- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
L’IDEA DEL MALE, DI DIO E DELLA MORTE NEL DISCORSO OCCIDENTALE
- Idolatria, religione e fede
- I bambini e dio
- La paura del buio, del lupo e del male
- L’erotismo e le maschere della morte
- L’educazione senza il pericolo di morte
- La famiglia, dio e la clinica
Idolatria, religione e fede
Ruggero Chinaglia Quello che inizia oggi non è un corso di classificazione dei mali, ma è un corso per esplorare alcune mitologie, alcune fantasie, alcune idee che talvolta prevalgono rispetto alla logica della parola. Si tratta di esplorare come accade che questo avvenga, come accade che alcune fantasie e mitologie prevalgano rispetto a ciò che si pone dinanzi, e l’incidenza di ciò rispetto al discorso occidentale, ossia a quel discorso che si dà come già esistente, già dato, che si pone come causa, come forma disciplinare del sapere, come forma di conoscenza o come forma di scienza. Nell’esperienza analitica ci imbattiamo in un’accezione differente di discorso, ossia nel discorso come effetto culturale. Un conto è il discorso come effetto dell’itinerario, quindi come effetto culturale, e un conto è il discorso occidentale, ossia un discorso che si pone come causa, che si pone cioè come fondamento, rispetto a cui le cose sono già, per cui si tratterebbe di assumerle come tali. Accade che ciascuno incontri nel suo dire, nel suo fare, nell’esperienza, che le cose non sono tali, e questo comporta delle conseguenze.
In particolare, se vige l’idea che le cose esistano già, siano tali, nel caso in cui vengono incontrate differenti possiamo anche avere dei contraccolpi, perché il discorso occidentale non ammette questa differenza, che l’esperienza, invece, fa incontrare.
Questo corso esplora proprio i fondamenti logici o fantasmatici della costruzione che sorregge il discorso occidentale e, di conseguenza, le basi della scienza e della conoscenza che da questa costruzione procedono. Quindi si tratta qui di partire non da conclusioni già date, non da logìe affermate e ritenute comuni, non da discipline presunte già acclarate, ma da questioni da esplorare: il male, dio, la morte come qualcosa di cui non sappiamo già, ma che si tratta di esplorare.
Occorre estrema disponibilità al ragionamento e all’indagine, nel senso che può accadere, anzi è auspicabile che accada, che nello svolgimento del corso ciascuno di noi s’imbatta in qualcosa che lo sorprende e che contrasta con ciò che credeva assolutamente certo. Questo non sarebbe un guaio, sarebbe proprio una fortuna, nel senso che non vedo, altrimenti, quale funzione potrebbe avere un incontro, se non quella di apportare qualcosa di nuovo, di inedito, di non già saputo.
Partiamo, quindi, dal presupposto che non c’è chi conosca già la materia di ciò che indaghiamo e altresì da alcune considerazioni relative all’attuale dispositivo sociale e alle implicazioni che possono riguardare in particolare la scuola e l’insegnamento. Quindi l’insegnante e l’allievo, ma anche la famiglia e il suo statuto, il padre e il suo statuto, il figlio e il suo statuto, la madre e il suo statuto, non come figure naturali, naturalistiche, non come figure di una zoologia naturale, ma come statuti logici, statuti con cui intervengono nell’esperienza di ciascuno.
Si tratta di interrogarsi intorno a quale sia oggi, per esempio, l’idea comune di famiglia, quale sia la funzione ritenuta funzione sociale della famiglia e se questo corrisponda effettivamente allo statuto intellettuale della famiglia; che implicazioni vi siano tra l’idea di famiglia naturale, che può essere in vigore, e quel che accade nel dispositivo intellettuale.
Prima della fine dell’anno abbiamo fatto un corso sull’autorità e un altro sulla comunicazione nei quali la questione della famiglia emergeva come questione essenziale, oggi, per la difficoltà che comporta quanto allo statuto del padre, del figlio e della madre. Emergeva chiaramente come vi sia, rispetto all’autorità e alla responsabilità, una delega sempre crescente da parte dei genitori, talvolta anche degli insegnanti, che lascerebbero ai ragazzi la responsabilità e l’autorità di autodeterminarsi, di dirigere le loro scelte, il loro itinerario, come se ciascuno potesse educarsi da solo. Accade sempre più che i genitori chiedano ai ragazzi cosa vogliono fare, anziché dare un orientamento, dare un’indicazione che consenta di svolgere una fantasia intorno a ciò che ciascuno ritiene di potere o dovere fare, cosicché la prima fantasia che passa per la testa è assunta come la via da prendere. Questo comporta molti smarrimenti, molti disorientamenti, comporta un disagio che, anziché costituire ciò da cui procedere per giungere a una meta, si costituisce come modo dell’assenza di una meta, di un progetto, di una direzione, quindi di un programma.
Per ciascuno è soprattutto essenziale un programma di vita, un progetto di vita, un patto per la vita, senza il quale ognuno gira in tondo e non trova mai qualcosa che costituisca la via verso cui dirigersi, verso cui concludere il progetto e il programma della sua vita.
Senza progetto e senza programma la vita viene intesa come l’attesa della morte, si riduce a una sorta di zoologia, ad un vivere da animali. Che cosa occorre perché la vita non sia intesa naturalisticamente, ma costituisca l’itinerario verso la qualità, l’itinerario dove si compie il proprio progetto, quindi itinerario non in direzione della fine ma in direzione della qualità, del piacere, delle cose che si compiono? Questo non va da sé. Non va da sé soprattutto in assenza di interlocutore, in assenza cioè di un dispositivo dove la logica delle cose, la loro particolarità, il loro modo, la loro combinazione dia modo a una ricerca di svolgersi, dia modo, quindi, alla ricerca di cogliere quali sono le particolarità, le caratteristiche, le specificità di ciascuna cosa, come ciascuna cosa entra nella direzione che ciascuno prende, affinché non costituisca un girare in tondo, non costituisca il cerchio della morte.
Occorre, innanzitutto, partire da una constatazione che viene dalla pratica analitica, cioè che le cose non sono tali, non esistono ontologicamente, non sono già note, non sono immobili, ma vanno e vengono. Da dove vengono e dove vanno e come? E quante sono? E quali cose entrano nel mio dispositivo?
Come accade che io possa intendere, tra le tante cose, quante sono quelle che entrano nel mio itinerario e soprattutto quali? Questa è la caratteristica del parlare, quella cioè di incontrare la qualità delle cose. Parlando, ciascuna cosa differisce, entra in una combinazione differente e ha l’eventualità di qualificarsi. Questa è la questione del parlare nel dispositivo analitico, dove cioè ciascuna cosa, parlando, si qualifica, quindi espone alla sorpresa, alla meraviglia, all’invenzione, alla trovata. Parlare espone a uno scacco, allo scacco della conoscenza, allo scacco della prevedibilità, allo scacco della previsione e, quindi, anche allo scacco della catalogazione nonché della classificazione. E voi notate che la classificazione e la catalogazione sono invece due capisaldi di ogni disciplina, che si distingue per poter catalogare e classificare le cose che fanno parte della disciplina stessa.
Parlare fa anche lo scacco della disciplinarizzazione della parola stessa, di un sapere sulla parola, eppure questo è uno dei capisaldi del discorso occidentale, che si costituisce come discorso proprio in virtù di un presunto sapere sulla parola. Questa è la demarcazione rispetto al discorso occidentale, ossia rispetto a un sapere che si dà come causa, ossia rispetto a un’abolizione dell’effettuale. Il discorso occidentale tenta un’espulsione dell’effettualità, di ciò che si effettua sorprendentemente. Una disciplina si pone come tale perché costituisce un apparato contro il nuovo.
Questa che può sembrare una teorizzazione astratta la vediamo in questi giorni con molta evidenza a proposito della questione Di Bella, per esempio, questione che ha introdotto una variabile rispetto a ciò che il sapere disciplinare ha posto come acclarato in materia di cura dei tumori. C’è una novità? Niente da fare! La commissione non la riconosce. Questa novità può valere solamente se la commissione la riconosce. La commissione è a salvaguardia del sapere per cui è sorta, è commissione di vigilanza sul sapere, e questo non da oggi. Era la stessa commissione che valutava Giordano Bruno, Galileo, Campanella e via dicendo.
È sempre la commissione oncologica che deve valutare l’eresia, l’abilità, il principio stesso di un sapere che deve salvaguardare se stesso dalla novità. Non importa se la novità è valida o non valida, dev’essere sperimentata. La questione più assurda che si possa pensare è quella di fare una sperimentazione su un caso particolare. La sperimentazione nega il caso particolare, a favore di un caso generale, universale. Ma esiste il caso universale? Esiste il caso universale in materia di parola? Se non esiste in materia di parola, perché dovrebbe esistere in materia di tumore? Forse che il tumore è fuori dalla parola? La medicina è fuori dalla parola? La salute è fuori dalla parola? E allora di che medicina si tratta? Di che salute si tratta, se è situata fuori dalla parola? Di che animale si tratta, se è situato fuori dalla parola?
Di che uomo, di che corpo si tratta, se l’uomo, il corpo, la cura, il male vengono situati fuori dalla parola? E allora dove vengono situati? Nel discorso occidentale, cioè in un apparato fantastico, un apparato ideale, dove il male è ideale, la salute è ideale, l’uomo è ideale, deve cioè rispondere a dei requisiti generali, assolutamente fantastici in quanto naturali, secondo una naturalità fantastica, presunta, attribuita, ma che non procede dal caso particolare. Questa è la questione per cui il caso Di Bella ha suscitato tutto questo clamore, mica per la somatostatina in sé, sostanza che già è stata studiata in tutti i laboratori della terra e non è la cosa nuova. Nuovo è il criterio che Di Bella ha posto in evidenza, che non è il criterio di morte, ma il criterio della cura. È questo che contrasta con un’impostazione in atto. È il tabù stesso della morte che è stato messo in discussione dal caso Di Bella, non tanto il protocollo della cura. Se fosse stato per un protocollo, nessuno ne avrebbe parlato.
Noi abbiamo fatto recentemente un dibattito intitolato Quale cura per i tumori? a partire dai contributi di un ematologo francese e di uno italiano che hanno studiato l’uso del calore, ossia dell’ipertermia, nella cura dei tumori, e altre terapie cosiddette biologiche, cioè l’immunoterapia e l’ormonoterapia (biologiche in quanto non danno effetti collaterali come altre terapie fisiche e chimiche, quali le radiazioni o la chemioterapia). Se ne parla nel libro che abbiamo presentato, ed è una pratica che è in uso in molti centri. In Giappone, per esempio, va per la maggiore, così pure in altri stati del pianeta. In Italia si è cominciato da alcuni anni, non fa scalpore. È entrata in uso: alcuni la usano, alcuni non la usano; questioni di scuola, di cappelle, questioni teoretiche, ma non fa scalpore.
Come mai il caso Di Bella ha suscitato, invece, un grande scalpore? Una terapia, eventualmente un nuovo presidio per la cura, viene avversato. Incredibile! Anzi, paradossale. Non si è sempre detto che qualunque presidio nuovo è bene accolto? Invece questo no! Certamente è in gioco la questione degli interessi, il sistema degli affari fondato sulla morte, ma non tanto per quel che riguarda questo caso, quanto perché se venisse messo in discussione da un caso, sarebbe messo in discussione per ogni altro. E la morte, nel discorso occidentale, funziona come sistema da gestire, quindi come sistema degli affari. Le professioni si istituiscono sul sistema della morte, sia che si tratti del medico come pure dell’avvocato, del giudice, eccetera.
L’impostazione di Di Bella è diversa perché non pone come fine la guarigione, ossia l’estinzione del male; pone la questione della qualità della vita, quindi di una cura che si instauri per la qualità della vita, non per l’estinzione del male.
Qual è il motto salutista per eccellenza? “Operazione perfettamente riuscita, paziente deceduto”. Tecnica sopraffina; il fine è quello della riuscita artistica. Il paziente è deceduto? Beh, vabbè, prima o poi tutti dobbiamo morire, lo diceva già Aristotele. Invece no, qui c’è un altro principio che viene affermato, che è quello della cura in direzione della vita. Quindi non la cura per morire meglio, ma per vivere. C’è questa impostazione che ha creato scompiglio, perché ha messo in discussione il primato della morte, quindi il tabù stesso della morte, che è il tabù su cui si fondano le professioni e le relazioni sociali.
Qual è oggi il presupposto professionale per eccellenza? Salvare il cittadino dal male e dalla morte, intesi sia come malattia ma anche come pena o come colpa. Il sistema giudiziario e salvifico hanno una matrice comune che è quella della salvezza. Nessuno si occupa della salute. Ogni ordine, ogni professione si occupa della salvezza, di salvare il cittadino dal male, dalla malattia, dalla morte, quindi dalla minaccia incombente su ognuno della morte nelle sue varietà. Quali sono le minacce maggiormente in vigore? Minaccia di carcere nel sistema giudiziario, minaccia di male o di morte nel sistema salutista. Attorno a questa minaccia, e alla salvezza da questa minaccia, sorge il sistema salvifico come sistema degli affari, per cui è impensabile per il discorso occidentale abolire la minaccia che viene dal male e dalla morte nelle sue varianti.