oltre all’ascolto, nella comunicazione, perché ci sia sempre l’intervento efficace, quindi l’ascolto, l’intendimento, c’entra l’attore?
R.C. Chi?
Pubblico L’attore! E se, appunto, quando si parla di attore si parla della mimesi. E se interviene nelle dimensioni di sembianza.
R.C. Può fare un esempio di attore?
Pubblico Eh … Appunto, senza pensare a cosa dire, cosa fare, cosa è adeguato, o perché, ho capito qualcosa o si è capito qualcosa, interviene il modo giusto, il modo che occorre! Quindi nel modo, nel tono, nella risata, quel che occorre si dice in quel momento.
R.C. L’attore.
Pubblico Sì.
R.C. Bene. Altri? Altri che magari, proseguendo anche le cose della settimana scorsa, vogliono dare un’eco?
E.M. Io volevo fare una domanda.
R.C. Un’altra?
E.M. Sono sempre io.
R.C. Sì.
E.M. Cioè, non lo so, forse è una ripetizione, però, ne ho già parlato qualche settimana fa, ma mi torna come questione tutti i giorni, ogni giorno, e forse c’è qualcosa che mi sfugge. Quando ha parlato del disagio, cioè, che il disagio indica che c’è una tensione, e la tensione procede dalla contraddizione, però la contraddizione talvolta risulta problematica, perché inserita in un sistema e quindi appare come un difetto. La mia domanda è: come trovare questo modo della contraddizione affinché diventi modo del fare? Come fare affinché il disagio diventi tensione verso Altro? Un modo dell’impresa e non un impedimento? E come passare dalla teoria al pragmatico?
R.C. E perché bisognerebbe passare dalla teoria al pragmatico?
E.M. Perché ancora continuo a distinguere le cose. Come se, non lo so, forse penso che un conto è capire di avere una questione, un conto è lì dove c’è una fantasmatica, però poi, nel fare? Non si traduce nel fare. C’è questo stacco per cui le cose non riescono, c’è sempre questa tensione e poi…
R.C. Ma ancora c’è molta timidezza in queste domande. Non c’è proprio audacia. C’è timidezza, timore. Cautela, molta cautela! Lei vuole osare? Sentiamo.
Nadia Vidale Dunque, ho incontrato in questi giorni diversi genitori che mi hanno proposto questo enunciato: “Io con mio figlio le ho provate tutte, non so più che fare. A questo punto, giunti a questo punto, credo che, se in lui o in lei non scatta qualcosa, credo di non avere più nessuna possibilità di intervento. Io mi rendo conto che ci sono dei problemi, però dico che se voi avete una soluzione applicatela, qualunque essa sia”. Cioè proprio, in certi casi, siamo alla delega totale, con le buone o con le cattive, “perché io, mio marito, mia moglie… ecc … noi non possiamo più!”. E mi chiedevo che cosa fare. Ecco.
R.C. E come mai questi genitori così diversi si rivolgevano proprio a lei?
N.V. Sì, è giusto, così diversi, perché questa è una questione. Diversi perché sono diversi i figli, sono diverse le storie, cioè questo è un paradosso di cui ogni tanto parliamo. Sono diversi, però, apparentemente, pongono la stessa questione. Si riconoscono nella stessa dichiarazione di impotenza, che sarà apparente, però insomma, ecco, su questo io avrei qualche perplessità. Lei diceva, la settimana scorsa, leggendo qualcosa dal libro che aveva portato, a proposito della questione della psicosi, forse, come luogo comune recente. Però di fronte a genitori diversi, io vedo figli diversi e giovani diversi, ragazzi diversi, che almeno apparentemente, così sembra, rappresentano in grande quantità la stessa idea di sufficienza, forse. La stessa noncuranza per i compiti che hanno. Ecco, quando io ho questa impressione di standard, quantitativamente fondato, evidentemente. Sì, forse non è il caso di dare la stessa risposta a tutti, ma questa incidenza quantitativa non ci dice qualcosa? C’è da qualche parte… Freud, dice qualcosa sulla psicologia individuale che è psicologia sociale, non so, a me pare che ci sia un tratto…
R.C. E quindi, lei cosa ha risposto?
N.V. Cosa ho risposto? Nel caso in cui c’è stato più tempo ho detto che questa cosa non è così, cioè che non sono mai esaurite tutte le frecce dell’arco, no? Però, allora mi proponga qualcosa lei. Cioè, chi mi dice: “Ma io le ho provate tutte”. Una cosa e poi chiudo: se un ragazzo di ormai diciassette anni, con una carriera scolastica fallimentare, arriva la mamma e dice: “Purtroppo, se lui non capisce che deve, studiare e impegnarsi, ecc, io ormai, ormai, cosa posso fare, ormai?”. Ecco, c’è un momento in cui questo ormai ha senso? Un momento in cui un genitore può dire “ormai non c’è più nulla da fare”? “Non posso più fare nulla, tanto tra pochi mesi è maggiorenne, può fare quello che vuole. Fondamentalmente, tanto, se lui da sé, se lei da sé, non si rende conto”. Non c’è modo da fuori di indurre, di spingere, di costringere, di promuovere in una direzione diversa da quella che lui o lei, più o meno liberamente, sceglie?
R.C. Quello che?
N.V. Il soggetto, il soggetto, no? Liberamente, sceglierebbe!
R.C. Uhm …
N.V. “Mio figlio è un soggetto che sceglie, ha fatto la sua scelta, ma è incoercibile!”
Pubblico Una battuta, forse una provocazione.
R.C. Ma è sicuro che la signora avesse terminato?
Pubblico Sì, mi ha dato il microfono. No, volevo dirle, per assurdo, se uno nel disagio, visto che parliamo di questa cosa, riesce a sentirsi a proprio agio, può risolvere i problemi?
R.C. Provi a ripetere?
Pubblico Cioè, se una persona, nel disagio, è un gioco di parole, poi alla fine, riesce a sentirsi a proprio agio, a convivere, può risolvere gli eventuali problemi che derivano da questo disagio? Tutto qui.
R.C. Bene. C’è un’ultima questione? Ma è proprio l’ultima? O poi mi costringe a chiederne un’altra? Va beh, proviamo.
G.D.F. A questo soggetto che diceva prima Nadia Vidale, che a un certo punto può scegliere liberamente, la questione della pazzia è proprio qui! Cioè il soggetto che può fare quello che vuole, a un certo punto, o anche prima.
R.C. Sì, ma la domanda qual è?
G.D.F. Ecco, la domanda è se la questione della pazzia, appunto, non sia la rappresentazione del soggetto e della padronanza che questo soggetto presuppone di avere su qualsiasi cosa e soprattutto su quello che dice o non dice, e quindi la padronanza che appunto sottolinea il soggetto, è proprio la pazzia?
R.C. Perfetto.
G.D.F. Ecco, la domanda è questa.
R.C. Perfetto, quindi adesso lei mi costringe a chiedere chi volesse formulare l’ultima domanda. Chi ancora? C’è chi abbia proprio sulla punta della lingua una domanda che è indeciso se formulare o no? Che tuttavia potrebbe anche formulare. Lei che sembra abbia la lingua già in movimento per formulare la domanda, che irrefrenabilmente ha già proprio la bocca che si muove, dica.
Patrizia Ercolani. Niente, stavo pensando.
R.C. Ah, lei? Parlavo con… però dica, dica. Ha visto? Quindi ce ne sono due. Prego.
P.E. Eh, niente, è che pensavo a questo termine clinica, io ho letto il libro di Meschini, Per una clinica della parola, E adesso chi mi ha preceduto accennava un attimo alla questione della pazzia, insomma, mi domandavo se la clinica è l’ascolto vuoi della pazzia e vuoi della follia, per esempio.
R.C. Eh! Vuole, vuole…
P.E. No.
R.C. Vuoi, vuoi?
P.E. Cioè un ascolto di quel che si dice in modo folle? O quello che si rappresenta come pazzo? Che crede di poter fare quello che vuole, non ascoltandosi. Ascoltando, magari, intende che non può che non fare qualcosa che è nell’occorrenza di quel momento, insomma. Magari in quell’occorrenza c’è una fantasia che impedisce anche l’ascolto e quindi, poi, anche di intendere.
R.C. Sì, bene. Allora dietro di lei, proprio dietro di lei, c’era una persona. Lei, aveva proprio già la lingua in movimento, eh?
Pubblico Le questioni sono troppe, per cui una delle prossime volte ne formuliamo una, dai.
R.C. Che cosa sono troppe?
Pubblico Le questioni.
R.C. Troppe! Cioè, non sono tante, ma sono troppe. E quindi se sono troppe cosa conviene fare?
Pubblico Conviene rimandarle.
R.C. Ah! Ma non le pare di aver già rimandato abbastanza? Cioè lei ha ascoltato le varie proposte, le varie questioni, cosa dice?
Pubblico Che sono molto varie, molto disorganizzate tra loro, cioè non sono armonizzabili, verrebbe fuori una dissonanza terribile mettendole insieme. Cioè sono questioni molto diverse, l’una dall’altra.
R.C. E perché dovrebbero essere armonizzate?
Pubblico Per cercare di approfondirle. Non è possibile approfondirle insieme, insomma. Bisogna svolgerle una alla volta.
R.C. Lei sarebbe per l’approfondimento.
Pubblico Si, tuffarsi dentro.
R.C. Cioè, bisognerebbe andare nella profondità. E dove sta la profondità?
Pubblico Nell’alto e nel basso, nell’ossimoro sta la profondità.
R.C. Cioè per andare in profondità, lei dove andrebbe?
Pubblico È una figura retorica la profondità. In una questione, cioè parlando, si svolge, si svelano e si rilevano alcuni aspetti diversi della questione.
R.C. Tuttavia è curioso che una delle figure retoriche prevalenti del discorso occidentale sia proprio la profondità, l’approfondimento, l’idea del profondo. Bisognerebbe portare a galla ciò che sta nel profondo. E peraltro c’è chi è pronto a sostenere che ogni cosa vada approfondita, come se avesse uno spessore misurabile. Questa idea della profondità, dell’approfondimento, contrasta con la nozione di superficie, tanto è vero che la superficialità è considerata un vizio. Il tizio è superficiale, perché dice cose senza profondità. Ma dove sta la profondità, dove starebbe l’approfondimento, perché la verità dovrebbe essere questione di profondità, anziché di superficie? Eppure, le cose che si dicono sono cose di superficie, sono della superficie che non è piatta, ma è una superfice in cui importa, appunto, la scabrosità, importa la piega quindi, e questa superficie che non è rappresentabile geometricamente è sia figura della relazione, sia figura dello squarcio, quindi sia figura del due, sia figura del tempo, del taglio. Contro la superficie, e quel che comporta a livello della comunicazione, della scrittura, della cifratura, dell’ascolto, dell’intendimento, contro la superficie sorge il canone con la sua mentalità, con la sua modalità. Il canone con i suoi protocolli, il canone il cui testo sarebbe senza tessitura, senza la libera combinatoria di nomi, significanti e Altro dai nomi e dai significanti. Quindi la mentalità e il canone propongono l’unilingua: l’universalità della lingua, l’universo, ossia quello che possiamo anche chiamare il collasso del numero, l’universalità. L’universalità senza il numero, senza il numero duale e dunque senza il numero triale. Così sorge il sistema, dove ogni cosa deve mantenersi insieme con tutte le altre, con coerenza. Quindi privilegiando l’ipotesi che ogni cosa sia omogenea, uniforme, senza particolarità, senza quella particolarità che sta nel numero, numero duale e numero triale. Proprietà del sistema è quella di colmarsi, riempirsi, saturarsi, giungere alla saturazione, trovare l’equilibrio nella saturazione. Questa idea di saturazione è l’idea stessa di fine. Come dissipare l’idea di sistema? E dunque come dissipare l’idea immanente, che regge il sistema, cioè l’idea di fine? Come dissipare insomma la termodinamica applicata alla parola, applicata al cervello, applicata ai tutti? Ognuno accetta l’dea di appartenere al sistema avendo l’idea di essere un soggetto termodinamico. Come capire che questo, anziché costituire la caratteristica propria agli umani, è il pregiudizio che li accomuna? Come giungere a ammettere l’ipotesi della parola libera, come giungere a ammettere l’ipotesi della materia intellettuale, come cioè dissipare l’idea di stare nel sistema, di partecipare al sistema e dunque di partecipare della condanna del sistema, che è quello di saturarsi, dunque di finire? La questione intellettuale è la questione aperta, dunque questione senza sistema, ma la questione intellettuale esige la dissipazione della nozione di sostanza, della nozione di appartenenza, dell’ontologia delle cose, dell’idea che ogni cosa si fondi su qualcosa che sta sotto e dunque proceda dalla genealogia, per profondità. La nozione di profondità è la nozione di genealogia, è la figura retorica che richiama e propone l’idea di origine comune. L’origine comune, cioè la sostanza comune, dove regna questo pregiudizio, connesso al canone della sostanza, cioè vige l’ipostasi del soggetto come ciò che sta sotto, dove vige l’idea che ogni cosa dipenda da ciò che ci sta sotto, per cui occorre andare in profondità per trovare l’origine, la vera origine delle cose, che sola veramente indicherà la natura di ciò che ci sta sopra. Allora, finché vige questo pregiudizio, ognuno è sordo e muto. E si bea di questa sordità e di questo mutismo, e può consentirsi la delega rispetto a capire, a intendere ciò che occorre in ciascun istante, rispetto all’istanza di vivere. Sordo, muto oppure addormentato, dormiente, come ipnotizzato. Come si pone invece la questione della parola come questione intellettuale? La cosa procede dall’analisi come teorema della sostanza, anche come teorema intellettuale, teorema che dice “non c’è più sostanza”, anche non c’è più canone, perché ciascuna cosa va udita, letta, cifrata, secondo la sua particolarità, nel dettaglio in cui quella cosa si situa, quindi senza universalità, senza standard, senza genere. Dunque l’analisi come teorema, ma questo teorema può instaurarsi lì dove, rispetto al disagio assoluto, cioè rispetto al dubbio che investe ciascuna cosa, non sia più possibile delegare il canone, il modo canonico, l’esperto, qualcun altro che dovrebbe provvedere alla risposta, “in vece di”. Questa delega è possibile dove vi sia la speranza della soluzione, per esempio di qualcosa che viene addotto come problema. In assenza di sostanza, in assenza di canone non c’è più soluzione. Ciascuna cosa esige la sua cifratura, esige di indagare, capire, intendere il particolare e lo specifico; dunque il caso in cui quella cosa si situa. Non c’è più quindi l’analogo, il simile, lo standard. La delega ha le sue figure, per esempio nella dimissione, oppure nella rinuncia, oppure nell’abdicazione, oppure nella sparizione. Vari modi con cui chi si ritiene soggetto può giustificare l’astensione rispetto a capire, a intendere, rispetto a cogliere la sfumatura, giungere alla clinica, instaurare quindi il dispositivo intellettuale che si avvale del processo di qualificazione e di valorizzazione. Occorre una decisione, una decisione irrevocabile, la decisione dell’analisi, ossia del teorema secondo cui non c’è più sostanza, non c’è più sistema, non c’è più mentalità, non c’è più canone che possa soddisfare l’esigenza di senso, di sapere e di verità assoluti. Solamente a questa decisione, decisione irrevocabile, decisione assoluta, decisione che non ha la sua formula nell’“io decido”, ma che è decisione in atto, e che è quella decisione che avvia effettivamente il viaggio per ciascuno, in direzione della qualità. Non è possibile determinare, prestabilire quando si ponga, possa porsi, questa decisione; anche mai, soprattutto se non si pone l’eventualità, l’occasione di inventare dispositivi intellettuali. Solamente con questa decisione, che quindi è strettamente connessa alla constatazione di questo teorema. Perché il teorema che non c’è più sostanza è una constatazione, non è teorico, non è l’adesione a un concetto, non è l’adesione a una filosofia, non è l’adesione a una proposta di qualcuno, è una constatazione. Fino a che questa constatazione non interviene, è impossibile che si avvii l’itinerario intellettuale, è escluso. L’itinerario procede da questa constatazione, che non è questione di volontà quindi, né buona né cattiva, né una questione teorica. La teoria procede da questa decisione, la teoria segue a questa decisione, segue a questa constatazione, perché solamente a partire da questa constatazione è possibile qualificare le cose, altrimenti le cose stanno nel sistema, stanno coerentemente insieme tra loro, e dunque sono già significate, sono già date, risultano tali. Alla questione intellettuale si pone invece la questione del “quale”: di cosa si tratta? In quale cosa mi sono imbattuto, mi sto imbattendo? Quale! Qual è la questione? Come qualificare ciò che sta dinanzi, e dunque l’analisi, e la psicanalisi che è l’esperienza della qualificazione, non sono teoriche. Non c’è una teoria psicanalitica da poter applicare, ma ciascuno, facendo l’esperienza della parola libera e della sua combinatoria, può giungere alla teoria e al teatro di questa esperienza, della sua esperienza. Giungendo dunque a indicare come l’esperienza si scrive, come il processo di qualificazione si scrive, come l’itinerario si scrive, come le cose si scrivono e come si cifrano, non essendo già date. Ma la credenza nella sostanza impedisce questo processo, perché se c’è credenza nella sostanza le cose sono tali, sono sostanziali, impossibile che qualcosa possa giungere alla transustanziazione. La transustanziazione non è la modificazione della sostanza, è propriamente un altro modo per constatare che non c’è sostanza, non c’è più sostanza perché non c’è mai stata, perché la nozione, la credenza di sostanza è introdotta dalla reazione alla parola. La sostanza non è originaria. Allora come accade che qualcosa possa cominciare a qualificarsi e, qualificandosi, disporsi alla crescita, all’aumento? Qualcosa comincia proprio perché non c’è sostanza, qualcosa comincia a funzionare, parlando. Questa è la rimozione, e qualcosa funziona, parlando, in assenza di sostanza. La credenza nella sostanza fa sì che ognuno ritenga di poter dire qualsiasi cosa, liberamente, ossia stupidamente, con idiozia. Questa sarebbe la libertà di dire qualsiasi cosa, idiozia! Un conto è l’idiozia e un conto è l’idioma, l’idiozia è qualcosa senza caratteristica e l’idioma, invece, è la logica particolare. Chi crede nella sostanza crede nell’idiozia, ossia nella lingua comune, esclude l’idioma. Allora qual è lo scopo, la funzione di quello che viene chiamato “il primo colloquio”? Il primo colloquio stabilisce proprio questo, che non c’è più sostanza, prende atto della decisione irrevocabile per cui la credenza nella sostanza viene dissipata, per cui può avviarsi il dispositivo intellettuale, stabilendo norme e regole e motivi. Questo è il primo colloquio dell’esperienza di parola. Questo primo colloquio decide del proseguimento in direzione intellettuale, oppure nella direzione dell’idiozia. Lo stesso dicasi per il primo giorno di scuola, è il primo giorno di scuola a decidere se quella classe sarà un insieme idiota o un dispositivo intellettuale. Così il primo colloquio di lavoro: è quel primo colloquio a stabilire se ci sarà proseguimento oppure no. Certamente sono casi differenti, il primo giorno di scuola, il primo colloquio di lavoro, il primo colloquio per intraprendere l’esperienza intellettuale, ma sempre di questo si tratta, della dissipazione delle certezze soggettive. La dissipazione nella credenza di appartenere alla soggettività, alla comunità dei soggetti, oppure di situarsi in un altro panorama, senza la cappa dell’idiozia. Questa cappa, chiaramente, è la cappa della sostanza, è la cappa della totalità, che vi sia una totalità, che vi sia un tutto, che vi sia una possibilità di saturazione delle combinazioni e delle combinatorie possibili. È una decisione che sancisce la dissipazione del possibilismo, del probabilismo, del determinismo e dell’accettazione di tutto ciò che ha a che fare con questo. È da qui che comincia la vita, da questa decisione.
A sopravvivere, come si dice, sono buoni tutti, anche gli animali. Ma la vita intellettuale incomincia da qui, da questo atto di autorità, da questo atto con cui comincia l’autorità. E io di questo dovevo parlarvi questa sera, dell’autorità e della disciplina. Ma mi avete fuorviato, e quindi la conferenza è ancora da svolgere, praticamente, però ormai sono arrivate le ventitré, non so se ho risposto alle varie domande! Mi hanno fuorviato rispetto a quanto era stato apparentemente stabilito. C’è qualche questione ulteriore? Qualche richiesta di chiarimento, forse non ho risposto a Nadia Vidale.
N.V. Quando è che è primo? In questa ordinalità?
R.C. No! Non ce n’è un secondo. Eh, no, non c’è il primo colloquio, poi il secondo, poi il terzo. No, primo colloquio!
N.V. E allora che cosa lo rende primo?
R.C. A questo primo colloquio, segue il dispositivo della qualificazione.
N.V. Va bene, grazie.
R.C. Eh, è primo colloquio! Non è ordinale. Lei si chiede se debba essere unico?
N.V. Intuisco che primo ha un senso, non potrei spiegarlo, ma intuisco che questo primo occorre. Però?
R.C. È primo colloquio, cui non segue il secondo. Al primo colloquio può seguire la tripartizione dell’esperienza, quindi conversazioni di qualificazione, di valorizzazione e di cifra. Oppure non segue nulla. Badi che è una cosa complessa, eh?
N.V. Eh, intuisco anche quello.
R.C. Diciamo che, proprio per darle un aiutino, in ciò che viene chiamata “psicoanalisi”, c’è solo il primo colloquio. Non voglio neanche entrare nel merito delle psicoterapie, che non si pongono nemmeno la questione. Ma per quanto attiene all’esperienza della parola originaria, quindi alla psicanalisi come esperienza della parola, questa questione si pone, quindi si pone la questione dell’analisi come preambolo all’itinerario e l’itinerario che procede dal preambolo, da questa decisione irrevocabile e assoluta. Senza questa decisione si può restare al primo colloquio. Adesso ho già detto molto! Ci sono altre domande? Per esempio, l’idea di domesticità, si pone nel primo colloquio o nell’itinerario? Faccio io a voi adesso la domanda. L’idea del domestico, dell’economia della pulsione, dell’economicismo intellettuale, quindi del domestico come abitudine, come ambiente conosciuto, come ambiente in cui vivere comodamente, questa idea del domestico dove sta? Sta nel preambolo o sta nel suo seguito? O addirittura prima del preambolo? Dove sta il domestico? Lei la sa lunga? Vuole rispondere?
G.D.F. Prima del preambolo.
R.C. Quindi la sa lunga.
G.D.F. Se è un preambolo, se l’analisi è un preambolo, e quindi il domestico sarebbe la credenza della conoscenza.
R.C. Sì, anche.
G.D.F. E quindi il preambolo è già la messa in discussione del domestico, la non accettazione del domestico.
R.C. Ecco, la non accettazione!
G.D.F. La non accettazione della lingua dei litiganti.
R.C. Allora lei la prossima volta ce ne potrà dire un po’, potrà darci qualche ulteriore annotazione, altri contributi, no? Perfetto! Così come ciascuno, peraltro io auspico che ciascuno dia più di un contributo alla questione intellettuale, quindi senza sufficienza, ma con generosità, osando esporsi oltre il domestico, oltre l’idea di sé, oltre alla paura e le sue varie modalità.
La decisione
Ruggero Chinaglia Con questa sera noi chiudiamo il 2008. Il prossimo incontro sarà l’8 gennaio 2009. Dato che è l’incontro conclusivo di quest’anno e noi ci rivolgiamo al nuovo, forse c’è chi vuole formulare un augurio, la testimonianza di quanto è avvenuto quest’anno e, soprattutto, la testimonianza di quanto avverrà. Tutti sono capaci di testimoniare ciò che è stato!
Pubblico Quella di Nostradamus…
R.C. Non è proprio una testimonianza, quella di Nostradamus; non come Nostradamus, differentemente da Nostradamus, e nel modo opportuno! Non c’è chi abbia un augurio da formulare?
Patrizia Ercolani. Io ho qualcosa da testimoniare.
R.C. Bene, Patrizia Ercolani. Altri?
Cecilia Maurantonio. Io ho da testimoniare.
R.C. Nessun altro?
Gianfranco Dalle Fratte. Forse io.
R.C. Forse!
G.D.F. Ho scritto qualcosa da leggere, però è una bozza. Devo ancora precisarla. Sarebbero…
R.C. Sarebbero?
G.D.F. Sono tre brevi scritti…
R.C. Tre?
G.D.F. Tre brevi scritti con tre titoli diversi.
R.C. No, deve deciderne uno per un augurio. L’incontro di questa sera s’intitola La decisione. Se non altro, in omaggio al titolo di questa sera, decida quale dei tre.
G.D.F. Potrebbe essere quello dal titolo La scuola che sta nella parola oppure La scuola della parola.
R.C. Questo è l’augurio che lei fa.
G.D.F. Potrebbe.
R.C. Potrebbe?
G.D.F. Devo decidere.
R.C. Deve decidere?
G.D.F. No, mi sembra più opportuno questo.
R.C. Bene. Poi?
Matteo Venturin Io.
R. C. Lei?
M.V. Ho scritto qualcosa.
R.C. Lei si chiama?
M.V. Matteo Venturin.
R.C. Siamo a quattro!
Lucio Panizzo. Anch’io ho scritto qualcosa per un augurio.
R.C. Un augurio?
L.P. Mi chiamo Lucio Panizzo.
R.C. Ha scritto un augurio! Bene. Nessun altro?
Fernanda Novaretti. Io ho scritto una cosa breve.
R.C. Ha scritto una cosa, breve, quindi un augurio?
F.N. Non so se sia un augurio.
R.C. Non sa se sia un augurio? Lei come si chiama?
F.N. Fernanda Novaretti.
R.C. Qualcun altro? Perché questa è la volta, non ci sono altre volte, altre possibilità! Le persone generose sono queste, gli altri sono dei tirchioni. Nemmeno un augurio vogliono fare? Transiteranno nel nuovo anno all’insegna dell’avarizia! Bravi! Anche Emanuela Macario? Anche Lucia Macario? Neanche lei vuole fare un augurio? Niente, si tiene tutto per sé. Beh, terremo conto, ne prendiamo atto; però la serata è ancora lunga, magari, chi lo sa…
Pubblico Vorrei fare un paio di domande.
R.C. Un paio di domande?
Pubblico Forse.
R.C. Un paio di domande non fanno un augurio! Sentiamo l’augurio di Cecilia Maurantonio.
C.M. La volta scorsa ho annotato alcune cose riguardo al primo colloquio, che poi si sono precisate nell’equipe di clinica dell’Associazione cifrematica di Padova.
L’analisi è un teorema: non c’è più soluzione. Non c’è mai stata, in quanto ciò che si dissipa è il fantasma materno, la credenza nell’origine, quindi nella predestinazione degli umani e la morte. Ciò avviene nel primo colloquio, preambolo essenziale all’incominciamento dell’itinerario. Oggi, il dibattimento nella scuola avviene nell’oscillazione, in una gradualità statistica di gradimento, cercando di cambiare termini, spostando o aggiungendo ore, insegnanti, strumenti e altro ancora, ma sempre nel tentativo di poter sistematizzare ciò che sfugge alla presa, la parola. Nell’istituzione scolastica, ciascun giorno, mi trovo nello sforzo di fare ciò che occorre, quindi, nel silenzio, di ascoltare quali sono le istanze della qualità della parola nella scuola.
Nulla è immaginabile perché nulla significa, e niente è più grande o più piccolo, ma occorre, magari, un granello di sabbia, come dice Armando Verdiglione, il contributo di civiltà di ciascuno. Questo può trasformare radicalmente ciascun aspetto della vita, gli eventi attuali, perché ciò che sembra incidere gravemente sull’avvenire, non si trova nell’attualità della parola, ma costituisce solo rappresentazioni della paura in assenza di fede. Che vi sia questo primo colloquio, e direi di più, che si possa scrivere il programma di vita, incominciando, magari, con l’ipotesi, ma essenzialmente facendo ciò che occorre, affinché progetto e programma di vita si attuino, è l’unico augurio, per me, che si possa rivolgere a ciascuno e a quanti sono qui questa sera, affinché questo Natale avvenga nella parola, nella sua festa.
R.C. Qual è l’augurio, quindi? L’augurio di buon Natale?
C.M. No. È un augurio, visto che ci sono questi giorni…
R.C. Auguriamo a tutti buon Natale, così…
C.M. Non ho detto a tutti.
R.C. No, appunto. Dice: “Auguriamo buon Natale!”, e l’anno che verrà dove sta?
C.M. Beh, incomincia con la nascita di qualcosa, non di Gesù Bambino, ovviamente.
R.C. La nascita è auspicabile che ci sia già stata, no? Lei aspetta ancora di nascere?
C.M. No, ma c’è sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che interviene nella parola, la decisione.
R.C. Ecco!
C.M. Parlavo del programma, della scrittura del programma, magari con un’ipotesi di programma.
R.C. E l’ipotesi qual è?
C.M. La mia?
R.C. E di chi?
C.M. Bene, vuole che gliela dica?
R.C. Non so, se ritiene fare un esempio di augurio… Altrimenti, è come dire: “Buon Natale a tutti!”.
C.M. Gli aspetti che ritengo, sia come provocazione che come istanza…
R.C. Come fece Ponzio Pilato. “Buon Natale a tutti! Buona Pasqua, buon Natale”.
C.M. Deve essere innanzitutto per me, questo augurio.
R.C. Beh, adesso dire che è per sé e dire che è per tutti, è la stessa cosa.
C.M. È a ciascuno, non ho detto a tutti.
R.C. Dice che è per sé. Qual è l’ipotesi di avvenire?
C.M. L’ipotesi? Dicevo che, sia come provocazione sia come istanza, non mia, ma che emerge dall’itinerario intellettuale, è quella della vendita e di istituire nuovi dispositivi.
R.C. Beh, se l’è cavata così, come direbbero alcuni, in corner.
C.M. L’organizzazione di eventi, di cose varie, che però si trovino, chiaramente, in qualcosa che ha incominciato a scriversi, e quindi anche nell’integrazione, in un momento di integrazione, che giungano a questo.
R.C. Va bene. Venga Fernanda Novaretti, per darci il suo augurio.
Fernanda Novaretti. Mi raccontò che nell’aula di prima elementare erano appese alle pareti delle tessere grigie. Su ciascuna era disegnata una lettera dell’alfabeto in minuscolo e in maiuscolo, e un disegno. Per comporre le parole doveva scegliere le lettere da avvicinare una all’altra. La difficoltà era stata presto superata. Rimaneva quella grafica, una volta passata alla scrittura, di unire le lettere una all’altra in bella calligrafia.
La memoria rilascia il ricordo. Era ritornata questa immagine delle tessere appese alle pareti quando, parlando, diceva: “La parola non mi viene. Mi manca la parola. Da dove viene la parola? Come segnare un nome a quello che voglio dire?” Cercava affannosamente il disegno, la figura, come se fosse ancora là, sulla parete. E una volta trovata, dopo un po’, le lettere dell’alfabeto componevano il nome. Questione di resistenza? Questione di rimozione? Oppure di esclusione?
R.C. Bene. Patrizia Ercolani.
P.E. Nulla è. Quando qualcosa esiste rimane inconoscibile. Quando qualcosa esiste e si acquisisce rimane incomunicabile.
Nella parola i tre teoremi sono al centro del nulla della parola. La materia si condensa e si dissolve in base al numero, secondo la logica particolare, strutturandosi nello specifico, avviando la logica della nominazione in cui l’amore più ne dà più ne ha − cito dal libro di Armando Verdiglione Il giardino dell’automa − e ne ha sempre infinitamente più di quel che ne dà. Accanto, l’odio più ne prende, più ne lascia, e più ne trova e più ne cerca. Prendere e trovare, trovare o cercare. Il destino sta agganciato all’odio. (…) L’innamoramento corre lungo l’amore (indice del parricidio) e lungo l’odio (indice della sessualità): scostato sia dal suo oggetto, che rimane illocalizzabile, sia dal tempo, che rimane fuori dalla sua presa. (…) L’odio indica come le cose, dividendosi, si odono e come cedono alla musica. L’ascolto si staglia sull’odio. L’Altro non manca mai.
Una donna. Amo in te qualcosa più di te. Improvvisamente un colpo, un taglio, uno squarcio.
Dall’obbedienza, con umiltà, alla riuscita nel pragma. Maria, dall’antico Egitto, l’amata, accoglie il dono d’amore di cui, in semplicità, dà testimonianza di civiltà. Stessa vita, la vita stessa, fino all’altra vita. Nulla è conoscibile. L’acquisizione è incomunicabile. L’esistenza dal nulla a nulla, tra la notte e il giorno, il crepuscolo, essenziale per l’intendimento.
R.C. Bene.
P.E. Ciascuno a suo modo, secondo la sua particolarità e i suoi tempi.
R.C. E qui casca…
P.E. L’asino! Io, appunto.
R.C. Ora legge il suo scritto Lucio Panizzo.
L.P. L’atto di parola risulta inaugurale in quanto non c’è mai stato prima; fondante e nuovo ciascuna volta, per cui a nulla servono i tentativi di sistemare il passato per capire il presente. Non c’è ricordo che possa sostituire la memoria. Il ricordo paralizza la domanda. La memoria comporta, invece, l’ascolto e l’analisi della risorsa che il disagio dispensa: risorsa originaria. Auguro a ciascuno di iscriversi alla scuola del disagio e dell’ascolto.
R.C. Lei è già iscritto?
L.P. Sì.
R.C. Non ce n’eravamo accorti!
L.P. Però, l’iscrizione…
R.C. Quindi lei non è fra i ciascuno, augura agli altri, augura a tutti quanti.
L.P. Auguro a ciascuno e, chiaramente, anche a me!
R.C. Lei si augura?
L. P A me sembra di essere iscritto a questa scuola.
R.C. Sembra.
L.P. La frequento da parecchi anni.
R.C. È un frequentatore, quindi. Un frequentatore iscritto?
L.P. Mi sta chiedendo se io sono affiliato o associato?
R.C. Ah, ecco! C’è questo dubbio!
L.P. Beh, l’iscrizione è una cosa seria. Comunque, l’augurio che io do è questo: di iscriversi a questa scuola.
R.C. Bene. Grazie. Dalle Fratte, prego.
G.D.F. La scuola della parola originaria. Perché il disagio e l’ascolto farebbero scuola? Di quale scuola si tratta? A esempio, la scuola della parola è la scuola della vita? C’è un’altra scuola che non sia la scuola della parola, la scuola della vita? E se no, si tratterebbe del discorso sulla, della scuola? Quindi, chi si crede insegnante, si nega la scuola. Negato il dispositivo maestro-allievo, cifrante-cifratore, io insegnante so, tu allievo non sai, quindi è negata la trialità: io, tu, lui. Cioè il sapere rientrerebbe nella logica di causa e effetto, sarebbe rappresentato da un io unitario padrone in casa propria. Il testo di Freud, con la testimonianza della sua esperienza e della sua invenzione, la psicanalisi, assolutamente ignorate. Un io detentore del sapere, un sapere trasmissibile dal maestro all’allievo, quindi il sapere trasmissibile e distribuibile da chi lo detiene a chi lo acquista, sapere come io-causa, è un sapere senza tripartizione, senza la logica della parola, che è la logica singolare-triale. Logica del discorso, invece, io-uno so, tu-uno saprai da me. Assenza di comunicazione tra un uno e un altro uno, logica plurale, unilingua o dialogo, quindi attraverso un codice: lingua come tale, lingua codificata, lingua che viene da un’idea di finito, dalle scoperte, non dall’invenzione.
L’alingua, invece, lingua sconosciuta, lingua altra, lingua del non sapere già. Dall’alingua, come mito di Babele, alla lingua dell’intendimento e della novità. Lingua del viaggio senza ritorno. Se tali le cose, le cose sono inerti e immobili. Ipostasi del soggetto, l’essere non attraversato dal tempo, talità delle cose, cose da scoprire, scavando dentro il discorso, maieutica, come se avesse un fondo, un fondamento. Dall’idea di sé, come soggetto fondante il sapere, un andare verso il profondo in cui pescare il già c’è, da scoprire, scoperta, non invenzione. Scoperta, cioè non scienza ma discorso della e sulla scienza. La scoperta è senza arte, senza variazione, senza adiacenza.
Cose nominabili, lingua del segno come nome senza tripartizione, cose nominabili perché finite. L’essere delle cose, sostanzialità, cose morte, discorso della morte, discorso occidentale, la gnosi, gnosticismo. Principio d’identità: io mi conosco, io ti conosco, noi ci conosciamo, però ci osserviamo, ci sorvegliamo, ci giudichiamo. Logica della colpa e della pena, istituto della vendetta, lingua del ricatto e del riscatto, cose da purificare. Lingua dei litiganti, sordità, reagiamo, quindi sopravviviamo. Cogito ergo sum: penso dunque sono. Non basta pensare per provare l’esistenza, ma occorre la testimonianza che viene dall’esperienza della parola originaria.
L’augurio è la vendita per ciascuno dei prodotti del secondo rinascimento, prodotti per la battaglia intellettuale, un dispositivo per la salute che è la vera salute. Grazie.
R.C. Bene, grazie! Venga Matteo Venturin, che ci legge il suo augurio.
M.V. È un augurio così… La decisione, facoltà…
R.C. Decisione senza facoltà!
M.V. Decido comunque sempre io per me, anche perché non devo rendere conto a nessuno.
R.C. Già così è una facoltà!
M.V. Io non so ancora cosa sia la decisione o se ne ho un’idea mia. Decido sempre io per me, anche perché non devo rendere conto a nessuno. I miei sono morti da poco, mio fratello ha un’altra vita e comunque non andiamo d’accordo: l’eredità che c’è di mezzo, eccetera. Sono rientrato da poco a Padova, dopo più di tre anni a Ravenna e altri tre a Milano, uno a Bologna, uno a Rimini e così via. Questo non è un esaurimento privato e banale. Facoltà di scelta e di decisione, una sorta di libertà quasi cercata. Libertà e serenità non sempre coincidono, anzi. E non posso usare altri termini che coincidere, coincidenza. Dunque, decido io per me su tutto, dalla mattina alla sera, dalla sera alla notte, al mattino. E tutte le albe che mi vedono fanno parte della decisione, della facoltà di poter decidere, sempre, comunque, dove e quando. La situazione, condizione di decisione, è stata indotta per un insieme di fattori, ma era un bisogno. Sono, dunque, quasi un assassino. Posso decidere se morire, vivere quando e come. Questo è un vantaggio, vantaggio-svantaggio. Ho deciso anche di interrompere con mio fratello, una volta spartita l’eredità. La cosa è reciproca e fa male, ma mai male quanto l’essere talmente libero da essere vincolato da me stesso. Una zattera in un oceano, massimo di libertà.
R.C. Quindi era un fratello di eredità…
M.V. Ma che cazzo di libertà è? Ho sempre deciso la rottura con le ragazze, col lavoro, con le amicizie. Come entro, esco: con la stessa facilità. E sono molto bravo a assecondare le aspettative degli altri, come di non soddisfarle, di deluderle. Questo è un gioco, forse al massacro, ma questa è una decisione. È decisione, sicuramente, non autovittimismo.
R.C. Bene, grazie. Si accomodi.
C’è da prendere sul serio questi auguri, che, qua e là, pongono l’accento sulla pars destruens, ma in direzione della pars costruens, dove la pars costruens esige la clinica, la cifratura, la cifra. Ma l’augurio è importante. L’augurio è già atto di autorità, quindi un atto che introduce, che instaura l’aumento. È un atto che, quindi, esige la funzione di zero, la funzione di nome e la funzione di significante. Ma l’augurio è anche testimonianza, testimonianza di quel che si fa, di ciò che sta nel programma. L’augurio che non si rivolgesse al programma sarebbe un augurio generico, quindi iscritto nella funzione di morte. Tutto ciò che è generico si inscrive in questa superstizione della mortalità. “La” decisione, quindi, e non “le” decisioni. La decisione è la decisione di vivere. Non è la decisione di fare questo o quello, non esistono molte decisioni, non esiste la facoltà di decidere. La decisione è senza facoltà, senza volontà, senza soggetto. Decisione di vivere: questa è la decisione. Decisione di vivere senza l’accettazione della morte, senza la cappa della mortalità, senza l’idea di morte a dirigere il cammino, il percorso, l’itinerario. La decisione di vivere è senza la volontà di bene: non è la decisione di vivere bene o per il bene, è decisione di vivere. Decisione senza intenzione, senza intenzionalità, senza volontà, senza l’idea di poter scegliere: tutto ciò non ha niente a che vedere con la decisione. La scelta, la volontà, s’ispirano al principio di selezione, al principio del possibilismo e del probabilismo, all’idea di alternativa, dunque all’idea del soggetto.
La decisione è senza rottura. La rottura di qualcosa è un’idea di poter addomesticare il tempo, è un’idea romantica del tempo. Il tempo è senza rottura, il tempo è taglio senza rottura. È taglio, quel taglio che introduce la differenza sessuale, quel taglio da cui procede la decisione. La decisione di vivere è la constatazione che il tempo non è addomesticabile, non è cronologico, non è governabile, non passa, non scorre, perché non finisce. Questa decisione è la decisione essenziale. Senza la decisione nulla può avvenire: il rimando, la riserva, la remora, la sparizione, la rinuncia, la dimissione sono fantasie rispetto a una possibile gestione del tempo e delle cose.
Il tempo contrassegna l’urgenza, senza rimedio, senza rimando, senza la possibilità di pensarci. Pensarci è già un’ipotesi di soggettività, un’ipotesi di alternativa. A cosa pensare? Alla scelta. Se fare o non fare, se fare così o se fare cosà. Già questo è nell’alternativa, nella scelta, è nel principio di selezione, quel principio che introduce la possibilità di avere o di essere.
La decisione, la decisione di vivere, è già la messa in questione dell’avere o dell’essere, del soggetto che può dire: “Io ho, io non ho; io sono, io non sono”. E questa decisione introduce all’impossibile dell’avere e all’impossibile dell’essere, introduce già, quindi, alla questione dell’imparare. L’avere e l’essere negano l’imparare, in quanto presumono che le cose siano. Impossibile imparare se le cose sono, impossibile imparare per chi presume di avere, cioè impossibile imparare senza la funzione del non, senza la funzione del non della rimozione, senza la funzione del non della resistenza. L’amore si avvale di questi due impossibili, è il custode di questi due impossibili. L’amore è il custode della ricerca intorno alle qualità delle cose. Nessun amore per chi presume che le cose siano tali. E tra l’impossibile della rimozione e l’impossibile della resistenza, il contingente, ossia la funzione di Altro. Il contingente: ciò per cui le cose si fanno, dunque, senza pensarci, senza scelta, senza alternativa, per via del programma e del suo modo, per via di ciò che il dispositivo esige. Niente si fa per soggettività. La soggettività è ciò che consente di rimandare, procrastinare, selezionare, rinviare, volere. La soggettività è il modo del condizionale: vorrei, potrei, sarebbe bello. Ah, come mi piacerebbe! Il contingente, invece, procede dalla condizione, dal sembiante, dall’oggetto che causa; quindi, in particolare, dalla voce, che è l’oggetto che è causa di verità. Dunque è l’oggetto che comporta il dispositivo pragmatico. Ma la decisione è senza facoltà, perché è secondo la logica e secondo l’occorrenza. Per questo la logica è senza facoltà, non è ciò che io penso che sia. La logica non è la logica del discorso comune, non è il buon senso. La logica è l’idioma, la particolarità. Allora, l’augurio, come atto di autorità, indica che è in atto l’anonimato del nome e l’innominabilità del nome. Impossibile nominare il nome, impossibile dire: “Questo è il nome”. Il nome funziona nella simultaneità con il significante e con l’Altro. È per questo che ciascuna cosa si qualifica se è sospeso il principio di nominabilità, cioè il principio di controllo e gestione sul dire e sul parlare. Nessuno sa ciò che dice, tanto meno ciò che deve dire. Sta qui l’afasia originaria. Per gli Egizi, Iside era la dea velata. Impossibile togliere il velo, impossibile pronunciare il nome della divinità, impossibile vedere ciò che sta sotto, impossibile pronunciare il suo vero nome, impossibile sapere quale sia il suo vero nome. Già gli Egizi avevano colto, prima ancora degli , dunque, che il nome è innominabile. Impossibile pronunciare il nome di Dio, non già perché è vietato, ma perché è impossibile. Impossibile pronunciare il nome, impossibile dire il nome, impossibile sapere il nome. L’afasia originaria procede da questo. Chi presumesse di sapere il nome da dire, di potere controllare la nominazione, si trova nel mutismo, si trova nell’impossibile scelta intorno a cosa dire. Il fantasma di padronanza è una reazione all’idiomatica e alla cifratica della parola, dunque una reazione all’afasia della parola e all’afasia della struttura. Abbiamo l’afasia originaria, che è l’afasia della parola, afasia rispetto alla logìa, e l’afasia strutturale, che è rispetto alla cifratica. Queste due afasie concorrono all’impossibilità di padroneggiare il parlare, il dire. L’idea di nominare le cose pone l’impossibilità di farlo. È un’idea creativa nominare le cose, sarebbe, come dire, crearle. Ma come creare le cose? Dio ha prima creato o nominato le cose? O né l’uno né l’altro? C’è afasia sia quanto all’idioma sia quanto alla conversazione, alla narrazione, al racconto. Conversazione di qualificazione, narrazione clinica, racconto cifrale. Qui l’afasia interviene a instaurare la lingua diplomatica, la lingua altra e l’altra lingua, cioè non già il gergo, la lingua partecipabile, la lingua della luogocomunicazione, ma l’alingua, l’alingua che esige l’ascolto, la cifratura, la scrittura. In fin dei conti, per dire così, ogni discorso di padronanza si lamenta di questa afasia, dell’afasia originaria e dell’afasia strutturale, perché impedisce la presa sulle cose, impedisce di togliere il velo e indica che non c’è passaggio, non c’è ritorno, non c’è fondamento, non c’è un atto che si fondi su un altro atto. Nessun atto poggia su ciò che è venuto prima dell’impossibile della rimozione, l’impossibile della resistenza, ma si scrive. Questo importa, e la memoria si scrive. Qual è la scrittura della memoria? La scrittura della memoria è senza ricordo perché il ricordo è, eventualmente, un falso ricordo, come notava Freud, è un pretesto per dire, perché Altro si dica. Allora, come fondarsi sui ricordi? Come procedere di ricordo in ricordo? Ciascuna conversazione, narrazione, racconto, nel dispositivo di parola dissipa questo preconcetto, questa presunzione, quest’idea di potersi fondare su un fatto o su un detto. Impossibile togliere l’afasia, impossibile sapere come dire, cosa dire. Però, tutto ciò esige la decisione, la decisione di vivere, e esige il preambolo. La parola originaria, l’esperienza della parola originaria, procede dal preambolo. Senza il preambolo l’esperienza non c’è. Non è esperienza che si possa fare con le migliori intenzioni, né con le peggiori, né per volontà, né per prova. Il preambolo pone la questione che non c’è più sostanza, è l’acquisizione indelebile che non c’è più sostanza. Se non c’è più sostanza, non c’è più nemmeno soggetto. Io, tu, lui non sono forme soggettive. Io, tu, lui sono indici dell’oggetto. Io faccio, io penso, io voglio, sono formulazioni preanalitiche. L’idea di essere, l’idea di avere la facoltà, l’idea di essere chi decide, chi fa: tutto ciò è preanalitico. Tutto ciò è radicato attorno al concetto di sostanza, e il pendant della sostanza è il soggetto. L’esperienza della parola originaria si fa in assenza di soggettività: è esperienza di qualificazione, di narrazione clinica e di cifratura, una volta dismessa, dissipata l’abitudine di rappresentarsi. Rappresentarsi è sempre rappresentarsi la morte. Pensarsi è sempre un modo di pensare alla morte, di credere di pensarla, di credere di poter gestirla, di credere, insomma, di poter esorcizzare quest’idea, in realtà consacrandola. E non c’è modo di capire quale sia la forza originaria, la forza della pulsione senza il preambolo. La settima scorsa parlavamo del primo colloquio: il primo colloquio è l’instaurazione del tempo, l’instaurazione della nominazione, la dissipazione del fantasma materno. Nel primo colloquio avviene questo. L’itinerario non si avvia senza questa dissipazione, senza questo teorema, senza l’analisi come teorema, cioè l’analisi come teorema della sostanza: non c’è più sostanza, non c’è più soluzione. La questione, allora, diviene intellettuale, ossia diviene come fare, come pensare, come dire, come vivere. È la questione del come, non già l’abolizione del male in favore del bene. L’analisi consente di avviare questa procedura del modo: qual è il modo? Ciascun dettaglio, ciascuna cosa, ciascuna questione esige il modo opportuno. È impossibile trovare il modo per chi resta ancorato al primo colloquio, senza che s’instauri questo teorema, cioè senza che siano dissipate, dismesse, le certezze soggettive. Questa è la questione della psicanalisi. Non è il ritualismo di parlare con qualcuno, il ritualismo di una presunta reciprocità, anzi! L’analisi è istantanea, è il teorema secondo cui non c’è più sostanza, cioè non c’è più adesione a tutto ciò che la sostanza comporta e, dunque, a un’idea della vita che ha come sua soluzione il passaggio nella morte. Senza questa dissipazione non prende avvio l’itinerario, non prende avvio il processo di qualificazione, non prende avvio nemmeno l’afasia originaria. La parola, senza questo teorema, resta negata. È questa la questione intellettuale.
Non è questione se la psicanalisi sia efficace o no per questa o quella cosa, per questa o quella patologia: queste sono fanfaluche per i benpensanti, cioè per chi non ha capito niente. Non si tratta dell’efficacia della psicanalisi, si tratta di verificare se si è istaurata la parola originaria per chi chiede di fare l’esperienza della psicanalisi, perché, se non si è istaurata, l’esperienza non avviene. Se c’è chi resta adeso, incollato, avvinto all’idea di sostanza, alla rappresentazione dell’Altro, cioè a ogni negazione possibile della parola, questa esperienza non avviene. Perché il bello della psicanalisi è questo: impossibile bluffare, non c’è bluff. È un’esperienza autentica, clinica, di valore e è impossibile bluffare. La questione è ciascun dettaglio che si qualifica, che si cifra, che si valorizza, come giunge alla sua scrittura, come le cose si scrivono, come l’esperienza si scrive, come la memoria si scrive e, scrivendosi, si valorizza.
L’esperienza della psicanalisi è un’esperienza di valorizzazione, non di purificazione: non c’è nulla da purificare. Si purifica o crede di doversi purificare chi ritiene di vivere nella merda. Ma chi ritiene di vivere nella merda continua a viverci e continuerà a fare abluzioni, perché crede nella merda e ci sguazza. La psicanalisi cosa ci può fare? Niente, proprio niente. Perché importa la decisione di vivere e il teorema della sostanza. Il teorema, cioè “non c’è più sostanza”, e quindi ciascuna cosa esige di qualificarsi, di concludersi nella legge, nell’etica e nella clinica, di cifrarsi, dunque di dirigersi e giungere al capitale. Come la vita diviene capitale: si tratta di questo. Ma indugiare nel negativo, nel male e in tutte le possibili rappresentazioni della soggettività vuol dire lo spreco, questo è lo spreco. Nella parola originaria non c’è spreco, perché ciascuna cosa tende verso la qualità secondo il modo opportuno. Questo modo opportuno è da trovare, dunque nulla va sprecato. Lo spreco è al di qua dell’analisi, al di qua del primo colloquio, al di qua dell’itinerario. Diciamo che la psicanalisi offre un’opportunità a seguito della decisione di vivere. Chi indugia con il suo tête a tête con la morte, cosa pretende? Cosa può pretendere? Può pretendere un’eutanasia, ma di questo non può occuparsi la psicanalisi, si occuperà il comitato di bioetica. Chi cerca la sua eutanasia, che si rivolge a fare alla psicanalisi? Ha sbagliato indirizzo. La psicanalisi non somministra eutanasie. Questo è il bello della psicanalisi: non prevede l’eutanasia, non ha come suo obiettivo la morte, ma la vita che diviene capitale. Però questo non va da sé, esige che ciascuno faccia la sua parte, con gli auguri e non solo. Se ci sono domande, questioni, natalizie e non…
Lucia Macario. Avrei due domande. Non mi era chiara la distinzione a cui aveva accennato un paio di volte fa tra l’adeguamento e l’adattamento. Mi sembrava di aver capito che l’adattamento sia voler ricondurre ogni cosa a un canone. Forse l’adeguamento, se fosse così, non so perché, lo intendeva come un’apertura, come qualcosa che implica l’ascolto, l’accoglimento?
R.C. Non era molto attenta, quella sera!
L.M. Mah, mi è sfuggita questa questione dell’adeguamento.
R.C. Adesso lei vorrebbe una lezione di recupero?
L.M. Non avevo mai pensato che ci fosse una differenza tra questi due termini, un adattarsi è un po’ come un adeguarsi.
R.C. No. Adeguarsi, adattarsi sono due cose del tutto differenti. Lei ritiene che questi due termini siano sinonimi, no?
L.M. Prima pensavo così, adesso mi è venuto il dubbio.
R.C. Nella logica della nominazione non ci sono sinonimi, capisce? Se la rimozione è in atto, se la resistenza è in atto, nulla è sinonimo di nulla, perché ciascuna cosa si qualifica. E, qualificandosi, è senza sinonimia, senza analogia: si precisa. Quindi volge verso l’unicum, verso la sua unicità; dunque, non ci sono sinonimi.
L.M. Infatti, mi sfugge sempre la differenza tra i due termini.
R.C. D’altronde, lei stessa l’aveva notato ponendo la questione. La seconda domanda qual è?
L.M. La seconda domanda riguardava la nominazione. Lei qualche volta ha usato questo termine.
R.C. Lei ancora ignora la logica della nominazione. L’ha mai sentita nominare?
L.M. Si, l’ho già sentita, però in realtà…
R.C. Non le è chiaro cosa sia. Era il 1973, trentacinque anni fa, quando Armando Verdiglione, inaugurando il suo seminario settimanale, e quindi l’esperienza della cifrematica, indicò questo termine “logica della nominazione”. Indicò con questo termine l’inconscio, cioè l’idioma della parola. In trentacinque anni è possibile che lei non abbia mai sentito dire qualcosa in merito?
L.M. Sì, però, poi mi sfugge quando dice che non è possibile dare un nome…
R.C. Ci vuole tutta l’intolleranza di questa terra a non capire proprio cosa sia, di che cosa si parli, qual è la proposta. Voglio dire, questo ragazzo ha scritto diciotto libri in merito! Basterebbe leggerli e qualcosa, magari, si capisce. Ma perché non leggerne neanche uno? Questo resta una questione, no? Noi abbiamo ormai dato corso a diciotto difensive, qualcosa dicono di questo, basterebbe leggerle, no? Leggendole, qualcosa si capisce, qualcos’altro s’intende e qualcosa si scrive, no? Ci vuole, tuttavia, che cosa? Ci vuole la ragione e il diritto dell’Altro. Il diritto dell’Altro, con le sue proprietà, l’indulgenza, la generosità e l’umiltà, perché con la supponenza non si giunge nemmeno a capire, non dico a imparare, ma neanche a capire. Umiltà, generosità, indulgenza e la ragione dell’Altro, ossia secondo il numero, diadico e triale: la ragione del due e del tre. Senza l’introduzione del numero triale, ognuno resta a Aristotele, resta a un discorso filosofico, resta avverso alla psicanalisi; parlo della nostra psicanalisi ovviamente, cioè la psicanalisi, non ce ne sono altre. Parlo della psicanalisi senza psicoterapia, senza l’idea di un soggetto da curare, da trattare. Se voi leggete i manuali di medicina, di giurisprudenza, di psichiatria, di psicoterapia, di sociologia, di pedagogia, tutti questi manuali vi parleranno di un “soggetto da trattare”. Ma qual è? Chi è questo soggetto da trattare? Come va trattato? Va trattato secondo i protocolli. Tutto ciò è avulso dalla psicanalisi. Allora, quando voi trovate, da qualche parte, o sentite, di un soggetto da trattare, di un soggetto da benedire, di un soggetto da salvare, state pure tranquilli: la psicanalisi, lì, non c’entra nulla. La psicanalisi è senza soggetto, è senza trattamento, perché è un’esperienza di parola libera. È un’altra cosa. Ma quindi lei stava dicendo… io l’ho interrotta. Qual era la domanda?
L.M. La domanda era sorta riguardo a questa impossibilità di nominare il nome.
R.C. Esatto. Il nome è innominabile e anonimo.
L.M. Anonimo?
R.C. Anonimo. Lei può cogliere qual è il suggerimento che viene dal nome, qual è la suggestione, qual è la metafora, e per questa via trova l’indicazione che procede dal nome, ma non può nominare il nome. È questo il processo linguistico. L’educazione linguistica della cifrematica, che esige l’ascolto, esige una raffinatezza intellettuale, cioè di non poter dire qualunque minchioneria e di trovare, poi, anche la qualità. È un processo linguistico di qualificazione. Lungo questo processo s’instaura l’ascolto, s’instaura la clinica. Con la clinica, senza più negativo, le cose si precisano, perché con la clinica ciascuna cosa trova la sua sede; poi, da lì, la cosa procede ancora, perché le cose si scrivono e concludono alla qualità, per ciascun dettaglio. È un’altra vita.
C’è anche un’altra versione dell’adattamento: l’adattamento che non è solamente rivolto al canone, ma che può costituire l’avvio della ricerca in merito a come le cose entrano nell’atto. Un conto è il canone e un conto è l’atto di parola. In fin dei conti, adaptus, indicherebbe anche questo, ad aptus: come le cose si rivolgono all’atto di parola, quindi alla nominazione, mentre l’adattamento, gergalmente, vorrebbe ricondurle al discorso comune. Quindi, nemmeno l’adattamento è qualcosa di negativo, se è preso per la sua punta e introdotto nel processo linguistico di qualificazione. Ci sono altre domande? Perché qui concludiamo l’anno! Per quest’anno, nessuno avrà più occasione. Quindi, importantissima la notazione posta intorno all’afasia: se il nome è impronunciabile, innominabile e anonimo, può comporsi il nome? O questo è un tentativo di padronanza, l’idea di comporre il nome? Chi ha alzato una mano?
Pubblico Mi è sembrato di captare che l’adattamento, appunto, da ad aptus, come le cose si rivolgono all’atto di parola, abbia una connotazione positiva, perché prevede un cambiamento, mentre l’adeguamento sia un’accettazione passiva dell’evento.
R.C. Nessuna accettazione passiva e neanche nessuna accettazione attiva. Sia l’adattamento sia l’adeguamento, in questa accezione, indicano che la questione intellettuale è la questione della non accettazione: la non accettazione della sostanza, la non accettazione dell’idea che le cose siano tali, anzi, che le cose siano. Nulla è. Da questo stagliamento, che è il nulla, le cose vanno qualificandosi in direzione della qualità, quindi, nessuna accettazione. Sta qui la questione. Nessun pericolo di accettazione, nessuna prescrizione di accettazione, ma certamente occorre la decisione di non accettare, intellettualmente, la morte e i suoi derivati. Derivati è una parola che adesso è entrata in tutte le case, per via di tutti i casini bancari che sono accaduti in questi mesi. Ecco, i derivati della morte sono come i derivati delle banche. Non portano nulla di buono. Allora, a ciascuno l’augurio di situarsi nella decisione di vivere, e quindi nella decisione di divenire capitale.
Chi intende. Quale programma
Ruggero Chinaglia Riprendiamo dopo questa pausa delle festività del Natale, Capodanno, Epifania e, per cominciare, sono lieto che ci sia questa sera fra noi anche il presidente della Circoscrizione del Quartiere n°1, il dottor Stefano Grigoletto, che è stato atteso tante altre volte, ma che questa sera, finalmente, ha avuto modo di farci visita, e credo che voglia rivolgerci un saluto.
Stefano Grigoletto Mi scuso se soltanto stasera posso essere qui, ma ricevo numerosi inviti, oltre ai molti impegni istituzionali che richiedono la mia presenza in modo superiore a quanto pensassi, visto che comunque ho assunto un mandato abbastanza pesante. Per quanto la circoscrizione possa essere il figlio istituzionale di un dio minore rispetto al comune, in realtà c’è parecchio da fare. Questa sera ha richiamato la mia attenzione Cecilia e sono ora lieto di trovarmi qui con voi. Approfitto per augurarvi un buon anno nuovo e anche un buon lavoro. Mi sembra che un’Associazione come la vostra, meritevole delle attenzioni opportune della circoscrizione, stia conducendo un lavoro culturale molto serio e costante, con la partecipazione di tutti i presenti. Passo la parola al presidente.
R.C. La ringrazio. Siamo noi che ringraziamo il presidente e abbiamo avvertito da parte sua un’attenzione e una sensibilità per questioni culturali che spero possano sfociare in ulteriori collaborazioni. Già avevamo accennato a un’ipotesi di dibattito sulla questione dell’abuso di psicofarmaci, per esempio, sulla questione di come viene considerata, a livello istituzionale, un’esigenza di parola che parte da un disagio e che sfocia anche in rappresentazioni “psicosomatiche” varie che, anziché trovare riscontro e un rilancio, molto spesso viene solamente sedata a livello chimico, senza consentire un’articolazione. Io credo che questo sia un tema molto sentito anche a livello della città. È appena il caso di dire che il fatturato delle case farmaceutiche è secondo solo a quello delle multinazionali degli armamenti e quindi l’importanza del problema è sotto gli occhi di tutti. Certamente è il caso di promuovere una battaglia intellettuale per porre la questione. Troppo facile limitarsi a somministrare farmaci quando, per altro, si sostiene di voler combattere la droga. Lo psicofarmaco è l’altra faccia della droga. L’abitudine a credere che, se esiste una questione, se esiste una domanda, se esiste un disagio, questo deve essere immediatamente colmato dalla somministrazione di una sostanza, non è che l’altra faccia del problema, dilagante a livello sociale, di chi, o per migliorare le prestazioni o per contrastare un disagio, si rivolge al mercato della droga. È lo stesso problema.
S. G. Di professione faccio il farmacista: vedo tutti i giorni il modo di prescrivere alcuni farmaci. Gli incidenti stradali per abuso di alcool sono sotto gli occhi di tutti e le conseguenze sono riportate sui giornali. Per quanto riguarda l’abuso di droghe, i test utilizzabili dalle forze dell’ordine, polizia stradale, carabinieri e polizia municipale sono relativi alle cinque droghe di elezione che si trovano in circolazione: marijuana, cocaina, eroina, ecstasy, alcol. Purtroppo, non esiste alcun test relativo, per esempio, all’abuso di benzodiazepine, che sono notevoli ansiolitici. Questi sarebbero farmaci per sciogliere l’ansia; nella realtà, se il fine è questo, devo dire che molto spesso vengono prescritti in modo un po’ facile, perché manca, secondo me, il dialogo tra medico e paziente. Fare un incontro, un convegno, una giornata di sensibilizzazione su questi temi, credo che sia molto, molto importante. Tra l’altro, e mi corregga un esperto, molto più esperto di me, che è qui con noi questa sera: mi sembra che le benzodiazepine compromettano abbastanza il sonno Rem, quindi inducono un sonno un po’ fittizio rispetto al sonno normale. Quando l’individuo non dorme, non si rigenera e non ha quel grado di attenzione necessario per affrontare la vita di tutti i giorni. Quindi, quanto più è preciso il suo lavoro nella società, tanto più può essere “compromesso” dall’abuso. Con abuso intendo dire quando ormai si è passato il confine terapeutico previsto da questi farmaci che, bene o male, danno anche un po’ di dipendenza psicologica, inutile dirlo. Pensate a uno che fa l’autotrasportatore e deve mettersi al volante tutti i giorni, magari dopo aver dormito con un Tavor, un Lexotan, per indicare alcuni dei farmaci più noti. Il Tavor, prodotto dalla Wyeth, americana, è il farmaco più venduto sul territorio nazionale come numero di confezioni annuali, un farmaco che nelle farmacie non ho mai visto scadere: benzodiazepine per eccellenza! Molte persone sono talmente affezionate alla scatola e al suo colore che non prendono neanche in considerazione il farmaco sostitutivo, cioè con lo stesso principio attivo, ma con nome diverso; ormai associano direttamente il colore a quel nome. Senza quel nome e quella confezione, temono che manchi l’efficacia e che quindi non riusciranno a dormire; questa è la verità. Tanto più che, per riprendere quello che dicevo prima, si può facilmente abusarne e se chi ne abusa è un autotrasportatore in autostrada, capite anche voi quali conseguenze possono esserci per un colpo di sonno. Le cause di un possibile incidente, tuttavia, non risultano verificabili dagli strumenti in dotazione delle forze dell’ordine, a volte lo sono solo con analisi sofisticate, sicuramente non previste nella sede stradale. Quindi ci troviamo ad avere tantissime persone che sono succubi e anche psicologicamente dipendenti da questo tipo di farmaci, che in molti casi non sono giustificabili come terapia o come terapie a lunga scadenza. Vorrei dire qualcosa su come si comportano altri paesi, sia europei che extraeuropei: negli Stati Uniti, se un professionista prescrive per più di tre mesi un farmaco ansiolitico senza comunque imporre o consigliare al paziente delle terapie di altro tipo come, a esempio, quelle di tipo psicologico o psichiatrico, potrebbe venire denunciato alla competente autorità sanitaria locale. In Italia persiste la pessima abitudine di prescrivere in modo troppo facile questo genere di farmaci. Scusate se mi sono permesso questo preambolo, ma mi riallacciavo al discorso che stiamo affrontando.
R. C. La ringrazio per queste sue precisazioni, perché il problema è avvertito e ampio. Noi da anni abbiamo posto l’attenzione a questa e a altre questioni che riteniamo siano da affrontare in un contesto scientifico, dunque culturale e con le nostre pubblicazioni, le nostre riviste, atti di convegni, congressi e testimonianze di intellettuali di paesi differenti, cerchiamo di porre l’attenzione a una questione riguardante anche l’educazione, l’educazione alla qualità della vita, al modo di affrontare le difficoltà che ciascuno può incontrare. È chiaro che con la giustificazione della velocizzazione, dell’ottimizzazione, della scarsità di tempo disponibile viene scartato l’ascolto della questione che una persona che si reca dal medico pone. Il discorso viene, per lo più, frettolosamente concluso con la prescrizione farmacologica. Molto spesso la prescrizione farmacologica è un modo con cui il medico tampona la propria ansia, la propria inquietudine dinanzi a una richiesta non immediatamente comprensibile, perché non sempre è esplicita la questione che una persona pone quando va dal medico e enuncia qualcosa di un disagio. Il medico non ha attualmente quella formazione per prestare orecchio, per capire di cosa si tratti e quindi la questione viene risolta in termini di apparente richiesta e di reale somministrazione. Per il medico il discorso finisce lì, in particolare per il medico a cui si rivolge la maggior parte delle persone, il medico di base. C’è un problema che, apparentemente, è di quantità di somministrazione dei farmaci, in realtà è un problema di formazione del medico, un problema di qualità della conversazione, del colloquio che il medico può intrattenere con chi lo interpella. È un problema di educazione del cittadino che, a fronte di un disagio che avverte, non può essere ridotto a ritenere che a questo problema debba seguire immediatamente l’assunzione di qualcosa. A fronte di un problema c’è un ragionamento, c’è un’indagine da fare, bisogna capire di che si tratti. Con lo psicofarmaco si toglie questa possibilità di capire, questa possibilità di indagare che è, invece, l’unico modo effettivo per giungere a dissipare il motivo per cui si pone una domanda di aiuto. La domanda di aiuto è importante e non può essere semplicisticamente soddisfatta dalla chimica. Ciascuno che chiede aiuto, lo chiede per una questione intellettuale. Noi questo riteniamo e di questo abbiamo vari indizi. Certamente è una battaglia da fare, una battaglia che riguarda ciascuno e, in particolare, i giovani. Se non c’è un’educazione all’intellettualità verso i giovani, quello che sta accadendo attualmente, cioè il dilagare dell’assunzione di sostanze, non potrà certamente trovare nessuna articolazione, potrà solo incrementarsi. Si tratta di una constatazione e di un motivo in più per giungere a compiere questo progetto di sensibilizzazione e di coinvolgimento, che io credo debba rivolgersi verso la scuola, verso gli insegnanti, verso le istituzioni, verso i medici, verso ciascun cittadino, verso i genitori che non riescono a capire quando un ragazzo, sopraffatto da determinati problemi, anziché rivolgersi a loro per una indicazione, direttamente si rivolge al mercato della droga. Quindi il problema esiste, anche per quanto il presidente Grigoletto accennava poco fa sugli effetti secondari e nocivi dell’abuso di determinati farmaci. Ricordiamo che le benzodiazepine, per esempio, non solamente producono disturbi del sonno, ma i danni epatici non sono più ormai un mistero, danni epatici, danni renali, danni cardiaci. E poi non ci sono solo le benzodiazepine, ma anche i cosiddetti antidepressivi, la cui inefficacia ormai è acclarata. È sicuramente un messaggio che occorre dare e ritengo che sia urgente stabilire una data, un modo per un convegno, un dibattito, quantomeno, che ponga la questione. In questo primo incontro di ripresa mi sembra anche importante porre la questione del contributo che ciascuno può dare alla qualità della vita, alla qualità dell’istituzione, alla qualità della città non limitandosi a assistere alle cose, ma intervenendo. La nostra associazione organizza incontri, dibattiti, favorisce la divulgazione di libri per la lettura, però auspica anche che vi sia un ulteriore coinvolgimento da parte di chi interviene a questi dibattiti, per collaborare a che vi sia una maggiore divulgazione, una maggiore diffusione delle notizie e degli avvenimenti stessi, anche per una esigenza di diffusione del messaggio e della formazione che procede dalla nostra esperienza. La questione procede dalla domanda, per ciascuno si tratta della domanda. Qual è la domanda in cui ciascuno si trova? Quali sono i termini della domanda e a che cosa si rivolge? In che modo la domanda si rivolge alla questione intellettuale? Questo esige un percorso, esige l’instaurazione di dispositivi; non c’è l’accesso diretto alla conoscenza, al sapere quali siano i termini del disagio che viene avvertito, di un’istanza che viene avvertita, quindi di un’esigenza. Non c’è l’accesso diretto al sapere. In ciascun caso si tratta di un’indagine, di indagare, capire quali sono i termini pulsionali. La questione della domanda è la questione della pulsione e ciò che importa rispetto alla domanda non è la risposta immediata, come abbiamo visto, che in alcuni casi è rappresentata dalla risposta farmaceutica. Ciò che la domanda pone è quindi l’elaborazione di un progetto e un programma di vita. Un progetto e un programma nella cui articolazione e nel cui svolgimento trovino dissipazione le rappresentazioni soggettive, cioè l’idea che ognuno ha di sé, che ognuno ha dell’Altro; idee, queste, che costituiscono limitazioni all’avvenire perché, anche se può sembrare curioso, nessuno ha di sé un’idea migliore di quello che sia. Ciascuno indulge invece a pensarsi molto più limitato, molto più impedito e non c’è chi conosca i propri talenti, che emergono nel momento in cui c’è l’occorrenza: allora, all’occorrenza, ciascuno può fare ricorso ai talenti che non sapeva di avere. Nessuno sa di avere dei talenti, se non quando intervengono pragmaticamente: certo non per magia, non per virtù divina, ma in un dispositivo intellettuale che consenta questo. Ecco la questione della direzione, ecco la questione dell’articolazione di un progetto e di un programma. Elaborare il progetto di vita e il programma di vita consente di dissipare anche la nozione di malattia mentale, cara alla psichiatria dell’Ottocento e che tuttora permane, come mitologia psichiatrica della così detta diagnostica. Anziché capire quale sia l’istanza, quale sia il bisogno, quale sia l’esigenza che qualcuno formula con la sua domanda, oggi l’impostazione medico-psicologica vigente è quella di diagnosticare il disturbo su base psicopatologica. Ma di che cosa si tratta nella psicopatologia? Si tratta di una codificazione che ha il miraggio ideale di risultare universale. Una codificazione universale di una serie di mali che dovrebbero venire attribuiti in ugual misura, nelle differenti parti del pianeta. Questa è la base della psicopatologia e la base della diagnostica oggi ricorrente con il famoso prontuario, noto come DSM III, poi aggiornato come DSM IV. Come notava Uwe Peters, ex direttore della clinica psichiatrica di Colonia, questo miraggio di una lingua universale dei disturbi e della diagnostica impedisce di cogliere la questione linguistica che invece c’è in ciascuna domanda. La questione importante è la questione della lingua, è la questione della parola. La parola con la sua logica, con il suo idioma e la lingua, che non è affatto universale, ma è per ciascuno altra lingua e lingua altra, quindi la lingua con cui le cose si dicono. Ma come si dicono? Non in maniera diretta, ma secondo questo idioma che è la logica particolare, che Freud ha chiamato inconscio, e che non è a cielo aperto. Occorre capire, occorre intendere, occorre affinare l’ascolto e a questo si rivolge la clinica della parola, che non è la diagnostica psicopatologica. È la clinica, cioè l’arte della piegatura, per capire a cosa si rivolge la domanda di ciascuno. È una questione in controtendenza. Mentre la diagnostica psichiatrica, che va verso l’universale, tenta di incanalare questioni differenti in un’unica formulazione diagnostica, per la psicanalisi si tratta proprio del contrario, di cogliere la specificità del singolo caso, perché è impossibile accomunare un caso a un altro. Qual è la particolarità che si enuncia nel singolo caso? Qual è la sua specificità? Qual è la direzione verso cui si tratta di rivolgere ciascuna domanda? Questa è la questione intellettuale, la questione della parola. Questione non nuova, per altro, già Gorgia, uno dei presocratici più interessanti, diceva: “Nulla è tale e, se nulla è tale, nulla è comprensibile da sé”. Ciò che dice Gorgia è interessantissimo e non a caso i presocratici sono stati poi soppiantati da Platone e Aristotele, che hanno invece codificato un’altra filosofia, quella del caso universale.
Nulla è tale e, se nulla è tale, nulla è comprensibile. Per capire occorre analizzare i vari elementi, occorre indagare; questa è dunque anche la questione dell’esigenza di formazione intellettuale che non può essere demandata ai cultori dell’universalità. Quindi, con Gorgia, anche noi diciamo “nulla è tale” e questa è la specificità dell’esperienza cifrematica, la cui formazione clinica, scientifica, artistica, culturale, mira a cogliere la sfumatura, la particolarità che si enuncia nella domanda di ciascuno. Dunque, si tratta di non indugiare in rappresentazioni generiche, generalistiche del disagio. Per ciascuno si tratta di decidere qual è il progetto, qual è il programma da seguire secondo la via pulsionale. Anche la cosiddetta “crisi”, a livello planetario, indica che questo è un momento intellettualmente importante, interessante per i vari settori. È un momento in cui una concezione generale di un sistema di riferimento si sta dissipando, si è dissipata. La questione della crisi è l’indice dell’assenza di sistema di riferimento. Che cosa indica la crisi? Indica che il tempo irrompe in ciascun atto e impedisce una sistematica e esige da ciascuno, quindi, lo sforzo intellettuale. Possiamo anche dire che la crisi indica l’esigenza per ciascuno dell’aritmetica, del numero, ossia della logica particolare. Che cosa dovrebbe garantire un sistema? Dovrebbe garantire la prevedibilità di quel che accade. Nel sistema, che è finito per definizione, importa la calcolabilità e la prevedibilità delle azioni, ma la pulsione non si lascia prevedere, l’inconscio non è prevedibile, nell’infinito della parola questa ipotesi filosofica non può avvenire. La questione dell’intellettualità è anche la questione dell’infinito: non dell’infinito potenziale, ma dell’infinito attuale. Ciascuna cosa si trova nell’infinito, e quindi esige un altro panorama rispetto all’idea di sistema. La questione esige un’elaborazione che riguarda anche il tempo. Che ciascun atto sia attraversato dal tempo comporta che non c’è una verità già data, comporta che nulla sia tale, perché in ciascun atto, in ciascun atto linguistico, in ciascun atto intellettuale, c’è l’intervento del tempo come taglio. Non il tempo come cronologia ma il tempo come taglio, che interviene e comporta la differenza assoluta. È qualcosa con cui non c’è abitudine: il tempo interviene a rompere qualsiasi abitudine. Nella logica predicativa, nella logica cui la filosofia ci ha educato, questo tempo come taglio non c’è. La psicanalisi non si oppone all’irruzione del tempo, ma ogni altra disciplina tenta di costituirsi come antidoto a questa nozione di tempo: ecco perché ciascuna disciplina mira a costituirsi in sistema. Ora la fisica, ora la matematica, ora la logica si trovano a constatare che questa ipostasi del sistema, che dovrebbe avere anche il fondamento che lo determina, è in realtà una costruzione ideale che consentirebbe la padronanza, la padroneggiabilità, la calcolabilità dell’avvenire. Noi non abbiamo questa possibilità di padroneggiare le cose, proprio perché il tempo non è padroneggiabile, l’atto non è padroneggiabile. Però possiamo indagare l’atto, possiamo capire, possiamo intendere: tutto questo può avvenire, nel gerundio, nel gerundio della vita. Non nell’ideale della vita, nel gerundio: vivendo, facendo, parlando, scrivendo, capendo, intendendo. Se non si instaura il gerundio, la vita rimane astratta, rimane un’idealità e ognuno può rappresentarsi come soggetto ipotetico. La questione del gerundio è la questione, effettivamente, del modo di vivere. Come vivere? Vivendo. C’è chi vorrebbe sapere prima qual è il modo giusto di vivere, come fare per vivere a lungo, come fare per vivere bene. Questa presunzione di conoscenza possibile è la fortuna di tutti i maghi che ipotizzano di poter dare la risposta, e chi ci crede è perduto: impossibile sapere prima. La questione è che non si tratta di sapere; si tratta di capire, di osare, di formulare un’ipotesi di avvenire e di formalizzarla, praticarla e di portarla a compimento, senza indulgere e indugiare sull’idea che possa essere giusta o sbagliata. Perché quest’idea biforcuta comporta l’indugio, comporta l’alternativa, comporta l’attendismo. Siccome non c’è predestinazione, non c’è un destino già dato, per ciascuno si tratta di formulare l’ipotesi dell’avvenire e di portare questa ipotesi a compimento nel gerundio della vita, non ignorando che ciascuna ipotesi, man mano, si precisa. Non è che l’ipotesi sia tale e tale deve mantenersi, nulla è tale. Però occorre osare un’ipotesi, un progetto, un programma e compierlo. Questa è la questione intellettuale. L’educazione alla qualità procede da questo: se c’è chi crede nella predestinazione, se c’è chi crede nella superstizione, che può essere superstizione del bene e superstizione del male, allora questo soggetto è un ipotetico cliente o della droga sacramentale o della droga proibita. La droga sacramentale è lo psicofarmaco, la droga proibita è quella che viene spacciata dal mercato clandestino. Ma chi credesse nella predestinazione, ossia in un destino già dato, costantemente sarebbe sotto l’assillo di quella spada di Damocle che è l’idea di sbagliare, di quello sbaglio morale che impedisce di rivolgersi all’avvenire. È questa la superstizione che occorre elaborare, dissipare attraverso il lavoro intellettuale: l’idea che ognuno ha dinanzi a sé di una strada già segnata e che, uscendo da questa strada, potrebbe sbagliare. Questa è l’idea dello sbaglio morale. In realtà, noi non possiamo che sbagliare, nel senso dello sbaglio di conto, dello sbaglio di calcolo, dell’esigenza, a ogni passo, di rinnovare l’ipotesi dell’avvenire, l’ipotesi di ciò che occorre fare, perché nessuno può stabilire quale sia a priori, ma secondo l’occorrenza nella via pulsionale. Noi constatiamo questo dalla nostra pratica e quindi, per ciascuno, importa il ritmo in ciò che fa, in ciò che dice, in ciò che ipotizza. Di che cosa si tratta nel ritmo? Si tratta del modo con cui ciò che si dice e ciò che si fa giunge a scriversi, giunge a compiersi. Questo è il ritmo che è secondo l’aritmetica, secondo il numero singolare e triale, cioè secondo quella logica particolare con cui si costituisce l’idioma. L’idioma è ciò che Freud ha chiamato l’inconscio: la lingua particolare, l’idioma particolare con cui le cose si dicono. Ciascuno, parlando, ignora ciò che dice perché, parlando, si dice molto di più di quello che si crede di dire. Occorre ascoltare questa eccedenza nell’equivoco, nella differenza, nel malinteso. È questa la difficoltà dell’ascolto, ma questo è lo specifico dell’esperienza psicanalitica e cifrematica. Per questo divenire psicanalista, divenire cifrematico, comporta una formazione infinita, una formazione che è costantemente in corso, che non ha un termine per poter dire: “Ecco, adesso sono psicanalista, sono cifrematico”. La formazione alla parola è una formazione incessante che si avvale costantemente di acquisizioni, perché nell’infinito non c’è sapere sull’infinito, ma c’è una produzione incessante di sapere effettuale. Questa è la virtù principale dello psicanalista, insieme alla generosità che impedisce di dire: “Sono arrivato, so, so già”. Questa idea è rovinosa per il professionista, per lo scienziato, è rovinosa per ciascuno che si trovi a svolgere un’attività, ma in modo assoluto per lo psicanalista perché, nel momento in cui ritenesse di essere arrivato, si troverebbe a non ascoltare più la sfumatura, a non ascoltare più quel che si dice tra le righe. Si metterebbe invece a origliare e a tradurre nel linguaggio convenzionale, ma, per questo, ci sono già le varie discipline. Mai la psicanalisi potrà diventare una disciplina, perché è un’esperienza specifica della parola originaria. La psicanalisi è stata mal tollerata dai vari regimi, e ancor di più oggi nell’esperienza cifrematica, proprio perché squarcia ogni ideologia, e non avalla nessuna psicoterapia, perché ha come suo orizzonte l’infinito delle cose, una verità che è sempre da trovare, una verità effettuale. La verità è effetto del tempo e non può essere ideologica, già data, cioè una verità fondamentale. È un’altra impostazione, è un’altra cosa. La psicanalisi è l’altra cosa, è la cosa intellettuale, rispetto a dottrine, ideologie, discipline note o meno note. Quindi, noi diciamo che, per quest’anno appena cominciato, la chance per ciascuno è quella di osare un’ipotesi dell’avvenire. Osare, quindi, un progetto, un programma. Osare dissipare l’idea che ognuno ha di sé e che lo avviluppa e provare a camminare nel cielo. Questo è l’augurio e la chance di quest’anno, per ciascuno. Noi siamo qui per osare questo. Abbiamo in calendario alcuni dibattiti e incontri con autori di vari paesi attorno a vari temi: prossimamente, ne faremo uno sul libro Questione cancro; ne seguirà un altro attorno a Medicina di vita e, proseguendo, un altro ancora attorno alla rivista “La cifrematica”, che è giunta al suo sesto numero. C’è anche l’ipotesi di una conferenza molto interessante attorno a Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, che sono stati vissuti in una combinazione tra musica e scrittura. Altre ipotesi si formuleranno, ma diciamo che per ciascuno c’è questa chance, c’è questa scommessa di osare un’ipotesi dell’avvenire che, forse, per qualcuno non è ancora giunta a formularsi in maniera chiara e noi puntiamo su questa eventualità.
Queste erano alcune proposte, alcune notazioni per lanciare il dibattito. Sentiamo se ci sono domande, annotazioni, questioni.
S.G. Colgo l’occasione questa sera, anche se di fatto è la prima volta che frequento con attenzione la vostra riunione. Da quello che è stato detto stasera mi sembra di aver capito che ci sia anche la ricerca analitica delle situazioni, in modo da vedere anche le sfumature, quindi, di avere il più alto grado di fedeltà nell’analisi della singola situazione o dell’evento che si sta verificando in quel momento. Come quando persone che sentono una sofferenza interiore per la mancanza di comprensione e che cercano, in qualche modo, di avere una risposta a tutti i costi si rivolgono, non trovando di meglio, a cartomanti o a chi prescrive psicofarmaci o a altri. Volevo fare una domanda: la religione che peso ha? Da un punto di vista asettico, laico, la religione può essere vista come una distorsione evoluta che si avvicina di più al fenomeno della magia, oppure a un campo di analisi, che questa sera, magari non è stato considerato, tanto importante, tanto profondo quanto quello cifrematico. Mi riferisco alla religione in generale e non solo alla religione cristiana, a quella musulmana e così via.
R. C. Bella domanda! Sentiamo se ce ne sono anche altre, in modo da raccogliere altri elementi.
Cecilia Maurantonio Ho colto due aspetti in quanto ha detto questa sera. Da un canto questo quasi andare contro corrente, nel senso che lì dove si situa un sistema, un’ideologia o qualcosa che ha già un suo fondamento, c’è una reazione nei confronti della parola, come diceva lei. La psicanalisi è impopolare anche per questo. Però anche e proprio per questa differenza costante, per questo intervento del tempo di cui lei parlava, quindi per l’ascolto di quella sfumatura, di quel dettaglio, si può cogliere lì dove, in ciascuno di questi ambiti, tuttavia c’è un valore, c’è qualcosa che tende alla qualità, quella chance che consente di valorizzare ciò che si incontra.
Gianfranco Dalle Fratte. Buonasera. Lei ha detto che la questione della domanda è la questione pulsionale. La costrizione, rispetto alla questione della domanda e alla questione pulsionale, è ciò che costringe la combinazione della domanda e la pulsione. Insomma, cosa costringe a non cedere? Un’ipotesi: se questa costrizione è il transfert.
R. C. È un aspetto, esatto. Nel senso che la costrizione è costrizione sintattica, è costrizione frastica. Quindi è costrizione che procede dal senso e dal sapere. È costrizione che procede dalla suggestione del nome e dalla persuasione del significante. Questa è costrizione alla ricerca. Il nome e il significante, per via di transfert, costituiscono la costrizione al cammino e al percorso, al cammino artistico e al percorso culturale: questa è la costrizione di cui si tratta quanto alla parola. Non è la costrizione di Tizio rispetto a Caio, non è la costrizione soggettiva di qualcuno che costringe altri a qualcosa. È la costrizione che viene dalla produzione di senso e di sapere, costrizione sintattica e costrizione frastica.
G. D. F. Ma questa cosa che lei dice, è così perché la parola tende a giungere al piacere?
R. C. Tende alla cifra. La pulsione è tensione verso la qualità. In questa tensione alla qualità, per quel che riguarda la ricerca, c’è una costrizione che è sintattica e frastica, quindi è una costrizione che riguarda il senso e il sapere come effetto.
G. D. F. Ma è la cifra che rilascia il piacere?
R. C. Certo, la soddisfazione viene dall’approdo alla cifra. Per quanto riguarda invece la domanda rispetto alla religione, si apre un capitolo enorme. La questione è se noi consideriamo e leggiamo le istanze che alcune religioni propongono come questioni culturali, oppure se le inscriviamo in un contesto morale o superstizioso. Noi abbiamo indagato la questione della religione, così come anche Freud si è posto la questione nei suoi scritti: tra tutti, L’avvenire di un’illusione, in cui indaga la religione considerandola al livello di una sorta di nevrosi sociale, cioè come possibilità di rivolgersi a una promessa che non sarà mantenuta in questa vita, ma in un’altra vita. Senza entrare nel merito di questa promessa, che tuttavia è fondante ogni religione, noi possiamo dire che già parlare di religione è una questione culturale. Ciò che viene ascritto alla religione, per lo più, è superstizione. Cosa intendo? La concezione più diffusa di dio è ridicola e è superstiziosa l’idea che i cosiddetti fedeli hanno di dio. In quest’idea, dio non c’entra niente, è paganesimo, non è religione. L’idea di un dio agente che possa intervenire nelle umane vicende per favorire Tizio rispetto a Caio è ridicola. La religione senza la fede è ridicola: la fede procede dalla preghiera e non si rivolge a un dio agente, ma la preghiera non è la richiesta di un tornaconto, è preghiera senza psicofarmaco somministrato. Allora, un conto è la religione che procede dalla preghiera, rispetto a cui dio è operatore, e è la fede nella riuscita, nella riuscita della vita stessa, un altro conto è quella superstizione per cui c’è chi invoca dio per ottenere qualcosa: questa non è più religione, è paganesimo, è superstizione, è antropomorfismo, ma non è religione. Se noi indaghiamo culturalmente alcune religioni, come può essere la religione ebraica, la religione cristiana, troviamo qualcosa che riguarda la struttura della parola. Ho omesso l’Islam per una forma di estraneità: l’Islam è più vicino al pensiero greco che ai due grandi monoteismi ebraico e cristiano, però, se vogliamo, possiamo considerare anche l’Islam come monoteismo in cui dio non è rappresentabile. La questione è che ogni rappresentazione di dio è pagana; per meglio dire, siamo sul terreno della religione se manteniamo la questione della fede che non consenta una rappresentazione di dio. Se invece scendiamo in una rappresentazione di dio antropomorfa, allora siamo nell’idolatria, nel paganesimo, nella superstizione. La questione della religione è seria, non può essere ridotta alla barzelletta di una rappresentazione antropomorfica di un dio che dovrebbe essere lì a soddisfare le richieste degli umani. Dio non è agente, non è proprietà di dio agire. Questa è la questione su cui sant’Agostino ha speso la sua vita, così come i Padri della Chiesa, e per questo noi possiamo indagare e quindi esplorare la religione.
S. G. Però c’è per la gente un certo concetto di miracolo.
R. C. Il miracolo che cos’è? Il miracolo che contrasta le attese della fisica è qualcosa di metafisico. Benissimo! Che ciò che va oltre la fisica debba per questo essere ascritto al divino, è una questione da indagare. Non è così facile, non deve essere così facile la catalogazione del divino, di ciò che è prerogativa di dio. Ognuno si crea il suo idolo per la religione facile, per l’idolatria, per il paganesimo di Atene e di Roma, che giunge persino a noi come religione facile. Ma la religione nei termini in cui mi sembra la proponesse lei e come questione a cui rivolgersi è ben più complessa e procede da una irrappresentabilità di dio. Addirittura, gli ebrei che cosa dicevano? Non solo che dio è irrappresentabile, ma anche innominabile, cioè ponevano la questione del nome, nome di dio, come innominabile. Ponevano la questione di qualcosa che è nella parola e che non si può nominare: il nome. Segue il ricorso al pentagramma, a Jahvè che doveva dire qualcosa che non si può nominare e che, con un artificio linguistico, noi riusciamo tuttavia a indicare come dio. Però la religione ebraica ha come sua base l’innominabilità del nome, tanto è vero che il primo comandamento cosa dice? Non nominare il nome. Ma quella che sembra una prescrizione negativa, in realtà è una constatazione logica: il nome è innominabile.
S. G. Invano.
R. C. Esatto! Per quanto noi diciamo, non nominiamo il nome. Questo è un contributo alla questione della parola originaria e anche alla questione della religione. Dio sfugge alla nominabilità e alla rappresentabilità. Noi possiamo anche immaginarlo seduto fra le nuvole, con la barba bianca, eccetera, che fa questo, fa quello. In realtà dio non agisce, non soddisfa le pretese degli umani. Dio è operatore, lei dice per i miracoli, per esempio. D’accordo! Ma come? Ciascun miracolo esige infatti un’indagine. Lo stesso tribunale ecclesiastico per ciascun miracolo istituisce un’indagine, per verificare effettivamente che quanto è accaduto è metafisico, non facilmente riconducibile a un evento fisico; inoltre, non ogni evento metafisico è immediatamente riconducibile al divino. Questo innanzi tutto, giusto per porre la questione. Occorre distinguere tra idolatria, paganesimo, superstizione e religione. Nella religione la questione di dio sfugge all’umano, a ogni rappresentazione antropomorfica e non può essere ricondotta a un fantoccio che agisce in conformità del desiderio di Tizio, di Caio e di Sempronio. Dio non è a portata di mano. Se poi ci addentriamo nella questione della Trinità…
S. G. Qui non volevo aprire un dibattito…
R. C. No, ma mi pare importante, è una questione interessantissima!
S. G. Però la domanda iniziale era finalizzata a chiarire la capacità analitica di chi ha, in possesso o in dote, una capacità psicanalitica di rilievo, rispetto a chi ha anche una profondità religiosa, ma senza per forza catalogarlo. Cioè la capacità analitica non solo di capire in anticipo certe situazioni, ma anche di assorbire alcune sofferenze che magari la vita ci dà, e quindi di superarle, mantenendo un certo grado di equilibrio.
R. C. Le due cose non sono in contrasto perché io ritengo che sia la pratica analitica, sia la pratica della fede, esigono l’analisi e la stessa preghiera lo esige. Nella sua struttura, la preghiera non è la richiesta di qualcosa. La preghiera è atto senza tornaconto sostitutivo. Quindi è atto di preghiera, che si rivolge poi alla fede e che quindi comporta l’attuazione di un dispositivo. Dove sfocia la preghiera? Sfocia nell’attuazione di ciò che occorre fare per attuare ciò da cui la preghiera parte, cioè da un’esigenza, una domanda. Ma la risposta viene dall’attuazione di un dispositivo per via analitica, non viene dal deus ex machina che ti mette le cose a posto. Dio interviene come operatore, cioè come ciò a cui ti rivolgi, ma che non ti dà la risposta, perché dio non agisce ma interviene come operatore. Questa è la questione importante della religione, che non è in contrasto, ma esige anch’essa una procedura analitica.
G. D. F. Senza analisi si tratterebbe di un dio reale.
R. C. Il dio reale sarebbe l’idolo, il dio pagano.
G. D. F. Esatto, il dio che sistema le cose e diventa secondo una mia idea, e quindi è un dio ideale.
Maria Antonietta Viero Stavo pensando se ciascuna rappresentazione sintomatica non abbia a che vedere con questa idea di rappresentabilità di una supposta risposta di dio. Cioè, anziché rilevare i termini della domanda nell’operatore logico, c’è un’istanza di anticipazione di risposta, e quindi della sua rappresentabilità sintomatica. Cerco di capire se ci sia un primato dell’inganno dell’immagine, dell’idea di visione presa nell’accezione realistica.
R.C. Ognuno può rappresentarsi come soggetto amoroso per ricevere o dare un amore ideale verso dio o verso l’Altro e in questo modo può rappresentarsi carente, mancante, debole, forte in un’ipotesi di reciprocità.
M.A.V. Sì, ma è anche una sorta di richiesta “di tempo”, di temporalità su un primato di assenza di tempo, nel momento in cui avviene la rappresentabilità, cioè non c’è tempo: la rappresentazione è assenza di tempo.
R.C. Esatto, è toglimento del tempo.
M.A.V. Per cui stavo riflettendo se, per esempio, l’aritmia non fosse in questo senso l’accezione rappresentata di sospensione del tempo, che richiede il ritmo.
R. C. Questo è molto interessante, cioè come la medicina può avvalersi della psicanalisi e della cifrematica; può farlo se sospende la sua credenza organicistica. Di che cosa si tratta nell’aritmia? Si tratta del modo con cui interviene il tempo. Quand’è che il ritmo del cuore, per esempio, si accelera, prescindendo dalla prestazione che deve erogare? Per esempio, con il ritardo. L’idea del ritardo e del tempo come recuperabile è una delle cause più diffuse di aritmia, l’idea di essere in ritardo e di dover recuperare il tempo perduto. Quest’idea di recupero comporta una tachicardia che spesso sfocia in un’aritmia del tutto esente da cause organiche, ma invece susseguente a una rappresentazione di padronanza sul tempo che prende il cuore come organo bersaglio. Questo è interessantissimo, ma se la cosa viene esplorata solo su via organicistica, sfugge il contributo dell’analisi al problema. Per questa sera possiamo concludere qui. L’invito è a leggere i volumi della collana “La cifrematica”, che è giunta al suo sesto numero, per trovare elementi di riflessione e di rilancio rispetto anche a quanto abbiamo detto questa sera o in altre riunioni.
I dispositivi economici e i dispositivi finanziari. Quale educazione per l’approdo al valore
Ruggero Chinaglia C’è chi ha una domanda da formulare, una questione? C’è chi sia al corrente dell’incontro di questa sera? Nessuno?
Gianfranco Dalle Fratte Non è stato annunciato.
R.C. Non è stato annunciato! Non è venuto un messo a casa sua a annunciare il titolo? Questo dice?
G.D.F. Oggi non ho guardato sui giornali.
R.C. Ah ecco! Lei, peraltro, ha telefonato per informarsi!
G.D.F. No.
R.C. Dice che il laboratorio di questa sera è indipendente dal titolo?
G.D.F. No, prende spunto.
R.C. Esatto. Lei, invece, non ha preso nessuno spunto, non si è preparato?
G.D.F. Esatto.
R.C. Ecco, questo è il punto, non si è preparato. Quindi ha delegato all’oratore?
G.D.F. Esatto.
R.C. Bravo! È questo che lei ha imparato, che si tratta di delegare all’oratore, il quale, effettivamente, non può delegare nessuno. Qui già si delinea una sorta di distinzione tra lo spettatore e l’uditore, quando non addirittura il cifratore, il quale nemmeno può delegare, e dunque è questione di statuto.
Lucia Macario Mi interrogavo sul malinteso di cui ha parlato più volte; il malinteso è così chiamato perché implica un’aggiunta, cioè un qualcosa in più e quindi è anche una conseguenza, forse, del fatto di cogliere che l’apparire non è un coincidere con il fare, cioè con l’atto.
R.C. Può ripetere?
L.M. Volevo dire che se la non coincidenza tra l’apparire e il fare porta al malinteso e il fatto di cogliere questo comporta l’avvertire una sorta di differenza, mi interrogavo su come mai si chiama malinteso. Forse perché c’è qualche cosa che differisce e, quindi, c’è come uno spostamento che è dato dall’impossibilità della coincidenza?
R.C. Perché sarebbe impossibile questa coincidenza? Lei dice che è impossibile, perché?
L.M. Perché, altrimenti, su ciò che diciamo e facciamo risulterebbe soltanto l’idea di ciò che diciamo e di ciò che facciamo. Invece potrebbe succedere che, per esempio, le cose che si fanno siano seguite dall’idea positiva oppure negativa e in questo modo si perde qualcosa. Così facendo si perde come un intervallo, qualcosa che intervenga proprio perché c’è questa differenza, c’è questa non coincidenza. E questa altra cosa che interviene nell’intervallo, anche se può essere capita, poi in realtà non è intesa nel fare. A un certo punto si continua a pensare che sia soltanto così come sembra e quindi la novità spesso viene evitata.
R.C. Bene, la ringrazio. Altri? Ma come! Dice che non si è preparato, però adesso cerca di rimediare?
G.D.F. Non mi ritengo impreparato.
R.C. Lei non si riteneva, ma non si è preparato, allora si riteneva sufficientemente preparato!
G.D.F. Abbastanza, ma non sufficientemente.
R. C. Ma no, se l’incontro è di questa sera, può essere impreparato?
G.D.F. Diciamo di sì.
R.C. Se proprio insiste, dica qual è la sua domanda!
G.D.F. Se la produzione è il modo della fobia, ammesso questo…
R.C. Se!
G.D.F. Io ho fatto una lettura sul nome, dove Freud dice che la fobia è rispetto al nome che è innominabile.
R. C. Bene, questa è una bella domanda.
G. D. F. Grazie.
R.C. Bene, il titolo è questo: I dispositivi economici e i dispositivi finanziari. Quale educazione per l’approdo al valore. È chiaro che tutto questo procede dalla lettura de Il cervello e la bussola, volume numero 3 della collana “La cifrematica”. La collana è giunta al sesto numero e auspico che ci sia chi l’abbia letta, chi la stia leggendo e chi prosegua a leggerla, perché è essenziale. Raccoglie testi di differenti autori su questioni affrontate e esposte con umiltà, generosità, senza saccenteria, ma testimoniando di ciò che è stato incontrato lungo l’itinerario di ricerca, impresa, formazione, insegnamento, clinica, scrittura da parte di chi vi ha apportato un contributo. Il libro Il cervello e la bussola è in libreria: basta recarsi in libreria per acquistarlo e lo si trova. Se proprio non fosse lì ad aspettarvi, perché altri prima di voi sono passati e l’hanno acquistato, basta interpellare il libraio, ordinarlo e, nel giro di due giorni, arriva! Non ci sono impedimenti alla lettura.
Il valore della vita non dipende dalla sua durata: il valore è attuale, la vita è attuale e non è mai vissuta né tanto, né poco. Chi ritenesse di averla vissuta e si basasse sul ricordo di ciò che ha vissuto, negherebbe la vita, negherebbe l’attuale della vita, si impedirebbe il valore della vita, che non è la somma di ciò che è stato. Il valore della vita viene dall’intersezione del simbolo e della lettera, dunque di ciò che sta sui bordi della pulsione, intersecando l’intervallo. La medicologia parla di qualità della vita in relazione all’attesa di vita e in questo modo si riferisce alla morte, introduce nella vita il criterio mortifero, ossia della fine. La vita è senza attesa, esige l’attuale, l’istante, il dettaglio. La vita esige la domanda e la rivoluzione, il rivolgimento della domanda in direzione del valore. Questo rivolgimento è senza conoscenza, senza certezza.
In nessun modo l’incertezza può giustificare la contemplazione della domanda, auspicandone l’autopsia, alla ricerca della certezza e della sua conferma. Perché mai la domanda dovrebbe presumere la conoscenza, la finitezza, la certezza, ossia dovrebbe porre al riparo dal rischio di verità? La verità non è già data, non è ontologica ma è un effetto del tempo, come il senso, come il sapere. La domanda trova soddisfazione correndo questo rischio, non stando al riparo da presunti pericoli. A correre questo rischio è la domanda, non qualcuno. Chi presumesse di dovere stabilire, pensare, decidere se correre o non correre il rischio, è chiaro che si trova in una soggettività in cui grava l’idea del pericolo, ossia l’idea di fine, di finitudine. Questa è la cosiddetta malattia mentale, che è la rappresentazione, le svariate rappresentazioni di sé, della significazione di sé in quanto soggetto di buona volontà, soggetto sincero, soggetto buono, soggetto delle buone intenzioni, soggetto disposto anche a dire la verità. Soggetto della fantasmagoria algebrica, ossia dell’oscillazione fra positivo e negativo, e soggetto della rappresentazione geometrica tra inizio e fine. Quello che viene chiamato “malattia mentale” altro non è se non una moralizzazione della pulsione e cioè il tentativo di trattare la pulsione con il criterio della ragione sufficiente, inserendo la pulsione in un sistema finito di soggettività e di rappresentazione. Quindi togliendo, abolendo l’idioma e la logica della parola, il modo della parola, il tempo della parola che sono la logica, il modo, il tempo della vita. Tolto il tempo, tolta la logica, tolto il modo della parola, abbiamo il sistema: il sistema naturale, il sistema umano, il sistema finito.
“Non c’è più sistema” è il teorema dell’intellettualità: è un teorema da cui procede il modo del fare senza più paura. La paura è l’appiglio di chi indugia, di chi si giustifica, di chi delega, di chi attua ogni remora, ogni riserva rispetto al progetto, al programma di vita, accampando talvolta una carenza di conoscenza, talaltra una carenza di tempo o perfino una carenza di vita. Chi per la vecchiaia, chi per l’eccessiva giovinezza, chi per un’assenza di esperienza, ognuno ci mette del suo per giustificarsi, per consolarsi, per confermarsi nell’indugio, nel rimando, nel rinvio. Dunque occorre il modo della parola, il tempo della parola, il ritmo della parola, ossia del modo in cui ciò che si ricerca, ciò che si fa, giunge a scriversi. Questo è il ritmo: l’assenza d’inerzia, di automaticismo, di predestinazione. Il ritmo è una proprietà del dispositivo pulsionale. La pulsione, rivolgendosi verso la cifra, esige il ritmo nell’attuazione dei dispositivi opportuni. Dunque non il ritmo cosmico, il ritmo dell’universo, il ritmo delle stelle, il bioritmo, il ritmo di Tizio e quello di Caio, ma il ritmo pulsionale, ritmo di quel che si fa, il ritmo di quel che si cerca. Il ritmo nella combinatoria tra ricerca e impresa. Non il ritmo dello spettatore, non il ritmo dell’attesa, non il ritmo dello stare a vedere che cosa accadrà. L’attesa, l’attendismo, il rimando, la delega, tutto ciò è senza ritmo. La domanda trova il suo ritmo nell’ipotesi di avvenire, dunque nell’ipotesi della ricerca e dell’impresa, nell’ipotesi pragmatica, nell’ipotesi sintattica, nell’ipotesi frastica lungo cui sorga la formulazione di un progetto e di un programma e questa formulazione si scriva, in modo che il progetto e il programma possano attuarsi, compiersi, approdare al valore attraverso la varietà e la differenza delle cose che si dicono, che si fanno, che si scrivono, che si cifrano, in un processo intellettuale e non in una stasi intellettuale. In un processo che va da corpo e scena alla loro combinazione nella cifra, quindi dall’apertura, dalla questione aperta fino alla cifra. Processo, non corso naturale ma processo intellettuale che esige quindi l’attuazione di dispositivi e non lo stare a aspettare, lo stare a guardare, lo stare a vedere come quando si dice: “Aspettiamo, qualcosa accadrà!”. Il ritmo procede dall’incominciamento: qualcosa incomincia, segue il ritmo, ma non un ritmo qualunque. Nulla di animale, nulla di naturale, nulla di cosmico. Ritmo pulsionale, ritmo intellettuale. C’è chi dice: “Non so da dove cominciare. Io farei, direi, proporrei, ma non so da dove cominciare. Se qualcuno mi dicesse da dove cominciare, allora io potrei, potrei anche cominciare”. L’incominciamento non è una facoltà, è pulsionale, è funzionale. Qualcosa incomincia, qualcosa debutta, qualcosa si precisa, qualcosa si fa, qualcosa si scrive non lungo una via retta, non lungo una via preordinata, ma lungo ciò che Freud ha qualificato come la vicissitudine: le vicissitudini della pulsione, il cui andamento non è soggetto a un criterio morale di bene o di male. La vicissitudine non è economicistica, non è soggetta al criterio del risparmio energetico. La pulsione non è energetistica. Tolto l’incominciamento, allora è la stanchezza. Accanto a quella prerogativa che Aristotele aveva individuato, noi potremmo aggiungerne un’altra: ogni umano è stanco. Ogni umano, ogni essere umano è stanco e che cosa cerca? Il riposo. Cerca di riposarsi e cosa fa? Prima lavora e poi si riposa e ha bisogno di questa nozione di riposo per giustificare la stanchezza.
C’è un riposo che, tuttavia, non esige la stanchezza per attuarsi: riposo non energetistico, che non procede dall’energia, che non esige la giustificazione della stanchezza, cioè della soggettività. Nessuno sa dove sia l’incominciamento, dove stia, come sia, ma la nominazione comincia a instaurarsi da lì, la nominazione con i suoi dispositivi di qualificazione, di narrazione, di cifratura.
Dunque il processo intellettuale esige la qualificazione e la valorizzazione. Ma perché possano intervenire la qualificazione e la valorizzazione occorre l’analisi, occorre che sia dissipata la credenza tanto nella sostanza quanto nel soggetto, allora può instaurarsi un dispositivo. Ma se prevale l’idea di sé, l’idea di essere, l’idea di finitezza, l’idea di fine, tutto questo impedisce l’instaurazione del dispositivo.
Non qualunque iniziativa è dispositivo, non qualunque iniziativa volta a dimostrarsi tale, volta a confermarsi nella significazione di sé, nell’idea di sé, nella rappresentazione di sé è un dispositivo. Innanzitutto, il dispositivo è temporale, sessuale e quindi senza il prima e il dopo a dover rappresentare la successione. L’idea di successione è l’idea di genealogia, è idea di morte. Chi si rappresenta come successore, si rappresenta come figlio morto del padre morto, cioè si rappresenta con le caratteristiche proprie al cadavere e quindi si rappresenta in un processo di cadaverizzazione, in un mimetismo cadaverico. L’analisi, accanto alla questione della dissipazione della credenza nella sostanza o nel soggetto, comporta pure la dissipazione del mimetismo, ossia della realizzazione della fantasia di appartenenza a una stirpe, a una genealogia, a una famiglia animale attraverso l’assunzione di alcune caratteristiche negative che dovrebbero confermare questa appartenenza. Occorre capire che l’ereditarietà è il nome della soggettività. L’idea dell’ereditarietà viene dalla sospensione dell’analisi e dall’assunzione della credenza genealogica. Ogni genealogia è mortale, è mortifera: va dall’origine alla fine. Ogni mimetismo rappresenta l’assunzione della genealogia e a questo porta. Chi si pone come successore riesce nella rappresentazione della genealogia in quel mimetismo che porta a confermare il dato negativo, come dato che conferma l’identità genealogica. Questa è la cosa su cui ciascuno può riflettere e indagare per giungere a qualificare la vita nel suo gerundio. Il gerundio è senza genealogia, è semplice! Il gerundio e il gerundivo sono senza genealogia, senza origine e senza fine. Il gerundio è nell’istante. Differente è trovarsi nella rappresentazione spaziale e cronologica del tempo sotto la minaccia di fine e trovarsi invece nel gerundio, nel gerundio che non finisce, che, dunque, non comporta la rappresentazione di quando finirà, di come finirà.
È chiaro che non è questione di convincersi, questione di volontà, tanto meno di buona volontà. È questione di ritmo, di modo, di idioma, grazie a cui non c’è più “prima” e “dopo”, non c’è più l’idea che prima devo capire cosa, chi veramente sono, i miei limiti, le mie potenzialità, le mie propensioni, le mie inclinazioni, le mie predestinazioni, i miei oroscopi e poi, una volta capito tutto questo, finalmente potrò fare la scelta giusta. Già siamo nella palude dell’alternativa, come se si potesse fare il passo falso, il passo sbagliato, la scelta sbagliata. “Eh, una volta che avrò capito tutto questo, allora potrò stabilire un’ipotesi di avvenire. Perché prima devo sapere per essere sicuro, per essere certo, per non sbagliare!”. Il fatto è che l’avvenire non è mio, né tuo, né suo, non è di qualcuno, non è nei termini della padroneggiabilità. È l’avvenire della pulsione, della scrittura, di ciò che si scrive, di ciò che si qualifica, di ciò che si valorizza. È l’avvenire senza essere, senza l’essere, senza l’ontologia. È dove si pone la questione di divenire intellettuale, divenire cifra, divenire dispositivo di valore, divenire psicanalista in un certo periodo dell’esperienza, divenire cifrante, divenire brainworker, divenire art ambassador, divenire statuto intellettuale, che è statuto di valore nel gerundio. Facendo quel che occorre fare, non aspettando di fare per paura di sbagliare: questa è una paura morale, che viene dalla moralizzazione della pulsione. È l’assunzione di una superstizione che pone l’alternativa tra il bene e il male. Non si tratta di essere buoni, di essere bravi, di essere giusti, di fare la cosa giusta; si tratta di divenire statuto intellettuale e questo esige due aspetti dell’esperienza: la teorematica e l’assiomatica. Che cos’è la teorematica? È ciò che dell’analisi si scrive, l’analisi stessa è un teorema, e come questo teorema si scrive. Come l’analisi si scrive rispetto all’idea di fine, all’idea di sostanza, all’idea di soggettività, ai vari risvolti, alle varie fantasmagorie, è la teorematica, non nei termini di un sapere consolidato, ma nei termini della prova, prova di realtà, prova di verità, e nei termini del gerundio: facendo, scrivendo, parlando, qualificando. Nulla è mai qualificato, ciascuna cosa esige di qualificarsi, nulla è mai già qualificato. La teorematica è inscritta in un processo di scrittura. La teorematica è ciò che dell’analisi si scrive e a sua volta tende a scriversi, si scrive. Questo processo di scrittura è inesauribile, è infinito: nulla è già dato, nulla è già passato, nulla è già analizzato, nulla è già qualificato, nulla è già stato. Questa è l’istanza intellettuale, il modo intellettuale, mentre la teorematica accompagna il processo di qualificazione. Senza tabula rasa, senza il ritorno alla tabula rasa; quel che si scrive non è mai scritto, ma non si cancella. Quello che si acquisisce non è mai acquisito, ma non si cancella. In ciascun caso, ciascuna volta importa il dettaglio. L’idea della tabula rasa, della cancellazione, l’idea che ciò che si è qualificato e si è scritto possa essere cancellato, distrutto, tolto, perso è una variante del fantasma materno che pone l’accento sulla distruzione come possibile, come reale, cioè come transitiva: la distruzione transitiva. Carthago delenda est, diceva Catone. “Ogni cosa può o deve essere distrutta”, questo predica il soggetto materno seguace del fantasma materno, seguace di una distruzione transitiva, ossia senza pulsione. Freud ha coniato il termine “pulsione di distruzione” con cui indicava la tensione a scriversi della frase; la frase è la struttura della resistenza. La pulsione di distruzione non è l’istinto, la volontà, il pericolo di distruggere tutto, di farsi prendere la mano e distruggere tutto, di poter cancellare tutto, la pulsione di distruzione non è la malattia mentale, tutt’altro. La pulsione di distruzione è proprio la dissipazione della malattia mentale, della soggettività, dell’idea di credersi soggetto limitato, mancante, carente. È ciò con cui la pulsione di morte si precisa. La pulsione di morte non è l’idea di morire, non è la volontà di morire. Tutto ciò è nella rappresentazione delle soggettività, è psichiatrico. Pulsione di morte, pulsione di distruzione sono due proprietà della pulsione sul versante frastico, dunque chiama in causa la scrittura: come la frase si scrive, come il significante si scrive, come la ricerca si scrive e non può non scriversi.
La teorematica è un aspetto essenziale dell’itinerario, che procede con le acquisizioni che ne vengono e sta accanto all’assiomatica, che è il frutto della valorizzazione dell’esperienza, senza più denigrazione, senza più degradazione, ma dove conta il gradus, dove conta il valore, dove conta il modo con cui ciascuna cosa approda al valore; non esposta alla possibilità del bene o del male, va in direzione del valore. È chiaro, nessun soggetto può giungere a questo, perché questo esige la fede, la fede pragmatica, lo spirito, la fede nella riuscita, non la paura del bene o del male.
La teorematica partecipa della clinica, della teoria della clinica, e è indispensabile perché la clinica si scriva. Legge, etica, clinica sono tre compimenti per la struttura: struttura sintattica, struttura frastica, struttura pragmatica. La struttura si scrive, essa stessa si scrive: non è, ma si scrive e, scrivendosi, si avvale dell’elaborazione rispetto al fantasma e del dettaglio clinico. Non del caso generale, non del caso standard, del dettaglio clinico! La teoria della clinica è un aspetto dell’esperienza e della formazione che nella nostra esperienza è stata introdotta da Armando Verdiglione sin dall’inizio, ben differenziandosi, ben distinguendosi da quanto in altre esperienze veniva chiamato la supervisione, l’analisi di controllo, il controllo, niente di tutto questo. La teoria della clinica non è un modo di verificare e incanalare la pratica, ma è un modo della formazione, un modo della qualificazione, un modo per intendere l’esigenza della narrazione. Intendere qual è il modo della narrazione clinica non ha nulla a che vedere con la psicopatologia che dovrebbe certificare uno stato d’essere, ma riguarda invece come ciascuna cosa, ciascun dettaglio, narrandosi, si qualifica e si valorizza. Ciascun dettaglio si valorizza non da sé, non da solo, non per virtù divina, ma nel processo intellettuale, nel processo in cui la clinica è giunta a un compimento e è essenziale per la cifratura. La clinica non comporta nessuna sanzione morale, ma indica un modo, indica l’intervento dell’oggetto e del fantasma per cui qualcosa si scrive in quel modo. Nulla di più, nulla di meno, ma non è poco. È dunque con la teorematica che può cogliersi l’esigenza dell’intervento analitico, intervento clinico, intervento cifratico. La cifratica è il gerundio della ricerca, gerundio dell’impresa, gerundio della vita.
Attraverso questo panorama, possiamo cogliere di che cosa si tratti nell’economia e nella finanza. Era da qui che intendevo partire per l’incontro di questa sera ma, data la totale assenza di preparazione da parte vostra, ho dovuto partire da molto più lontano, da lontanissimo. È da qui che dovremmo partire, e invece qui arriviamo, perché, come intendere la questione dell’altrove senza la teorematica, senza la cifratica, senza la struttura temporale, senza cui economia e finanza sono del tutto avulse dalla parola, estranee alla parola? Senza ciò, l’economia e la finanza diventano una sistematica, diventano criteri e modi dell’accumulo, del risparmio, dello spreco. Invece economia e finanza indicano che non c’è spreco nella pulsione.
Verdiglione ha qualificato economia e finanza come l’altrove della parola. L’altrove non è così frequentemente reperibile nella manualistica economica e finanziaria, però è proprio esplorando e elaborando questa formulazione che noi possiamo capire e intendere in che modo l’impresa esiga l’economia e la finanza in questi termini, senza l’esigenza della fobia dell’impresa, della paura dell’impresa, della fobia dell’economia, della fobia della finanza, del tabù della vendita, che trae con sé il tabù dell’economia e il tabù della finanza. Il tabù interviene lì dove vige la spazializzazione, dove vige una superstizione, dove il gerundio è sospeso, dove ci sia chi tenta di poter voltarsi indietro a guardare, a vedere, a misurare, a misurarsi, a pontificare su quello che c’è stato, che è avvenuto o non è avvenuto, misurando i risultati rispetto alla durata, all’idea di fine, all’idea di sé, allo standard, senza la valorizzazione. Il valore non è né grande né piccolo: il valore è assoluto.
Cecilia Maurantonio Ha detto tante cose… C’è poco da misurare. Si presume, in tal caso, di misurare quello che c’è o che si ritiene che ci sia, o che ci sia stato.
R.C. La misurazione è un processo di standardizzazione, occorre tenere conto di questo. Non solo, ma una standardizzazione che si rivolge al sistema e è, quindi, standardizzazione sistematica: questo è il panorama della misurazione.
C.M. Sì, è chiaro, questo non è difficile da capire. Stavo dicendo un’altra cosa: tutte queste cose interessanti che attengono alla parola, esigono tuttavia che ci sia l’incominciamento di cui parlava all’inizio, cioè che le cose incomincino, il debutto di cui ha parlato anche la volta scorsa. Allora, anche ciò che chiama come direzione, rivolgimento, come clinica, come clinica della parola…
R.C. Occorre tenere conto che non sono transitivi né l’incominciamento, né il debutto. Non è come il ballo delle debuttanti con cui la pischelletta debutta in società, non è in questi termini. È in altri termini: debutto e incominciamento sono intransitivi, non sono soggettivi, dunque non sono transitivi.
C.M. Non so cosa voglia dire.
R.C. Transitivo vorrebbe dire che sarebbe una virtù soggettiva per cui darebbe un attributo al soggetto.
C.M. E quando non c’è il soggetto? Questo soggetto può apparire e scomparire a prescindere da ciò che noi riteniamo sia la persona? Tutto ciò che vediamo e che appare cos’è? Involucri, apparenze, idee? A cosa e a chi si rivolge? Se queste cose si trovano in quello che lei definisce dispositivo e anche gli elementi della parola, grazie a cui si instaura qualcosa che avviene, interviene qualcosa. Però questa instaurazione, proprio perché non è soggettiva, cioè non esige il soggetto e non può essere cancellata, mi chiedo se è possibile che colui che vive in questo dispositivo e di questo dispositivo, è questo dispositivo, in un certo qual modo, possa dire a un certo punto: “No, io adesso me ne vado a passeggiare da un’altra parte, oggi mi sento soggetto, oggi voglio fare il soggetto!” Questo è possibile se qualcosa si è instaurato? Lei cosa dice?
R.C. Ma non c’è ontologia, la stessa instaurazione è senza ontologia, il processo è costante. Freud notava questo: la pulsione è una forza costante. Ora, questa costanza ha vari modi, ha varie intensità, si qualifica in vario modo. Non è una forza ontologica, non è uno stato ontologico. È una forza costante nel suo rivolgimento. Ha vicissitudini e incontra vicissitudini; che cosa vuol dire? Che esige l’attuazione del processo intellettuale, l’attuazione dei dispositivi intellettuali. Nulla va da sé, nulla è, questo già lo diceva Gorgia. Se nulla è, vuol dire che ciascuna cosa esige dispositivi per qualificarsi, per valorizzarsi, per cifrarsi, per farsi, per scriversi. Esige dispositivi! Questo constatiamo e certo questo non ci rattrista, non c’è da rattristarsi.
C.M. Però la pulsione in un percorso, in un itinerario, esige anche la soddisfazione, cioè che le cose riescano. Quindi ci si interroga su qualcosa, si esige di capire, e sono cose non facili, come lei chiaramente ha sempre detto.
R.C. Ma capire non viene prima! Né prima, né dopo.
C.M. Capire non viene prima! Le acquisizioni ci sono, ma non sono mai del tutto acquisite, però non sono cancellabili.
R.C. Perché le stesse acquisizioni esigono la combinatoria. Insomma, occorre anche dare adito all’Ecclesiaste, dove si legge che ciascuna cosa esige il tempo per qualificarsi, è esposta al tempo.
Maria Antonietta Viero A proposito dell’altrove per quanto riguarda l’economia e la finanza, mi chiedevo se non fosse proprio questa scelta di elaborazione dell’altrove, che l’impresa delega a un certo management, la via propria della non riuscita. È a partire da questa non elaborazione, dal non trovarsi in questa elaborazione che poi si tratta di non assumere né il rischio, né l’audacia dell’impresa, per cui viene delegato il manager. Lo vediamo anche, per esempio, nelle strutture della vendita: arriva il cosiddetto direttore commerciale di turno e è tabula rasa: cambia la rete di vendita, cambia qualcosa pensando di risolvere senza ascoltare. Invece qual era il percorso dell’impresa? Mi viene da pensare che viga questa idea di delega da parte dell’imprenditore. L’imprenditore assume qualcuno che è manager o direttore, però in una delega, e in questa delega c’è un protagonismo ostentato, sicuramente del manager, che toglie l’impresa completamente.
R.C. Chiaro, questo però è già argomento della prossima riunione.
M.A.V. Poi c’è un altro elemento che mi era venuto in mente a proposito dell’impresa, dove viene sospeso l’infinito e anche l’avvenire quando si affaccia una frase che dice: “Ma questa cosa è cara”. Già dicendo “Questa cosa è cara” precludo all’interlocutore la domanda stessa, perché diventa un limite proprio attribuito all’Altro. In questo modo avviene che un venditore non riesce a vendere un prodotto perché dentro di sé assume l’idea che quel prodotto è caro. Ma è “caro” rispetto a che cosa? A quale termine si riferisce? E allora c’è un tabù della vendita; manca il sogno, manca la dimenticanza, mancano i presupposti.
R.C. C’è un tabù della vendita dove c’è un tabù di sé, un tabù dell’Altro. C’è un’idea di sé commisurata alla miseria, alla povertà, alla miseria dell’Altro. C’è tutta una fantasmagoria soggettiva. La questione è che il valore non è ontologico. L’idea che quel qualcosa sia caro, sia prezioso è già l’introduzione dell’ontologia, è già l’introduzione di quella cosa in un sistema di relazioni sociali, cioè soggettive. L’idea che un contratto sia caro, che uno stipendio sia alto o sia basso, fa parte di questa fantasmagoria dove non interviene la valorizzazione. La valutazione intorno al prezzo, intorno al costo, intorno al quantum, se è fatta in sé è senza valore, toglie il valore a favore di una rappresentazione sociale. Tanto, poco, caro, non caro, fanno parte di una rappresentazione delle relazioni sociali, dove il valore, anziché procedere dallo scambio e dall’uso, è valore ontologico improntato alla realtà dello stato sociale. È un capitolo ampio, vedremo di affrontarlo in maniera conveniente. Attualmente, sulla rappresentazione delle relazioni sociali avviene la negazione della valorizzazione e la patologizzazione di ogni azione. Lo stesso psichiatra Vittorino Andreoli notava con sagacia, ma senza coglierne la portata, che oggi la psicopatologia è stata tolta dall’ambito del singolo, dell’individuo, e è stata attribuita alle relazioni: è patologica la relazione, è patologico il rapporto di Tizio con Caio. Si è confermata la patologizzazione dell’individuo, con in più l’estensione cosiddetta relazionale. Così la patologizzazione della società va in direzione di una ricerca dell’origine, di quale sia stato il primo male che ha sconvolto l’assetto sociale. Ricerca di nessun interesse, perché di nessun interesse è la patologizzazione, cioè la sanzione della negatività attribuita a sé o all’Altro. Importa la clinica, come le cose giungono al valore. Importa la valorizzazione, non la patologizzazione, non la denigrazione, non la degradazione, non l’accettazione dell’idea di male, ma la sua dissipazione. Il rivolgimento verso il valore certo esige qualcosa, esige la clinica, esige la parola, soprattutto la parola!
G.D.F. A proposito del dogma: nella Chiesa si parla di dogma e mi domandavo qual è la differenza fra chiesa e la cifrematica.
R.C. Questa è facile! Le sembra che stia dicendo messa?
G.D.F. No. Chiaramente la cifrematica non è un’istituzione.
R.C. Come non è istituzione? Certo che è istituzione.
G.D.F. Non è un’istituzione religiosa.
R.C. È un’istituzione non religiosa. C’è anche istituzione nell’esperienza.
G.D.F. Quindi la differenza tra teorema e dogma è che il dogma ha a che fare con la religiosità?
R.C. No, è un po’ più articolata la cosa, ne prendiamo nota per la prossima volta.
G.D.F. Una seconda precisazione. Quando lei dice che la pulsione di morte si scrive, come si scrive? Può dirne qualcosa?
R.C. Perfetto! Altri? Ho risposto alla sua domanda sul malinteso, Lucia? O è rimasta nella parte della conferenza che dovevo ancora svolgere? Forse è rimasta lì!
L.M. Mi è sorto un altro dubbio riguardo all’aggiunta. C’è differenza tra il vuoto e l’aggiunta?
R.C. L’aggiunta, quel che si aggiunge?
L.M. Sì, dato che c’è la tendenza a occupare lo spazio, a riempire il tempo, a farsi una rappresentazione dello spazio e del tempo. Non riesco a capire se c’è una differenza. Sicuramente c’è un voler evitare qualcosa. Per esempio, riguardo al tempo, io credo di sfruttare e riempire il tempo. Non so se è per evitare il vuoto, però nello stesso tempo è anche per fare in modo che nulla si aggiunga.
R.C. A questo punto, provvisoriamente, giusto per proseguire l’indagine, diciamo questo: il malinteso non toglie nulla e, come dice il teorema dell’impresa, nulla e nessuna cosa toglie niente all’altra cosa. Non c’è il pericolo che qualcosa tolga o impedisca Altro. Accanto a questo, diciamo che il malinteso è la via finanziaria e, quindi, non solo non è da evitare, ma è essenziale. Come? Lo chiariremo giovedì prossimo, 22 gennaio 2009, alle 21.00. Sempre qui in questa sala, però con la proposta di giungere ben preparati! Come fare per prepararsi al laboratorio della prossima settimana? Leggendo la collana “La cifrematica”, in particolare il numero 3, Il cervello e la bussola. Ma ci sono altri cinque numeri: il primo, La vita, il suo numero. La sua scrittura. Il suo valore. Il secondo: L’intellettualità e il piacere. Il quarto: L’art ambassador. Il quinto: La nostra psicanalisi e il sesto: La follia, la pazzia, la clinica. Leggere questi volumi è uno strumento per capire, per intendere, è uno strumento intellettuale, uno strumento economico, uno strumento finanziario. Vediamo se durante la settimana registriamo un picco nelle vendite per questi volumi e anche altri; ne sono usciti di bellissimi. In quanto questo è un laboratorio della modernità, cioè laboratorio con cui intendere il modo della modernità, al di là di ideologie, schematismi, sistemi, io vi segnalo gli atti dei vari Festival della Modernità, con i contributi straordinari di intellettuali di paesi differenti, di settori differenti, che danno un apporto proprio alla modernità. Che cos’è la modernità? È la dissipazione dell’idea di stabilità delle cose che procede da ideologie e da fantasmatiche, a favore di una valorizzazione, di una cifratura, di una qualificazione di ciascun settore in modo non datato, non retrò, non legato a visioni del mondo. Questa è la scommessa per ciascuno, è la posta in gioco. Leggiamo questi libri che sono destinati alla lettura: non alle librerie come terminal del processo, ma al lettore. Non al magazzino dell’editore o del distributore, ma alla lettura, perché a sua volta si scriva, perché sia testimoniata, perché dalle acquisizioni che vengono si produca qualcosa: è quindi un processo, anche, di produzione. Noi non siamo qui a vedere, ma avviamo un processo di produzione. Mi pare interessante.
L’economia e la finanza. L’educazione al valore della vita
Ruggero Chinaglia Segnalo all’attenzione di ciascuno questo libro La famiglia, l’impresa, la finanza. Il capitalismo intellettuale, di Armando Verdiglione, libro che è uscito qualche anno fa, ma che, come è constatabile, quasi nessuno qui ha letto, e quindi è un ottimo libro, molto interessante, semplice, chiaro e assolutamente essenziale per addentrarsi nella scienza della parola. Accanto a questo, la collana “La cifrematica”, che è giunta al sesto numero. Questo, in particolare, è il numero tre, Il cervello e la bussola, strumenti essenziali per ciascuno, eppure, c’è da chiedersi se sia in corso la promozione di questi incontri, da chiedersi retoricamente, come domanda retorica. Lei cosa dice? Le pare che sia in corso la promozione di questi incontri? Di questo laboratorio?
Pubblico Sì
R.C. È in corso. Lei lo promuove?
Pubblico Quasi.
R.C. Quasi, appunto. Ma il criterio del quasi non è il criterio della qualità.
L’atto di parola è atto originario, senza fondamento, senza successione, senza genealogia, per questo è libero, è atto libero, cioè partecipa della libertà come virtù del principio. Non è libero da qualcosa, è libero. Libero cioè di rivolgersi alla qualità, quindi impossibile da prevedere, da predeterminare, da ripetere. In quanto libero, l’atto non è ripetibile. Impossibile situarlo in un sistema, impossibile farne una clinica o una fenomenologia. Quindi l’atto è impossibile da sapere, impossibile da conoscere. È impossibile istituire un sapere sull’atto che possa fondare una saccenteria, saccenteria che, per altro, è ciò su cui si costituisce ogni soggetto, soggetto che è una necessità per ogni apparato ontologico o sistemico. Su questa saccenteria poggia ogni discorso, il discorso della scienza, il discorso della conoscenza, il discorso della padronanza. Il discorso, cioè modo della genealogia, modo della successione, modo del fondamento, modo della dimostrazione di un sistema, modo dell’esercizio di una padronanza. Ogni discorso sorge su un’ipotesi di possibile unità tra ciò che muove la ricerca e ciò che la conclude, e l’unità dovrebbe caratterizzare il modello di relazione tra il cercante e il cercato. Ma la ricerca non esige il soggetto agente della ricerca, esige invece il dispositivo della ricerca, dispositivo pulsionale; non il soggetto agente ma la pulsione, il dispositivo pulsionale di cui la ricerca è un aspetto. Nessun padrone della ricerca, nessun determinismo della ricerca, che varrebbe a istituire una relazione tra il soggetto e l’oggetto della ricerca, ma, contrariamente a quello che ogni determinismo propone, l’oggetto è ciò che causa la ricerca, non è ciò che viene osservato né ricercato. L’oggetto è invisibile, è inosservabile, è imprendibile, causa la ricerca, che dunque è senza voyeurismo, senza osservazione, senza visione, senza visibilità. La stessa ipotesi di una relazione fra l’oggetto della ricerca e l’agente della ricerca propone un determinismo che quindi non poggia solo sulla stabilità o sulla ripetitività della relazione, ma sulla stessa ipotesi di relazione, che sarebbe relazione genealogica, relazione sociale, relazione basata su ciò che è osservato, su ciò che “è”, dunque su una relazione ontologica. Ma se l’atto è originario, sfugge a ogni determinismo, sfugge a ogni presa, a ogni situabilità. In quanto originario non si fonda sul passato, non richiede nessun passato. Ogni idea di un tempo passato, ogni idea di ritorno ― al passato, all’origine ― ogni idea di recupero, e quindi ogni idea deterministica, è un’idea materna della fine del tempo, della gestione del tempo, della padronanza, del controllo sul tempo. Il ricordo di qualcosa è il modo con cui si conferma la credenza sulla fine del tempo, sull’ipotesi che qualcosa possa tornare, che qualcosa possa influire su ciò che è in atto. Il tempo non è una successione, non è presente, non è passato, non è futuro, il tempo è istantaneo. Questa caratteristica lo pone come incontrollabile, impadroneggiabile. Contro questa sua caratteristica sorge l’idea che possa finire. Finendo, finalmente, le cose “sono”, e quindi sarebbero prendibili, sarebbero calcolabili, sarebbero determinabili. Questa è l’ipotesi, dunque, di fine, di abolizione del tempo per rendere le cose stabili, sostanziali, per poter quindi far dipendere le cose dalla sostanza, da qualcosa che “starebbe sotto” a giustificarle. L’esperienza intellettuale è l’esperienza della parola originaria, dunque della parola senza sostanza, e la dissipazione di questa credenza nella sostanza è il preambolo dell’esperienza, avviene nel preambolo dell’esperienza. Ma il preambolo non è un luogo, non è un tempo; il preambolo non è ontologico, non è fatto una volta per sempre, non avviene all’inizio. Non c’è nessun inizio, ogni inizio presuppone la fine. L’inizio è un’idea geometrica secondo cui le cose iniziano e finiscono, dunque il preambolo non è l’inizio dell’esperienza, non sta all’inizio, ma l’esperienza procede dal preambolo, ciascun atto dell’esperienza esige il preambolo. L’intellettualità è una virtù temporale, una virtù sessuale, non è una classe, non è uno stato − lo stato intellettuale − è il modo intellettuale; l’intellettualità non è ontologia, intellettuale è il modo, né l’intellettualità è attribuibile a qualcuno, non è un attributo soggettivo con cui ripartire gli intellettuali e i non intellettuali, non è una dote umana. È una proprietà della parola, è una proprietà del dispositivo, che è intellettuale in quanto segue il modo del tempo, e non già il modo della sostanza, non già il determinismo sostanziale: intellettuale in quanto segue il modo del tempo. Esperienza intellettuale in quanto è esperienza del modo del tempo, non del tempo come successione, ma del tempo che interviene nell’istante dell’atto. Qualcosa quindi di assolutamente specifico alla parola, e la questione intellettuale è la questione che si pone con la parola che procede dall’apertura in direzione della sua cifra. Nessuna categoria disciplinare, nessuna categoria filosofica, nessuna categoria sociologica può essere applicata all’esperienza, alla parola, a ciò che interviene, al suo dispositivo, perché è intellettuale, e quindi sfugge a ogni categorizzazione, a ogni concettualizzazione, a ogni concettualità. Questi non sono concetti, sono proprietà, caratteristiche; proprietà dell’atto, non concetti grazie a cui l’atto diventa discorso sull’atto. Non c’è nessun metalinguaggio possibile, nessuna possibilità di parlare sulla parola, di dire sulla parola: la questione è quel che si dice nell’atto, nell’attuale, senza ricordo, senza rimemorazione, senza algebra e geometria dell’atto, quindi senza moralizzazione di ciò che si dice, senza che quel che si dice sia sottoposto alla necessità di finire, per potere entrare in un vocabolario, in un gergo, in una categorizzazione, in una standardizzazione, in una classificazione. L’atto non è ripetibile, dunque è inclassificabile; sfugge a quelle prescrizioni del discorso scientifico che ipostatizzano invece la ripetibilità dell’atto sperimentale, che diventa fatto sperimentale: non c’è più l’atto, ma c’è il fatto che può ripetersi. Nella parola nulla si ripete. Ciò che si dice è irripetibile. Inutile pensare di ricordarlo, di ricordarsi, di memorizzare: importa capire, non concettualizzare, classificare, memorizzare, ricordare, sapere. Importa capire, innanzitutto capire quel che si dice. Ma capire non è che il primo passo. Dunque l’esperienza procede dal preambolo e si scrive, tende a scriversi; per questo non è mai fatta, non è mi stata, non è. Si fa, si scrive, è in corso, è costantemente in corso. Non è mai avvenuta. Se non c’è fondamento, se il tempo non finisce, se il tempo è nell’atto, nulla è mai passato, nulla è mai stato, soprattutto nulla è mai saputo. Nessuna gnoseologia, nessuna casistica, nessuna idealità. Dunque l’esperienza si scrive, ma anche questa scrittura è attuale, non è mai scritta, si scrive. Non è una scrittura ontologica per cui a un certo punto si potrebbe consultare l’anamnesi di questa scrittura, non c’è anamnesi. La storia è in atto, la storia si scrive; nessuno storicismo. La storia si narra, si racconta, si cifra, si scrive, e non è mai la stessa storia, non è l’anamnesi, non è la genealogia; la parola stessa non è mai detta, si dice. Cosa si dice, ciascuna volta? Si dice, e quel che si dice è da capire. Inutile appellarsi al saputo, alla saccenza, alla saccenteria, un esercizio di padronanza che fallisce, un esercizio di padronanza che vorrebbe sostituire l’ascolto, l’esigenza dell’ascolto, capisco, quindi so. No, il sapere è un effetto temporale, è un seguito del funzionamento del significante, ma questo sapere è effettuale, è un sapere attuale, non è sapere ontologico, non è sapere capitalizzabile, accumulabile, non è mai saputo. Per questo la formazione intellettuale è incessante, è in atto, è in corso, perché l’esperienza non è mai finita. Le cose non si sanno mai. Il sapere sta nella produzione, non in ciò che è stato, il sapere si produce nell’atto, non è il prodotto di ciò che è stato, non c’è cumulo del sapere, se non per l’idiota. Nell’idiozia sì, ossia nella rappresentazione dell’assenza di particolarità; allora, in assenza di particolarità sarebbe possibile sapere, perché le cose sono ontologiche, quindi senza particolarità, allora, a questa condizione, sarebbe possibile saperle. Dunque le cose si dicono, la parola si dice, ciascuna volta. Ciascuna volta non è tutte le volte, ciascuna volta è indicativo dell’atto, dell’attuale, dell’intervento istantaneo del tempo. “Ciascuna volta”, e “quella volta”, particolare e specifica. Ma non basta dire “ciascuno”, anziché “tutto”, “ciascuno”, anziché “tutti”, “ciascuna volta” anziché “tutte le volte”, perché effettivamente la questione della “ciascuna volta” sia in atto. Io posso dire anche: “Ciascuna volta che parlo con te…” e sto dicendo: “Tutte le volte che parlo con te”, dunque in un riferimento ontologico, in un’idea di tempo continuativo, perdurativo, in un’idea di tempo negato, abolito. Posso dire: “Ciascuna volta che incontro Tizio, Caio, Sempronio…”, e sto dicendo: “Tutte le volte che…”, perché “ciascuna volta” è istantaneo, esige la singolarità, esige l’unicità, è senza riproduzione, è senza ripetizione, è senza plurale; il ciascuno è senza plurale. Non basta acquisire il gergo per acquisire i termini della logica, del modo, della procedura, per acquisire lo statuto intellettuale. Non è questione di gergo, non è questione di nominalismo, è questione di nominazione, non di nominalismo o di nominabilità. Non è questione di gergo, non c’è nessun gergo. Il gergo è un indice della stupidità, dell’idiozia. Chi crede di acquisire un gergo e, per questa via, acquisire qualcosa, come minimo si sbaglia, non acquisisce nulla. Si inscrive nella stupidità soggettiva, nulla di più. Non c’è nessuna prescrizione linguistica, verbale a dire una parola piuttosto che un’altra, perché ciascuna parola ha uno statuto ben preciso, interviene non a caso, mentre il gergo è prescrittivo, è stupido, è generalizzante; elude il particolare, lo specifico, elude la cifratura, elude e abolisce il tempo, è solo indice di sordità, di stupidità, di assenza di ricerca, dell’indagine attorno al modo in cui le cose si dicono, si qualificano, si cifrano e, prima ancora, si scrivono. Questo procedimento, questa procedura non è toglibile dalla questione intellettuale, che non è uno scherzo: è una questione di tempo, di lingua, di modo, di ascolto, di cifratura. Dunque la formula “tutte le volte che…”, esige il preambolo, indica l’esigenza del preambolo, l’esigenza cioè della dissipazione della credenza nella sostanza a partire da cui il tempo potrebbe finire, quindi il plurale potrebbe instaurarsi, e l’atto non c’è più, ma c’è il ricordo di “tutte le volte che”, quindi il ricordo di una presunta totalità, di un passato che potrebbe ritornare a sancire la modalità, la continuità, la durata di una soggettività, di una modalità, di un essere delle cose, di un essere del soggetto, di un essere dell’identità. “Tutte le volte che…”, dunque, esige il preambolo, “ciascuna volta” segue il preambolo, ma non è un modo di dire, è uno statuto con cui qualcosa interviene. Quando constatiamo il preambolo? Constatazione che non è una volta per sempre, ma nell’atto, in quell’atto, ciascun atto procede dal preambolo. Lo constatiamo quando “ciascuno” non vale “tutti”, quando, insomma, emerge la caratteristica, la specificità, la qualificazione di qualcosa, in quell’atto, non per sempre, non come categoria, non come concetto, ma come qualifica, in quell’atto. La credenza che possa sussistere un sinonimo è l’indice di un’esigenza di un supplemento di analisi. L’intervento del plurale indica l’esigenza di un supplemento di analisi, di un supplemento al preambolo. Il preambolo non è nei termini del c’è o non c’è, è nei termini del modo della qualificazione, dell’intervento della qualificazione e della qualità, dell’intervento del modo del tempo. Ogni totalizzazione, ogni suo invischiamento, ogni suo attaccamento a un ricordo, a qualcosa, esige il preambolo o un suo supplemento; entrambi avvengono nella conversazione analitica, nella narrazione clinica e nel racconto di cifra. Conversazione, narrazione, racconto sono tre dispositivi della valorizzazione nell’esperienza e dell’esperienza della parola originaria. A che pro pensare di essere privilegiati sulla base dell’evitamento di questi dispositivi? Chi può ritenere di costituire un soggetto privilegiato? Chi si considera un soggetto, non altri. Il supplemento non è il segno della mancanza ontologica, né un segno del negativo, né il segno di una carenza, né il segno di un deficit; il supplemento non interviene a sanare qualcosa, proprio perché l’intero non è il tutto e ciascuna cosa procede dall’intero, dunque non è da salvaguardare, perché è originario, proprio perché ciascuna cosa procede dall’intero. Il supplemento sta sulla via del compimento, è richiesto dal compimento. Lo stesso supplemento procede dall’intero. Dunque, con “tutto” ciò e per “tutto” ciò, la cifratica è il gerundio dell’esperienza. L’esperienza esige il gerundio, si cifra nel gerundio, non è cifrata, non è cifrabile, non si cifrerà: è nel gerundio che l’esperienza si cifra. Il gerundio è attuale. Parlando, dicendo, facendo, scrivendo, vivendo… Il gerundio è il modo dell’esperienza. “Ma io ho fatto”, “Io ho detto”, “Io sapevo”, “Io vivevo”, “Io vorrei”, “Io farei”, modi dell’evitamento del gerundio. Il gerundio importa. Importa il vissuto? Importa la promessa dell’avvenire della vita? Importa l’attuale, il gerundio e il suo modo, dunque il gerundio della ricerca, il gerundio dell’impresa, il gerundio della parola, il gerundio della vita. Il progetto e il programma si precisano e si specificano nel gerundio, non nel pensiero, non pensandoci su, non aspettando, non pensando se è troppo presto o troppo tardi, nel gerundio. “Ma, io avrei dovuto fare queste cose una volta, tanto tempo fa, le farò più avanti, non sono pronto, devo prima formarmi meglio, sono troppo magro, devo ingrassare un po’”, oppure: “Sono troppo grasso, devo dimagrire, devo formarmi, devo acquisire più dati”. Modi di evitare il gerundio, pensandosi addosso, pensando di essere, ma di essere cosa? Di essere chi? Sono soggettività impedienti. L’unico impedimento è la soggettività, cioè la credenza nella soggettività senza preambolo, senza supplemento al preambolo. “Ma io queste cose le ho già dette, le ho già analizzate queste cose, le so già”. Eh, le so. Che ho analizzato? Queste cose. Quali? Quelle? Quelle passate. Queste? Quali queste? Ciascuna cosa è senza plurale. La generosità, l’umiltà, l’indulgenza stanno lì, in queste virtù, in queste proprietà del ciascuno, che non è qualcuno di bello, di particolare, no, ciascuno, non qualcuno. Ciascuno non è qualcuno, è lo statuto intellettuale, senza soggettività, senza sostanzialità, senza identità, senza passato, senza presente, senza futuro. Ciascuno esige il dispositivo che è intellettuale in quanto pulsionale, quindi senza naturalismo, senza appartenenza a un genere, senza la conformazione a un’appartenenza sociale, senza modello di relazione sociale come esempio da seguire o da evitare, dunque sena volontà di bene, senza volontà di male, senza volontà; per via di pulsione, per via di domanda, senza cui, dicevamo, c’è l’appartenenza al genere degli avari o degli sterili, dell’avarizia e della sterilità, che non sono propriamente virtù. Quindi in questo panorama, in questo contesto, in questo ambiente si pone la questione dell’economia e della finanza in termini non ontologici ma intellettuali, perché s’instauri il valore, il valore assoluto. Perché ciascuna cosa giunga al valore non si può prescindere dall’altrove della parola, altrove che è indicato dal modo stesso della pulsione. Un altrove è l’economia, un altrove è la finanza, due altrove della parola. Cosa vuol dire? Ci siamo posti la questione da dove vengono le cose e dove vanno, dato che la parola non è spaziale, non è un luogo e dunque ci siamo posti la questione della condizione: dove le cose vanno, da dove le cose vengono. Questo “dove” non è un dove spaziale, non è un luogo, è la condizione del viaggio. Le cose vengono dal destinatario e vanno al destinatore. Dove. Questo “dove” è la condizione dell’andare, la condizione dell’avvenire. Non è uno spazio, non è un inizio, non è una fine, ma dove. E dunque, una volta individuata la questione dell’oggetto che costituisce questo dove, sorge la domanda dove le cose si fanno, dove si compiono, dove si producono, dove si concludono. Dove? E come? Questi altri dove comportano l’altrove, comportano, cioè, qualcosa che va oltre – altrove, oltre – la struttura, per cui, oltre la struttura, si scrivono, tendono a scriversi. Oltre la struttura. La struttura non è stabile, non è la fine delle cose, non è dove le cose stanno, perché si scrivono oltre la struttura. La struttura non è un habitat, è struttura temporale. Il progetto non finisce nella sua formulazione, esige di svolgersi, esige il programma, e il programma non è finito nel suo formularsi, esige la formalizzazione, esige lo svolgimento, esige la valorizzazione che segue la cifratura. Il programma e il progetto tendono a scriversi, non a stare lì, il soggetto si dà come compiuto senza progetto e senza programma, perché “è”, il soggetto, per definizione, “è”. È stupido, è finito, è debole, è malato, è incapace, il soggetto “è”, ma il dispositivo pulsionale, invece, esige il progetto, esige il programma e la loro scrittura e la loro qualità. Dunque, l’economia come istanza di scrittura della ricerca e la finanza come istanza di scrittura dell’impresa. Ricerca e impresa: non solo ricerca o solo impresa, l’itinerario è combinazione di ricerca e impresa. L’istanza non è personale, è pulsionale. “Ma, non so cosa scrivere, non so cosa dire, non so cosa fare, non so cosa chiedere. Io sono, io sono colui che è. Che posso chiedere, che posso dire, che posso fare? Io sono pieno, sono la pienezza. Cosa posso dire? Ogni cosa che dicessi, mi toglierebbe la pienezza, mi renderebbe mancante di quello che dico, non sarei più pieno, non sarei più, non sarei più io, non sarei più idiota, non sarei più soggetto. Perbacco! Sarei esposto alle vicissitudini della pulsione, alle svolte, ai giri, ai raggiri, perbacco! Che posso dire, che posso fare, che posso chiedere, io, che sono nella pienezza?”. Nella pienezza nulla accade. Questa pienezza è senza tempo. Nella pienezza la pulsione è tolta, c’è l’idea di essere, l’idea di finire. Nessuna istanza è personale o volontaria, o conosciuta, o soggettiva, il soggetto è senza istanza. “È”. È pieno, pieno di sé, e dunque senza soddisfazione possibile. Dove andrebbe questa soddisfazione, se già c’è la pienezza? La formula dell’altrove indica che nulla è spaziale, perché anche la struttura tende a scriversi, dunque struttura senza ontologia, struttura pulsionale, non struttura formale, conoscibile, ripetibile. Dunque l’altrove è anche funzionale, sulla via del senso e del sapere quanto all’economia, e del malinteso quanto alla finanza. In questa accezione, quindi, l’economia non è l’arte di risparmiare, né l’arte di accumulare, piuttosto il modo della produzione, e sulla scrittura della produzione, come la produzione si scrive. Non come la produzione si accumula, non come la produzione possa risultare funzionale all’essere, ma come si scrive. E dunque l’economia è senza risparmio e senza spreco, procede dall’abbondanza, dalla mancanza senza ontologia, per cui ciascuna cosa è presa nel va e vieni, nell’onda, da cui l’abbondanza. Ricerca e impresa, dicevamo, si combinano nell’itinerario e economia e finanza sono costitutive. La produzione, l’amministrazione, la distribuzione, la vendita tendono a scriversi ed esigono la cifratura, stanno nel processo intellettuale, non sono discipline già codificate. Quali sono l’economia e la finanza di ciascun atto? Non economia e finanza come categorie, ma economia e finanza come l’altrove proprio a ciascun atto. Nessuno è esente, quindi, dall’economia e dalla finanza. “Ah, io non me ne intendo di economia, non me ne intendo di finanza, io mi occupo di altre cose…”. Importano e sono essenziali perché, dunque, si scrivono, e la riuscita esige la scrittura. La riuscita di ciascuna cosa esige la scrittura. Addirittura sta oltre la scrittura. Ecco, giusto per contribuire, in qualche modo alla questione. Se ci sono domande… Forse è più chiaro che quella che provvisoriamente abbiamo chiamato l’équipe della promozione è in realtà l’équipe dell’economia e della finanza, che procedono dalla promozione. Équipe che attualmente si svolge il lunedì sera e il mercoledì alle 14 .30 nella sede dell’associazione. Se ci sono domande… Capisco che la questione è ostica, però…
Pubblico L’oggetto costituisce questo “dove”, ha detto, quindi è per questo che non è mai raggiungibile.
R.C. Brava! Bravissima! Molto bene. Sì? Capisco che è impegnativo, però, astenersi a che vale? La signora voleva chiedere a che ora terminiamo, lei, invece, voleva chiedere qualcosa?
Pubblico Non mi è chiara la domanda, comunque a me è venuta in mente la parola “caso”. “Il caso”.
R.C. Il caso, esatto.
Pubblico E l’unicità. Chiaramente caso unico oppure caso comune. Perché a un certo punto si arriva al caso clinico?
R.C. Caso clinico è il caso dell’unico.
Pubblico Ma com’è che ci si arriva? È la non accettazione di che cosa?
R.C. Risaltando l’unicità. Per via di preambolo, eventuale supplemento e qualificazione e narrazione, si arriva al caso dell’unico, all’unicità con cui il dettaglio si scrive in direzione della cifra. È semplice.
Pubblico Ma, allora, la domanda da dove viene? Dalla pulsione. La domanda è la pulsione stessa, lei dice, ma la pulsione…
R.C. Da dove viene? E dove va?
Pubblico Da dove viene e dove va. Ma perché a Tizio questo e a Caio no?
R.C. Lei per chi parteggia? Per tizio o per Caio?
Pubblico Io parteggio per me.
R.C. Ecco, quindi lei è Tizio? o è Caio?
Pubblico: Io sono…
R.C. Io sono io? Lei è lei?
Pubblico Un momento, lei per Tizio chi intende?
R.C. Non lo so, lei dice che parteggia per sé, allora, fra Tizio e Caio, lei chi è? È Tizio o è Caio? Dire che parteggia per sé è come dire che parteggia per Tizio o per Caio.
Pubblico Io ho detto perché a Tizio sì accade questo e a Caio…
R.C. Ma non è che accade a Tizio, è questo il punto.
Pubblico No, è accaduto a me.
R.C. Ma neanche a lei. Non accade a lei. Questa è ancora personalità, soggettività. Chi è lei?
Pubblico E che ne so, io.
R.C. Appunto. La questione è quella del dettaglio. Il dettaglio trae al caso clinico, non Tizio. Non è la clinica di Tizio, è l’analisi e la clinica del sembiante, è la clinica del tempo, non è la clinica di Tizio. Altrimenti saremmo nella psicopatologia.
Pubblico Ma, allora, scusi, se io dico a Tizio sì e a Caio no… Allora se Tizio e Caio non esistono?
R.C. No, magari esistono, però, lei che li conosce ce li presenti. Ha detto: “Perché a Tizio sì e a Caio no?”, avrà pure un riferimento.
Pubblico Perché a una persona sì e a un’altra no?
R.C.: Eh, una persona…
Pubblico A questo punto non ci sono neanche più le persone. Se non ci sono né Tizio né Caio non ci sono più le persone, è molto complessa la faccenda, è evidente.
R.C. Assolutamente. Chi dice il contrario? E non è semplificabile. Questa complessità non è semplificabile, giunge al semplice, per via della clinica.
Pubblico Allora, mi esige un supplemento.
R.C. Perfetto. Altre domande?
Pubblico Io avevo una questione, però non so se l’ho bene inquadrata, dalla parola preambolo, cioè, il preambolo e l’esperienza, ma se l’esperienza non ha tempo, perché il tempo è l’istante in cui c’è l’atto…
R.C. Quindi il tempo è istantaneo, è l’istante.
Pubblico: …come può esistere un preambolo se il preambolo consiste in un “pre”, in qualcosa che c’è o che c’è stato?
R.C. Perfetto, ma non è da intendere come successione, prima e dopo; è preambolo in quanto comporta la dissipazione della credenza nella sostanza, della credenza nella genealogia, della credenza nella successione, della credenza nel luogo comune, in questo senso è il preambolo. Il preambolo è già nell’esperienza, ma perché l’esperienza effettivamente prosegua, si scriva, occorre il preambolo, che non è il prima dell’esperienza, è costitutivo di ciascun atto dell’esperienza. Cioè, ciascun atto dell’esperienza esige di situarsi nella questione aperta, non nel discorso di padronanza, esige di situarsi, quindi, nella questione intellettuale, non in una presunzione di sapere, non in una saccenteria, non in un’idea di essere; esige questo preambolo, che comporta la dissipazione delle certezze soggettive, che, appunto, non è una volta per tutte, una volta per sempre, ma è in ciascun atto, è qualcosa che esige lo sforzo intellettuale, non l’inerzia intellettuale, non l’automaticismo quindi, questo è stato e d’ora in avanti tutto va per inerzia, assolutamente. E il supplemento, ha detto, adesso bisogna farlo, ci vuole, no?
Pubblico Proviamo. Io ho scritto questo, a me sembra così: sono, quindi so, è il soggetto cioè una relazione tra l’essere e il sapere…
R.C. So di essere.
Pubblico Anche biunivoca nel senso di dire “so quindi sono”, e quindi questa sarebbe anche la sostanza.
R.C. Certo. L’essere ontologico è sostanziale.
Pubblico Quindi, allora, dire soggetto e dire sostanza è la stessa cosa.
R.C. Quasi, non proprio ma sono prossimi. Così è abbastanza, occorre giungere al semplice. Bene. Altri? Sapevo che la prima fila è una fila importante, tosta, ma anche la terza fila. Lei aspettava, voleva fare una domanda, chiedere una precisazione. Non ha domande lei? Al momento no. Nessun altro. Per il resto è tutto chiaro. Ah ecco, si è svegliata.
Pubblico Stavo pensando alla durata rispetto alle istituzioni, in cui fa da fondamento alla stabilità, praticamente, quindi l’Altro è tolto, poi avevo pensato all’odio, a un articolo di Atti che parla, fa un’elaborazione sull’assiomatica dell’odio…
R.C. È un numero de “La cifrematica”, no?
Pubblico Il cervello e la bussola.
R.C. Proprio in questo, mica a caso l’ho citato. Assiomatica dell’odio, di Alessandro Atti, certo, un bellissimo articolo.
Pubblico Bè, mi ha colpito che Cristo dice che lui è venuto a portare la divisione, la spada, insomma.
R.C. Questo lo dice Cristo, non Atti. Atti lo cita.
Pubblico Sì, e stavo pensando che è una cosa che, nell’istituzione, come causa, quando diventa causa in un effetto di parola, viene tolta ‘sta cosa, no, viene tolta la divisione, a favore sempre dell’amore, quindi del gruppo, dell’unità, della gerarchia…
R.C. Di una certa accezione di amore, è chiaro.
Pubblico Certo, e da questo, l’odio, per intendere questa cosa dell’odio che comporta effetti che è difficile, almeno a me è difficile dire qualcosa su questo, che non è transitivo. Poi mi viene in mente questo: io ho sempre creduto che si parlasse, per esempio, per amore, quindi io pensavo di scegliere di parlare per amore oppure no, e di non riuscire mai a parlare per odio, ma non nel senso contro l’altro, comunque mi domando se già il parlare è questione d’odio, non necessariamente questione d’amore, o comunque non solo.
R.C. Bene, chiaro. In particolare l’odio è ciò per cui non c’è il plurale, non c’è attaccamento, non c’è invischiamento. Esattamente. È quello che Jacques Lacan chiama il quantificatore universale, in particolare nell’articolo L’etourdit, che tradotto in italiano significa Lo stordito, che voi potete trovare in “Scilicet”, 1-4, edito da Feltrinelli e curato da Armando Verdiglione, un libro molto interessante e un saggio pure molto interessante che mette in questione la formula del quantificatore universale, che è la formula del soggetto. “Ognuno”, “ogniqualvolta”, “tutte le volte”. Bene, benissimo. Allora, proseguiamo la lettura, in questi giorni, del libro di Armando Verdiglione La famiglia. L’impresa. La finanza. Il capitalismo intellettuale e del numero 3 de “La cifrematica”, Il cervello e la bussola e anche dei precedenti e dei successivi e noi ci vediamo giovedì prossimo.
La scuola: per tutti o per ciascuno?
Ruggero Chinaglia L’invito alla lettura per la prossima settimana è questo libro della collana “La cifrematica”, che si intitola La nostra psicanalisi. Questo è il quinto volume, reperibile anche in libreria. La ritengo una lettura di valore, un libro di valore, che consente a ciascuno una lettura in direzione del valore. Lei ha già letto questo libro? Sì? Allora la possiamo interrogare. Ah, non l’ha letto? Pensa che non sia un libro che lei possa leggere? Vuole cominciare dal primo! Ma non sono volumi che procedono in ordine sequenziale. Non è un romanzo a puntate per cui se non leggo la prima puntata non capisco la storia. No. Ciascun volume consente di apprezzarlo per quello che contiene, indipendentemente da quelli che sono usciti in precedenza e da quelli che seguiranno. Questo è un aspetto interessante della collana. Non è a puntate e non è, diciamo così, in un ordine genealogico. Questo laboratorio volge ormai alla conclusione, grazie anche alle condizioni climatiche in cui si deve svolgere, dato che c’è questa insensibilità per il pubblico, non dico per il relatore che se la cava anche in condizioni climatiche avverse, ma il pubblico… Il pubblico ha freddo. Non ha freddo, lei? Ah, lei è ben vestito. Dice che ci dobbiamo attrezzare meglio. Ah, lei l’aveva previsto. Io contavo invece su condizioni favorevoli, cioè su un pubblico molto numeroso, che quindi dava alla sala calore, cosa che invece non è. Quindi, tenendo conto di ciascun elemento, di ciò che è in corso e anche del titolo generale di questo laboratorio, il titolo di questa sera è: La scuola: per tutti o per ciascuno?, proseguendo alcune notazioni che abbiamo cominciato a affrontare le volte precedenti e cogliendo anche l’adiacenza con la questione scuola.
Chi insegna e a chi? Agli allievi? Alla classe? A un insieme? E dove avviene questo?
La risposta a queste domande esige un certo percorso, una certa ricognizione di varie cose. Osserviamo le stelle nel cielo: si tratta del cielo stellato? Di tutte le stelle o di ciascuna stella? Le cose sono tante. Quantificandole, si tratta di tutte le cose o di ciascuna cosa? Il vento va e poi viene: si tratta di tutto il vento o di ciascun refolo, di ciascun soffio? Le cose si dicono: tutte le cose o ciascuna cosa? Tutto e ciascuno non vanno insieme, non si equivalgono né sono sinonimi; quel che si dice tende a qualificarsi, tende a divenire qualità, tende al valore, al valore assoluto, ma in che modo ognuno si oppone a questa tendenza? In che modo ognuno riesce a opporsi alla tendenza delle cose a qualificarsi? In che modo si oppone, volendo sapere già ciò che dice, volendo addirittura sapere già ciò che sta per dire, pensando di sapere già, e quindi rinunciando a dire, a lasciare che le cose si dicano, tacendo? “Questo posso anche non dirlo, posso tacerlo, tanto so già più o meno cosa vuol dire”. È questo il modo di togliere il tempo dalla parola. È il tempo infatti che, intervenendo, effettua il senso, il sapere, la verità. Sono questi gli effetti della parola, gli effetti con cui la parola agisce, e con il senso, il sapere, la verità la differenza sessuale, che non è la differenza tra i sessi, tra uomo e donna, tra maschio e femmina. La differenza sessuale, ossia la differenza temporale, la differenza assoluta per cui le cose si scrivono. Per questa struttura temporale, per via dell’intervento del tempo, il miraggio della conoscenza o della conoscibilità è vano, non si realizza, è appunto un miraggio. Conoscenza e conoscibilità restano un miraggio, perché è impossibile abolire il tempo, togliere il tempo. È impossibile ripetere, impossibile che qualcosa si ripeta. E quindi, se nulla si ripete, nulla è già noto, nulla è già visto o già saputo. Occorre capire, occorre intendere, occorre ascoltare. Ma come capire, come intendere, come ascoltare? Capire, intendere, ascoltare esigono l’assenza della possibile scelta fra il bene e il male. Sono senza l’idea del bene o del male dinanzi, quindi senza l’idea di alternativa, senza l’idea di dovere o potere o sapere mediare fra il bene e il male. Anche senza l’idea di volere mediare. Senza mediazione, senza cioè dovere accollarsi la paura di sbagliare fra il bene o il male, fra un’ipotesi positiva e una negativa. La paura è l’unico freno alla riuscita, è l’unico antidoto alla riuscita. La paura esige il suo soggetto, il soggetto agente, non più dunque la parola che agisce, ma il soggetto che agisce, il soggetto quale presunto agente di ciò che può risultare positivo o negativo, giusto o sbagliato, e così la paura frena la riuscita. Nella scuola, negli studi, nel lavoro, nella ricerca, nell’impresa, nella vita. La paura è ciò per cui la domanda, che tende alla soddisfazione, al soddisfacimento, viene contenuta, viene limitata, viene frenata, viene rappresentata, viene corretta secondo i canoni soggettivi. Quindi, per paura, ognuno pretende le cose facili, pretende che le cose siano facili. La paura di non farcela. Teme di non farcela, di non essere all’altezza, teme che possa andare male, teme. Teme che sia troppo difficile. Così la scuola: la scuola deve essere facile? Deve essere accessibile? E soprattutto deve essere accessibile a tutti? L’accesso indica la via dei modi del viaggio. Per questo non c’è acceso diretto. Non c’è accesso diretto alla parola, accesso diretto alla comunicazione accesso diretto all’inconscio. Nessun acceso diretto. Ma l’accesso, particolare e specifico a ciascuno, per ciascuno, in ciascun caso. Nessun parlare facile può consentire l’accesso alla parola, l’accesso diretto, che sarebbe l’accesso senza intellettualità, senza materia intellettuale, senza materia del dire. Come poter presumere di spianare il viaggio? Di renderlo rettilineo? Di togliere l’increspatura dalla superficie? Sarebbe come togliere il viaggio. Tolto il viaggio, tolta l’istanza del viaggio, ecco il viaggio per tutti, dove tutti possono accedervi. Ma tutti chi? Chi sono questi tutti? L’idea che la scuola possa essere per tutti è la negazione della scuola, è la negazione dell’itinerario intellettuale che la scuola ha il compito di avviare, dunque per tutti, cioè nessuno escluso. Per tutti: assurdo. E da dove viene l’idea che qualcuno possa risultare escluso? Da dove viene questo pericolo di esclusione? Un monito recita: “La legge è uguale per tutti”. Un altro dice: “Tutti sono uguali di fronte la legge”. Un altro ancora dice: “La scuola è per tutti”. Allora tutti sono uguali per la scuola o nella scuola? Tutti in quanto uguali? Uguaglianza equità, parità. Uguale, cioè che non pende da nessuna parte. Questa è la caratteristica dell’ugualitas, la superficie che non pende da nessuna parte. Ma questo non impedisce che questa superficie possa incorrere nella sintassi di quel che si dice, dunque nell’equivoco, per cui non c’è cosa pari a un’altra cosa. Questa equità della superficie non la rende tale da parificare alcunché, nulla è pari a altro. Impossibile parità, impossibile ontologia. Come trovare un carattere comune? Come trovare qualcosa in comune? Come poter partecipare di qualcosa, a qualcosa, comunemente? Quale minimo comune multiplo, quale minimo comune male, quale massimo comun divisore per poter comprendere tutti? Quale arte, quale cultura, quale scienza potrebbero sorgere dall’applicazione di questa prescrizione alla comunanza, comunanza a essere tutti? Tutti, per di più uguali. La legge uguale, tutti sono uguali… Dove? Dove sarebbe possibile questo? Forse nella città dei morti viventi. Chi può inscriversi nella prescrizione all’omologazione tale per cui possa essere rispettata la caratteristica universale? Perché ci deve essere una caratteristica universale perché tutti siano uguali, e quindi ognuno, ognuno quindi tutti. Ognuno è il moltiplicatore universale per cui uno vale l’altro, senza differenza, senza variazione, anche senza distinzione; alla base della prescrizione a essere tutti, tutti insieme, tutti uguali, a condividere, c’è quindi l’interscambiabilità. Ognuno è interscambiabile, perché tutti sono uguali, i soggetti sono interscambiabili, i soggetti cloni. Ma quindi l’istruzione a chi si rivolge? L’insegnamento a chi si rivolge? E l’educazione a chi si rivolge? La pedagogia è per tutti o per ciascuno? E la psicanalisi? È per tutti? E la cifrematica? È per tutti? E l’esperienza della parola è per tutti? Si rivolge a tutti? Impossibile. Il particolare e lo specifico, l’analisi, la qualificazione, la clinica, la scrittura, la valorizzazione esigono l’esperienza del ciascuno, e l’esperienza per ciascuno come unicum e come caso di qualità. Quando tutti? Quale caso può consentire di rappresentare il caso di tutti? Quale caso potrebbe essere il caso di tutti? Che ci sia chi corre il rischio di verità, il rischio di parola, il rischio d’impresa, di ricerca non toglie niente a nessuno. Nessuna cosa toglie nulla all’altra cosa. Nessuno toglie niente all’Altro. Perché allora questa prescrizione alla totalità, ai tutti? “Tutti dicono”, “Tutti pensano”. “Non posso fare così, perché tutti mi dicono…”. Tutti mi dicono. “Tutti penserebbero che io…”, “Eh, non sono più dei loro”. Oh, perbacco, perché quando mai qualcuno è stato un esponente della totalità, di tutti? Ma “tutti mi dicono che…”, “tutti pensano che…”, “tutti fanno così”, “tutti dicono così”. Tutti chi? “Tutti quanti”. E quanti sono, tutti? Proviamo a dire quanti sono, e quindi quali sono. Quanti e quali sono questi tutti? Due o tre, forse addirittura due, papà e la mamma; forse uno solo, la mamma, o il papà. “Tutti”. “Dovrei subire la vergogna davanti a tutti”. Tutti. Un modo di rappresentare l’idea della morale. Perché solo la morale può esporre alla gogna. La gogna è la gogna morale, non c’è altra gogna. La paura, dunque, è anche paura della gogna. È una paura morale. La morale sorge per favorire la paura, per servire la paura, per trovare tutti i servitori della paura. Dunque, nell’esperienza della parola, nell’itinerario intellettuale non ci sono più tutti, non c’è più l’idea dei tutti. Ma tuttavia quest’idea che tutti debbono, possono, hanno diritto a fare, tutti debbono avere, tutti debbono essere, possono essere, quest’idea persiste, quest’idea ha una solida base sociale, il principio dell’invidia sociale e il principio della parità sociale. Principio con le sue due facce, il male e il bene; male da evitare e il bene da prescrivere, da difendere, da tutelare, da volere. Ognuno vuole il bene, tutti vogliono il bene, tutti devono volere il bene e dovere è il bene di tutti. Questo è il principio su cui sorge la psicoterapia intesa come la parola per tutti, la confessione laica per tutti, la parola buona per tutti, la parola come psicofarmaco per tutti. A ognuno il suo disturbo, a ognuno il suo male, a ognuno il suo rimedio, la sua soluzione umana. “Hai un problema? Risolvilo. Vedi di risolverlo. So io come risolverlo. Tutti noi possiamo risolverlo”. Questo è il principio dell’idiozia totale. Tutti sono perfettamente idioti. Tutti per definizione idioti, cioè senza caratteristica senza particolarità. L’idiotès è questo: l’assenza di caratteristica, l’assenza di particolarità. La psicoterapia è idiota. Psicoterapia, ossia la parola per tutti, la parola da somministrare, ignorando però la sua logica, ignorando la sua struttura, ignorando la sua scienza. Solo così può essere pensata applicabile, applicabile a tutti e a ognuno, per risolvere, quindi sul principio del male da togliere, del male da debellare, dunque sul principio del male. Dunque una teoria dell’esorcismo laico, la psicoterapia. Esorcismo con cui ogni soggetto può essere trattato. “Ti tratto io”. “Tutti possono essere trattati. Questo metodo è per tutti”, “È un trattamento per tutti”. Tutti i soggetti possono essere trattati, trattati da soggetti. Tutti nella loro idiozia, nella loro assenza di caratteristica, tutti in quanto materia inerte, senza materia intellettuale, che rende vano il trattamento. La materia intellettuale non si lascia trattare, questo il punto! Come trattare la materia? Certo, il vasaio fa i vasi con la creta. Con la materia inerte il vasaio fa i vasi. L’artigiano fa altre cose, ogni artigiano tratta la materia inerte, ogni artigiano fa il suo trattamento alla materia inerte, ma la materia intellettuale non è inerte. È intrattabile. Il trattamento esige che ci sia chi sta sopra e chi sta sotto, chi sa e chi non sa, chi dà e chi riceve, il trattante e il trattato. La coppia, l’accoppiamento, la coppia servo – padrone, medico – paziente, sano – malato. Non c’è scambio in questa coppia, c’è trattamento. La questione invece è che la materia intellettuale è intrattabile perché procede dallo scambio, il dispositivo procede dallo scambio. Dunque si tratta del dispositivo dello scambio, non certo del trattamento. Nessun esorcismo, né religioso né laico, nessuna applicazione, ma il dispositivo della parola, gli effetti della parola, l’itinerario intellettuale, gli effetti del tempo, la combinazione di corpo e scena nella cifra. Un’altra cosa la soddisfazione che produce questa combinazione di corpo e scena nella cifra. In che modo allora avviene sulla scena civile l’educazione alla parola, alla sua particolarità, alla sua logica, alla sua intrattabilità, alla sua intellettualità, che è educazione al ciascuno, non l’educazione di ciascuno, ma al ciascuno? Ciascuno non è il rappresentante singolare della pluralità dei cloni, non è la variante dell’ognuno, non è l’equivalente generale detto in una lingua dotta. Ciascuno non ha niente a che vedere con l’ognuno. Ciascuno è lo statuto intellettuale, è il dispositivo di cifra, è il dispositivo del valore, è lo statuto del valore. Ciascuno. Educazione al ciascuno, non già al tutto; al ciascuno. Per capire, per intendere, per ascoltare occorre che ciascuna cosa si qualifichi, si scriva, si cifri. Ciascuna cosa, non tutte le cose. Ciascuna cosa è senza affastellamento, senza somma, senza sommatoria. Nessun giudizio sommario, nessuna giustizia sommaria se l’oggetto distingue e il tempo divide. Ciascuna cosa procede dalla distinzione e dalla divisione. Anche dal funzionamento. Ciascuna cosa. Ciascuno. Quando ciascuno? Quando ciascuna cosa? Quando è istantanea. Non è l’insieme dei ricordi che emergono o dei ricordi che ritornano. Quando non è una somma di istanti, non indica la durata: “Quando andavo…”, “Quando facevo…”, “Quando dicevo…”. Quando indica l’istante in cui qualcosa accade. Quando dico questa formula non equivale a dire “tutte le volte che dico ciò”, ma indica l’istante in cui quella cosa si dice. Questa è l’istanza temporale. Quando. Non è l’età dell’oro di ogni ricordo. “Quando ero giovane”, “Quando ero bravo”, “Quando facevo”. Quando. Ora. L’attuale. E dunque nessun caso, nella parola, può trattarsi di tutti. Nella parola, ossia nello statuto intellettuale, nell’esperienza intellettuale, nell’esperienza cifrematica, nell’esperienza della psicanalisi, della nostra psicanalisi, dove appunto ha la sua sede ciascuno. E solamente se è per ciascuno, se è disposta al ciascuno la scuola può assolvere il suo mandato istruttivo e formativo. Questo per porre la questione. Adesso possiamo discutere.
Cecilia Maurantonio Erano tre le cose che volevo dire. Mi sono chiesta, a proposito della psicoterapia, se c’è questa idea di poter somministrare la parola buona, la parola farmaco, non c’è in questa idea anche l’idea di plagio?
R.C. Certo. Plagio buono.
C.M. Poi: è la stessa cosa dire, penso di sì, anziché dire “tutti” dire “la maggior parte”? In questo caso mi era venuto come esempio quello delle elezioni. “La maggior parte pensa questo”. Quindi un gesto che può essere comune, come quello di un’elezione, come se parificasse anche le idee, solo perché magari la x è fatta su una casella anziché su un’altra, e comunque c’è questa maggior parte dei tutti, quindi c’è anche un calcolo o una proporzione che si fa rispetto a un “tutti”. Qual è questa fantasmatica che insorge. Poi le volevo chiedere che differenza c’è tra gli effetti che provengono dalla parola, dall’avvio della parola, di senso, sapere, verità o godimento e la soddisfazione.
R.C. Bene. Altri?
Gianfranco Dalle Fratte Se la cifrematica è uno statuto insociale, rispetto per esempio a una frase che ho trovato nel libro di Verdiglione, Il manifesto di cifrematica, il capitolo La cifrematica dà il suo statuto alla psicanalisi, comincia così: “Questa è la storia: per ironia. Se qualcosa si inaugura con la psicanalisi è proprio all’insegna del teorema: non c’è più storicismo”. Poi più avanti, sempre nello stesso capitolo: “Ogni statuto sociale tratta la parola e crea il soggetto”. Poi ancora: “…sicché la cura in quella che risulta la gnosi, è psicoterapia. Fin dal discorso medico. Psicoterapia: la cura, sotto l’idea di bene. Data l’idea di bene, tutto è male”.
Sembrerebbe che una prima differenza della cifrematica rispetto a questo statuto sociale, se fosse uno statuto insociale, perché qui dice: “La cifrematica dà il suo statuto alla psicanalisi”, mi sono chiesto: statuto sociale, insociale in che senso? Qual è la sua proposta su come intendere questi due termini? Grazie.
R.C. È presto detto: lo statuto sociale si rivolge al minimo comune male e al massimo comune bene, mentre lo statuto intellettuale si rivolge alla qualità di ciascuna cosa. Qualità che non è comune, né minimamente né massimamente, perché nell’infinito non c’è il minimo e non c’è il massimo.
G.D.F. Ma questo perché nell’esperienza non è incontrabile né il bene né il male, rispetto invece a un’idea di bene e di male che è possibile incontrare, e quindi è da evitare. La differenza mi sembra che stia qui. Se le cose procedono dal bene-male, chiaramente, nell’esperienza non incontro più né il bene né il male, quindi non si tratta di quello, si tratta di ben altro, rispetto a chi invece ha l’idea di male o di bene come qualcosa che si può incontrare, o addirittura da produrre.
R.C. Chiaro. Nell’esperienza originaria non si tratta del bene dei più ma del valore assoluto per ciascuno. Quindi è un’altra cosa.
G.D.F. Non è più “Ho fatto bene”, oppure “Ho fatto male”.
R.C. E neppure “farò”. Però, tutto questo non va da sé, perché occorre il preambolo, occorre l’analisi, occorre la teorematica, occorre capire, ragionare, intendere. Occorre l’ascolto della differenza, occorre lasciare che la differenza si scriva, dunque senza opporsi, senza correggere, senza contenere, senza moralizzare. Senza l’idea della gogna morale.
G.D.F. Forse anche senza l’idea del profitto…
R.C. È sempre una forma di conoscenza presunta da applicare.
G.D.F. E quale sia il profitto, dove starebbe.
R.C. C’è chi ha una notazione da fare, un chiarimento da richiedere, un’obiezione da rivolgere, un’idea da annunciare? Lei ha un’ipotesi?
Pubblico Ho un dubbio, più che altro, rispetto all’istanza pulsionale, se può non intervenire.
R.C. Lei teme questo? Cioè lei teme di poter rappresentare un caso di assenza pulsionale? Ha questo dubbio?
Pubblico Non so se sia dovuto al fatto che l’istanza pulsionale, dunque istanza, sia soggettiva, cioè che l’istanza debba essere personale, e quindi per questo motivo non interviene.
R.C. In effetti, per come dicevo, ognuno può interrogarsi sul modo, la misura con cui si oppone all’istanza pulsionale, con cui si oppone alla domanda, con cui tenta di padroneggiare quest’istanza, di negarla perfino, magari per dire che non c’è, che non ci può essere.
Pubblico E invece dare per scontato che ci sia?
R.C. E quindi fare come se non ci fosse. Tanto c’è. Sono due facce dello stesso caso. Due facce della soggettività che si oppone alla tensione. In effetti ci sono molti apparati che reagiscono alla parola, certamente. Molti. Lo constatiamo giorno per giorno. Quegli apparati che si rivolgono a tutti, si appellano ai tutti, propongono cose per tutti, come se questa fosse una formula dell’apertura, della tolleranza: “per tutti”. Quindi al massimo dell’apertura, al massimo della tolleranza. Quando invece questo “per tutti” è l’indice dell’intolleranza, è l’indice del razzismo, l’indice dell’inammissibile della differenza, è l’indice dell’ispirazione al principio di Procuste, che è il principio della parificazione, principio della parità e della parificazione. Procuste, ossia il principio della standardizzazione, il principio dell’intolleranza. E anche chi lo accetta vi partecipa. “Ah, io non partecipo, ma che ci possiamo fare?”. Eh, no. Chi lo accetta, è complice. Vi partecipa.
G.D.F. Il principio della delega. Credendo ad esempio che il medico possa darmi la salute.
R.C. Quindi l’accettazione di questo principio è già un modo di opporsi alla parola originaria, è già un modo di credere di far parte di tutti, è già un modo di credere che “i tutti” siano possibili. Altre domande? Lei aveva una domanda che era sorta qui per qui o lì per lì? Eppure ha annotato varie cose. Indifferentemente? Ha annotato tutte le cose? O alcune cose? Condividendole? Accettandole? O criticandole, tacitamente? Va bene. Allora, noi che non accettiamo e non taciamo ci diamo appuntamento qui la settimana prossima.
Generalmente, normalmente, comunemente. Come nonostante l’epoca il cervello non va all’ammasso
Ruggero Chinaglia Vi presento la nuova collana “La cifrematica”. C’è anche il sesto numero che sarà tra breve anche in libreria. Qui, questa sera, facciamo un’offerta straordinaria: tutta la collana, sei volumi, con uno sconto straordinario, proprio di carnevale, uno sconto del 25%. Un’occasione irrepetibile resistere alla quale è impossibile, un prezzaccio. Sono sei volumi, 20 € al volume, per un totale di 120 €, al prezzo di soli 95, anzi 90 €. Un volume mezzo regalato! Offerta unica, straordinaria, irrepetibile, ci farà capire chi sono gli amici e chi i nemici. E contro i nemici prenderemo misure adeguate. D’altronde questa collana è impossibile non leggerla, altrimenti che ci stiamo a fare qui? Come pretendere di capire senza leggere il testo di questa esperienza? Anche perché si tratta di questo, oltre a altri contributi, che sono i contributi essenziali di chi è protagonista di questa esperienza, chi da 35, chi da 30, chi da 34, chi da 25, chi da 20 anni.
Vedo muoversi il pubblico in maniera disordinata, proprio travolto dalla proposta. Chi fa la prima offerta? Perché nessuno qui ha la collana. L’offerta vale qui, ora e mai più, Hic et nunc.
Pubblico Io ho dei volumi di questa collana.
R.C. Si, vabbè, lei ha un paio di volumi ma altri non ne hanno nessuno. Non c’è oltre a lei chi abbia dei volumi della collana. Lei ne ha?
Pubblico Sì.
R.C. Sì? Caso unico e irrepetibile. Lei ne ha?
Pubblico Sì, ne ho 4 volumi.
R.C. Lei, invece?
Pubblico Neanche uno.
R.C. Allora è lei il primo candidato, diciamo il candidato primo. Lei, invece, ne ha?
Pubblico Nessuno.
R.C. Lei, allora, è il secondo candidato. Quindi dietro a questa assenza di lettura c’è tutto uno pseudo ragionamento. Non un ragionamento, uno pseudo ragionamento, cioè una fantasmatica che nega il ragionamento e mantiene un’impostazione che definire soggettivistica è ancora poco. Quindi, lei non ne ha. Lei invece ne ha?
Pubblico Ne ho uno.
R.C. Che magari non ha ancora letto.
Pubblico Ne ho letto metà, però non mi ha appassionato.
R.C. Non l’ha appassionata, ma infatti non deve appassionare. Questa è una lettura che non è che abbia da appassionare perché è senza pathos. È una lettura intellettuale, capisce? Non è che debba appassionare. È una lettura che, anzi, toglie proprio la passione. Instaura la materia intellettuale, la scrittura, la clinica, tutte virtù che con la passione non hanno niente a che vedere. Lei vuole appassionarsi? Vuole emozionarsi? Vuole rabbrividire? Vuole piangere? Leggendo questo libro lei vuole piangere? Vuole ridere? Ci sarà da interrogarsi, ci sarà da capire, ci sarà da annotare, da scrivere per riflettere. Da indagare leggendo altre cose, ma nessuna rappresentazione del pathos. Lei, Fernanda Novaretti, che sogghigna, neanche lei…
Fernanda Novaretti Ne ho due volumi.
R.C. Due. Neanche lei si è appassionata? Voleva appassionarsi ma non c’è riuscita. Giorgio Fornasier, lei?
Giorgio Fornasier Ne ho quattro.
R.C. Quattro. Quindi lei non può accogliere l’offerta di tutti sei i volumi con il 25% di sconto.
G.F. No, perché ne ho già quattro.
R.C. E li ha letti, questi 4 volumi?
G.F. Si, li ho letti tutti e quattro.
R.C. Appassionandosi?
G.F. No.
R.C. Scorgendo però elementi di valore?
G.F. Sì.
R.C. Perché lei è un lettore di testi di cifrematica. Dalle Fratte, lei?
Gianfranco Dalle Fratte. Zero.
R.C. Zero.
G.D.F. Potrei comprare quello dal titolo Il cervello e la bussola.
R.C. Ma se l’offerta è di tutti e sei, ci sarà un motivo.
G.D.F. Compro una perla di questa collana “La cifrematica”.
R.C. Lei dice che si accontenta di una perla. Non vuole la collana, le basta una perla sola. E la perla è il segno della collana? La collana è la collana.
G.D.F. Per fare una collana bisogna cominciare con una perla.
R.C. No. La collana è collana, non è una perla, poi un domani un’altra perla, cioè non sarà mai collana, saranno alcune perle. Meneghetti, invece, lei che era orientato per la collana, non ne ha neanche uno?
Meneghetti No, non ne ho neanche un volume. Io offro 80 €.
R.C. Non è mica un’asta. Ottanta. No, io glieli do per 85.
Meneghetti Io compro a ribasso.
R.C. Lei fa l’offerta in ribasso. Questo è indicativo di molte cose, non ha preso la cosa seriamente.
Meneghetti Non posso offrire di più di 80 €. È un periodo di crisi.
R.C. Ma infatti, proprio perché è periodo di crisi, periodo di valutazione, è periodo di tramonto delle abitudini, degli schemi, degli schematismi, quindi è il momento dell’introduzione di altri modi del ragionamento e della valutazione, questa è l’occasione. Non è che la settimana prossima ripetiamo l’offerta, è giusto questa volta qui. Può dare 80 € subito e 10 la prossima volta. Questo si può fare, questo lo accordiamo. Fin che lei ci riflette, Pasquato sta per muovere. È la leggerezza che distingue questi libri. La leggerezza, l’aria, l’anoressia. Oppure Moda. È l’occasione una volta tanto di fare un gesto di apertura nei suoi confronti, invece di essere sempre lì nell’angustia. Un gesto che inaugura un atto di autorità, poi lo spiega alla moglie che ha fatto un gesto di autorità, la moglie sarà contenta, no? Allora, qui stiamo per concludere l’offerta, unica e irrepetibile. Cioè che questa offerta non venga accolta, beh, sarà un’ombra indelebile su chi non l’accoglie.
Pubblico È un saldo.
R.C. No. Non è un saldo, cioè non è che mercanteggiamo. È un’offerta, un gesto di generosità dell’editore che offre la collana con questo sconto per favorire l’acquisizione da parte di chi non sia indifferente sia allo sforzo dell’editore sia allo sforzo di chi è testimone. Cioè, voi, siete al corrente del titolo di questa sera? Questo titolo non è garbato al nostro ufficio stampa, che infatti non l’ha diffuso, e infatti sui giornali non è uscito. Ora, sorge l’ipotesi, è una censura del nostro ufficio stampa o da parte dei giornali? Perché i giornali dovrebbero avere qualcosa da ridire su questo nostro titolo? Sarà stato il nostro ufficio stampa. È più credibile questa ipotesi. È stato inviato ai giornali il comunicato?
Lucia Macario No.
R.C. Eh, appunto. Allora, il titolo dice così: Comunemente, generalmente, normalmente. Come e perché nonostante l’epoca il cervello non va all’ammasso. Qui si potrebbe aggiungere nonostante l’epoca e la pervicacia di alcuni e l’ingenerosità di altri. Dunque, generalmente, comunemente, normalmente, tre modi con cui si annuncia per vie traverse il fantasma di padronanza, il fantasma dell’ammasso, il fantasma di partecipazione, di condivisione, di adesione, di comunanza, di comunella, di appartenenza, di familiarismo, insomma di adesione alla soggettività, quella soggettività che stabilisce, rispetto a qualcosa da fare, di pensarci se farla o non farla. Il fantasma di padronanza sorge, si istituisce per tentare una presa sulla parola, e su questa idea di presa sulla parola, di gestione della parola, di controllo, di possibilità di mediazione con l’urgenza che la parola indica, si erige il discorso di padronanza. Sono molte le fantasie per cui sorge quest’idea di presa, quest’idea di contrapposizione, quest’idea di prestanza, di prestazione rispetto a cui il rivale è subito pensato, congetturato, instaurato. Uno dei modi con cui si esercita questo fantasma di padronanza è la fantasia di possessione, fantasia di possesso e dunque di essere posseduto, di poter possedere, di poter avere, di poter essere, perché è con la fantasia di possessione, quella per cui ognuno è preso nell’idea di sé o nell’idea dell’Altro come rappresentabile, è con questa fantasia che dunque è di possessione che uno si costruisce il suo ritratto, e si fa personaggio, diventa il personaggio della sua epopea, della sua storia passata, della sua storia tribolata, della sua via crucis rappresentata, rappresentandosi, infatti, come povero Cristo. Il fantasma di possessione ha avuto la sua notorietà e sua pubblicità fin da Platone, con l’idea di una possessione diabolica o divina, demoniaca, che poteva contraddistinguere ora il pazzo, ora il poeta. Per Platone la poesia non è un’arte, è il segno della possessione divina, e la pazzia non è una malattia, è il segno della possessione diabolica, e da Platone in poi questo segno si è mantenuto dall’indemoniata alla strega, al pazzo, a ognuno in quanto padrone di sé, in quanto se stesso. C’è chi è padrone di sé, chi non è padrone di sé e, insomma, la questione è sempre la padronanza di sé, l’idea di sé, e quindi il fantasma di padronanza giustifica l’anoressia mentale, ciò che si oppone all’anoressia intellettuale come principio della parola. Il fantasma di padronanza, come fantasma di possessione, non crede alla virtù del principio della parola, non crede alla libertà, non crede all’anoressia, non crede alla leggerezza, non crede. Credere, non credere, questa la padronanza. “Non credo se non so, non credo se non vedo. Non credo se non ho, non credo se non sono”. Non credo. Credo, non credo. So, non so. Sono, non sono. Ci potrebbe credere se lo vedesse, se lo sapesse, se potesse vedere, se potesse sapere… che cosa? La dimostrazione di questo principio, di questa virtù. Come credere senza vedere, senza sapere? Ma si tratta di credere? Di non credere? Di sapere? Di non sapere? Il processo intellettuale è senza dimostrazione, è senza argomentazione, è senza convincimento, cioè è senza obbligo di credere. Esige la fede, non l’obbligo della visione, non, quindi, l’obbligo al legame sociale, l’obbligo di appartenenza, l’obbligo alla sostanza. Non c’è quest’obbligo, la cui punta sarebbe il convincimento. Ciò che si fa, ciò che si scrive, ciò che si cifra è senza dimostrazione; invece il fantasma di padronanza esige la dimostrazione. “Mostrami, dimostrami che sei veramente padrone di te stesso. Dimostrami. Fallo. Dammi questa dimostrazione. Fa’ che io creda. Fa’ in modo che io creda. Dimostrami.”. “Buttati!”, “Mostrami!” Si crede furbo il fantasma di padronanza. È furbo. Fruisce di quella furbizia della ragione soggettiva che porta a escludere il diritto e la ragione dell’Altro. “Mostrami! Dimostrami! Fa’ che io creda, che io possa credere. che possa convincermi, che possa superare le mie riserve, le mie titubanze, le mie remore, le mie credenze”, per magia. Quindi esercita questa furbizia contro la mano intellettuale, per abolirla, contro la logica della nominazione, per abolirla, contro il tempo, per abolirlo, per abolire la sua istantaneità a favore di una durata, di un’ontologia, di un essere delle cose. Invoca un deus ex machina, un agente ex machina che possa esercitare la conversione, la confessione, la trasformazione, il mutamento, il cambiamento. Quindi per un verso invoca questo agente ex machina, ma è furbo, furbissimo, lo invoca ma non è necessario, può bastare l’idea di sé, in cui rimanere preso, in cui essere preso, e questa idea è agente. È l’idea che prende. È l’idea da cui venire posseduto. E una volta posseduto dall’idea, ognuno è così, è come l’idea lo rappresenta. E dunque è ancora fantasma di possessione quel che si rappresenta come mimetismo, ora mimetismo dell’origine, ora mimetismo del destino, ora mimetismo dell’appartenenza, e qui la furbizia gioca la sua dimostrazione, costi quel che costi. Narrativamente, un caso di possessione non diabolica né divina, possessione dell’idea dell’Altro, dell’idea di sé, è ben illustrato nel film Zelig, un film notissimo, ciascuno l’avrà visto, e è rappresentato dal protagonista, Leonard Zelig, che porta a paradosso l’imperativo sociologico e psicologico “sii te stesso”, chiedendosi: “Cosa vuole l’Altro? Cosa vuole da me? Come posso saperlo? Come posso esserlo? Come posso conoscere ciò che l’Altro vuole da me, ciò che l’Altro pensa di me? Cosa devo fare per soddisfare l’Altro? Facendomi Altro. Rendendomi Altro. Diventando l’Altro”. E infatti Zelig diventa l’Altro. Vicenda dopo vicenda fa l’Altro, diventa l’Altro, rappresenta l’Altro, raffigura l’Altro, diventa il ritratto dell’Altro per soddisfare l’Altro, per soddisfare l’idea che ha dell’Altro. Il fantasma di possessione, quindi, tende a evitare l’articolazione, lo svolgimento, la qualificazione, la narrazione, il racconto di ciò che si incontra, fino a esaltare la comunicazione telepatica, o il potere invisibile attribuito all’Altro, all’Altro immaginifico, all’Altro rappresentato, quindi attribuito a ogni altro che con un suo gesto, con un suo atto possa confermare l’idea da cui è preso. E ecco quindi l’idea di una comunicazione telepatica, di una scrittura automatica per telepatia, di una trasmissione energetistica, senza parola, con effetti di trasformazione senza articolazione. Oggi queste pratiche sono imperanti: massaggio, fiori di Bach, Reiki, le pietre di un tipo o di un altro tipo, tutto ciò che possa fornire energia positiva togliendo quella negativa, per il benessere, per la costituzione di un soggetto mondato, un soggetto senza più la materia intellettuale. Soggetto energetico, un soggetto che scambia energia, non ciò che non ha, ma l’energia, che ha e che riceve, senza parola: con le mani, con la bacchetta. La materia intellettuale è abolita a favore di un’energetistica, quindi a favore di un quantum energetico imperscrutabile, inconoscibile, che trae al benessere o al malessere, senza parola, per assorbimento come la pietra di Bologna, che assorbe la macchia. Come esercitare il controllo sull’Altro, ipotizzando di conoscerlo, ipotizzando i suoi pensieri, i suoi voleri, i suoi desideri. “Che penserà lui di me? Che penseranno gli altri di me? Cosa vorrà l’Altro da me?”. Così l’Altro è ben che rappresentato da qualcuno, da qualcun altro, cioè abolito, tolto perché l’Altro né vuole, né pensa, né desidera, tanto meno gode. L’idea dell’Altro e l’idea di sé attribuita all’Altro fondano il soggetto e aboliscono l’Altro, e da qui la rappresentazione della materia inerte, la rappresentazione dell’assenza di domanda: “Non so che fare, non so che dire, non so dove andare. Non so. Non ho. Non sono.” Quindi alla rappresentazione del soggetto svuotato, del soggetto vuoto, del vuoto a perdere, non c’è che la coerenza del fantasma. Da dove viene l’idea che l’Altro è quello di cui stiamo parlando, abbia un’idea di noi, abbia l’idea di me, abbia l’idea di qualcuno, abbia l’idea? L’Altro non ha idee; l’Altro funziona, funziona nel racconto, funziona nella ragione e nel diritto dell’Altro. Né opera, né agisce, cioè ognuno può aderire alla paranoia sociale pensando che c’è qualcuno che pensa di lui qualcosa, e che quindi deve adattarsi all’idea, conformarsi all’idea, alla rappresentazione sociale della soddisfazione di questo qualcosa, ma questa è paranoia. Cioè l’idea di conoscere l’Altro che pensa, l’Altro che giudica, l’Altro che istituirebbe legame sociale. Siamo nell’assenza di ragionamento, siamo nell’allegoria delle relazioni sociali, come se la relazione, divenendo sociale, quindi temporizzandosi, potesse portare alla verità ultima di sé o dell’Altro. Siamo fuori dalla parola, siamo fuori dalla materia intellettuale, siamo in piena psicopatologia psichiatrica, siamo all’antropomorfizzazione dell’Altro, così come avviene, popolarmente, l’antropomorfizzazione di dio: il dio agente, il dio che giudica, il dio che punisce, il dio che premia, il dio idiota. Il povero dio che somministra la pozione: ora un premio, ora la punizione. Poveraccio, non ha niente da fare, sta lì. La soggettivazione di dio, la superstizione eretta a sistema, l’abolizione della parola porta a questo. La disintellettualizzazione, la massificazione del cervello ossia l’abolizione del cervello, come mandare il cervello all’ammasso, aderendo a queste rappresentazioni inintellettuali. Ma qual è quindi il vantaggio che porta il fantasma di possessione? La realizzazione del fantasma di possessione porta alla conferma del soggetto come animale fantastico. Ma lì dove riesca questa conferma, è deprimente, e non a caso la depressione è dilagante. Depressione che si realizza con l’assunzione dell’immagine di sé, con la visione realistica di questa immagine, ossia con la visione dell’autoritratto: “Io sono così”, e lì avviene lo schianto. “Io sono questo”, senza pulsione, senza domanda. “Eccomi”. Ecce homo, il ritratto. La psichiatria, la psicologia, con la loro trattatistica, prescrivono a ognuno il proprio ritratto per indicare la corretta morfologia del ritratto, sulla scia del Lombroso, e chiamano questa ritrattistica, questa assegnazione del ritratto, personalità. Stamattina sono capitato, quasi per caso, in questo nuovo centro cosiddetto culturale di San Gaetano, in via Altinate, dove c’era il tribunale, e c’era un convegno in corso e illustrava questa ritrattistica, e l’oratore asseriva che “il contributo della psicanalisi sta nella diagnosi di personalità borderline”, e era rammaricato perché “il contributo della psicanalisi, nel passaggio al DSM IV dal criterio di diagnosi del Manuale psicodiagnostico, non c’è più”. Poverino, era molto avvilito. Questo sarebbe il contributo della psicanalisi alla diagnostica. Alla personalità borderline. Ohibò, la personalità. Illustrava le varie personalità, era un convegno per la specialistica, la specialistica in psicologia clinica. Psicologia clinica. Qui dovrebbero decidersi: o psicologia o clinica. Psicologia clinica cosa vuol dire? Clinica della psicologia o psicologia della clinica, o psicopatologia della psicologia. Sta di fatto che questa ritrattistica è in voga. C’è chi ci crede, chi asserisce di non crederci ma dà il suo contributo, rappresentandosi, contenendosi, limitandosi, asserendo di essere questo, quell’altro, questo deficit, quell’altro, per via di questa origine, di quest’altra. Dunque il ritratto, ossia la diagnosi, diagnosi di quel che si è, diagnosi di quel che si ha, per esercitare il pettegolezzo, ossia il metalinguaggio. Il discorso su di sé, il discorso sull’Altro è pettegolezzo, è metalinguaggio, è questa la psicopatologia. Ogni psicopatologia si fonda su questo, sull’abolizione della parola, e chi si presta a questo si presta alla morte bianca. Questo discorso di padronanza è il discorso fondato sulla prescrizione al plurale che ingiunge la normalizzazione della di differenza e della varietà, l’appartenenza alla presunta comunità, l’inserimento nell’insieme dell’equivalente generale dei tutti. Ma non c’è il caso dei tutti, né il caso di tutti. Impossibile fare di un’erba un fascio e di un fascio un’erba seppur, paradossalmente, per l’apparente via del realismo fino all’ iperrealismo che indica l’impossibile abolizione del malinteso. Zelig insegue la tensione al caso dell’unicum, al caso di qualità, e il fantasma di padronanza non abolisce la questione intellettuale. Infatti non si appaga con la sua realizzazione, Zelig continua a inseguire il suo fantasma. Allora ribadisco l’offerta di questa collana, sei numeri, 25% di sconto, per non costituirsi come candidato Zelig, ma invece candidati al caso di qualità.
Ci sono domande? Un momento di riflessione. Vedo molta preoccupazione in giro per la sala. Sentiamo.
Cecilia Maurantonio Allora, dunque, chiedo, l’idea, tante volte di dire: “Lo conosco, la conosco, so già quello che dirà, quello che farà” può, per esempio, dare seguito a tantissimi incontri dove nell’interlocuzione si presenta sempre il personaggio. Allora quando si dice: “Io lo conosco, io so già”, sa già il discorso del personaggio, sa già qualcosa intorno al fantasma o sa solamente i tic o…
R.C. Il proprio tic, e appena appena, a malapena. Presume di conoscere il proprio tic e come questa conoscenza è usata come antidoto all’incontro.
C.M. L’altra domanda era, sempre rispetto al fantasma di padronanza, rispetto al tempo, l’idea che i soldi finiscono è l’idea della fine del tempo…
R.C. È l’idea più comune.
C.M. Sì. E l’idea di avere da parte dei soldi, anche, il metterli da parte.
R.C. Beh, si mettono da parte proprio perché…
C.M. Sì, sarà che è comune, infatti è generalissima e si attua anche.
R.C. …possono finire.
C.M. La domanda era questa rispetto a ciò, che effettivamente non avere nulla da parte può non essere, perché dipendere dal fatto che uno è un poveraccio, ma da questa libertà di non pensare alla morte, di non pensare a qualcosa di drastico…
R.C. Avere da parte, non avere da parte.
C.M. Cioè sarebbe la riserva…
R.C. Quel che ho da parte è abbastanza per non essere un poveraccio?
C.M. Non avere proprio.
R.C. Avere, non avere, è uguale. Questa è l’alternativa con cui si dimena il povero, il fantasma di povertà, il soggetto che oscilla in base alla misurazione, ritenuta possibile, dell’avere. E la questione intellettualmente verte non sull’avere o sul non avere, o su quanto è da parte, ma sul non dell’avere. Sul non dell’avere e sul non dell’essere. Tolto il non, a fare da corrispettivo del fantasma di povertà sorge il fantasma di miseria, sulla base dell’idea di essere e di non essere. Essere all’altezza o non essere all’altezza è una variegatura del fantasma di miseria.
C.M. Qual è la disposizione nel momento in cui ci si trova nell’amministrazione di qualcosa che ha anche la sua importanza?
R.C. L’amministrazione procede certamente dalla dissipazione del fantasma di miseria e del fantasma di povertà. Perché un conto è l’amministrazione, che comunque esige l’intervallo, cioè esige l’instaurazione dell’economia e della finanza e non dell’economicismo e del risparmio, e dunque sia il labirinto sia l’intervallo, ma certamente, dunque, funzionando il non, e non venendo invece a istituire la dicotomia tra avere e non avere, essere e non essere; qui siamo nell’alternativa.
C.M. E questa era effettivamente la prima domanda. Cioè a un certo punto ci si può chiedere: io questa cosa non la posso fare perché non lo so…
R.C. Non lo so. Non ho, non sono…
C.M. Perché non ho constatato che ci sia questo dispositivo finanziario, è sempre il fantasma di controllo sulle cose.
R.C. Chiaro.
R.C. Posso un’ultimissima domanda sulla possessione?
R.C. Cioè, l’impresa, l’attuazione di dispositivi, l’intraprendenza sorgono funzionando il non, il non dell’avere e il non dell’essere, non abolendo la funzione del non, e quindi non oscillando tra l’ipotesi di essere o non essere, di avere o non avere abbastanza per fare. Non si può finalizzare la funzione al fare, non si può finalizzare la ricerca al fare, c’è la simultaneità della ricerca con il non dell’avere e il non dell’essere e l’occorrenza. È chiaro che non si instaura nessuna occorrenza per chi sta lì a pensare se è o se ha, o se non è o se non ha, non c’è nessuna occorrenza, c’è solo l’eternizzazione dell’attesa, l’aspettativa. Chi si pensa, non fa. Perché chi si pensa, si pensa sempre negativamente, si pensa al negativo anche quando si euforizza e, eventualmente, in quanto soggetto pensatore, deve oscillare tra il feriale e il festivo, tra l’euforia e la disforia. E se nel feriale produce, nel festivo deve dimostrare che tutto ciò è degradabile, denigrabile soprattutto, in quanto finirà. E allora deve praticare l’esorcismo euforizzante, per accettare l’ulteriore sacrificio.
C.M. Rispetto a tutto ciò che è stato scritto intorno a tutte le possessioni, alle indemoniate, alle streghe, cioè non ho mai sentito parlare del discorso autistico, quanto all’autismo, ma solo del discorso dell’isteria. Grazie.
R.C. Un conto è l’autismo e un conto è il discorso autistico. Bene. Ci sono altre domande? Ecco, c’è il dottor Pasquato.
Pasquato La rappresentazione di sé e la paura, come entrano e come si legano insieme.
R.C. Esatto. Sono necessarie una all’altra, conseguenti e susseguenti. Una rappresentazione di sé e la paura è giustificata, e essendo giustificata è regolatrice. Regolatrice e normalizzatrice.
Gianfranco Dalle Fratte Io mi sono annotato due termini: credenza e fede. E ho letto da qualche parte che la fede è intesa come fede di dio, in qualche testo di cifrematica, fede di dio. Sembrerebbe senza possesso, no? Quindi non la mia fede, si può intenderla così?
R.C. Non la fede in qualcuno o in qualcosa ma la fede come operatore. Dio come fede per dire fede come operatore. Non la fede in dio ma la fede di dio, cioè dio come fede. Questa è la proposta che ha avanzato Armando Verdiglione.
G.D.F. Mi pare che escluda il possesso. Per esempio, invece che credo in me stesso…
R.C. Il concetto di fede come superstizione.
G.D.F. …dire credo in me oppure credo in dio.
R.C. La fede in dio comporta che dio è agente. “Io ho fede in dio e così adesso dio deve muoversi, se no, che cosa fa?”.
G.D.F. Esatto. E quindi c’è un dio agente nella credenza.
R.C. È la fede in un agente. È una superstizione, che l’agente debba agire.
G.D.F. E di fronte a questo se accade qualcosa dove dio non avrebbe agito, allora è la bestemmia? Se io credo in dio o spero in dio e poi magari penso che dio non ha agito, allora la bestemmia?
R.C. Certo. La blasfemia.
G.D.F. Ecco da dove viene la bestemmia.
R.C. La rivendicazione e il rancore hanno questa base: la confidenza nell’agente. L’agente che non agisce o che non agisce abbastanza, e quindi si merita il rancore, la rappresaglia, ecc.
G.D.F. Ma questo dio però potrebbe essere anche l’Altro, allora, rappresentabile, nel senso che è sempre un dio umanizzato. Può essere anche un vicino di casa, un dio immaginario.
R.C. Un dio Altro. L’Altro presunto dio. Dio Altro, dio agente, l’Altro agente. È una rappresentazione, è l’umanizzazione. Dio sociale, dio che deve rispondere alle esigenze sociali, alla sua comunità.
G.D.F. Quindi è uno sperare in questo senso. Quindi c’è anche lo sperare che le cose vadano bene.
R.C. Sì, speriamo, speriamo fratelli che vada tutto bene.
G.D.F. Speriamo che altri facciano.
R.C. Speriamo, speriamo. Esatto
G.D.F. E quindi c’è la delega, chiaramente.
R.C. Il principio della delega. Esatto. Molto bene.
G.D.F. Grazie.
Manuela Macario Io non ho capito questo Altro, con la a grande. Forse le farò una domanda un po’ stupida. Cioè quando uno si chiede “cosa vuole l’Altro da me, come posso soddisfarlo”, ecc., pensa all’Altro come a un’altra persona, come a un familiare, nel campo di lavoro, ecc. Però, poi ha parlato della rappresentazione dell’Altro che quindi viene tolto, questo Altro che non vuole, che non desidera che però forse è un altro Altro, che non è inteso come le altre persone.
R.C. Esatto.
M.M. Qui, adesso, ho preso degli appunti, ma c’è questo Altro che cambia, non è inteso sempre nello stesso modo.
R.C. È l’Altro che funziona nel racconto, è l’Altro irrappresentabile, è l’Altro la cui struttura è il sogno e la dimenticanza. È l’Altro che, se non viene rappresentato, instaura il fare con i suoi dispositivi, l’impresa.
M.M. Sì, certo. Questo l’ho capito. Chi si chiede…
R.C. È l’Altro che ha come sede l’occorrenza.
M.M. Chi si chiede cosa pensa l’Altro non si riferisce a questo Altro, o forse non lo so ma è sempre questo.
R.C. Sì, è sempre questo che però, appunto in questo modo si tenta di abolirlo.
M.M. Poi, però mi era sfuggito un passaggio, in questa trasmissione energetistica, come si collega… Non ho capito quel passaggio di questo soggetto che crede di conoscersi alla trasmissione energetistica, il fatto dell’energia che lei aveva nominato, cioè il soggetto energetico, quindi.
R.C. Cosa non ha capito?
M.M. Come si collega con il voler diventare l’Altro, cioè quel discorso sull’Altro, sul discorso di padronanza, cioè pensavo fosse un discorso a parte, ma forse è sempre lo stesso. Basta, tutto qua.
R.C. L’instaurazione dell’Altro comporta che l’occorrenza abbia il suo seguito nell’instaurazione di intraprendere ciò che occorre fare, quindi comporta la valutazione, il giudizio in direzione e verso la qualifica delle cose, della qualità. La rappresentazione dell’Altro, invece, comporta il fermarsi a pensare se è il caso di fare o no, con tutte le sfaccettature: “L’Altro vorrà, non vorrà, mi vorrà, mi vorrà così, mi vorrà bene, mi vorrà male, mi vuole, non mi vuole, l’Altro c’è, non c’è, sarà così, sarà colà”, e intanto che ci penso l’occorrenza è bella che andata, e la paura è cresciuta, la paura è cresciuta di molto. Perché si è instaurato questo rapporto tra me e l’Altro, questa misurazione, questa commisurazione, questa quantificazione tra me e l’Altro, questa presunta relazione, questa sorte di abbraccio, questo erotismo, rispetto a quest’Altro che è solo immaginato. Mai vedrò l’Altro se non nel panico che è ciò che segue a una rappresentazione, a una presunta visione dell’Altro, cioè a una presunta visione del mio limite attribuito all’Altro, del limite come limite vitale, limite mortale, ecco il panico. L’attacco di panico è questo: la presa visione di un presunto limite di sé. Quando uno si chiede se Tizio, Caio, Sempronio o Giacomino vuole o non vuole, cosa dirà, cosa penserà, è l’Altro rappresentato, l’Altro come agente, e questo è uno sconquasso, ciò vuol dire che il dispositivo intellettuale è bello che andato. Perché l’Altro diventa il destinatario, cioè c’è tutto un erotismo dell’oggetto e del tempo, è tutto a tu per tu, il terzo è abolito, la terzietà è abolita, la logica singolare triale è abolita, è un tu per tu, un vis-à vìs, una rivalità, un erotismo. È tutto uno scontro, un corpo a corpo, può andare bene, può andare male, può risultare mortale, è questa la questione. Tolto l’Altro siamo a vis-à vìs, faccia a faccia, corpo a corpo, speculari, da soggetto a soggetto. “E lui, lei, ci sta? Vorrà? Cosa dirà? Cosa penserà? Cosa dirà di me?”. Di me quale? Cioè chi sono io di cui dovrebbe dire qualcosa? Chi è quel personaggio e in che modo quel personaggio si attaglia a me, in che modo me lo dovrei portare sulla spalla come una scimmia? Questa è la fantasia drogologica, è la fantasia della scimmia sulla spalla, dell’animale fantastico rappresentato dal pettegolezzo altrui, è il deragliamento completo, costante. È l’erotismo. Credere, pensare, ritenere di poter rispondere alle esigenze altrui, di poter soddisfare i desideri altrui, di poter far godere l’Altro: l’Altro non gode, l’Altro non desidera. Questa è la questione intellettuale, semplice semplice. Altre domande?
G.D.F. Sì, una domanda. Ma se l’Altro è rappresentato, perché sarebbe espunto?
R.C. Perché se è rappresentato non funziona. Se è rappresentato è abolito perché l’Altro è una funzione, è funzione di Altro, è funzione vuota. Cosa vuol dire vuota? Non è rappresentabile da nessun argomento da nessuna cosa, è irrappresentabile. Se lei lo rappresenta lo abolisce.
G.D.F. In questo senso è espunto.
R.C. È la funzione vuota. O è vuota o non c’è. Ora, se lei pone nella funzione una rappresentazione, non è più vuota, non c’è più. È semplice.
G.D.F. Semplicissimo. Quindi, espunto l’Altro, espunta la funzione di Altro, come funzione.
R.C. E immediatamente ristabilito l’ordine binario, cioè l’ordine dell’alternativa, questo è il punto.
G.D.F. Tertium non datur.
R.C. Esatto. Non c’è più il terzo, quindi c’è l’alternativa.
G.D.F. Grazie.
R.C. Bene. Allora sta per scadere l’offerta, sta per scadere, però ancora non è scaduta. Questa collana di cifrematica valorizza una biblioteca. Chi ha una propria biblioteca, ha questa collana, sa che in ciascun momento può consultarla, rileggerla, attingere. Volete lasciarla scadere così? Non posso credere io a questo, non ci credo.
Pubblico Io offro 80 €.
R.C. Ma io avevo detto 90, novanta è un’offerta, 80 sarebbe una svendita. Ottanta non va bene, però ottantacinque può ancora andar bene.
Pubblico Io rimango all’ offerta di 80 €.
R.C. Purtroppo l’editore non ci consente.
Pubblico Chi è l’editore?
R.C. L’editore è Spirali. Bene. Allora grazie e arrivederci.
La scuola senza etichette
Ruggero Chinaglia È etico ciò che si rivolge al bene? L’etica sarebbe quindi una scienza del bene, meglio ancora se del bene comune? Oppure è etico ciò che muove dal bene, e in quanto buono può essere desiderato o desiderabile? E quindi l’etica sarebbe la scienza del buon movente?
Nei due casi deve essere noto ora il bene finale, ora il bene iniziale. Deve, cioè, essere conosciuto o l’inizio o la fine. Dunque un’etica geometrica e un’etica algebrica, ad excludendum, per escludere il male. Per quanto attiene la conoscenza dell’inizio si prescriverebbe una bontà dell’intenzione, con la formula di rito: “Cosa vuoi? Perché lo vuoi?”, per valutare il grado di coerenza tra l’intenzione e il metodo applicato per conseguirla. E rilevando la coerenza, potrebbe venire certificato il grado di normalità maggiore o minore in base a quella che viene ritenuta la possibile ottimizzazione del tempo e del modo per conseguire l’intenzione stessa. Questo finalismo diretto sarebbe la prova della normalità, in ottemperanza al principio energetistico del risparmio. Per quanto attiene al fine o alla fine, si tratti della felicità o della riunione con Dio, stabilirlo vale a prescrivere la modalità stessa o le modalità per conseguirlo, secondo il criterio della moralità o ancora della normalità.
Queste sono le varianti dell’etica come prescrizione, che vigono anche quando al bene viene sostituita la nozione di valore che, comunque, deve trattarsi sempre di valore condiviso o valore comune. Sono varianti dell’etica umana o etica sociale, dove si tratta soprattutto della finalità, del fine, della fine dell’atto, per la sua coerenza con l’intenzione e, soprattutto, della rispondenza a un’economia del bene o a un’economia del male. E così, su questi presupposti è sorto il cosiddetto “principio del piacere”. Ogni cosa, ogni azione, ogni atto sarebbe finalizzato al piacere. Si fa per piacere, per ottenere il piacere. Questa sarebbe una buona giustificazione, fare per piacere. Altrimenti, perché fare? Ma questo principio di piacere cui sarebbero rivolte le azioni e da cui sarebbero orientate, sorge proprio in quanto questo finalismo al piacere non è naturale, né risponde a un principio universale. Sorge, invece, perché risponderebbe a una presunta possibile applicazione dell’etica intesa come prescrizione morale. Il principio del piacere sarebbe un principio accomodante, giustificante, legittimante le azioni umane che, altrimenti, risulterebbero incomprensibili, ineconomiche, inspiegabili, ingiustificate. Sarebbero indici di pazzia.
Il piacere come causa, il piacere come fine. Due apparenti posizioni che, in realtà, corrispondono a uno stesso requisito, cioè di conoscere cosa sia il piacere, quale sia, dove stia. Il principio di piacere come prescrizione morale mai può divenire modo pulsionale. L’ipotesi che la pulsione si rivolga al piacere è un’ipotesi economicistica, è un’ipotesi gnostica, è un’ipotesi umana. La pulsione si rivolge alla qualità, e il piacere segue questo rivolgimento alla qualità, ma in maniera del tutto inconoscibile, incalcolabile, imprescrivibile, inassoggettabile a un’idea standard di piacere che possa renderlo piacevole e conoscibile. Il piacere non può orientare o finalizzare alcunché. Freud stesso s’era accorto che l’idea del piacere presunto, noto, calcolato, fondava una economicistica della pulsione, una energetistica, una gnosi, insomma fondava il culto del soggetto. Infatti scrive Oltre il principio di piacere. Oltre. Il pulsionale è oltre il principio del piacere, il viaggio si svolge oltre questo principio, la parola è oltre questo principio. E il soggetto che ne resta ancorato è al di qua del piacere, resta ancorato al suo principio, accontentandosi della rappresentazione del piacere, della concezione erotica del piacere, che consiste in un contenimento dell’approdo oltre il quale si situa il piacere. Contenimento dell’approdo che avrebbe invece il compito di soddisfare la “visione” del piacere, la concezione erotica che dovrebbe rappresentare la padronanza sull’oggetto e sul tempo. Il principio del piacere è il principio della presa sull’oggetto del raggiungimento dell’oggetto, intendendo che il soddisfacimento pulsionale sia in questa presa, sia nel raggiungimento del suo oggetto. Questo è l’erotismo dell’oggetto. Oppure che stia nella fissazione del tempo, nella impossibile gestione del tempo, per garantire una soggettività, un’identità, un’immagine stabile di sé e delle cose, per potere garantire la psicologia del piacere: come ottenere il piacere! Ecco il vademecum prescrittivo dell’erotismo del tempo.
La pulsione non raggiunge mai il suo oggetto perché è causata dall’oggetto, perche non è conosciuto e non risponde a una prescrizione sociale o umana, non risponde a una finalizzazione umana o sociale, finalizzata al buon comportamento, al corretto comportamento, alla corretta gestione. Tutto ciò appartiene a quella nebulosa che Freud aveva qualificato “nevrosi” o “psicosi”, modi dell’economia, modi dell’idiozia, modi per credersi, rappresentarsi e mantenersi tali. Modi per ricordarsi con dispiacere, con vittimismo, per ricordarsi come si è, come si è fatti, come si dovrebbe fare, come non si può fare. Né la pulsione può ritenersi finalizzata alla conservazione della specie. Non è questo il suo compito, non è questo il suo motivo, non è questa la sua ragione. Proprio il principio del piacere lo indica, in quanto non sarebbe sorto a ipotetica difesa del ruolo sociale della pulsione se la ragione della pulsione fosse il mantenimento della specie. Questa ragione in sé sarebbe la ragione sufficiente e non esisterebbe il principio di piacere. Dunque nessuna prescrizione al bene, nessuna prescrizione al piacere, nessuna abitudine al bene, nessuna abitudine al piacere.
La questione della crisi è questa: l’intervento del tempo con la sua anatomia. L’intervento della trasformazione è incessante e vanifica ogni ideale instaurazione dell’epoca, cioè di un sistema di credenze che possa rappresentare il progresso verso il fine o la fine comuni. Nessuna possibile instaurazione di quell’epoca ideale, auspicata da varie ideologie, che possa rappresentare la sua apoteosi nell’adempimento di un’organizzazione definitiva attorno a un principio unico e unificante, nessuna unità, dunque nessun ritorno, nessuna circolarità, nessuna possibile padronanza, nessun soggetto padrone. “Crisi” è il modo del tempo e anche del giudizio senza condanna, senza premio, senza istituto della vendetta. La teorematica della vendetta, la formalizzazione dell’inesistenza del soggetto padrone e di un soggetto schiavo e l’inconsistenza della sistematica, della sostanziabilità della parola, è essenziale per lo statuto intellettuale di ciascuno. Ciascun accidente, ciascun accadimento introduce elementi di crisi, ossia è propizio per intendere. Per intendere ciascuna cosa, non per intendere in generale! Ciascuna cosa esige l’intendimento, in quanto il tempo interviene differentemente. La crisi si combina con la Pentecoste e favorisce l’intendimento. La differenza è una virtù del tempo e non è attributo di qualcuno, e cogliere questo è già trovarsi nella questione intellettuale che procede dall’apertura e è contrassegnata dal tempo. Quindi senza ripetizione, senza identità, senza circolarità, senza ritorno. L’analogia, la somiglianza sono indicazioni per la crisi e della crisi, e vanno in direzione della differenza, non dell’uguale. Così la rimemorazione si stabilisce quando la crisi è negata. Ricordare, ricordarsi, ripetersi senza elaborare, per confermare l’idea di sé o l’idea del fatto, del fatto fondante, della colpa, del crimine di sé o dell’Altro, del crimine su cui fondare il sistema. Il crimine non è criminoso, il crimine è originario. Il crimine non è criminale. Crimen è l’apertura stessa, originaria, per cui nulla è identico e nulla si ripete. Quando c’è l’idea che qualcosa si ripeta, si sia ripetuto, si stia ripetendo, senza differenza, quando questa idea interviene è un’indicazione dell’esigenza della elaborazione e della formalizzazione. Se nulla si formalizza, allora le cose possono essere ritenute identiche, uguali, tali. Ma la formulazione, la formalizzazione introducono alla prova di realtà e alla prova di verità. Ma qual è il criterio a cui attenersi? Quello della paura, quello del ricordo, quello dell’essere? O quello della qualità e dell’avvenire? Il criterio di come eravamo o di come saremo quando… Prefigurarsi come saremo non è l’avvenire, è un’idea di fine. È una variante della modalità di essere, di pensarsi, di rappresentarsi. L’avvenire è senza conoscenza, senza soggetto, senza soggettività, senza rappresentazione di sé e dell’Altro. Ogni rappresentazione è dettata dalla paura, dall’idea di fine, come il colpo di sonno. Il colpo di sonno, colpo di mamma, idea della fine. Come interviene la paura? Con il colpo di sonno, per esempio!
Perché avere paura dell’avvenire? Avere paura del fare? Di ciò che l’occorrenza indica, per soffermarsi invece sull’erotismo, dell’indugio davanti al fare, dell’indugio rispetto al gerundio, senza cui il piacere stesso è negato, il viaggio è negato.
Senza il gerundio è il discorso ipotetico, è l’etica ipotetica; l’erotismo reale è il rapporto di sé a sé o di sé con l’Altro, cioè il rapporto di due animali fantastici, rapporto zoologico. Come ogni rapporto esige insiemi finiti, entità finite. Perché dunque avere paura dell’atto sessuale, avere paura della parola? Perché lasciare che su di sé gravi l’ombra del male o del negativo? Del male di sé o del male dell’Altro? Del negativo di sé, del negativo del tempo o del negativo dell’Altro?
E su quest’ombra che grava su ognuno, sorge l’alternativa: fidarsi o non fidarsi? Alternativa che sorge dall’idea che ognuno ha di sé o dall’idea che ognuno ha dell’Altro, dell’Altro rappresentato. Questa alternativa è senza fede, senza tempo, è l’alternativa dei soggetti, fra soggetti, è l’alternativa senza il dispositivo fiduciario, dove la fiducia è il modo in cui opera la fede nella riuscita, non la fede in qualcuno, la fiducia in sé, non la fede in Dio, non la fede nel bene, non la fede nella buona sorte; la fede nella riuscita, la fede come operatore per la riuscita. E questo dispositivo della fiducia si avvale, a sua volta, almeno di altri due dispositivi, quello della solidarietà e del patto, patto per la riuscita e solidarietà per l’accoglimento. Se il sospetto è di qualificazione e non di male, se il sospetto è cifra e non di negativo, se il sospetto è ciò che muove dalla curiosità e va in direzione della qualificazione, della valorizzazione, allora ciascuna circostanza è propizia in quanto può volgersi al valore, e non c’è sostanza negativa, e non c’è da rimpiangere nulla, né del passato, né del presente, né dell’avvenire. Negare la crisi comporta negare il compimento della scrittura, negare che le cose si compiano, impedire che le cose si compiano, opporsi a che le cose si compiano, boicottare il compimento. Il compimento della scrittura si svolge su tre registri: la legge o legge della parola come compimento della scrittura sintattica, l’etica come compimento della scrittura frastica e la clinica come compimento della scrittura pragmatica. Chi sta a guardare, chi sta a pensarsi, chi sta a crogiolarsi, a leccarsi le proprie presunte ferite, a quale compimento, a quale registro può indirizzarsi? Sintassi, frase, pragma. Tre strutture. Sintassi, la struttura della rimozione, frase la struttura della resistenza, pragma la struttura della funzione vuota, dell’Altro, della funzione di Altro. Tre strutture che tendono a scriversi. Non per predestinazione ma pulsionalmente, nel dispositivo pulsionale, nel dispositivo intellettuale, senza credersi tali, senza credersi soggetti, senza credersi questo o quello, tizio o caio. Tendendo queste tre strutture a scriversi, l’esperienza si scrive e questa è la memoria, che dunque non è memoria del passato, ma memoria in atto, memoria come scrittura di quello che si fa, di ciò che si fa, di ciò che si dice, di ciò che entra nel registro della legge, dell’etica e della clinica. Nessuna prescrizione, dunque, a modalità comportamentali, ma l’istanza del compimento, istanza finanziaria. Risulta paradossale la formula: “Mi ricordo quella volta che…”, oppure: “Mi ricordo precisamente…”, oppure: “Questa volta è paragonabile a quell’altra in cui è accaduto che… Mi ricordo perfettamente!”. Questa è la negazione della memoria, è la negazione della scrittura dell’esperienza, ma la rimemorazione del fatto come ripetibile, nella mummificazione. Questa è la mummificazione: l’esaltazione di sé come mummia. La mummia, il padrone del tempo, colui che attraversa i secoli la mummia, incontaminata dal tempo, indifferente al tempo, invariata nel tempo, senza tempo! Queste formule servono solo per stabilire una presunta identità di modo o di fatto. Ciò che è constatabile nell’esperienza di parola è che il tempo è innegabile, la differenza è innegabile. E la questione è: ciò che sta accadendo come si articola, come si svolge? Non già se è analogo o simile o ripetente il passato. Dunque quel che sta accadendo ora, come si elabora, come si formalizza, come si qualifica? Come entra nel mio viaggio? Non già se mi riguarda o no, se è bello o no, se è stimolante o no, se mi tocca o no. Nulla tocca nessuno se le cose accadono per integrazione. Non c’è contatto. La cosa è intellettuale, procede dall’intero. Come farsi toccare da qualcosa? Ognuno reagisce all’idea di essere toccato e la sua reazione è indicativa della soggettività in cui è preso. Chi è toccato è soggetto. Si sente toccato perché si crede soggetto, dunque reagisce, e ogni reazione è idiota, perché in assenza di formalizzazione, di elaborazione, di qualificazione, di valorizzazione. È in assenza di statuto intellettuale. Eppure, la prescrizione vigente è quella di reagire. Occorre reagire. “Sei giù? Reagisci!”, “Stai male? Devi reagire!”, “Come ti senti? Devi reagire!”. Reagiamo! “Reagisci, vedrai che ti sentirai meglio, sollevato”. Ogni soggetto reagisce, reagisce già di suo, reagisce alla parola. Ogni reazione è reazione alla parola! Senza reagire, la questione è come ciò che sta accadendo si situa in direzione dell’avvenire, in direzione del proseguimento, in direzione della valorizzazione. Come? È un contributo al viaggio. Come? Senza reagire, ma con l’instaurazione del dispositivo fiduciario: solidarietà e patto. Non razzismo e diffidenza, solidarietà e patto. Non chiusura, sfida e condanna. Solidarietà e patto per la riuscita.
Pensare la ripetizione è un’idea di toglimento del tempo “Io sono così, non c’è nulla da fare, questo non l’ho mai fatto e anzi, sicuramente, non ne sono capace. Non lo so come fare.”. E chi ha detto che occorre saperlo? Da dove viene l’idea che il fare dipenda dal sapere? Chi lo sostiene? Sono formule della soggettività, cioè della negazione del transfert. Il soggetto in quanto immutabile, in quanto gnostico, in quanto cosciente, sarebbe infatti in assenza di transfert, in assenza di parola, in assenza di trasformazione, in assenza di crisi. Perché il soggetto teme sopra ogni cosa di andare in crisi, di essere messo in crisi. Il soggetto in realtà è sempre in crisi. “Come stai?” “Sono in crisi”. C’è uno spiraglio! Piccolo ma c’è. La scommessa intellettuale è innanzitutto una scommessa sul transfert, sul processo di qualificazione, non sulla saccenza, non sulla sufficienza, non sull’idea di sé, ma è scommessa sulla scrittura, sulla riuscita. Si tratta, come dicevamo, di non negare la pulsione e di non opporvisi.
Negazione o opposizione sarebbero in nome di una ragione soggettiva, che è l’altro nome del fantasma materno, o del fantasma di padronanza, che è la stessa cosa. Nessuno è tale, nessuna cosa è tale. La domanda si dirige alla cifra nel dispositivo intellettuale, a condizione però di non negarlo. Perché ognuno crede di farsi bello reagendo al dispositivo intellettuale, dimostrandosi sufficiente a se stesso, sufficiente all’idea di bastare a se stesso, per etichettarsi in questo o in quel modo. Ognuno si affibbia un’etichetta per dimostrare di essere qualcosa o qualcuno, per dimostrare la sua ragione sufficiente, la sua ragione soggettiva. Ogni etichetta vuole dimostrare questo, l’appartenenza a una ragione soggettiva, a una ragione sufficiente. Purtroppo questo è l’esempio che viene anche dalla scuola, dove, adottando sistemi di riferimento gnostici, ognuno è passibile di etichetta. E ogni etichetta contraddistingue un essere e la sua soggettività, e al colmo della casistica ritenuta scientifica, la sua personalità. Se queste etichette vengono attribuite, o c’è chi se le attribuisce, o chi crede di meritarle, o chi crede con questo di definirsi, di rappresentarsi meglio, per indicare il suo stato, il suo essere, la sua natura, se queste etichette, anziché rivolgersi al transfert, dunque alla qualificazione, alla scrittura, alla valorizzazione, anziché entrare nel processo di parola, nel processo intellettuale, si pietrificano, si sostantificano, senza equivoco, senza menzogna, senza malinteso, quindi senza processo metaforico, metonimico o di catacresi, allora la responsabilità, la capacità, il limite, si personalizzano per dar luogo al soggetto irresponsabile, al soggetto incapace, al soggetto limitato. Se si tiene conto che responsabilità, capacità e limite sono proprietà di ciò che si scrive in direzione della legge, dell’etica e della clinica della parola allora non c’è più la necessità di attenersi all’etichetta, non c’è più nemmeno per Daniel Paul Schreber la necessità di qualificarsi, di definirsi präsident, Senatspräsident. Non c’è più la necessità del nome del nome o del significante istituzionale con cui “presentarsi” all’Altro rappresentato per stabilire convenevoli sociali, del rapporto di sé a sé e di sé all’Altro, non c’è più la necessità di attenersi al ricordo di quel che ognuno crede di essere o di essere stato.
Ebbene, è giunto il momento della dissipazione dell’etichettatura. È giunto il momento, in questa era della parola, che chi è testimone della parola, dei suoi effetti, dei suoi modi, della sua civiltà, delle sue istanze, valorizzi il capitale della vita, valorizzi gli elementi del suo viaggio, del suo itinerario, che costituiscono il capitale intellettuale.
Bene. Grazie e arrivederci.
La necessità pragmatica. Come e perché l’educazione dissipa il tabù della vendita
Ruggero Chinaglia Sono in programma diversi avvenimenti, alcuni verteranno attorno alla rivista “La cifrematica”, arrivata al sesto volume, e contiamo di dedicare un dibattito a ciascun volume per cogliere alcuni aspetti dell’esperienza cifrematica, con testimonianze di esponenti del movimento cifrematico di varie città e di vari paesi. Uno di questi sarà sicuramente Augusto Ponzio, che è docente all’Università di Bari, e ha dedicato gli ultimi tre anni della sua ricerca alla lettura del testo cifrematico, in particolare alla lettura degli scritti di Armando Verdiglione, ma non solo, e ha restituito questa lettura in due libri, il secondo dei quali è La dissidenza cifrematica, che presenteremo qui, a Padova, la prima settimana di maggio. La settimana successiva avremo un esponente francese, storico e psicanalista, Michel Arrivé, e presenteremo il libro Linguaggio e psicanalisi. Prima, avremo come ospiti Alessandro Atti, Antonella Silvestrini, Sergio Dalla Val, che sono esponenti del movimento cifrematico che operano chi a Milano, chi a Pordenone, chi a Bologna, e dobbiamo completare il calendario.
Accanto a questi dibattiti, che saranno per lo più quindicinali, si svolgerà nel Laboratorio della modernità una conferenza che avrà per titolo L’amore e la crisi. Alterniamo questi incontri con ospiti di altre città, di altri paesi con gli incontri del laboratorio.
E questo è il programma prossimo. Purtroppo c’è la congiuntura elettorale, per cui la disponibilità delle sale è precaria, in quanto, se ci saranno esigenze elettorali, la priorità andrà a questi avvenimenti. Anche per questo c’è un po’ di laboriosità nel programma, però stiamo per farcela.
Intanto, mentre noi predisponiamo il programma, ciascuno può allietarsi con la lettura di questi volumi, che sono strumenti per riflettere, per scrivere, per interrogarsi, per mettere in discussione cose che magari si considerano acclarate, scontate, già definite, cogliendo angolature, sezioni, pieghe differenti dalle testimonianze di chi ha dato un contributo a ciascuno di questi volumi. Sono sei, come dicevamo, affrontano ciascuno un tema differente, dalla questione del valore della vita, della sua scrittura, della logica e cogliendo sicuramente altre implicazioni rispetto a ogni concezione ideologica o filosofica di quella che viene chiamata vita. Dibattito che s’innesta anche nel rilancio, che questa questione ha recentemente avuto con il caso di Eluana Englaro, caso che ancora non è giunto a porre effettivamente la questione, ma quantomeno vengono fuori delle ideologie contrapposte. La questione intellettuale ancora non è stata posta da chi se ne è occupato, pur tuttavia ha cercato di dare un contributo cogliendo questo pretesto.
Il primo numero della collana “La cifrematica” è La vita. Il suo numero. La sua scrittura. Il suo valore. Poi c’è L’intellettualità e il piacere, accostamento non casuale evidentemente, Art ambassador, lo statuto di art ambassador. Poi La nostra psicanalisi, quindi La follia, la pazzia, la clinica e Il cervello e la bussola. Quale cervello, quale bussola per ciascuno, qual è il criterio, quali sono gli strumenti; varie angolature, varie questioni. Ciascun volume mi pare dia un contributo, vari contributi, per cui io ne consiglio la lettura. Così come in particolare, dato il tema di questa sera, consiglio anche questo volume delle “Dispense del Secondo rinascimento”, edito tempo addietro: L’art ambassador. La vendita, il messaggio, il valore. Mi pare ci sia materiale per discutere, perché si tratta soprattutto di questo, di cogliere ciascuna occasione, ciascun pretesto per valorizzare ciascuna cosa che viene incontrata. Il titolo del dibattito di questa sera è La necessità pragmatica. Come e perché l’educazione dissipa il tabù della vendita. Non è immediatamente coglibile, forse, cosa c’entri l’educazione con la vendita, ma è per questo che siamo qui questa sera, per chiarire questa connessione.
In effetti, dall’accezione comune di educazione è bandita ogni nozione pragmatica, ma proprio questa è, invece, la questione, perché, togliendo l’implicazione pragmatica, cioè facendo dell’educazione la prescrizione, il vademecum di ciò che si deve o non si deve fare, facendo dell’educazione un formulario delle buone maniere, ciò che resta è idealità. Un’idealità senza il contingente, un’idealità generica, quasi un manierismo. E questo manierismo lascia spazio alla mediocrità rispetto a cui Orazio aveva torto. Nessuna aurea mediocritas, nessuna possibile mediazione con l’estremismo della parola. La mediocrità implicherebbe questa virtù dello stare nel mezzo, dello stare a metà fra un estremo e l’altro. A metà della salita, a metà del colle, a metà del cammino, a metà della qualificazione accontentandosi di una formula che possa soddisfare questi e quelli. Stare nel mezzo, stare nel mezzo tra papà e mamma, stare nel mezzo tra il bene e il male, stare nel mezzo. Ma come stare nel mezzo? Come riuscire a isolare, rappresentare, raffigurare l’intervallo delle cose? L’intervallo dove la funzione vuota è ciò che fa sì che le cose si qualifichino, giungano al loro estremismo, dunque al valore, al valore estremo, al valore assoluto? Senza questo estremismo abbiamo il discorso comune, abbiamo il luogo comune, abbiamo lo standard, l’idea dello standard, ciò che può pensarsi comune, generale, qualunque, perché noi sentiamo che comunque, questa cosa sì, ma comunque. Comunque: il modo della mediocrità, con cui viene tentata la mediazione rispetto all’estremismo. Tolto l’estremismo è tolta la tensione della parola verso l’efficacia, tolto l’estremismo è tolta anche la tensione pragmatica. Ciascuno può accontentarsi di pensare come farebbe, come potrebbe fare, come saprebbe fare, come dovrebbe fare senza fare! Rappresentare la mediazione, rappresentare la mediocrità è rappresentarsi come soggetti in assenza di parola, soggetti del discorso comune. Come stare nel mezzo. Chi può dire di stare nel mezzo se non presumendo di conoscere dove finisce il cammino, dove finisce il percorso e dove ha avuto origine? Stare nel mezzo comporta questa geometrizzazione, questa spazializzazione del cammino, del percorso, dell’itinerario, anche della vita. Quando inizia, quando finisce, quanto dura? Stare nel mezzo. Dove sta la verità? Stare nel mezzo, a metà tra la vetta e le pendici del monte, pensando che la vetta sia la fine del cammino, la fine del percorso. Stare nel mezzo, indifferente alle vicissitudini, alle vicende del cammino e del percorso. Stare nel mezzo, stare nello standard, stare nell’indifferenza. Stare. La mediocrità ha questa idea di potere stare. Non già di andare e venire, non già un’ipotesi di movimento, di modulazione, di ritmo, ma un’ipotesi di stabilità, di “potere stare”. Questa idea di mediocrità, questa nozione di mediocrità, questo statuto della mediocrità segue all’indifferenza in materia di qualità, in materia di pulsione, in materia di domanda, indifferenza in materia di intellettualità, senza ipotesi di eccellenza, di eccezione. Lo standard, la medietà, la mediazione, la mediocrità che presuppone l’idea del conoscibile, della conoscenza. Della conoscenza dell’origine e sulla meta, la conoscenza sul valore.
Stare nel mezzo nella “giusta accezione”, senza estremismo, senza cifra, nell’accezione comune, nel senso comune, nel luogo comune. Come accettarsi mediocre? Chi può accettarsi mediocre? Chi può tendere alla mediocrità? Accettarsi mediocre è la mortificazione. Accettarsi mediocre è accettarsi morto. Soggetto senza spinta, senza tensione al valore. Mediocre, ossia senza educazione. Intendendo l’educazione come il dispositivo nell’itinerario che si rivolge alla cifra, alla qualità. Educazione che partecipa del rivolgimento di ciascuna cosa verso la sua cifra. È un’altra accezione di educazione rispetto a quella pedagogica, in cui si tratta della riproposta della coppia maestro-allievo, servo-padrone, medico-paziente. Coppia che ripropone in qualche modo l’allegoria del vaso da riempire. Molto spesso è stata posta l’equazione educare-inculcare, educare per inculcazione che, detto fra noi, vuol dire inculcare “a calci in culo”, facendo entrare nella testa le cose seguendo la via del culo. Inculcare: educazione per inculcazione. Da questa idea di poter inculcare le idee, le nozioni, i modi, poi abbiamo come conseguenza l’idea del plagio, del vittimismo, dell’irresponsabilità, dell’incapacità. Il soggetto inculcato è un soggetto incapace, irresponsabile, praticamente senza cervello. Dispone di ciò che dispone per inculcazione. Senza cervello e quindi senza bussola. Inculcato sarebbe il soggetto passivo, il soggetto della pedagogia, che intende l’educazione in maniera transitiva. Tizio educa Caio. Soggetto attivo l’educatore, soggetto passivo l’educato, secondo la nota formula conoscente-conosciuto, docente-allievo, secondo questa idea di transitività, di comunicatività per cui le cose passano da una cosa all’altra, da un soggetto all’altro. In questa coppia maestro-allievo l’idealità del maestro è quella di forgiare l’allievo; si tratta dunque di un rifacimento. Si tratta sempre di un rifacimento. L’educazione come rifacimento. Ognuno deve essere fatto conforme al modello che risponde ai requisiti ideali in questa sorta di modellatura della materia, che dunque è inerte. Non si tratta più della materia intellettuale, ma della materia inerte. Si tratta dell’artigiano che forgia il suo prodotto.
Noi diamo all’educazione un’altra accezione. È l’educazione all’intellettualità. È l’educazione al valore, educazione alla parola. La pedagogia è senza parola. La pedagogia è una prescrizione alla relazione sociale come modello comune e accettabile di comportamento: parte dalla mitologia, parte dal comportamento, da ciò che è visibile, dall’osservazione. È un criterio animale. Dunque educazione intellettuale. Educazione come dispositivo intellettuale nell’itinerario di ciascuno in direzione della qualità. Né buona né cattiva educazione, senza nessuna visione morale, ma con il criterio della qualità, che non è la qualità per tutti, non è la qualità media, non è lo standard, non è l’aurea mediocritas, è la qualità assoluta. Come ciascun caso approda alla qualità? Come ciascun caso approda al valore? Questa è la questione dell’educazione: come! Questione di modo, questione di dispositivo. Non: “Fai così, fai cosà. Devi fare così.” – ognuno deve fare questo, deve fare quello, deve comportarsi – ma come? Cosa fare per. Cosa fare per assolvere al compito, al compito che è necessario per ciascuno, al compito attuale per ciascuno, al compito dettato dalla necessità pragmatica. E questa accezione di educazione esige la ricerca e i suoi modi, e l’impresa e i suoi modi. Ricerca e impresa! Come le cose cominciano, come le cose si concludono, esige l’attuale, non l’ontologia, non la prescrizione ontologica senza il caso in questione. Esige il caso in questione, di volta in volta! Non tutte le volte che. Come fare questa volta? E quest’altra? E adesso? E ora? Senza alcun riferimento alla prescrizione ontologica che dovrebbe indicare la media, la mediocrità. L’educazione esige la valutazione. Non la valutazione di uno per tutti, ma la valutazione di ciascuno. Da cosa procede questo dispositivo dell’educazione? In particolare da due elementi: l’ostacolo e il tempo. L’appuntamento e la divisione. L’ostacolo e la piega. Impossibile ogni prescrizione, impossibile ogni modalità se la questione è aperta e si pone per via di ostacolo e di tempo. Impossibile generalizzare. Si tratta di ciascuna occorrenza, ciascuna esigenza, ciascuna volta. Non tutte le volte, non tutti i casi, non per tutti.
Il discorso, ogni discorso, il discorso filosofico, il discorso sociologico, il discorso psicologico, il discorso economico, il discorso finanziario, il discorso comune procede dall’idea di “tutte le volte che si fa questo”, senza il carattere particolare e lo specifico che caratterizza ciascuna volta. Già l’ipotesi di ogni volta, di tutte le volte nega l’educazione, nega l’occorrenza, nega l’esigenza intellettuale a favore di una possibile gnosi o gnoseologia mediocrizzante, annichilente. Dunque l’ostacolo. Di cosa si tratta nell’ostacolo? L’ostacolo è il modo con cui ciascuno s’imbatte nell’oggetto, in ciò che causa e questiona, in ciò che promuove, in ciò che sta innanzi e non è eludibile. La domanda per ciascuno è causata da questo oggetto non visibile, non rappresentabile che sta dinnanzi e non può essere tolto: l’ostacolo. L’ostacolo è ciò che sta dinanzi e non impedisce nulla, anzi, provocando la domanda, provoca il modo con cui la domanda si rivolge alla sua qualità: promuovendo, provocando, causando. Promozione intellettuale, promozione dell’ingegno, causa di desiderio, causa di godimento, causa di verità. Senza questo ostacolo il soggetto può solo accontentarsi, può accettarsi nella mediocrità. La mediocrità ha tolto l’oggetto, ha abolito l’oggetto, ha mediato con l’oggetto a favore della via facile, a favore della risposta già data, senza bisogno di cercarla. È la risposta senza la ricerca, senza il labirinto a favore di una concezione rettilinea del cammino e del percorso. Qual è la via più breve per andare da… a…? La via retta, la linea retta. Ma, dice un vecchio saggio, che talvolta la via più breve fra due punti è la più lunga! La via da seguire occorre che tenga conto dell’ostacolo, grazie a cui può giungere al compimento dove la via retta non arriverebbe mai. Questa idea della via retta, questa idea dell’abolizione dell’ostacolo sorge convertendo l’ostacolo nell’impedimento, convertendo l’ostacolo in un inghippo, in un guaio. Ma come si fa? Ma come faccio? Come si fa? Già qualcuno che chieda come si fa, come si fa questa cosa, è disarmante, è veramente un indizio della disintellettualità in cui questa domanda può formularsi: come si fa? Come se ci fosse un modo per tutti! Come si fanno queste cose? Come se fossero una procedura standard! Come si fa? Già “come faccio” comporta quantomeno una singolarità, una solitudine, ma, “come si fa? Dimmi tu come si fa. Dimmelo. Aiutami. Se non me lo dici non lo faccio”! Tolta l’arte, tolta la cultura, tolta la ricerca resta il canone, la rivendicazione, la vendetta, l’attribuzione della colpa e della pena. La vita non come ricerca, ma come ricettacolo. Il vaso da riempire e da svuotare, il vaso da notte. “Sono nei guai, sono pieno di buone cose. Sono pieno di buone idee. Non ho nessuna idea.” Il vaso. La testa come vaso. Il cervello come vaso. “Non ho nessuna idea. Non ho niente da dire. Non so cosa fare”. Il vaso, il vasetto, il vasino. Il vaso vuoto o il vaso pieno. Non c’è posto neanche per una piccola idea, non ci sta più niente. La testa come vaso! E ognuno si paragona a un vaso. Sono pieno di raffreddore. Sono pieno, sono vuoto. Sono! Ognuno è un vaso da riempire, da svuotare, da purificare.
L’ostacolo come impedimento sarebbe l’ostacolo da togliere. Da togliere o da fare togliere. Questo sarebbe l’aiuto: togliere l’ostacolo! “Toglimi questo ostacolo davanti. Rendimi facile la vita. Allontana da me questo calice. Questo mi rende difficile compiere il progetto e il programma. Dimmi come devo fare”. Ma se l’ostacolo è la condizione del progetto e del programma, come pensare di giovarsi togliendolo, togliendo l’ostacolo, togliendo la causa del progetto e del programma? Come porre l’educazione senza il compito. “Io non so quale sia il mio compito. Non lo so. Io non ho nessun compito. Non so cosa fare, non so cosa dire”. Quindi: “Fai. Decidi tu. Poverino, mica possiamo dargli il compito più difficile delle sue capacità! È ancora piccolo! È ancora giovane! È ancora debole! È ancora incapace! Non sa! Quando saprà potrà, se dovrà! Voglia Dio che non debba! Saprà? Potrà? Dovrà?”. E uno è bello che a posto! Si apre l’armadio, si mette dentro e speriamo che non debba. “Intanto mi metto in cantina, mi scavo un buco. Mi isolo. Mi proteggo. Mi riparo. Non so. Nessuno me l’ha spiegato. Nessuno me l’ha detto”. Protezionismo: la fabbrica degli idioti. Quale educazione a vivere nell’omertà dove la fiaba e la fabula non trovano il racconto, grazie a cui l’ostacolo risulta narrativo e non reale. Mai reale! Narrativo, intellettuale, condizione del viaggio con la ricerca e con l’impresa. E dunque il viaggio è intellettuale, è narrativo, è per acquisizione senza nessun innatismo, senza nessuna ontologia. Per acquisizione. Con l’ostacolo come condizione. La condizione, cioè il dove. Da dove viene questa cosa e dove va? Da dove? Dove non spazializzabile, non collocabile in una cartografia già costituita. Da dove viene e dove va? Il va e vieni delle cose. Questa è la condizione della domanda, la condizione del viaggio, la condizione del racconto, la condizione della ricerca, la condizione dell’analisi. Dove. Il dove non rappresentabile per cui non può mai essere plurale, mai può diventare ogni dove, il solito dove, il dove noto. Da dove e dove. Punto e contrappunto.
L’ostacolo, condizione della ricerca, condizione dell’educazione, condizione dell’itinerario, condizione dell’analisi, condizione della qualificazione con la sua singolarità, con la sua solitudine. E l’idea dell’ostacolo, non realizzata, non rappresentata, non codificata, opera perché la ricerca si compia, perché il viaggio si compia, perché la qualificazione si compia. È perché questa condizione in qualche modo è stata tolta, è stata negata, è stata abolita, che lo sforzo intellettuale è negato, che la superficie è considerata piatta. E su questa piattezza è possibile codificare il comune. La condizione impedisce la mediocrità. È condizione per cui l’itinerario si rivolge al valore, senza ovvietà, senza discorso comune, senza padronanza. L’ostacolo è anche condizione dell’arte, condizione della cultura, condizione dell’insegnamento e della formazione. Condizione della memoria e della sua valorizzazione.
L’altro elemento, diciamo così, costituente il dispositivo dell’educazione è il tempo, che non passa e che non scorre perché non finisce. Il tempo che, intervenendo, comporta che ciascun elemento è nuovo, mai conosciuto, mai noto. E questa novità esige la qualificazione, la valorizzazione, la scrittura, perché ciascun elemento interviene in una combinatoria imprevedibile, incalcolabile. E questa combinatoria rilascia la sua scrittura non automaticamente, ma nel corso della domanda, nel corso dell’itinerario, nei dispositivi opportuni. Per valorizzarsi ciascuna cosa tende al valore, ma non per inerzia, non per predestinazione, ma per la tensione della domanda, per la tensione intellettuale, procedendo dalla questione aperta e dall’ostacolo per intervento del tempo. Non di per sé, non fatalisticamente. Di cosa si tratta nella valorizzazione? È ciò che comunemente viene chiamata vendita. La vendita, ossia il dispositivo della valorizzazione. Come ciascuna cosa giunge al valore. La vendita. Senza la vendita nessun valore. Vendita. Come ciascuna cosa che s’incontra nell’itinerario è elemento di valore? Con la vendita! Con la valorizzazione! Con la vendita che si scrive, non con la vendita ideale, con la vendita che rilascia il suo messaggio. Il messaggio segue alla vendita, non la precede, segue al valore, alla valorizzazione. Il valore non è standard, esige il processo di valorizzazione e il dispositivo di valorizzazione, che è il dispositivo della vendita. Nessuna impresa senza la vendita, nessun commercio, nessuna ricerca. La vendita si avvale sia della ricerca, sia dell’impresa. Valore della ricerca, valore dell’impresa. Valore economico, valore finanziario. Come la legge, l’etica e la clinica si rivolgono al valore. Nessuna intellettualità senza la vendita. Com’è, allora, che attorno alla vendita è sorto uno dei più importanti tabù? Provate a interpellare un giovane laureato e chiedete se la sua ipotesi di lavoro ammetta la vendita. Dice no. “Qualunque cosa, ma non la vendita. La vendita no. Sono disposto a fare anche un lavoro sottopagato, ma non la vendita. Io non vado a vendere! Io non mi vendo!”, facendo di questo termine un’accezione demonizzata, antintellettuale, anticulturale, antiartistica, tabuica, in cui si riassume il tabù dell’incesto, il tabù genealogico, il tabù, cioè, della circolarità, il tabù della conoscenza della propria origine e del proprio destino. È questo il tabù dell’incesto: il tabù di una sessualità che possa rivolgersi su se stessa, anziché rivolgersi come politica del tempo alle conclusioni delle cose, alla conclusione del programma, alla strategia. Certo, questa strategia, questa politica, questo dispositivo esigono l’intellettualità, esigono l’analisi, esigono la teorematica, esigono l’assiomatica, il processo di qualificazione, esigono la vita secondo la parola originaria, la sua logica, la sua struttura. Esigono la vivenza e non la mortificazione di sé. Esigono, cioè, di non scriversi addosso la condanna alla mediocrità, perché la necessità pragmatica è che le cose si facciano e si valorizzino per ciascuno. Bene. Questa è, diciamo così, la proposta di questa sera. Se ci sono domande, notazioni, proteste… Lei ha una protesta da fare?
Pubblico Non mi ritrovavo d’accordo rispetto alla costrizione della condivisione della pedagogia.
R.C. Ecco, mi pareva. Dica.
Pubblico Mi sembra troppo semplicistica, nel senso che questa idea della nuova teoria pedagogica… [registrazione non comprensibile].
R.C. Che sono invece? Propongono cosa?
Pubblico La complicità nella relazione […].
R.C. Nella relazione tra l’educatore e l’educando, quindi sono nuove teorie che mantengono l’impostazione nota e cioè la coppia educatore – educando. Dove sta la novità di queste teorie?
Pubblico Si costruisce insieme.
R. C. Si costruisce insieme!
Pubblico E non soltanto tra il singolo, insieme con la classe.
R.C. Esatto, insieme con la classe. E che cosa cambia?
Pubblico Cambia nel senso che il discente non ha un ruolo semplicemente passivo, ma partecipa, dà un contributo, ha la possibilità di costruire, di imparare insieme, di fare insieme all’insegnante.
R.C. Cosa deve imparare?
Pubblico Può essere condiviso anche all’interno della classe.
R.C. E perché deve essere condiviso? E se non è condiviso? E se uno avesse un’idea del tutto particolare e non è condivisibile? È fuori dalla classe? Deve essere messo in una classe a parte? Di quelli che non condividono? Allora questa classe, questo insieme, che cosa deve condividere? Questo obbligo alla condivisione, questa prescrizione alla condivisione non è proprio interessantissima! Potremmo anche sospettare che vada verso una sorta di omologazione: è condivisibile ciò che è omologo! E chi non ha interesse per l’omologazione? La discordanza, la dissidenza, in questa prescrizione alla condivisione, che fine fa? Dove sta? Me la pongo questa questione perché non è quella della questione democratica, di maggioranza. È la questione di ciascuno, dove ciascun caso è estremo e di estremo valore. Non posso pormi solo la questione di ciò che è condivisibile, di ciò che viene condiviso. Anzi, io mi pongo la questione di quello che non è condivisibile e di come ciascuno, nella particolarità della sua domanda, del suo itinerario, non può condividere. È proprio lì che la questione è nodale, non le pare? Ora è chiaro che non possiamo banalizzare, però lei ha posto una questione importantissima che, apparentemente, sembrerebbe poter far pensare che c’è una novità nelle nuove teorie pedagogiche. Però, andiamo a considerare le pieghe, le implicazioni, quello che non è immediatamente coglibile perché non andiamo al di là del gergo. Allora risulta gergale questa idea della condivisibilità, anzi, dell’obbligo alla condivisione. E ciò che è condiviso è veramente segno. Di cosa? Della massa! Segno dell’accettazione! Noi ci dobbiamo interrogare su ciò che apparentemente è incontrovertibile e che invece, magari, nasconde proprio la questione: non dobbiamo assoggettare la scuola, l’insegnamento, l’educazione all’ideologia. L’ideologia, ogni ideologia prescrive la condivisione, ma è una questione ideologica, non è una questione intellettuale. Se noi togliamo l’ideologia al discorso pedagogico, al discorso dell’insegnamento, al discorso economico, al discorso finanziario, a ogni discorso, se togliamo l’impostazione ideologica allora possiamo attraversarlo, interrogarlo, coglierne le pieghe e allora qualcosa giunge come proposta, lezione, modo nella pratica. Ma io la ringrazio di essere intervenuto perché, direi, è proprio su questo il dibattito.
Pubblico Posso dire la mia?
R.C. Perbacco, prego.
Pubblico Sono venuto perché nell’annuncio sul “Mattino” si doveva parlare anche di economia, di spesa. Lei ha fatto una egregia filosofia del linguaggio. Ma il valore non l’ha spiegato, la spesa nemmeno, ha eguagliato gli uomini come fossero tutti eguali nel mondo […] ci saranno delle spiegazioni e delle cause oggettive, non filosofiche, non idealistiche. Oggettive, come l’economia. L’uomo fa anche la storia, ma non la fa completamente, perché la società feudale, la società capitalistica ha sempre avuto, poco o tanto, uno sviluppo, ma lo sviluppo è oggettivo e non è determinato dagli uomini come principio. L’uomo contribuisce perché lavora e produce il prodotto, il valore. I valori che sono i beni materiali. L’insegnante, pur necessario, il medico pur necessario, però, non producono nulla, perché l’uomo anche laureato può essere preparato ma non mettere in atto quello che ha imparato. Tutto il terziario, meno chi trasforma l’alimentazione, o meglio, i prodotti alimentari in cibi, non fa nessuna produzione di valore. Il valore reale è determinato dall’industria e dall’agricoltura. Se lei non spiega queste differenze che sono nel mondo, che sono differenze fra gli uomini, non potrà farmi i discorsi che ha fatto, perché sono discorsi di filosofia linguistica. Se vuole parliamo di economia o di quello che vuole.
R.C. Ma noi non facciamo un discorso sociologico, forse c’è questo equivoco. Non stiamo facendo un discorso sociologico, ma oltre la sociologia. Oltre. Assolutamente oltre, come avremo modo di dire al nostro amico Marco, dove non si tratta degli uomini, ma si tratta di ciascuno. Capisce la differenza? Ciascuno! Non tutti gli uomini, non ognuno, ma ciascuno! Sentiamo anche altri. C’è una mano alzata.
Maria Antonietta Viero Vorrei riprendere il primo punto: l’enunciazione “stare nel mezzo”. Mi chiedevo se non fosse un modo della rappresentazione dell’impasse, cioè di avvertire l’impossibile dicotomia, l’impossibile binarietà, semmai verso la qualità, cioè stare nel mezzo per unire i due capi, da una parte e dall’altra. E allora mi chiedevo se, in qualche modo, avvertire questo stare nel mezzo non fosse un modo di avvertire il polo ossimorico del due, in direzione dell’impossibile scelta. E la messa in questione della nozione di soggetto stesso. Avvertivo anche una sorta di rappresentazione […] per cui le due mani per fare unione, non sono solo un modo per spazializzare l’intervallo, ma vanno in direzione della cifra in questa nodale questione. Il soggetto, la logica binaria, la facile o la difficile scelta, sono fantasie di padronanza mentre, invece, l’occupare questo “mezzo” non fosse un modo di avvertire che logicamente non è così.
R.C. Bene. Altri? Sì? Chi ancora? Prego.
Lucio Panizzo Volevo porre la questione dell’obbedienza, perché l’educazione, almeno apparentemente, pone l’obbedienza come lo stare nel mezzo, tra gli estremi, quindi l’obbedire a un certo canone che non è rischioso. Mentre la questione che lei ha posto dell’oggetto e del tempo, l’obbedienza rispetto alle indicazioni che la provocazione e il tempo pongono come occorrenza, è un’altra cosa rispetto all’obbedienza intesa come obbedienza o disobbedienza tra soggetti. Quindi, io penso che la questione dell’educazione ponga un’indicazione intorno all’obbedienza e al percorso che questa obbedienza instaura. E mi sembra importante anche questo significante di obbedienza.
R.C. Bene. Sì. Poi?
Marco [intervento la cui registrazione non è comprensibile]
R.C. Ha scelto lei questo lavoro?
Marco Diciamo di sì. È stato dettato dagli eventi, dal caso, però…
R.C. Ma lei ha scelto di proseguire.
Marco Certo.
R.C. Si è presentato questo lavoro e lei lo ha accolto. Lei è laureato?
Marco In Scienza dell’Educazione.
R.C. […] programmazione neurolinguistica. Tutto scientifico! Adesso, poi, si va verso le teorie comportamentistiche!
Marco […].
R.C. E nella sua attività, nella sua pratica, lei ha trovato rispondenza tra le esigenze della pratica e le teorie sui fatti?
Marco Io penso che […].
R.C. Danno un appiglio. Forniscono un appiglio.
Marco Anche una bussola.
R.C. Addirittura darebbero una bussola. Non ancora un cervello! Quant’è che lavora lì?
Pubblico [serie di interventi la cui registrazione non è comprensibile].
R.C. Sì, la domanda lì si pone: qual è il destino della memoria senza l’astrazione? Ma non la memoria nell’accezione comune, la memoria vivente, la memoria di quel che si dice, di quel che si fa, memoria in atto. E questo lo raccontiamo la prossima volta.
Pubblico […].
R.C. Non abbiamo niente in contrario rispetto ai prodotti, solo che occorre notare l’accezione ideologica anche del termine prodotto, anche del termine produzione, cioè se noi diciamo “i prodotti della terra, i prodotti dell’agricoltura”, allora dobbiamo dire che Mao Tse-tung è un benemerito! Abbiamo finalmente trovato la base intellettuale: la terra come matrice intellettuale! Mi pare che ci sia un po’ di strada, che nel frattempo abbiamo percorso, rispetto a questa concezione del prodotto, della produzione. Però abbiamo occasione.
C.M. C’era ancora una domanda.
R.C. Sì, dove? Ma l’ultimissima proprio.
Pubblico Magari la prossima volta.
R.C. Ecco. Esatto.
Pubblico Il concetto di comportamento. Non ho capito se il comportamento…
R.C. No, il comportamento è una nozione.
Pubblico È il modo di fare?
R.C. Ecco, il modo di fare non ha nulla a che vedere col comportamento. Il comportamento è una nozione dell’etologia, che viene spesso usata dagli umani ma in maniera del tutto antintellettuale, per assimilare umani e animali, cosa che, francamente e non francamente, non mi pare interessante, non le pare? La psicologia del comportamento ha le sue basi nel comportamento animale, per quello che viene studiato e poi applicato, sulla base di una idea di unificazione del phylum genetico! Dove sta la parola? Non c’è più, c’è la genealogia animale! Allora tutto ciò occorre che lo mettiamo in discussione, occorre che lo esploriamo. Mica lo possiamo accettare così, non le pare? Altrimenti tanto vale dedicarsi ai topolini, ma non siamo qui per questo.
La direzione e la bussola- School brain
Ruggero Chinaglia Questo laboratorio è stato importante, ha consentito di esplorare vari aspetti di ciò che chiamiamo scuola, in particolare nella nostra esperienza, quindi come l’esperienza della parola esiga la scuola che è scuola d’artista, scuola d’impresa, scuola di formazione, dove si tratta di arte e cultura, formazione e insegnamento, gioco e lavoro, terapia e invenzione e dove, appunto, si tratta dei dispositivi da attuare per il compito di ciascuno, il compito e la missione. Scuola in cui il compito e la missione non sono quelli di imparare come stanno le cose, come sono le cose; di imparare per poi riprodurre, ma si tratta innanzi tutto di acquisire gli statuti intellettuali necessari alla missione, alla vita, dove però, ciascuno di questi termini ha un’accezione precisa, particolare. Allora, la scuola a cosa serve, a cosa può servire? A instaurare il cervello, a indicare il cervello, qual è il cervello della scuola, qual è il cervello per ciascuno. Impossibile vivere senza cervello. Ognuno può dire: “Ma io ce l’ho il mio cervello, è qui, bello caldo dentro la testa!”, ma occorre distinguere il cervello come dispositivo intellettuale, in cui si tratta della materia intellettuale, dal cervello costituito – come si dice – dalla materia grigia; importa non già la materia grigia, ma la materia intellettuale. La materia grigia senza la materia intellettuale non giunge a granché, ognuno lo può constatare questo, ognuno che si accontenti della materia grigia. Dunque, ci serve il cervello, ma ancora, il cervello non basta senza la bussola, senza la direzione.
Il principio d’inerzia ci dice che senza la domanda ognuno è votato allo stato naturale. Con la domanda non c’è più lo stato naturale, c’è il modo: il modo di parlare, il modo di fare, il modo di scrivere, il modo di vivere. Con il principio di inerzia il modo non c’è. La questione della parola è anche la questione del modo: come pensare, come fare, come parlare, come scrivere, come vivere. Nessuna scuola è in grado di dire “si fa così”, per imparare a vivere, per imparare a pensare, per imparare a fare, per imparare a essere, ma la nostra scuola, la scuola della parola è necessaria per acquisire i mezzi, gli strumenti della parola con cui può instaurarsi il gerundio; per cui ciascuno può affrontare questo, ma occorre istituire dispositivi opportuni perché la domanda si svolga e si rivolga alla cifra. In questo rivolgimento, in questi dispositivi opportuni, necessari, sta la questione dell’esperienza. Esperienza di parola, esperienza di associazione, esperienza del parlare, esperienza del fare, gerundivamente, non all’infinito, in una possibile riproduzione e applicabilità del modo, ma individuando gli aspetti specifici che il caso esige.
A questo modo è necessaria non già la biologia, non il discorso sulla vita, il discorso della vita, il discorso del vivere, ma la biolegge, la bioetica, la bioclinica, ossia del compimento della rimozione, della resistenza, della funzione vuota, nella legge, nell’etica e nella clinica della vita, gerundivamente. Non generalmente ma gerundivamente. La nostra scuola ha vari aspetti, vari modi, vari dispositivi: l’associazione con la sua esperienza, la sua attività; la casa editrice con i suoi dispositivi, con i suoi libri, con le sue riviste, con le sue attività; la fondazione, il museo con le sue opere, la qualificazione con i suoi appuntamenti, con i suoi dispositivi, le sue conversazioni, i suoi laboratori, i suoi corsi, i suoi congressi, con le opere d’ingegno, con i prodotti artistici, scientifici, intellettuali, e dunque, non sono ontologici, sono per la valorizzazione, sono da valorizzare. Senza questa attività, che va dalla qualificazione alla valorizzazione, dalla ricerca all’impresa, dal parlare alla scrittura e oltre la scrittura, non c’è scuola. È questa la scuola che dissipa la soggettività, dove nessuno è maestro o allievo, dove nessuno può dire di avere concluso il suo itinerario che è in corso, costantemente in corso, perché le acquisizioni non sono mai finite. È la scuola che educa all’infinito, che educa a questo orizzonte infinito, a questo panorama in cui non si tratta più del soggetto ma di quello che avviene, degli effetti, delle acquisizioni, del valore, della soddisfazione e della salute che giunge per questa via.
Quindi, abbiamo considerato i vari aspetti, i vari costituenti del dispositivo, la settimana scorsa abbiamo considerato la questione dell’ostacolo, per esempio, come l’ostacolo sia essenziale. La causa, l’ostacolo è ciò che dissipa l’ontologia del principio d’inerzia. Il principio d’inerzia è senza causa, prevede che ci sia un andamento naturale, ma senza la domanda, la domanda e la sua causa, quale andamento, quale spinta? Quale arte, quale cultura, quale scienza? È il tempo che interviene in modo imprevedibile, incalcolabile, a instaurare la differenza assoluta ciascuna volta, a impedire la possibilità stessa di dire, “lo so già, sì, sì…, lo so già!”, la sufficienza. Il tempo impedisce la sufficienza. Ognuno che si ispiri al criterio della sufficienza ha già negato il tempo, vive nel suo serraglio, nella sua gabbietta, nella sua idea animale; ma il tempo impedisce la sufficienza, e quindi, esige l’altro modo. Qual è l’altro modo? Mica si può stabilire prima. L’altro modo s’instaura, gerundivamente. È l’altro modo, l’altro tempo per cui non c’è più la modalità di potere dire “non ho tempo per fare questo, non ho tempo per fare quello”, perché l’altro tempo non è dato dall’orologio. L’altro tempo viene gerundivamente, e quindi chi si ferma a pensarci, a stabilire se può o non può è già nei guai; è nel guaio chiamato soggettività, è nel guaio chiamato idea di sé, è nel guaio chiamato rappresentazione di sé, è nel guaio chiamato soggetto.
La nostra esperienza è esperienza senza soggetto, la nostra psicanalisi è la psicanalisi senza soggetto, è la clinica senza soggetto, senza pazienti, senza malati, senza la sofferenza rappresentata in modo da rendere necessario il male minore, l’intervento come psicofarmaco, la parola come psicofarmaco; la nostra psicanalisi è senza psicofarmaco, senza il consiglio a fine di bene, senza l’intervento dettato dal fine di bene. Questo ha delle implicazioni che però, non sempre, non in ogni caso risultano chiare e semplici. La nostra esperienza, la nostra scuola è intellettuale, quindi non procede dal fine sociale, non ha come fine la socializzazione, né l’appartenenza, né l’iscrizione, né l’appartenenza sociale, e questo può essere un guaio! Per chi mira, invece, alla socializzazione, all’appartenenza, al ruolo sociale, al nome del nome, al riconoscimento sociale, questo può essere un guaio. Ma è questo guaio che comporta l’intellettualità e non l’accettazione dello stato delle cose, della naturalità delle cose, della biologia.
Questa nostra esperienza, che in effetti non giunge ancora a avere testimoni tali da indicare in modo chiaro, senza remore, senza paura, senza vergogna di cosa si tratti, questa nostra esperienza è inaccostabile, inavvicinabile, imparagonabile a ogni rituale contemplativo, misticheggiante, ascetico, purificatorio, di catarsi, di liberazione; proprio nulla a che vedere, perché procede dall’integrità, quindi procede anche dall’immacolata concezione. Non c’è nessuna colpa da espiare, non c’è nessuna colpa da pagare, non c’è nessuna colpa da cui riscattarsi, non c’è nessuna colpa con cui ricattare. Però, che non ci sia è un’acquisizione di questa nostra esperienza, non è che va da sé, è un’acquisizione. Occorre farla, occorre conseguirla questa acquisizione, occorre anche accoglierla, non va da sé che possa essere accolta. Il soggetto non può accoglierla, nessun soggetto può accogliere questo, perché sarebbe la negazione della sua soggettività che si fonda sull’origine, si fonda sulla certezza del destino, ma è proprio questa certezza che gli impedisce tuttavia tante cose, ma a fronte di ciò che viene impedito e che è ignoto, rinunciare a questa certezza nota può costituire un lavoro impegnativo. Il soggetto non rinuncia alle sue certezze così, “in quattro e quattr’otto”, perché il soggetto, i soggetti stanno in buona compagnia, si cercano, si trovano, stanno bene insieme. La compagnia è dei soggetti! Ogni soggetto ne cerca almeno un altro per stare in compagnia, per evitare la solitudine, per evitare l’appuntamento, per evitare l’ostacolo, per evitare la condizione, la condizione della domanda. Con la domanda, con la sua condizione, con la sua solitudine, c’è anche il bello della domanda. Qual è il bello della domanda? Ognuno crede che il bello stia nel sapere già che cosa accadrà. Il bello dell’oroscopo. Il bello dell’oroscopo sta nel constatare che l’oroscopo fallisce. L’oroscopo è l’articolo più letto nei giornali, nelle riviste. Qual è l’articolo più letto? L’oroscopo. Naturalmente ognuno lo legge, dicendo di non crederci: “Io lo leggo, ma mica ci credo, tanto lo so che dice tante fesserie!”, ma intanto lo leggo e per leggerlo, intanto, mi animalizzo. “Di che segno sei? Tu sei pesce? Tu sei cancro? Tu sei uno scorpione? Che cosa sei? Sei leone, sei ciccì, sei cocò? Di che segno sei?”. Ognuno ha un segno, è un segno. Questo zodiaco riproduce la casa, la casa madre, la casa dello zodiaco, ognuno appartiene alla casa, con il suo segno distintivo sta nella sua casella. Dalla casa passa alla casella, s’incasella, poi, magari s’incasina. Nulla di più facile! Dalla casa alla casella, all’incasinamento, però è in compagnia! È in buona compagnia! Soffre, ma siamo in tanti. Sono in tanti a soffrire! È lo scotto da pagare per la compagnia. Ogni compagnia esige il suo prezzo, c’è uno scotto! Ognuno paga volentieri il suo scotto, però, poi, sta in compagnia.
L’esperienza della parola esige la solitudine che non è lo stare da soli. Solitudine. Impossibile stare da soli nella solitudine. La solitudine è la condizione del dispositivo, perché se è un dispositivo di isolamento è una gabbia. Il dispositivo non è una gabbia, il dispositivo è per l’incontro, è per lo scambio, è per fare, mica per restare da soli, isolati! La solitudine non è un guaio, è la condizione, ma non è la solitudine dell’uomo, “l’uomo è solo, il soggetto è solo, la mia solitudine!”, è la solitudine dell’oggetto, è la sua singolarità, la sua particolarità; questa è la solitudine. La solitudine come particolarità oggettuale. Confondendola per l’isolamento, ognuno si barrica nel suo bunker e poi dice: “Ma questa solitudine non produce niente, non produce nessun effetto, io sono qui, solo soletto, ma questa solitudine…”. Quella non è la solitudine, è l’isolamento, è la clausura, ma la clausura è l’esperienza della compagnia. La clausura si fa insieme, nell’Ordine, nella compagnia, nella parrocchia, nell’insieme. La clausura è senza solitudine; è nella rappresentazione della presenza dell’assenza, escludendo l’atto, l’atto sessuale. Non è l’esperienza della solitudine che si tratta di fare, è l’esperienza della qualità che procede dalla solitudine. Bella differenza! Eh già, uno stando nella sua casa dello zodiaco, stando nella sua casella, si incasina e prende fischi per fiaschi, Roma per toma, prende l’isolamento per la solitudine.
La comunicazione mica si fa da soli. Esige il pubblico, esige il dispositivo dello scambio, esige la valorizzazione, comporta il messaggio. Tutto questo non avviene nel deserto, neanche nella foresta e nemmeno nella giungla, esige il dispositivo intellettuale. Ora uno non ciondola dal sonno, perché è sfinito dall’idea che ha di sé, dai propri casini, perché stando nella casa poi si incasella e poi s’incasina e esibisce le sue rappresentazioni, i suoi limiti, i suoi affanni. No. Questo è il bello, l’esperienza di parola è senza affanno; esige la cura, ma non nell’accezione di cura nell’affanno. Non è la cura di sé, l’affanno di sé. È la cura del tempo. Il tempo cura, ma non perché è il tempo che passa, ma è il tempo che interviene, agendo, gerundivamente. È differente, è un’altra cosa! Dove non si tratta di stare a aspettare e di sapere. “Ma, se sapessi! Se sapessi fare lo farei! Se sapessi andare ci andrei”, ma, come dice Garcia Lorca: “Il cavaliere, pur sapendo la strada non è detto che arrivi a Cordoba”. La strada la sa, ma non basta, magari s’incasina per la strada e non arriva a Cordoba. E la strada la sa, ma non arriva. Sa dove andare, saprebbe, ma non va, non basta sapere! Può aspettare? Che aspettare? Aspettare di sapere, di sapere meglio? No. Il gioco non è controllabile, non è padroneggiabile. La partita come si svolge? C’è chi pensa di potere gestire la partita, di poterla concludere a suo piacimento, di potere prevedere quali saranno i risultati, dove, come. Questo sarebbe il giocatore? Chi gioca la partita? O non è questa la più precisa accezione di baro? Il baro non gioca la partita, presume di sapere già, non gioca; è come il cavaliere che, sapendo già la strada, non arriva a Cordoba. Per questo è impossibile barare con la parola. Si tratta di giocare la partita e, giocando, è impossibile barare, perché il giocatore è travolto dal gioco, non gestisce il gioco, è travolto, e il gioco procede. Gioco e lavoro, arte e cultura, macchina e tecnica, insegnamento e formazione; vari aspetti, non ce n’è uno solo, vari aspetti che si integrano.
La scuola senza questo processo per integrazione, senza questo dispositivo, senza la direzione è un addestramento, è un campo di addestramento, è un campo di concentramento, infatti chi non ritiene che il campo debba essere abbastanza concentrato; non essendo concentrato, allora qualcosa sfugge. Che guaio! Tutto ciò è apologia di soggettività, questo è il punto. C’è chi ci tiene a rimanere abbarbicato a questa idea di sé, a questa prescrizione di essere, a questa predestinazione. In fin dei conti è questo, tutto ciò è predestinazione, è il cerchio della predestinazione, è il cerchio in cui il passato può ritornare e l’avvenire può essere condizionato dal passato. È impossibile barare con la questione aperta, con la questione intellettuale. Qui sta il bello. Il bello sta qui. Il bello sta nel non attendere l’esecuzione. Ognuno, attendendo, attende l’esecuzione, spera di rimandare, però attende l’esecuzione e se proprio proprio non è l’esecuzione, attende l’arrivo dei Tartari che da un momento all’altro arriveranno e compiranno il massacro. È sempre una visione funesta, quella dell’attesa. Che cosa c’è da attendere? Il bello è che c’è da fare. Questo è il bello della vita; il bello della cosa è che c’è da fare, ma per cogliere questo bello occorre l’analisi, occorre l’assoluzione, la qualificazione, la valorizzazione. Non può esserci l’oscillazione tra il positivo e il negativo che ogni idea di sé subisce, non può esserci incasellamento di ciò che è ritenuta la propria casa, la casella. Ognuno si incasella e poi s’incasina. La qualificazione è senza incasellamento, è questo il bello, ma esige lo sforzo intellettuale, varietà, differenza.
La questione intellettuale procede dall’anoressia intellettuale, dall’aria, dalla leggerezza, dall’anoressia. Anoressia, cioè assenza di soggetto. “Non ne posso più, non ce la faccio più…” a fare il soggetto. Il modo dell’anoressia è il modo dell’istanza intellettuale. Come ascoltare quest’istanza, come accoglierla, come rilanciarla? Come far sì che giunga alla produzione, alla qualità, al lucro, al lusso, al superfluo senza il principio di sufficienza, senza il principio del minimo male sufficiente, del minimo male necessario, senza l’economicismo? Perché il soggetto si rappresenta nell’oscillazione fra soggetto passivo e soggetto attivo. Il soggetto passivo è il soggetto che deve essere liberato, quindi è il soggetto posseduto, che si sente posseduto, che ritiene di essere posseduto, posseduto dal male e anche dal bene; posseduto, quindi è soggetto passivo, ha questa idea di possessione per cui si rappresenta anche come soggetto malato. Il soggetto malato è il soggetto che si crede posseduto, è un’idea. Certo, quest’idea se non è analizzata, articolata, produce determinati risultati. Mentre il soggetto attivo è il soggetto padrone della sua vita, padrone di gestirla come vuole; da una parte il fantasma di possessione, dall’altra il fantasma di padronanza e questa è la soggettività con le sue oscillazioni. Euforia − disforia; soggetto padrone, soggetto attivo, soggetto passivo. Ecco la circolarità. Ma tutto ciò va indagato, esplorato come materia intellettuale.
Questione intellettuale: questione aperta. L’alto − basso, non è l’alternativa fra l’alto e il basso, alto − basso è senza mediazione, è questo che invece il soggetto installa, la mediazione. Questa mediazione, come dicevamo la settimana scorsa, è la mediocritas, l’idea di stare nel mezzo, è la gnosi, è il compromesso con la gnosi. Quest’idea del mezzo è l’idea che procede dalla coscienza, l’esercizio della coscienza che crede di sapere qual è il mezzo, dove sta il mezzo, dove sta l’estremo, crede di sapere la strada e che questo basti a arrivare in fondo, ma pensando che si tratti del fondo, preferisce stare a mezzo, fermarsi a metà.
La questione è quella della parola. Parlare non è blaterare, ci insegna Luca. Parlare non è blaterare; lego, eiro, femì, non è lalein, parlare non è blaterare. Parlare comporta la particolarità, occorre tenere conto di questa particolarità, cogliere come la particolarità interviene nella lingua. La particolarità, cioè l’idioma, l’idioma che non è possibile professare. Professare l’idioma? Parlare l’idioma? Impossibile. Parlare la parola? Parlare sulla parola? Confessare l’idioma? Né confessare, né professare, così come risulta impossibile professare la cifrematica o confessare la cifrematica. Non è un’attività confessionale o professionale, è esperienza; si può testimoniare facendo, gerundivamente, ma senza l’instaurazione del gerundio non c’è nemmeno la cifrematica, non c’è l’esperienza. La cifrematica è scienza, procedura e esperienza. Cosa fa un tripode se gli togliete una gamba? Non c’è più, non è che si regge ugualmente. Scienza, procedura, esperienza; non è che può essere solo scienza, solo dottrina. Non è una dottrina, non è un indottrinamento: scienza, procedura, esperienza, cioè, simultaneità, gerundività. L’esperienza è il gerundio; senza gerundio non c’è l’esperienza, sarebbe mera dottrina, confessione, professione. L’adepto, il seguace, il simpatizzante, l’allievo, di che si tratta? Confessarsi adepto, confessarsi allievo, confessarsi simpatizzante, seguace è un modo per edulcorare la riserva rispetto allo statuto intellettuale.
Come divenire statuto intellettuale. Di questo si tratta, questa è la scommessa, scommessa di vita, scommessa che inaugura il modo intellettuale, il modo della vita, il modo della ricerca, il modo dell’impresa, il modo; senza stanchezza: trovare il modo. Trovare il modo non stanca mai, è un’esigenza che non stanca mai e questo è il bello. E poi, dopo averlo trovato, occorre trovare anche l’altro modo, proseguendo, l’altro modo, e un altro ancora, e ancora. Il modo, nella moda stessa non è mai lo stesso modo; è sempre altro modo, Altro. Questo Altro indica che non finisce mai la faccenda. Uno dice: “Ma quando finisce questa storia?”. Non finisce, non c’è da avvilirsi, perché non finisce, non è mai finita. La soddisfazione non è mai finita, il piacere non è mai finito, la domanda non è mai finita, ce n’è ancora, c’è ancora da fare. L’ottimista, il pessimista rispetto alla constatazione che c’è ancora da fare: “Finirà? È finita!”. No, non è finita, c’è ancora da fare, la missione non è mai finita, il compito non è mai finito. Certo, occorre che s’instauri il compito, che s’instauri la missione, se non s’instaura ognuno può credere, può pensare che sia finita, che possa finire, che siamo prossimi alla fine. Ma dato che c’è la parola, se noi facciamo non è mai finita, non c’è pericolo che finisca. Se non è mai finita, se questa missione è senza fine, nulla è più drammatico, non c’è più il dramma, e ciascuna cosa si rivolge al valore, la vita si rivolge al valore, la vita si valorizza in ciascun istante. Non una volta per tutte, in ciascun istante, di volta in volta. Per questo sono essenziali i dispositivi in cui si instauri questa eternità dell’istante, questo rivolgimento verso il valore, il gerundio come modo dell’esperienza. Allora non c’è da aspettare nulla, occorre che facciamo. Noi facciamo. Non noi tutti, non noi soli, non noi qui. Noi. Noi facciamo. Questo “noi” comporta l’infinito in cui ciascuno è statuto intellettuale. Occorre il suo cervello, la sua bussola, la direzione e allora diviene caso di cifra, caso di qualità, caso di valore, ma non alla fine, gerundivamente. Ecco, se ci sono notazioni, magari si può precisare qualche altra cosa.
Cecilia Maurantonio A proposito del barare, del presunto baro, ci può essere anche l’idea della competizione, cioè credere che ci sia la competizione, quindi questo toglie anche il piacere del gioco.
R.C. Ecco, “il piacere del gioco”, non ci siamo. Il gioco non si fa per piacere, che ne sa lei del piacere del gioco?
C.M. C’è una scommessa!
R.C. Ma la scommessa non è sul piacere. Abbiamo parlato, nelle scorse settimane, di cosa comporti “l’oltre”, “oltre il principio del piacere”. Il principio del piacere è il principio della conoscenza, è il principio economicistico, è il principio energetistico. Principio del piacere, fare per piacere. Fare per occorrenza è proprio un’altra impostazione. L’occorrenza non esige il piacere. Che cosa ne sappiamo del piacere? Non si può sempre anticipare la conoscenza, presumere di sapere già. Questo è il soggetto, è il soggetto che sa, questa è la soggettività. La soggettività è di presumere, di fare, di giocare per il piacere.
C.M. Quindi è una delle facce della paura, il piacere?
R.C. No, che c’entra. Il piacere è il piacere. Solo se è rappresentato, se è presunto, allora è tutta un’altra faccenda, non è più il piacere, è la sua presentificazione e allora siamo nell’economia del piacere, nella coscienza del piacere. Il piacere non è cosciente, non è il piacere della coscienza, è l’effetto temporale. Dunque, l’ipotesi di fare per piacere, perché ci sarà il piacere è il modo della promessa: “Fai questo, io ti premierò. Fai questo e avrai la ricompensa”. Il piacere sarebbe la ricompensa! No. L’occorrenza non promette nessuna ricompensa, è che seguendo l’occorrenza le cose giungono al loro compimento, alla conclusione, alla scrittura, alla valorizzazione, alla qualificazione. Questo è constatabile nell’esperienza, altrimenti siamo nell’ideologia del ricatto e del riscatto. “Lo faccio per piacere”. “Lo faccio se tu mi assicuri il piacere”. “Lo faccio se mi garantisci che…”. Allora siamo nella reciprocità, siamo nella giungla, nella giungla soggettiva, invece la partita è aperta, è senza ricompensa. Il piacere non è la ricompensa, non è il premio che viene dato da qualcuno a sancire che il fine di bene è stato raggiunto. Dobbiamo squarciare questo finalismo che è effettivamente agghiacciante, terrifico, impediente. Credere nella ricompensa è credere anche nella sua altra faccia, la punizione. Questo sarebbe il criterio meritocratico: ricompensa e punizione, premio e pena. Siamo nell’istituto della vendetta! Occorre cogliere che la questione è aperta, non è vincolata dal premio e dalla pena, sarebbe veramente un’angustia continua, rischio di premio, rischio di pena. Cosa avverrà, cosa mi capiterà, il premio o la pena? Chi si muove più! Questa ideologia bisogna analizzarla e analizzandola scompare; se non viene analizzata ognuno se la tiene e allora, tenendosela, va a favorire il casellario, il casellario giudiziario, ognuno si assegna preventivamente la sua pena.
C.M. A proposito della domanda lei ha detto che è essenziale con la sua provocazione.
R.C. Provocazione, profezia, causa.
C.M. E poi, qui, in conclusione, diceva che nel gerundio c’è anche la simultaneità. Però sono due cose distinte.
R.C. Sì.
C.M. La domanda verte intorno al tempo, poiché da quello che ho inteso questa sera è che il tempo interviene solo nel gerundio.
R.C. Sì, chiaro.
C.M. Quindi, in che modo c’è un contributo nel provocare, anche, la domanda. Si tratta di un dispositivo, perché nel compito c’è questo.
R.C. Paventa una domanda senza provocazione? O una provocazione senza domanda? Paventa che possa non esserci la provocazione e quindi nemmeno la domanda?
C.M. No.
R.C. Ah, ecco! Non c’è principio d’inerzia.
C.M. Appunto, ho posto la domanda.
R.C. La domanda è originaria.
C.M. Sì, ma c’è modo di contribuire a che si scriva?
R.C. Sì, assolutamente sì, c’è modo, assolutamente sì. Chiaro, però occorre industriarsi per questo.
C.M. C’è la domanda nella sua provocazione, però il tempo interviene nel gerundio.
R.C. Sì. Questa è la questione importante, senza gerundio nulla si scrive, nulla si fa, nessuna esperienza.
C.M. In una conferenza lungo una lezione, accade che una domanda che magari non si è ancora formulata, non è giunta in un’interlocuzione, trova questa provocazione per scriversi, allora questa provocazione la trova in un dispositivo specifico che non so quale sia, ma certamente dove interviene il tempo per simultaneità.
R.C. In un dispositivo il tempo interviene. Il dispositivo è temporale.
C.M. Ma lei parla di vari dispositivi.
R.C. Vari dispositivi e ciascun dispositivo è temporale.
C.M. E poi ha lasciato in sospeso la questione di qualcuno che non si concentra, che ci sarebbe questa problematica che a volte si riscontra che c’è poca concentrazione, però siccome la questione l’ha posta su un altro versante…
R.C. Avremo modo.
C.M. Grazie.
Gianfranco Dalle Fratte Perché il tempo cura? In che senso il tempo cura? Che cura?
R.C. Ah, lei subito transitivizza.
G.D.F. Se il tempo è taglio, ciò che cura è la divisione, potrei dire così?
R.C. Il tempo è taglio, è divisione, è piega, è sezione.
G.D.F E che cosa impedisce l’idea di malattia?
R.C. Impedisce! Non impedisce nulla nel senso che, curante il tempo, ogni idea di malattia non regge. Malattia! Cosa vuol dire? La malattia è una forma di gnosi.
G.D.F. L’idea di un male possibile.
R.C. Esatto, certo.
G.D.F. Poi, un’altra cosa. Il giocatore che gioca la partita, perché non sa il gioco che sta facendo, e quindi gioca, non è baro, mentre il baro sa a che cosa sta giocando e in questo senso è baro, cioè non gioca.
R.C. Il baro non gioca.
G.D.F. Sì, sì. perché non rischia.
R.C. Questo sapere toglie il gioco, toglie la partita, non c’è partita.
G.D.F. È già conosciuta.
R.C. Il cavaliere non giunge a Cordoba, sa la strada, non giunge a Cordoba.
G.D.F. Il giocatore è uno che gioca, gioca e appunto, chiaramente, non è un’entità, non può essere un’entità, è indefinibile il giocatore!
R.C. Perfetto. Altri? C’è chi voglia fare l’ultima domanda?
Mirella Volevo dirle che avevo scritto una cosa per lei.
R.C. Ah, bene!
M. Non è una domanda, necessariamente, a quello che lei ha esposto questa sera.
R.C. Sì.
M. Caro professor Chinaglia, come ringraziarla del suo laboratorio, questi spazi che ci ha regalato, quel colore che non si vede, non si tocca e non si prende, il colore dello sguardo e della luce. Il valore è sempre dinanzi a noi, mai dietro e è ignoto. Abituarsi a vivere è impossibile, allora noi umani proviamo a abituarci a morire. Ho affidato la vita alla morte e me ne sto rendendo conto. Come sempre nella vita si va avanti. Sembra impossibile vedere convivere nello stesso istante il dolore per la perdita e la ripresa. Profondamente grazie. Questo l’ho scritto perché ho pensato a lei. In questo periodo mi è morta una persona cara e ho riflettuto su quello che aveva detto, parlando della morte, e quindi la sentivo molto vicina, magari non gliela avrei neanche letta, poi lei mi ha invitato, probabilmente ho sentito che dovevo leggergliela.
R.C. È andata così, bene.
M. E volevo anche sapere dove saranno i prossimi incontri.
R.C. Dunque, i prossimi incontri si articolano in due laboratori distinti, però si integrano, come capita per ciascuna cosa. Noi incominciamo il 2 aprile una serie di dibattiti intorno al tema La scienza e la crisi, che colgono lo spunto dalla rivista “La cifrematica” e quindi ciascun volume darà modo al dibattito di attuarsi, e quindi sono sei, più il dibattito intorno al libro La dissidenza cifrematica, più il dibattito attorno al libro di Michel Arrivé Linguaggio e psicanalisi; questi a cadenza quindicinale, dal due aprile in avanti. Poi abbiamo invece, a cadenza quindicinale il laboratorio dal titolo L’amore e la crisi. Questi dibattiti sono con ospiti, autori di libri o autori di interventi o cifrematici che operano in altre città d’Italia e di altri paesi, mentre il laboratorio, L’amore e la crisi, al momento sarà diretto da me e poi da altri interventi possibili da parte dell’équipe. Stiamo ancora valutando dove e percorrendo varie ipotesi. Quindi un programma intenso. Ciascun contributo è gradito. Noi ci riuniamo ciascun lunedì sera nella sede dell’associazione in via Nazareth, per cui chi intende collaborare, contribuire, dare una mano e darsi una mano è assolutamente accolto intellettualmente.