- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
L’EDUCAZIONE E LA DIREZIONE
- L’educazione, l’ambiente, la civiltà
- L’educazione senza ostilità
- L’efficacia dell’insegnamento
- Il progetto e il programma di vita
- I dispositivi di direzione
L’educazione, l’ambiente, la civiltà
Ruggero Chinaglia Buonasera. Lei come si chiama?
Anna Borgato Mi chiamo Anna Borgato.
R.C. È la prima volta che viene a un corso di aggiornamento dell’associazione?
A.B. Sì. Volevo sapere cosa vuole dire ci¬frematica.
R.C. Lei dove lavora?
A.B. Lavoro in una scuola materna di Piove di Sacco. Spero che questo corso serva per la scuola materna.
R.C. Speriamo di sì. Lei lancia una bella sfida.
A.B. Nel senso che io lo faccio come corso di aggiornamento, per cui spero che serva nella mia professione.
R.C. La sua professione qual è?
A.B. Insegnante di scuola materna.
R.C. Qual è il suo compito?
A.B. Il mio compito è di educare i bam¬bini.
R.C. C’è insegnamento e educazione. Come lo trova questo compito?
A.B. Molto difficile e impegnativo.
R.C. Anche lei lavora a Piove di Sacco?
Pubblico Sì, qui siamo in tre da quella scuola.
R.C. Lei, come si chiama?
Luigina Giraldo Luigina.
R.C. Luigina il nome. E il cognome?
L.G. Guardi che non sono io quella che deve fare il corso, penso che sia lei quello che deve parlare. È meglio che dica il suo nome e chi è lei. A quanto pare, sembra che siamo qua per parlare del nostro lavoro e non di quello che deve fare lei.
R.C. Perché no?
L.G. Eh no, scusi, noi siamo qua per co¬noscere qualcosa del progetto, non solo quello che facciamo. Noi lo sappiamo quello che facciamo.
R.C. Non diamo per scontato che sappiamo tutto, perché talvolta facciamo delle cose, ma non sappiamo bene cosa e perché le facciamo, anche se le facciamo ciascun giorno. Apparentemente sap¬piamo, ma in realtà sappiamo qualcosa, non tutto e non proprio bene.
L.G. Il suo nome qual è?
R.C. Ruggero Chinaglia. Quindi, anche lei è la prima volta che interviene. Mentre, vicino a lei, sempre da Piove di Sacco, chi c’è?
Maria Odorizzi Maria Odorizzi.
R.C. La scuola in cui voi insegnate è la stessa? Bene. Lei, si chiama?
Ugo Riso Mi chiamo Ugo Riso. Insegno in una scuola per periti elettronici.
R.C. In un istituto tecnico?
U.R. Sì.
R.C. È una scuola superiore.
U.R. Sì.
R.C. La scuola dov’è?
U.R. Io lavoro all’I.T.I.S. di Mirano.
R.C. Mirano. In provincia di Venezia.
U.R. Sì.
R.C. Noi invece ci siamo già visti.
Roberto Canestrale Due volte.
R.C. Ben due volte! E lei?
Marzia Banci Marzia Banci.
R.C. Lei insegna?
M.B. All’istituto d’arte.
R.C. Istituto d’arte, ossia il “Selvatico”. Abbiamo tenuto un corso due anni fa al “Selvatico”: La scuola e il progetto di vita, un sabato e una domenica.
M.B. Io però non ho partecipato.
R.C. Infatti. Lei cosa insegna all’istituto d’arte?
M.B. Disegno, oreficeria, nella sezione di oreficeria.
R.C. Bene. Dietro, dicevamo che c’è?
R.Ca. Canestrale Roberto.
R.C. Dietro a Canestrale?
William Gasparini William Gasparini. […].
R.C. Perfetto. Va bene. Maria Teresa Renucci, che viene dalla scuola materna “Santi Angeli”. Avevamo già avuto l’anno scorso alcune insegnanti da quella scuola.
Lei come si chiama?
Anna Scarsi Anna Scarsi.
R.C. È lei che ha fatto la promozione?
A.S. Diciamo di sì. L’ho fatta per la scuola comunque.
R.C. Bene. Perfetto. Ci sono varie prove¬nienze e varie questioni.
Allora, in questo corso si tratta di una testimonianza, so-prattutto delle acquisizioni, degli elementi, delle indicazioni che provengono dalla pra¬tica e dall’esperienza psicanalitica, in par-ticolare dalla pratica dell’esperienza cifre¬matica, termine che indica la procedura, l’esperienza e la scienza della parola. Procedura nel senso della logica, esperienza nel senso di ciò che si produce e si effettua, scienza nel senso della novità, del nuovo che si produce nell’esperienza stessa, quindi scienza non come riferi-mento da cui partire, non come codice, come bagaglio, ma come la presa che la parola incontra nell’attuale.
È un’accezione di scienza certamente non usuale, non riferibile al discorso scientifico che si appoggia su capi¬saldi ben definiti per la riproducibilità dell’esperimento. Qui si tratta di un’esperienza assolutamente non ripro¬ducibile come è ciascun atto di parola. In questo sta la sua difficoltà e la sua originarietà. In questo sta l’esigenza di formazione, di ricerca, di itinerario come itinerario in¬tellettuale, in modo da acquisire quegli elementi che non possono venire, per così dire, in¬segnati o imparati per apprendimento.
È questa una caratteristica della pratica e dell’esperienza analitica, dove ciascuna questione esige di venire attraversata e non di conformarsi a uno schema per una applicazione generica o generale. Si può già qui intravedere un primo connotato della questione educazione e della direzione, che indicano l’impossibilità di potere esercitare un con¬trollo, un dominio, una padronanza sulla parola, sui gesti, sugli atti, sui pen¬sieri e sui modi con cui ciascuna cosa si fa e giunge a compimento. L’educazione e la direzione indicano che non c’è la possibilità di esercitare un controllo, un dominio e una padronanza sulle cose.
Da que¬sto primo connotato dell’educazione si può cominciare a porre la questione dello statuto dell’educatore, dunque dello statuto dell’insegnante come chi, in prima istanza, ha da fare un itinerario intellettuale, ha da attraversare de¬terminate problematiche, que¬stioni e difficoltà per fornire, di volta in volta, caso per caso, le indicazioni che sono indispensabili all’itinerario di ciascuno, bambino, ragazzo, adolescente che sia. Per fornire queste indicazioni occorre che l’insegnante, l’educatore, si trovi alla punta delle questioni stesse, ossia che non le tratti come questioni gene¬riche, banali o facili, come questioni di tutti.
Un dato che emerge dall’esperienza clinica e analitica è che non c’è chi sia tale, in parti¬colare che sia tale per nascita, per censo, per predisposizione o per predesti¬nazione. Mentre capita molte volte di sentire affermare, da parte di alcuni insegnanti, che un ragazzo sarebbe predisposto verso quella determinata materia, quella data scuola o tipo di corso di studi. Predisposto! Ora, l’idea della predisposizione da dove viene?
Giustamente, può accadere che, vivendo in una certa famiglia, in un certo contesto, fa¬cendo alcune cose, ci sia un orientamento, una direzione verso una cosa piuttosto che verso un’altra, che vi sia un’identificazione verso una determinata istanza piuttosto che un’altra, ma questo non comporta la predisposizione che è parente stretta della predestinazione. È molto im¬pegnativo perciò, per un insegnante, nei vari momenti, nei vari gradi della scuola, potere assegnare un indirizzo, un orienta¬mento a un ragazzo, magari per il solo fatto che va bene nella sua materia.
Capita spesso che, siccome un ragazzo con un insegnante lavora bene, ha dei buoni risultati, nelle sue note caratteristiche viene detto “È predisposto per…”, “Ha una predisposi¬zione per…”, da cui si consiglia una certa scuola. Ma, molto spesso, poi quella scuola risulta fallimentare perché non c’era nes¬suna predisposizione.
Ciascuno funziona sulla base di un progetto e di un programma che il progetto esige. E l’educazione è proprio ciò che mette in discussione, mette in questione la credenza nella predisposizione! La predestinazione è la credenza che vi sia qualcosa di innato in qualcuno. Ma non c’è nulla di innato, perciò importa l’educazione. Se ci fosse l’innatismo l’educazione sarebbe inutile, assurda, perché tanto c’è già il carattere innato. Invece, è proprio perché non c’è che l’educa¬zione è essenziale.
Cosa vuole dire edu¬care? Educare a cosa? La sfida dell’e-ducazione è educare alla qualità, e educare alla qualità comporta l’educazione come missione impossibile, come missione di cui non se ne sa mai abbastanza, come missione che non può appoggiarsi a uno schema o a un modello. In questo senso Freud, a suo modo e nel suo tempo, poneva l’educazione tra i tre mestieri impossibili: educare, governare e psicanalizzare. Impossibili nel senso che non procedono dalla possibilità, dalla fa¬cilità, da un’idea propria delle cose, perché ciò equivarrebbe a assicurarsi il falli-mento. Educare alla qualità com¬porta una certa accezione di qualità.
Cosa vuole dire qualità, educare alla qualità? Non che qualcosa è meglio di un’altra! Qualità è un assoluto, nel senso che la qualità è ciò che risponde allo speci¬fico di un caso, per cui esclude il possibili¬smo. La qualità, e in particolare l’esigenza della qualità che la parola ha, esi¬genza che sta nella logica stessa della parola, comporta un altro modo di ragionare, di fare, di pen¬sare. Esclude il soggettivismo, intendendo per soggettivismo l’idea personale che io posso avere di qualcosa. L’approdo alla qualità non è un approdo facile, banale, scontato. Quale sia la qua¬lità, non è dato sapere prima.
Qual è la qualità di una domanda, la qualità di un’i¬stanza, la qualità di una ricerca? Non lo sappiamo se non al compimento. Non sap¬piamo prima dove si diriga la domanda, l’esigenza di un bambino, di un ragazzo, di un adolescente, di un adulto. Io ho modo di constatare innume¬revoli volte che, per ciascuno, l’esigenza essenziale è propriamente la qualità. Mentre, dire che frequentemente ci sia modo, per chi avverte questa esi¬genza, di trovare dispositivi che orientino, indirizzino, favoriscano l’approdo alla qualità, questo no. Il più delle volte mi è capitato di constatare che, a fronte di un’esigenza di qualità, quello che viene propo¬sto sono dispositivi conformisti, che propongono un’idea comune di bene, di bene dell’Altro e che, molto spesso, questa idea comune di bene non corrisponde affatto alla qualità, a un’esigenza di qualità, a ciò verso cui la domanda si rivolge. Perché è ciò che occorre considerare in modo attento: la domanda non si rivolge al bene, si rivolge alla qualità!
La domanda di ciascuno che si rivolge all’educatore, all’inse-gnante, al medico, ai genitori, a un amico, a un parente, per un’informazione, per un’indicazione, per un orientamento, non si rivolge al bene ma alla qualità. Novantanove volte su cento viene inteso che si rivolge al bene. Quindi, la risposta è in direzione del bene, del bene presunto. Bene per lo più inteso come bene comune, quello che normalmente viene ri¬tenuto il bene e verso cui ci si orienta. Ecco, molto spesso così comin¬ciano i guai, perché il bene non va senza il male!
L’orienta¬mento verso il bene è, in realtà, un orienta¬mento verso l’anfibologia, verso una du¬plice possibilità, possibilità di bene o di male. E lì comincia la paura: “Come posso fare? Perché posso fare bene, ma posso fare anche male”. Come mi può andare vuoi l’esame, l’interrogazione o qua¬lunque prova che ciascuno ha dinanzi a sé? “Può andarmi bene o può andarmi male”! È questa la base della paura. Per cui quella che sembra un’educazione ben orientata come educazione al bene, diventa educa¬zione alla paura.
Pubblico […].
R.C. Così presto! Pensavo di arrivarci verso la terza lezione, invece già subito.
L.G. […]. Per esempio, la ma¬niera con cui ci si ri¬volge a un bambino, e un bambino nostro, che non ha ancora un’educazione. Quindi è una cosa molto impor¬tante. E per queste cose ci si chiede “Faccio bene adesso?”.
Poi, c’è un’altra cosa difficile, cioè l’immediatezza nel rispondere e nel fare. È anche difficile.
R.C. Non è “anche difficile”, è difficile, è solo difficile, e occorre sia difficile! Chi pensasse che la cosa può diventare fa¬cile, è fregato. O ciascuno di noi parte dall’assoluta convinzione che si trova in un passo difficile, oppure è fregato, nel senso che la sua ricerca viene meno e intel¬lettualmente è finito. Che messaggio può dare, allora? Un gesto, un atto, una parola, un intervento può dare un messaggio effet¬tivo verso la qualità, so¬lamente se parte dalla constatazione che mai può essere facile, mai deve essere banale e mai seguire una consuetudine.
L.G. Pensi anche a un tuo equilibrio.
R.C. Sì, ma l’equilibrio…
L.G. Personale intendo, della persona che si rivolge al bambino.
R.C. L’equilibrio non è una nozione sta¬tica, contrariamente a quello che può sem¬brare. La definizione scientifica di equilibrio dice che è uno stato di quiete. Nel nostro caso, quello che lei chiama equilibrio è la tranquillità da cui può venire un’indicazione, quindi non è uno stato di quiete, ma è un’attività in¬tel¬lettuale incessante, altrimenti lei farà un intervento assolutamente generico e il suo messaggio non sarà specifico, non terrà conto del caso particolare.
È facile che ciò accada, perché ci tro¬viamo in un’epoca che va in questa dire¬zione, un’epoca assolutamente conformista, televisiva, dove il messaggio è la facilità, l’im¬mediatezza, il tutto e subito, da cui questo tipo di impostazione. È contro questa impostazione che occorre andare, perché l’educazione sta dove non c’è né il conformismo, né l’anti¬conformismo, perché sono la stessa cosa. Conformismo e anticonformismo sono due facce della stessa medaglia, due facce del letto di Procuste possiamo dire. Sa-pete quel tal Procuste?
C’era un tale, anticamente in Grecia, Procu¬ste, che aveva una casa molto accogliente e ospitava i viandanti. A chi passava di là, lui diceva: “Prego, entrate!”, e i viandanti venivano fatti accomodare. Lui aveva un letto molto accogliente, un letto standard, e il vian¬dante vi veniva fatto accomodare e vi veniva conformato: se era troppo lungo, veniva accorciato, se era troppo corto, veniva allungato quel che bastava per essere conforme alla misura del letto. Così di¬ventava un uomo normale, perfetto, con-forme ai caratteri e alle misure della vera normalità. È un educatore Pro¬custe? No! È un conformatore!
Allora, c’è differenza fra l’educatore e il conformatore, nonché il conformista. In un caso è facile, un bel colpo di mannaia e la misura è fatta, oppure una stiracchiata e si arriva alla misura giusta. Nell’altro caso è molto più difficile, perché non si tratta di assestare nessun colpo, ma di se¬guire un itinerario che conduca alla qualità per via di intellettualità, non per via di ghigliottina o di allungamenti.
M.B. Ho sentito dire: “Come io arrivo faccio lezione, cioè dico quello che so e l’altro mi ascolta”. A me pare che debba essere il contrario, voglio dire, l’educazione avviene se dagli studenti tu trai delle tracce e a queste ne dai seguito. Perché, se educare vuole dire arrivare, fare una lezione e andare via, allora di tutti gli insegnanti nessuno è educatore, perché avviene una comunicazione gene¬rale, soggettiva e oggettiva, che diventa così generale che tutte le scuole sono dise¬ducative. Perché educare vuole dire recepire ciò che la classe, questo specifico che stava dicendo lei un po’ prima, una classe di venti persone, li cono¬sco, so come sono, quindi do il sette, ri¬passo il compito, cioè una maniera diversa da come viene intesa l’educazione che l’insegnante comunica, interroga a seconda […].
Qui dico educazione – quanto meno an¬drebbe un attimo sgrezzato questo signi¬ficato – che non è Tizio o Caio che fa lezione. Io faccio così.
R.C. Bravissima. L’alimento dell’educa¬zione viene chiaramente da ciò che si produce nel dispositivo. L’insegnante che si limita a trasmettere i dati certamente non assolve alla sua missione, soprattutto in un periodo come l’attuale dove le possibilità di acquisire informazioni e dati sono moltissime anche fuori dalla scuola: televisioni, giornali, riviste, compu¬ters, CD-ROM, documentari. Lo specifico della scuola non è nella trasmis-sione dei dati, ma è propriamente nell’in¬staurare un metodo, un criterio, un modo con cui i dati possono venire impiegati.
Ho constatato che ci sono ra¬gazzi che arrivano al liceo e non hanno ancora acquisito un modo per lo studio, un modo per prepararsi all’incontro con l’in¬segnante nel momento in cui ci sia una verifica o un’interrogazione. Arri¬vano al liceo e non c’è l’educazione all’incontro che viene inteso come mo¬mento traumatico per via della veri¬fica – quelle che adesso vengono chiamate verifiche, neanche più interrogazioni – o di un compito, e non vanno al di là del momento successivo all’incontro.
L.G. Se guardiamo bene, i bambini sono già inquadrati e hanno bisogno di es¬sere stimolati. Ci sono bambini di tre anni, ma anche di cinque, sei, sette anni che ormai sono così inquadrati in quella determinata maniera che vedono solo quella.
M.O. Però noi, come insegnanti, e qua siamo quasi tutti insegnanti, accogliamo degli esseri di¬versi da noi in seconda istanza, cioè sono già frutto di una famiglia e di un’educa¬zione familiare. Fino a che punto noi pos¬siamo intrometterci? Noi abbiamo la nostra idea, come si diceva prima, di bene e di qualità, rivolta in bene e in qualità. Naturalmente la famiglia, il più delle volte, ha una sua idea di qualità o di bene. Noi ci inseriamo, a volte ci intromettiamo anche con forza, imponendo un pochino quella che è la nostra ideologia, la no¬stra idea di bene su quel bambino. Fino a che punto questo può essere giusto? Mi è venuto in mente questo ora, ma è da tanto che mi pongo questa domanda. Come possiamo noi sapere già? Noi tendiamo a una qualità, va bene, però, se si scontra con la qualità presupposta della famiglia, cosa si fa?
M.O. La seconda agenzia educativa, non sei la prima.
R.C. E neanche l’unica!
M.O. E neanche l’unica, però siamo quelli che si giostrano di più.
R.C. […]. Conforme a un’ideologia o in opposizione a un’ideologia, ma dare un contributo che vada in direzione della qua¬lità, di un messaggio in quella direzione, perché non c’è chi sia imbecille, cioè non in grado di valutare. Se non ha elementi, su che cosa può valutare? È importante che ci siano dati, elementi, quantità, perché senza quantità non c’è nemmeno la qualità. La qualità è un caso particolare della quantità, ma senza quantità che qualità può esserci? La qualità ideale, ma allora c’è il codice, c’è l’ideologia. Bisogna pur ammettere che vi sia la quantità, senza la quantità precludiamo anche la qualità.
Non credo, perciò, che quello di far sì che qualcosa si aggiunga sia il problema, anzi. La questione dell’educazione è proprio che vi sia aggiunta. Non si tratta mai di togliere, sem¬pre di aggiungere, di aggiungere qualcosa a ciò che c’è già. Togliere può essere problematico, perché qualcosa viene tolto come riferimento al male, come riferimento a qualcosa da evi¬tare, e quindi introduce la paura. Aggiungere, invece, non compromette nulla, anzi dà una chance in più.
Quante volte si sente dire “Ah, mi raccomando non stancarti, non affaticarti, non fare troppe cose perché potresti esaurirti”? Terribile! E ciò temendo che possa capitare effettivamente che x si esaurisca, si affatichi. Ma non c’è modo che si produca stanchezza intellettuale. L’intelletto è qualcosa che non può stancarsi. La stanchezza è una pena assegnata da una credenza nel male che diventa malattia, stanchezza mentale. La mentalità è già una stanchezza, quello sì.
Ecco, si tratta per ciascuno di fare in modo che ciascuna cosa entri nel processo di qualifica, si tratta di non impedirlo mai. L’insegnante, a un certo punto, si scopre a chiedere “Faccio bene?”. Invece di chiedersi “Faccio bene o faccio male?”, l’insegnante si deve chiedere “Quello che faccio adesso, impedisce qualcosa? È nella direzione della qualificazione o di un contenimento? È in direzione dell’aggiunta o del toglimento?”.
Questa è già una valutazione intorno a ciò che sta facendo, intorno alla posizione in cui si trova, se è di promozione o di contenimento, se è posizione di identificazione o di maternage.
Pubblico Di?
R.C. Maternage, di protezionismo, di protezione. Perché chi si sente proteggere ha subito modo di pensarsi debole, o inca¬pace, o malato e si adegua subito. Subito! Si adegua immediatamente. Il bambino che si sente proteggere, ma anche l’adole¬scente, l’adulto, c’è sempre modo di tro¬vare qualcuno di materno. Sempre.
M.B. Scusi, ma lo pensa anche chi lo fa, anche chi lo protegge lo sente inferiore, in¬capace, altrimenti non lo proteggerebbe.
R.C. Può darsi.
M.B. Io penso senz’altro.
R.C. A maggior ragione, quindi, no?
M.B. È quel fin di bene che fa male.
R.C. È quel bene mortale “Per il suo bene”, “Poverino, da solo non ce la fa, bi¬sogna proteggerlo”, “Poverino”. È già una pugnalata quel poverino, uno è stron¬cato completamente. Tre pugnalate, già se sopravvive è bravo, bisogna proprio rico¬noscerlo. “Poverino di qua, poverino là, attento lì, attento là”. E quindi quello dice “Ma allora io sono proprio cretino!”. Il messaggio viene tra le ri¬ghe, tra le pieghe, non è qualcosa che pro¬cede così esplicitamente. Magari esplicita¬mente uno dice una cosa, ma ovviamente il messaggio è un altro.
Cecilia Maurantonio Quando lei diceva aggiungere…
R.C. Aggiungere. Cosa vuole dire aggiun¬gere?
C.M. Bisognerebbe intendere cosa vuole dire promuovere.
R.C. Aggiungere, anche.
C.M. […] Se io dico una cosa differente da quella…
R.C. Benissimo, è una cosa differente da quella detta nel passato.
C.M. L’alunno, il ragazzo […] si fa con¬fusione.
R.C. Ma quale confusione? Farà una va¬lutazione! Quale confusione. Altrimenti uno deve sentire solo la stessa cosa? Allora diventa proprio un cretino!
C.M. Lei ha detto “Farà una valuta¬zione”. Probabilmente questo enunciato “Si fa confusione” è già un pre¬giudizio sull’intelligenza.
R.C. È già un indice di dove si situa quel¬l’insegnante.
C.M. Anche rispetto alla questione del¬l’età, cioè l’età diviene misura dell’intelli¬genza.
R.C. Misura dell’intelligenza, certo.
Lucio Panizzo Lei, prima aveva detto che la paura deriva da un orientamento an¬fibologico, […] quindi una questione duale che introduce la paura. Però, spesso viene chiamata nello stesso modo anche la paura per una cosa difficile da fare. Invece, probabilmente è un ter¬mine che non si addice verso la difficoltà o verso l’itinerario. E spesso, però, viene scambiata…
R.C. Certo. Giustissimo. Questo è molto importante.
L.P. Nel senso che non è anfibologico. “Questa cosa è difficile”. Uno dice “Madonna, è difficile, allora non la af¬fronto”, ma non è paura questa?
R.C. Certo, è protezionismo, può chiamarlo maternage, maternaggio. L’idea che oc¬corre porre al riparo il figlio, l’alunno, il bambino, l’adolescente, questo x che ha una difficoltà, induce l’idea che la difficoltà sia qualcosa di negativo, che la difficoltà sia un segno del male. “Poverino! Fa così fatica! È così difficile per lui! Non è per lui! Quella cosa non è per lui, perché è troppo impegnativa, gli ri¬sulta difficile, troppo difficile!”. Allora, questo “poverino” dice “Caspita, se io trovo una cosa difficile, vuole dire che qual¬cuno che me l’ha messa tra i piedi, e non dovrebbe”. Da cui l’idea che se c’è una difficoltà è opera di qual¬cuno, è un segno o del destino avverso o della malevolenza di qualcuno, per prima cosa. Poi, che non dovrebbe esserci nes¬suna difficoltà e, quindi, se incontro la difficoltà, me la devo prendere con qual¬cuno, perché è colpa dei genitori, dell’in¬segnante, della società o di chissà che cosa, ma c’è comunque un referente nega¬tivo con cui prendersela e che è la fonte della recriminazione e della rivendica¬zione. Inoltre, a fronte della difficoltà, chi vi s’imbatte non si appresta per affrontarla. Non si appresta perché è una cosa ingiusta, perché non dovrebbe esserci e perché è troppo debole. Così, prende avvio tutta una mitologia del negativo o una mitologia negativa della difficoltà, che viene eti¬chettata in vario modo: come male, come malattia, come incapacità, come forma soggettiva di male.
M.B. Bisognerebbe che i professori di matematica facessero una le¬zione più specifica per dire questo, perché ogni problema porta in sé la soluzione, senza cercare la soluzione di quel problema in un altro pro¬blema. Se devo trovare la soluzione della mamma che ha dieci uova, ne rompe due per strada, non posso calcolare l’area del rombo; così nella vita. Voglio dire, se si dicesse ai ragazzi che ogni volta che incon¬trano un problema e l’analizzano, lì dentro c’è sicuramente la soluzione, allora la soluzione non è nella droga, perché quello è un altro problema. Non posso risolvere il problema delle due uova rotte andandolo a cercare dentro il problema dell’area del rombo. Questa è una cosa semplicissima che si può applicare tutti i giorni nella vita. È estremamente semplice, è pratica, è adesso e subito, invece di pensare che i problemi siano solo problemi. I problemi portano la soluzione in se stessi. Quindi, questo andrebbe meglio specificato al ragazzo di tutte le età. Questo è l’inizio e la fine della problematicità, altrimenti si cerca altrove la soluzione di quella cosa. Credo di essere stata abbastanza chiara.
R.C. Addirittura, noi possiamo spingerci più avanti, nel senso che non è affatto scontato che, posto un problema, ci sia la soluzione. Non va da sé.
M.B. Per sé no, ma la soluzione c’è sem¬pre. Anche la soluzione della vita, che è quella data dall’aborto. È quello il progetto, è l’ultimo atto del progetto.
R.C. Ecco, allora lei ha posto una que¬stione precisa, la questione logica. Presupporre la soluzione è un modo per ri¬badire la soluzione finale. Noi abbiamo avuto un esempio del pro¬getto della soluzione finale. Abbiamo avuto un esempio nel Novecento di ciò che ve¬niva chiamata la “soluzione finale”. Ha presente Hitler e l’Olocausto? È proprio questa la questione. Lei stessa lo dice “In vista di un progetto la cui soluzione finale è la morte”!
M.B. Però non volevo essere così dram¬matica! Forse non mi sono bene espressa.
R.C. No, si è espressa benis¬simo! La questione dell’educazione è pro¬prio di non produrre soggetti pre¬de¬stinati alla morte, perché questo è un altro alimento della paura. Ora, se il mes¬saggio è che ogni cosa ha la solu¬zione perché la vita ha la sua solu¬zione nella morte, occorre elaborare un po’ il messaggio.
M.B. Sì, comunque, non arrivavo a que¬sto.
R.C. No, però ne è la conseguenza estrema, che è quella che ci interessa perché le conseguenze intermedie sono solo rappre-sentazioni di quella estrema, e la paura viene da quella estrema, che trova ali¬mento in ciascuna di quelle intermedie, perché rimandano a quella. Per cui le occasioni di paura si moltiplicano.
Il riferimento è sempre il riferimento alla morte. Tra l’altro, l’ideologia della soluzione porta anche allo psicofarmaco come facile soluzione al disagio. Da dove viene il fatto che per i giovani è così facile andare verso la droga o verso lo psicofarmaco? Viene dal fatto che ci dev’es¬sere una soluzione, e dato che io non so, non posso, non sono in grado di trovarla, allora viene dalla sostanza, che ci deve essere. Forse così è detto in modo rapido, frettoloso, però è un’altra questione importante con cui si tratta di fare il conto. Perché, dire che c’è la soluzione è dire qualcosa che noi, in realtà, non sappiamo. Assegnare la soluzione pre¬ventivamente, è assegnare la morte, l’unica soluzione di cui l’uomo presume di avere certezza, di cui cerca la conoscenza per farne l’economia.
M.B. Questo vuole dire che ha temuto di fare tutto quello che c’era da fare in¬torno […], la metto così la parola. Io faccio il progetto di una casa, il progetto si compie quando io ho disegnato l’ultimo elemento, è finita, cioè il progetto vuole dire fine. Tutto quello che c’è prima sono altri passaggi, per cui il progetto in sé contiene la parola fine.
R.C. No.
M.B. Ho compiuto, nel senso che ho compiuto quello di cui stiamo trattando, l’ho portato a termine.
R.C. Bisogna distinguere tra il compi¬mento e la fine.
M.B. Allora volevo dire, appunto, che fine non è sempre in questo concetto di morte. La mia vita, avrò finito il mio progetto di vita nel giorno in cui morirò, perché avrò prima tutti questi altri intervalli di vita che mi faranno […]. Però, nella vita, inizio e finisco molte altre cose, voglio dire. Non è che faccio tutto contempora¬neamente. I problemi e le soluzioni li intendevo interni a questi intervalli. Tante volte, nella vita come nelle cose, gli inter¬valli vengono un po’ lasciati così e poi, in¬vece, gli intervalli sono anni. È come quando si mette il seme e si pensa al frutto; ma prima che nasca la pianta, prima che arrivi il frutto, è un tempo così lungo che l’intervallo diventa un elemento impor¬tante.
La soluzione di cui io parlo […], dico che in ogni cosa che si affronta la so¬luzione c’è, nel senso di portare a compi¬mento la cosa che io tratto, senza fuoriuscire da questo e andare a pensare a un altro tema, pensando di portare a termine quello che stavo trattando, ecco, queste continue fuo¬riuscite. La questione che lei ha aperto, quella della droga per i ragazzi, non è la soluzione della loro carenza affettiva, è una panacea. Si appoggiano a questo, ma non è la soluzione. È per questo che è ne¬gativa. Se fosse la soluzione… È per quello che io dissento da questo, ma adesso non so nemmeno quello che voglio dire io.
Il fatto di portare a una fine, non vuole dire che quella era la soluzione. La solu¬zione vuole dire portare a compimento il progetto per il quale io mi ero predispo¬sto o stavo facendo. Non so, adesso non ho un linguaggio così raffinato. Allora, a fronte di questo, uso la parola “C’è sempre la soluzione al problema”, però la solu¬zione dev’essere di quel problema. Quando io ne antepongo o ne pospongo un’altra, facendola passare per soluzione ma non lo è, per esempio la droga per i ragazzi, quella non la posso chiamare soluzione, oppure lo psicofarmaco non è la soluzione […].
R.C. Chiamiamola tensione. Della ten¬sione non c’è conoscenza linguistica, c’è tensione, cioè tensione verso la qualità, tendenza verso la qualità, verso la precisione. Questa è la tensione linguistica: tendenza verso la precisione, verso la qualità. La qualità è questa precisione, perché si specifica il quale, quale cosa, qual è. Fra tante, qual è quella che soddisfa questo caso? Ce n’è una, mica tante, una, unicum, la cifra di quel caso. Questa è la tensione linguistica verso la precisione. Non c’entra niente la conoscenza, anzi, la conoscenza toglie; se ci fosse, la conoscenza toglie¬rebbe la tensione linguistica. Invece, la ten¬sione linguistica c’è per via di ri¬cerca, per questa spinta verso la precisione.
Di ciò occorre tenere conto nell’insegnamento, nella comunica-zione, nell’interlocuzione, in ciascun caso, perché non è irrilevante e indifferente rispetto al conseguimento della precisione stessa per chi parla e per chi ode. Lei dice giustamente “La droga non è una soluzione positiva”. Certo, è una so¬luzione negativa. Ma è soluzione comunque! Rientra nell’idea della soluzione, nell’alterna¬tiva della soluzione: può essere buona o cattiva. Siamo già presi nella soluzione e, poi, questa soluzione può essere buona o può essere cattiva. Ma è comunque cattiva, perché non è più precisione se è presa nell’anfibologia del buono e del cat¬tivo. È già in deroga alla precisione. La precisione resterà, per così dire, dietro questa anfibologia e risulterà impedita dall’idea di bene o di male: bene che devo conseguire o male che devo evitare, per cui, anziché rivolgermi al processo di qua¬lificazione, mi impegnerò molto nel pro¬cesso di evitamento, a scapito del conse¬guimento della qualità, a scapito del mio itinerario e della ricerca, a scapito dell’efficacia. A scapito!
Allora, non sappiamo nulla della solu¬zione, non sappiamo nemmeno se c’è. Abbiamo un problema, per cui possiamo solo dire che occorre affrontarlo e per affrontarlo bisogna attrezzarsi. Questa attrezzatura va cercata e trovata, perché non è innata, né viene fornita gratuitamente da un ente so¬vrannaturale. È un’attrezzatura logica. Ciascuno deve munirsi dei mezzi e degli strumenti che ci sono. Ovviamente ci sono, ma ciò esige uno sforzo, lo sforzo intellettuale. Occorre che si instaurino quei dispositivi per cui lo sforzo giunga all’approdo, al compimento, che non è la morte, non è la fine; è compimento!
Poi, accanto a quel problema se ne troverà un altro, sorgeranno altri dispositivi e il progetto prosegue. Perché non possiamo partire dall’idea che il progetto è finito e che un giorno arriverà la morte e il progetto sarà terminato. Ci siamo già asse¬gnati la paralisi, la paura, la paura di que¬sto momento. È questo il dramma. La drammatizzazione, che viene introdotta in varie circostanze, parte da lì. Se noi siamo soggetti a quest’idea, non c’è più la spinta, non c’è più il fare.
M.B. La paura conosce la soluzione, per questo, avendo paura della soluzione, non ci si muove per cercarla a sua volta.
R.C. Presumendo la certezza della solu¬zione, presume pure la necessità di avere paura del cerchio, del cerchio della morte. Per ciò, siamo propriamente nel nucleo della questione.
M.B. Mentre lei dice “La paura toglie la tensione”, perché estingue…
R.C. Perché è come se avesse già trovato.
M.B. Chi cerca trova.
R.C. Ma trova l’ipostasi, cioè trova la conferma. Trova la conferma dell’ipostasi, cioè trova sempre il cerchio.
C.M. L’alternativa di bene o male […], c’è una procedura differente che può incontrarsi, per cui anche…
R.C. Sì, perché, a un certo punto, la neces¬sità di soluzione può configurarsi come necessità di salvezza, salvezza dal male e dalla morte.
C.M. Se adesso può dire ciò è perché c’è una procedura per cui è possibile consta¬tare dove si svolge in termini di nega¬zione di ciò che non va, e promet¬tendosi d’incontrare il positivo, ma c’è una procedura dove immediatamente… Non si possono escludere le cose non necessarie.
R.C. Già dire così, siamo nella gnosi.
C.M. Dire che la credenza non è necessa¬ria è gnostico?
R.C. Analizziamo questo detto “Non possiamo escludere le cose non necessa¬rie”. Non c’è niente di non necessario. Quali sono le cose non necessarie?
C.M. Non possiamo escludere?
R.C. Le cose non necessarie. Dice “Non possiamo escludere le cose non necessa¬rie”. Lei non sa quali sono le cose non ne¬cessarie, fa come se lo sapesse, come se ci fosse la necessità di escludere le cose non necessarie. Ma che cosa non è necessario? Cosa non è necessario al suo dispositivo, al dispositivo di qualità? Talvolta, accade vi sia chi presume di sapere quello che può ser¬vire o che non può servire, e assegna “Questo ti serve e questo non ti serve” sulla base di un’idea di comportamento e non della tensione lingui¬stica.
Alessio Menegazzo Se non è necessario, non c’è bisogno di escluderlo.
R.C. Precisissimo, infatti. È proprio di una semplicità assoluta. È così, in effetti: se non sono necessarie, non bisogna esclu¬derle. Ovviamente, ogni esclusione toglie qualcosa di necessario. Ogni esclusione che viene attuata al fine di evitare qual¬cosa toglie qualcosa che è necessario. Perché quel che non è necessario non entra nel dispositivo, perché non è necessario, giustamente. Ci sono altre domande? Lei aveva una mano alzata prima.
Marina Nives Pojani No, un dito alzato.
R.C. Un dito alzato, ecco, mi pareva in¬fatti.
M.N.P. A proposito della soluzione. La signorina diceva che la soluzione sta […], però, che differenza c’è tra soluzione e assoluzione?
R.C. Sta facendo confusione.
M.N.P. Pare proprio di sì.
R.C. Quindi vorrebbe una mano, un aiuto? Vediamo di dargliela. Vediamo se ci sono altre cose. Lei, prego, stava di-cendo?
L.G. Facciamo osservazioni su di lei. Glielo dirò dopo.
R.C. Io non lo voglio sapere in privato.
L.G. E allora va bene, non gliela dirò mai! Cioè, è un’osservazione che stavo fa¬cendo, ma non è una cosa che volevo dire in pubblico.
R.C. Non è ancora elaborata. Lasciamo che lei la elabori in uno statuto di qualità, per cui lei non deve rammaricarsi […] di definirla la lingua dei litiganti, che è la lin¬gua del rumore, del gergo, del luogo comune, lingua senza tensione. Mai! Mai può farlo lo psicanalista e mai dovrebbe farlo l’inse¬gnante. È una questione intellettuale. Dirò di più, mai dovrebbe farlo ciascuno, cia¬scuno che non debba poi rammaricarsi di sé e quindi fare scontare a altri questo rammarico. Ma è così che capita. Il proprio rammarico ognuno lo fa scontare al suo vicino, con le recriminazioni, le rivendica¬zioni, i pettegolezzi e via discorrendo. Ma non è il suo caso, dico in generale.
L.G. […] e invece ci vuole l’autocon¬trollo.
R.C. No, ci vuole la tensione linguistica, cioè l’istanza della cifra, l’istanza della qualità, perché non si tratta di scagliare cose belle o brutte addosso a nessuno. Per la propria soddisfazione si tratta di giun¬gere lungo la tensione linguistica al piacere di vivere. Non qualunque cosa dà piacere dicendola. Il piacere sta proprio alla punta della qualità. Ci sono insegnanti che talvolta dicono “Domani ho quattro, cin¬que ore di lezione. Mamma mia che dramma, che noia, che patema, che schifo”. Viene da chiedersi che cosa di¬cono, qual è la loro ricerca, la loro tensione.
M.G. È in aiuto a se stesso chi dice così. Si dichiara.
R.C. Certo. Non è l’insegnamento che è noioso, è il modo con cui viene fatto. Ma è attorno al modo che si tratta di fare un lavoro.
Mi pare che ci fosse la mano alzata della nostra amica. Ci può dire il suo nome?
Anna Scarsi Mi chiamo Anna Scarsi. Nulla è innato, ha detto, in ciascuna per¬sona. Però, da ciò che ho studiato, è stato detto che ogni persona porta ap¬presso un bagaglio. Faccio l’esempio di Mozart. Mozart a cinque anni sapeva già suonare, cioè sapeva già suonare il piano¬forte. Allora io dico, in questo caso, non è valida questa affermazione o si riferisce solo nell’ambito dell’educazione? Perché anche nell’ambito dell’educazione posso azzeccare, cioè ci sono delle maestre che sanno educare bene e ci sono quelle che non sanno educare bene, se vogliamo, prendiamo un po’ la massa del nostro campo. Allora non è, secondo me, molto esatto questo, perché ogni persona ha delle qualità che gli sono state tramandate, o no? Quindi, non è solo una questione di educa¬zione. A cinque anni un bambino può uscire spontaneamente con delle qualità e ti accorgi che le ha. Non solo quelle del disegno, o del sapere espri¬mersi, o del sapere collaborare, oppure tanti altri atteggiamenti o capacità che possono… È difficile, un po’ l’ambiente, però non solo l’ambiente, sicuramente c’è qualcosa di innato. Se ci sono stati i geni nell’ambito della musica, oppure con Leonardo Da Vinci, perché non dev’esserci anche nell’ambito dell’educazione e in qualsiasi esperienza che uno possa fare? Per esempio, c’è chi si trova a scrivere perché si sente di scrivere, e magari lo fa in maniera molto distinta e geniale. In ogni campo c’è il suo genio.
R.C. Quindi si tratta di…
A.S. Capire, soprattutto.
R.C. Non impedire ciò che può compiersi!
A.S. Se Mozart l’avessero limitato, sup¬poniamo, avrebbe continuato a farlo o no?
R.C. Se, per esempio, i familiari gli avessero detto: “Non devi suonare, perché sei troppo piccolo”.
A.S. È venuto fuori spontaneamente questo.
R.C. Una cosa è quella di non svilirlo ma di favorirlo, di favorire lì dove si presen¬tano in modo evidente…
A.S. Allora è innato questo.
R.C. Non è innato, è qualcosa che si produce. Cosa vuole dire che è innato? Non ce l’ha dentro. È qualcosa che si sta producendo.
L.G. È sempre un qualcosa che si pro¬duce. Per esempio, c’è il bambino, il ra¬gazzo che preferisce la pittura. Nel senso che quella è una cosa che lui sente di averla.
R.C. Senza la produzione, questa qualità innata o non innata, non ci interessa. Innata o non innata ci interessa la produzione, che la produzione abbia modo di farsi. Questo importa. Che inte¬resse ha dire “Potenzialmente un genio”?
A.S. […] è stato insegnato così.
R.C. Potenzialmente? Praticamente! Cioè la produzione. Occorre vi sia la pro¬duzione, occorre vi sia provo¬cazione, la promozione della produzione, orientamento verso la produzione, quella produzione in direzione della quale anche il progetto, come progetto di vita, spinge.
L.G. A questo punto, allora è giusto il mio modo di fare, è bene fargli fare di¬verse esperienze. Per esempio, c’è un bambino a cui noi proponiamo questo e lui non lo vuole fare.
R.C. La questione è semplice: il disegno è un’occorrenza? È qualcosa di essenziale senza cui qualcosa non può accadere?
L.G. Delle volte può capitare, però non è che sia necessario.
R.C. La questione è nel modo con cui qualcosa viene proposto. “Vuoi o non vuoi?” è già il modo dell’anfibologia, la¬scia aperta ogni sorta di rappresentazione intorno alla possibilità. La questione è: occorre o non occorre? Qual è il modo con cui lei propone la cosa? Il modo della necessità pragmatica o il modo del possibi¬lismo?
Ecco allora che, nell’ambito del possi¬bilismo, questo bambino le rende pan per focaccia, cioè le dice che non c’è identifi¬cazione verso il possibilismo, che non è per possibilità che lui farà qualcosa nella vita. Se non lo fa lì, non lo farà neanche un do¬mani. Non è secondo la possibilità, per cui rifiuta, rifiuta la modalità del possibilismo. Peraltro, se non viene educato a altro, si attesterà sul possibilismo, in particolare magari su quello negativo. Ecco, non biso¬gna affidare alla speranza questo. Occorre vi sia un orientamento.
Anche capire perché, certamente; ma prima di capire perché il bambino risponde in quel modo, bisogna interrogarsi sul modo in cui è stata proposta la cosa. Perché un affare si concluda bisogna che ci sia soddisfazione di chi compra e di chi vende, sennò non si concluderà mai, giusto? La stessa cosa per quel bambino. È anche nel modo con cui viene proposto l’affare, in questo caso il disegno, che stabilisce se può esserci soddisfazione o no. Anche questo dev’essere a porre la questione. Non è detto che non lo voglia fare per partito preso, ma proprio per il modo con cui viene proposto. Questo bambino è piccolino?
L.G. Io non parlo di questo, ma del rifiuto di prendere in mano… In questo senso, non del sapere fare una cosa, perché, se non è capace, lui dice: “Io non sono ca¬pace. Mi aiuti?”.
R.C. Perfetto. Può darsi che, pur nella sua precoce età, avverta un finalismo di azioni verso cui non è d’accordo. Ossia, che non è conforme a quel finalismo che avverte. Avverte un finalismo che può es¬sere lì come altrove, verso cui tenta di ope¬rare uno squarcio. Allora dice: “No!”, che non è un “no” in sé, ma verso il finalismo a cui si sente costretto, e ciò andrebbe indagato. Ovviamente, non chiedendo “È perché avverti un finalismo?”, che certa¬mente non avrebbe risposta!
L.G. Il nostro lavoro, parlando anche agli altri, non è solo l’attività psicomotoria, linguistica, varie cose, matematica, logico-matematica, sono tutte cose… Una per¬sonalità…
R.C. È un’esperienza globale, assoluta¬mente. Ne convengo. In questo senso ancora più difficile, esige più responsabilità, quindi una formazione in¬tellettuale assoluta.
Pubblico […].
R.C. Ritengo di sì. Però, giustamente, c’è un aspetto globale che poneva in rilievo Luigina che non è da sot¬tovalutare. Senza togliere nulla a altri aspetti di globalità che possono riguardare altri momenti e altri… Adesso non parla¬vamo della fascia, né tantomeno di età, ma dell’impegno dell’insegnante.
Luigina Giraldo metteva in evidenza una sezione della difficoltà nella sua espe¬rienza. Non per questo rendeva più facile un’altra esperienza, o più scontata. Ma non c’è competizione.
R.Ca In altri livelli, magari di primo grado.
R.C. Non c’è competizione tra un grado e un altro della scuola. Assolutamente. Non c’è affatto.
Un momento, perché da tempo la dottoressa De Lorenzis aveva alzato la mano.
Maria De Lorenzis La prima domanda: si parlava di qualcosa di mortifero, però c’era la parola la soluzione. Si cambia l’arti-colo, si mette una soluzione. Se noi tro¬viamo una soluzione a un problema, questo è un procedere verso. Perché comun¬que c’è la risoluzione di un problema, una soluzione… Diciamo che di soluzioni ce ne sono, ma si prende una soluzione e questo è un procedere, non è la soluzione, l’unica soluzione. Mi sembrava che alludesse a questo, nel senso che si cerca una soluzione e si procede verso altri progetti e verso altre cose. La parola soluzione, di per sé, che…
R.C. […] è l’evocazione che comporta che occorre analizzare. Il concetto di solu¬zione è nell’itinerario.
M.D.L. E il problema?
R.C. È nell’itinerario e nel dispositivo. La questione è il dispositivo, dispositivo per fare. Vediamo di esplicitare.
A.B. Prima diceva “Non sappiamo nulla della soluzione”. Poi diceva anche “Abbiamo un problema. Si tratta di affrontarlo, con la logica noi dobbiamo trovare […]”. Io volevo sapere se sforzo e tensione per lei sono uguali, cioè se le intende nello stesso modo, se “vanno a braccetto”, per¬ché abbiamo parlato sia di sforzo che di tensione.
R.C. La tensione è un aspetto dello sforzo, in quanto la tensione linguistica è un aspetto dello sforzo intellettuale.
A.B. Parlando di uno sforzo intellettuale che ha una tensione linguistica, mi veniva da pensare che la tensione da una parte mi va bene come la intende lei, […] una cosa più rigida, capito? Direi la tensione verso l’approdo. Mi sembra che lei la in¬tende così.
R.C. Non è quella tensione per cui uno dice “Mi sento teso”.
A.B. Esatto. Non è questo tipo di ten¬sione, però si potrebbe anche equivocare, perché noi abbiamo parlato di tensione.
R.C. Quella è la paura.
A.B. Ha parlato anche di paura, allora vo¬levo, così, un attimo… Lo sforzo che ha come sua qualità la tensione.
Simone Barison La soluzione toglie l’itinerario e il dispositivo. Per altro, mi sem¬bra che il concetto che non ci sia so¬luzione, che uno pensi che non ci sia solu¬zione, tolga itinerario e dispositivo. Sia che uno pensi di sapere già la soluzione e dun¬que la mette in pratica, magari con lo psi¬cofarmaco o che altro, sia che uno sia con¬vinto che non troverà soluzione a fronte di un problema, in entrambi i casi viene tolta la ricerca, l’itinerario, il dispositivo.
R.C. Che non c’è soluzione.
S.B. A meno che uno non sia convinto che non ci sarà mai soluzione.
R.C. Dipende se il dispositivo in cui si trova glielo consente di accettare, di ri¬mandare, eccetera. Sono tutte modalità. Noi stiamo dicendo di un modo dell’edu¬cazione che non privilegi tutte queste rap¬presentazioni della morte che stanno nel¬l’attesa, nel rimando. Di questo è piena la società conformista. Io constato che è pieno di queste modalità. Si tratta di at¬tuare qualcosa che non vada in quella dire¬zione, che non privilegi queste modalità, ma l’urgenza. Bisogna pure che s’in¬stauri l’urgenza perché, altrimenti, è un modo di morire.
Pubblico Questo no.
R.C. Eh sì! È vivere contro il tempo.
M.D.L. A volte si rimanda fino…
R.C. Fino alla morte! Tutto ciò comporta un gran dispendio che abolisce l’urgenza. Questo è il problema del discorso occi¬dentale: ha tolto la temporalità a favore della cronologia, a favore della spazialità, a favore della conoscenza. Perché il tempo è inconoscibile. Questo è il punto. È un punto importante però, che allora vediamo per la prossima volta.
Dica la questione!
L.P. Mi ero interrogato sulla questione del genio. È giusto questo signi¬ficante genio […].
R.C. Il genio questo è, giustamente.
L.P. Ma non è una questione di predesti¬nazione quella per cui uno nasce genio o è molto intelligente.
R.C. Certo. È da esplorare in questa dire¬zione: genio, ingegno.
L.P. Perché si tratta della scrittura dell’e¬sperienza, insomma.
R.C. Generosità, genialità, generazione.
L.P. Per esempio, il caso di Leonardo, che ha dato una testimonianza di produzione di un’esperienza.
R.C. Sono tutti termini di una stessa co¬stellazione genio, ingegno e generosità.
L.P. Non è predestinato, non è innato.
R.C. Generosità, generazione.
L.P. C’è la fantasia che il genio sia nato.
R.C. Il genio sarebbe il “ben nato”. È un’altra cosa il genio, perché viene da gignere, che vuole dire nascere.
M.B. Quindi sarebbe contrario a questo. Cioè, non “nato con”.
R.C. Esatto. Perché il genio, il “ben nato”, nato bene, viene da…
Pubblico Lei sa che esiste Eugenio Bennato?
R.C. Eugenio Bennato. Hanno pratica¬mente tradotto il cognome nel nome. Bennato vuole dire già Eugenio. L’hanno chiamato “Eugenio Eugenio”. È un atto di erudizione da parte dei genitori. Non è ca¬suale il riferimento, non è casuale ne¬anche che gli abbiano dato questo nome. Ottimo, una precisazione molto interessante.
L.P. Perché sembra che ci sia il genio che nasce, invece non è possibile.
R.C. Può accadere anche che nasca.
L.P. È un’altra questione, comunque.
R.C. Allora concludiamo qui. Noi ci diamo appuntamento alla prossima settimana e vediamo di trovare quella soddisfazione che adesso non c’è. Lei, certamente, uti¬lizzerà questi giorni per indagare ulte¬riormente.
L’educazione senza ostilità
Ruggero Chinaglia Allora comin¬ciamo l’incontro di oggi. Ci sono domande rispetto alle cose della volta scorsa? Curiosità, notazioni? Qualcuno ha letto nel corso della settimana il manuale di cui ave¬vamo parlato L’umanaio globale? Nessuno?
Pubblico Di questo testo, quando ne abbiamo parlato? La volta scorsa?
R.C. Proprio al termine.
Pubblico Cosa sarebbe questo?
R.C. È un romanzo. È un romanzo di Zinov’ev.
Pubblico Non ce l’aveva segnalato.
R.C. No? Allora ve lo segnalo adesso.
Pubblico Lo confonde con un altro gruppo
R.C. No. È stato giovedì sera al semi¬nario. Ve l’avevo segnalato.
Pubblico No.
R.C. Non ve l’avevo neanche segnalato? E dire che l’avevo portato. Va bene. Questo è un romanzo che segnalo anche alle nostre amiche arrivate adesso, L’umanaio globale di Aleksandr Zinov’ev, scrittore russo che traccia un quadro della così detta società contemporanea, situandola nel futuro ma, praticamente, cogliendo quelli che sono gli aspetti attuali del dispositivo sociale, quindi anche le implicazioni, le basi, le radici. Allora, ciascuno, leggendo questo romanzo può cogliere alcune delle questioni attuali che riguardano i così detti mali dell’epoca.
Pubblico La casa editrice?
R.C. Spirali. Per esempio, così, aprendo a caso, potete trovare questa annotazione: Il migliore comportamento nel lavoro sono la diligenza e la qualità, ma nei limiti della morigeratezza e della mediocrità. Puoi anche fare scoperte geniali ma non ci sarà nessuno a ringraziarti e a lodarti. Non sarai notato, ti sfrutteranno senza fare il tuo nome e, il più delle volte, il tuo contributo sarà per te solo un punto in meno. Ma ti guardi Iddio dal commettere un errore nelle cose di poco conto, per esempio.
Marzia Banci Scusi, ma questo è un rife¬rimento globale nel tempo, mi sembra, più che globale nel luogo.
R.C. È un romanzo che svolge il presupposto base della società dell’e¬poca, che è la mediocrità, cioè l’uomo medio, che è il perfetto prototipo del¬l’uomo. L’uomo mediocre è la base della società dell’epoca, la società di riferi¬mento. Il romanzo illustra in quanti modi si può arrivare a compiere questo modello per giungere a soddisfare il mo¬dello globale.
Oggi si parla molto di so¬cietà globale, della globalizzazione, e qui ne dà un risvolto, il globale come esempio di dispositivo che includa al suo interno ogni forma di bene e ogni forma di male, in modo che nulla sfugga, in modo anzi, che ognuno possa fare l’e-conomia del bene e del male e, fa¬cendone l’economia, possa farne anche il catalogo. È il modello di società che si compie nella gnosi, dove nulla sfugge alla conoscenza, nulla dev’essere sconosciuto, nulla dev’essere oscuro ma tutto dev’essere chiaro, conosciuto, per entrare nella coscienza di ognuno. È la so¬cietà del discorso, dove avviene il primato del discorso, della scienza del discorso, anziché della scienza della parola, dove il discorso diventa sistema, discorso globale come sistema globale, dove nulla deve apparire come novità, come imprevi¬sto, ma anche la novità dev’essere recuperata come forma di ciò che l’ha preceduta.
L’umanaio globale è un altro modo di chiamare la so¬cietà del benessere, quella comune¬mente nota come Welfare state, dove ognuno deve stare bene. Per stare bene, deve conoscere il modello del benessere per antonomasia, e il benessere per anto¬nomasia è la morte. Questa società del benessere può essere detta società della morte bianca, altrimenti detta l’umanaio globale.
C’è, tuttavia, un altro modo di intendere il termine globale. La globalizzazione non tanto come sistema finito che deve contenere tutte le cose, ma come in¬tegrazione di arte, logica, scienza, cultura. Arte, scienza e cul¬tura della parola. Un’altra acce¬zione di globale se, al primato del discorso, sostituiamo il primato della parola, nel senso della logica della parola, la quale comporta come ciascuna cosa non si sommi alla precedente, ma sia in adiacenza, quindi senza comportare il sistema, il catalogo, ma lasciando che ciascuna cosa avvenga per integrazione. Allora, il globale diventa ciò che dicevamo la settimana scorsa, la qua¬lità, la cifra. La globalizzazione è il pro¬cesso di cifratura, il processo di qualifi-cazione di ciascuna cosa.
Tra le due acce¬zioni di globalizzazione corre la questione dell’infinito. La scienza del discorso s’in¬staura in una concezione finita delle cose, dove l’ideale è il catalogo che le comprenda tutte, un catalogo che possa compiersi, terminare, finire. Invece, nella globalizzazione che riguarda l’integra¬zione, c’è la questione dell’infinito, dove ciascuna cosa esige di divenire qualità, quindi non di riempire il sistema, ma di approdare alla soddisfazione. Non è indif¬ferente se ciascuno si situa nella scienza della parola o nella scienza del discorso. Non è indifferente quanto al modo di af¬frontare le cose, svolgere la propria ri¬cerca e situarsi in sta¬tuto intellettuale; non già statuto so¬ciale o professionale, ma intellettuale.
Anche riguardo alla nozione di ambiente, che era una delle cose che erano rimaste in sospeso la settimana scorsa, a seconda che ci riferiamo alla scienza del discorso o alla scienza della parola, troviamo due modi di intenderlo. Oggi, per esempio, troviamo molto in voga la questione dell’ecologia, di un discorso che riguarda il buon ambiente, sull’ambiente come casa. Questo sarebbe l’ecologia, un discorso che elenca tutta una serie di mali da riparare per raggiungere delle buone condizioni di vita. Oggi, allora, l’ecologia ha, per un verso il merito di pro¬muovere una rappresentazione dell’am¬biente come comfort, come agio, come migliore vivibilità, per esempio per una migliore sicurezza. Ci sono le varie rap¬presentazioni di lotta, di intra¬presa contro l’inquinamento, contro condizioni di lavoro disagevoli, per una migliore sanità ambientale. Sono certa¬mente ottimi propositi in funzione di un ambiente ideale, che proponga condizioni di vita ottimali in quanto ideali.
Luigina Giraldo Posso fare una domanda? Non riesco a capire. Lei parla tanto di discorso e parole.
R.C. Parola!
L.G. Io, personalmente, non riesco a capire il significato che lei vuole dare a discorso. Vuole dire un discorso di azioni, un discorso parlato? Come lo in¬tende? E la parola, che cos’è secondo lei la parola? Mi illumini su queste cose, perché altrimenti non riesco a capire.
R.C. Discorso nell’accezione di un si¬stema, per esempio un sistema in cui vi siano dei presupposti, delle ipostasi già stabilite che devono essere dimostrate e mantenute dal discorso stesso. Come di¬cevo, il sistema ingloba ogni cosa al suo interno, come funzionale al si¬stema stesso, assegnandole perciò una ca¬ratteristica nell’ambito di una ripartizione, che è quella del bene e del male, per esempio. Sistema in cui l’accezione di scienza è la scienza della conferma. Infatti, il modello scientifico all’interno del discorso è quello della riproducibilità del fatto. Che cosa risulta scientifico? L’esperimento che possa essere riprodotto nelle stesse condizioni di temperatura, pressione e via dicendo. È il modello della riproducibilità, dove il fondamento è il fatto, nel senso che c’è qualcosa che è tale e, come tale, riproducibile. Questo è, diciamo così, il discorso con la sua logica, con il suo sistema, dove anche la verità è verità come causa, non è verità da incontrare. È una ve¬rità ipostatizzata che deve trovare con¬ferma. Invece, come parola, intendiamo la parola come logica e come cifra.
Pubblico Può fare un esempio pra¬tico?
R.C. Parola in cui, quel che ciascuno dice, non è già possibile situarlo secondo un co¬dice di riferimento, ma va inteso esplo¬rando il caso particolare in cui si situa, non per un adeguamento o una conformazione a un codice già dato, ma il codice va trovato in quello che si sta dicendo. Non so se è più chiaro. Non è che il codice non ci sia, c’è, ma non è già noto, per cui risulta impossibile sapere già cosa Tizio vuole dire, vuole avere, vuole fare se non interrogando quel che si dice e come si dispone, perché nessuna parola ha già un significato standard, stabile. Nessuna parola è segno di qualcosa e, così come nessuna parola è se¬gno di qualcosa, nessuno è segno di qual¬cosa; come dire che non c’è chi sia segno, per esempio, della sua origine!
Uno dei problemi principali nell’educa¬zione è il fatto che ci sia la fantasia di potere rappresentare l’origine, di potere farlo o, addirittura, di dovere farlo. Ciascuno si sarà imbattuto nella fan-tasma¬tica delle così dette orme paterne da ricalcare o da non ricalcare. Il figlio che pensa di dovere fare come il padre o di non dovere fare come il padre, di dovere essere come il padre o di non dovere essere, di fare lo stesso me¬stiere o di non dovere fare lo stesso mestiere, come forma del riper¬corrimento dell’origine o della differenziazione.
La settimana scorsa, mi pare, parlavamo di conformazione o anticonformazione, conformismo e anticonformi¬smo, a proposito di Procuste. Conformismo e anticonformismo sono la stessa cosa, sono due facce della stessa credenza, che è la credenza in un’origine. Questo lo affrontiamo fra poco proprio in relazione al tema di oggi: l’edu¬cazione senza ostilità.
Occorre fare alcune precisazioni per situare ciascuna cosa. Giustamente Luigia… Luigina! Ma Luigina è diminutivo di Luigia. Sembra dispiaciuta!
L.G. Perché non è un nome che mi piace.
R.C. Ah no? E come mai?
L.G. Eh, è morto il nonno…
R.C. Come?
L.G. Sa, la tradizione!
R.C. È morto il nonno.
L.G. Sì, si chiamava Luigi, quindi…
R.C. Perché lei è primogenita.
L.G. Sono la primogenita. Però avevo un nome migliore. Comunque, eccomi qua!
R.C. Lei dice così per consolarsi! E quindi lei ritiene di avere un brutto nome.
L.G. Sì, io ritengo di avere un brutto nome.
R.C. In quanto sarebbe il nome del nonno.
L.G. No, è che non mi piace!
R.C. Ma lei non sa perché?
L.G. Io, al nome del nonno avrei preferito l’altro, ma purtroppo…
R.C. L’altro nonno?
L.G. No, l’altro nome, io ho due nomi. Mi hanno chiamato Luigina, però il mio primo nome sarebbe Doriana. Mi piaceva di più Doriana, ma ormai me lo tengo!
R.C. È un problema suo questo. Lei vuole tenersi il problema.
L.G. Non è un problema…
R.C. Ma lei sa quanto è comune questo problema?
L.G. Sì, penso che ce ne siano parecchi.
R.C. No. È il contrario. Sono in pochis¬simi a non averlo.
L.G. Io non ci credo…
R.C. È raro non trovare questo problema.
L.G. […].
R.C. Perché lei dice che questo non è il suo nome, ma il nome del nonno.
L.G. No, è il mio nome questo!
R.C. Ma le è piovuto addosso perché è morto il nonno.
L.G. Sì, è morto il nonno.
R.C. Quindi, in questo nome, per lei c’è un riferimento alla morte.
L.G. No!
R.C. Eh sì! Come no?
L.G. Io sto facendo il discorso opposto.
R.C. A prescindere che lei dica di no, è evidente che…
L.G. È lei che lo dice, mica io. Io no!
R.C. Ma è evidente che è così, l’ha detto lei. Lei ha detto: “È morto il nonno”.
L.G. Io ho detto “È una tradizione”. Sì, è morto il nonno, ma se si fosse chiamato Cicisbeo, mi avrebbero messo nome Cicisbea!
R.C. Perfetto. Quindi, in questo nome, per lei, c’è un riferimento alla morte.
L.G. No, non c’è. Potevano mettermi nome Daria…
R.C. Sì, esatto! Non perché il nome è brutto.
L.G. Un attimo, Lei non ha capito. Se mio nonno si chiamava Dario e mi avessero messo nome Daria, Daria mi piaceva di più.
R.C. Non le sarebbe piaciuto!
L.G. No. Mi sarebbe piaciuto, invece.
R.C. Assolutamente no.
L.G. Lasciamo perdere.
R.C. No. È importante questo. Adesso che l’hanno chiamata Luigia, lei dice che Daria sarebbe stato meglio.
L.G. Infatti, ho un secondo nome, Doriana, che mi piace di più.
R.C. Perfetto. Ma la questione per cui questo nome non è ben accetto è ciò che sta sullo sfondo.
L.G. Cioè, dice che dipende dal nonno che…
R.C. Certo. Perché lei dice che questo non è il suo nome, è il nome del nonno, e quindi il nonno in qualche modo ha la priorità su questo nome. È una questione molto diffusa, non è solo per lei, perché questa tradizione è assolu¬tamente in vigore, e pone il primato del morto in nome del vivo e, dunque, mantiene per via di genealogia il riferimento alla morte. È una questione che avremo modo di considerare ulteriormente, ma è interessante che sia giunta attraverso la sua testimonianza.
Cecilia Maurantonio Direi ancora più in¬teressante, in particolare perché questo nome…
R.C. Scusi, cosa c’entra lei? Stava par¬lando la signora.
C.M. Perché il primo nome…
R.C. Ma adesso noi non facciamo psico¬logia.
C.M. Ma, allora lei cosa ha fatto finora?
R.C. Non ho fatto psicologia. Che lei voglia intervenire sul caso, non è questo che ci interessa.
Pubblico Ma non possiamo sentire quello che ha da dire?
R.C. No. Lei stava aggiungendo qualcosa. Aggiunga.
L.G. Io non sto aggiungendo niente, volevo solo sentire quello che diceva la signora.
R.C. Niente da fare.
L.G. Me lo dice dopo.
R.C. Dopo glielo dice in privato.
L.G. Va bene.
Pubblico […].
R.C. No. È possibile che giunga alla cifra, ma non per decifrazione. La decifrazione è nella logica del discorso, presuppone che ci sia una ipostasi che, scava, scava, viene tro¬vata. Non è così, non c’è nessuna ipostasi. C’è la cifra come effetto dell’itinerario, non come causa dell’itinerario, poiché la cifra sta alla conclusione dell’itinerario, non alla base.
Noi siamo abituati, secondo un mo¬dello disciplinare, a considerare che la ve¬rità stia sotto alle cose e le animi, per cui le cose sono animate dalla verità e si tratta di scavare alla ricerca della ve¬rità, verità che preesiste alle cose. Questa è la gnosi, questa è la psicologia delle cose.
La logica della parola indica un altro modo con cui le cose avvengono, per cui la verità è effetto, non causa. Si pone l’eventualità dell’incontro con la verità che, quindi, non è ipostatizzabile. È proprio una discrimi¬nante, questa. La sensazione è che venga da una sorta di bagaglio che ognuno si porta appresso, come dire che questo è stato il modo dell’educazione, fin qua, e quindi an¬che il modo di ragionare ne risente. In realtà noi non sappiamo niente del caso di Luigia, non sappiamo nulla del modo con cui que¬sto nome lavora nell’itinerario di Luigia. Abbiamo appreso qualcosa, un dettaglio da una sua enunciazione che è indicativa, ma è un frammento. Non è che da questo frammento noi possiamo catalogare Luigia in qualche modo. Per nulla. Prendiamo atto da ciò che, per Luigia come per ciascuno, la questione del nome esiste, e esiste sia che lei lo ammetta oppure no, cioè esiste a prescindere dalla sua consapevolezza. Questo è il punto interessante: a prescindere dalla consapevolezza. C’è la logica del nome che lavora a prescindere dalla consapevolezza!
Oggi, c’è un gran parlare di ciò “Bisogna es¬sere consapevoli, coscienti di questo e di quello”. Di cosa possiamo essere consape-voli? Di ciò che è visibile, ma il visibile è la punta dell’iceberg. La logica non è visibile, perché le cose accadono secondo la logica, non secondo il visibile, o la visibilità, o la consapevolezza. Noi siamo travolti da quello che accade, da quello che diciamo, e più vogliamo esserne consapevoli e arrestare questo processo, più ne siamo travolti, perché la logica avviene non per nostra volontà. È la logica della parola, è la logica delle cose, e la combinazione delle cose non siamo noi a stabilirla. Certo, pos¬siamo intendere qualcosa di ciò se ci di¬sponiamo a farlo, ma non per volontà. Per ricerca, per formazione, per l’esperienza della parola, non per coscienza e volonta¬rietà.
La logica del discorso, invece, dice che noi possiamo essere consapevoli e stabilire volontariamente il grado di discorso, il tipo di discorso, il punto del di¬scorso, possiamo padroneggiare il discorso. Sorge per questo il discorso, per esercitare una padronanza. Ecco, sulla parola non c’è la possibilità di esercitare la padro¬nanza.
Pubblico Nel momento in cui ci si rende consapevoli del fatto che quella pa¬rola ha significato, quel nome ha significato, determinate cose della nostra vita, è pos¬sibile anche che questi significati cambino per noi, quindi in questo senso non su¬biamo più quella parola, ma si apre uno spazio di autonomia.
R.C. Di indipendenza più che di autono¬mia, possiamo dire. Sì, la que¬stione della ricerca analitica è proprio que¬sta: l’instaurazione della parola originaria. Parola originaria cosa vuole dire? Parola che non comporta l’attribuzione dell’origine, quindi la parola senza origine. È originaria, originaria nel senso che il suo valore sta nell’atto in cui la parola si compie.
M.B. Si può fare un’analogia, perché non riesco a percepire bene. È come il punto in geometria, è come la tavola Mendeleev in chimica, è, insomma, un elemento puro che posso io combinare o, se voglio creare dei composti, è come l’idrogeno e l’ossi¬geno che poi dà delle composizioni quando io le inserisco nel discorso o le pronuncio, oppure è diverso da questo? Perché non riesco a percepire questa parola.
R.C. È un bell’esempio. Se noi riusciamo a immaginare una tabella di Mendeleev infinta, e che comporta una serie infinita di combinazioni…
M.B. Mendeleev è…
R.C. È il sistema degli elementi.
M.B. Dopo, le combinazioni le fac¬ciamo…
R.C. Ma non abbiamo un numero finito di elementi, questo no. Ciascuna parola è elemento. Questo è il punto.
M.B. Che ciascuna parola è elemento?
R.C. Sì.
M.B. È, come io dico, anche il punto in geometria. Si dice che è anche geometrico, privo di dimensione, però col punto poi costruiamo le rette, le superfici, i volumi. Prendiamo questo elemento che, in sé e per sé, non è definibile altro che in sé e per sé, ma poi… È questo che lei intende quando dice parola differente dal di¬scorso?
R.C. Sì. Per esempio, possiamo fare…
M.B. Così, tanto per cercare di capire, perché mi sfugge. Questa parola non ap¬partiene a nessuna lingua! Non è latina, non è greca, non è cinese…
R.C. Sì, esatto. Appartiene alla lingua…
Pubblico […].
R.C. No, perché allora abbiamo il gergo. Appartiene… Anzi, non appartiene, ma interviene nella lingua con cui ciascuno parla. La settimana scorsa parlavo della tensione linguistica. Anche la tensione linguistica concorre alla lingua, che non è una lingua che noi conosciamo.
M.B. È decodificata.
R.C. No, non è decodificata e non è nem¬meno pura o spuria. È altra. Ciascuno parla in un’altra lingua.
M.B. Si può temere che noi facciamo solo i discorsi, a questo punto, conside¬rando le due situazioni?
R.C. Si può temere, certo. E il più delle volte accade pure. Nell’Umanaio globale si fanno solo discorsi. L’umanaio globale si segnala per l’assenza dell’altra lingua e per la presenza di discorsi. Mi pare preciso. Quindi, il discorso presuppone la codifica e la decodifica, per¬ché si tratterebbe di risalire o di discen¬dere, a seconda della traiettoria, al nucleo comune, a quel fondamento attorno a cui sorge una comunità, la società, la comu¬nione. Proviamo a considerare, invece, che non c’è chi parli una lingua comune, ma ciascuno è parlato, parla un’altra lingua, parla in un’altra lingua. Cioè, chi dice qualcosa, convinto di dire proprio quella cosa, dice altro.
Pubblico Un po’ come Pirandello.
R.C. Pirandello si avvicina alla questione, certamente. Pirandello si avvicina molto alla questione della parola, questo è sicuro.
La difficoltà dove sta? Nell’ascolto e nel¬l’intendimento di questo Altro che si dice. Il modo consueto di conversare fra gli umani è il dialogo, dove non in¬teressa l’Altro che si dice, ma dove la do¬manda viene convertita nella richiesta sulla base di un codice comune, per cui la richie¬sta è conforme ai bisogni. Quali sono i bisogni? Sono i bisogni ricono¬sciuti, i bisogni della massa o la massa dei bisogni, i bisogni accreditati, cioè i bisogni sanciti dal discorso.
Ma non è possibile fare la ta¬bella dei bisogni, sapere qual è il bisogno, qual è il bisogno a partire da cui qualcosa si enuncia. Non lo sappiamo, non lo sap¬piamo prima. Anche se sembra evidentis-simo che sia quello, non è quello, al 99,9% delle volte, non sarà quello. E que¬sta è la prima difficoltà dell’altra lingua. Poi c’è la seconda che riguarda l’intendi¬mento, perché le cose si dicono nell’altra lingua e s’intendono nella lingua propria, che non è la propria lingua, la lingua perso¬nale, ma è la lingua propria, secondo la pro¬prietà della parola, secondo la cifra, la cifra¬tura, la qualificazione, e allora riguarda lo specifico di ciascun caso.
La lingua, per ciò, è una cosa abbastanza complessa, non è “Parla come mangi”. Si dice “Ma parla come mangi!”. Eh no, non si può parlare come si mangia!
M.B. La lingua è una cosa o è una situa¬zione? È una situazione complessa o è una cosa complessa?
R.C. Nell’accezione che dà lei di situa¬zione, è una situazione. Certo, non è un si¬stema come comunemente viene chiamato “Sistema di segni atto a comunicare”, ecce¬tera. Non è un sistema.
M.B. Non è una situazione grafica, voglio dire, un sistema di segni diventa grafica e non linguistica, è un sistema di segni e non di…
R.C. Sì, ma anche nella lingua si tratta del segno, solo di un segno in una accezione non semiologica. Non nel senso dove il se-gno è segno di qualcosa, ma è segno. È se¬gno il cui valore, il cui senso, il cui significato è da intendere! Certo, i segni ci sono, altrimenti se non ci fossero nemmeno i segni… C’è pure la sintassi, la frastica. C’è una struttura, ma non è una struttura già formalizzata.
La difficoltà è che noi siamo abituati a partire da qualcosa di già formalizzato che dev’essere riprodotto. Nella parola non avviene così, perché quanto attiene alla parola non è in questi termini. La struttura è struttura temporale, e quindi si formalizza ma non è già forma¬lizzata. Cioè, la lingua è l’ambito della parola, possiamo dire il suo ambiente. Siamo in un’altra accezione di ambiente, dif¬ferente da quello prodotto dalla scienza del discorso. Dire che l’ambiente è la lingua non è facilmente reperibile.
C’erano due domande, una da parte di Simone Barison e un’altra di Anna Scarsi.
Simone Barison È stato detto che si dice qualcosa convinti di dire proprio quella cosa, in realtà si dice Altro. Ora, io mi chie-devo se questo dire Altro, è un dire Altro relativo all’ascoltatore. Cioè, chi dice qual¬cosa dice Altro perché è l’ascoltatore che capisce altro da quello che il parlante vuole dire, oppure se si tratta di un Altro asso¬luto…
R.C. Esatto, assoluto.
S.B. Rispetto anche a chi dice, allora.
R.C. Assolutamente!
S.B. Per cui non si sa quello che si dice.
R.C. Esatto. È proprio così, la questione è radicalmente così.
Pubblico […].
R.C. Non abbia paura delle cose estreme. La paura viene proprio dal limitare l’e¬stremismo delle cose di cui, invece, non c’è da avere paura, nel senso che, o è così o non è così, e se è così, prendiamone atto. Prendendone atto, può solo accadere di approdare alla qualità e non può accadere nulla di male. Può accadere la qualità, la quale non è né un male né un bene, ma è la precisazione e la specificazione, e è pro¬prio dalla specificazione che viene la soddi¬sfazione.
Quindi, non può capitare nulla di male, può capitare la soddisfazione. Non può capitare nulla di bene, può capitare la soddisfazione, che non è né un male né un bene. È soddisfazione. Né buona soddisfa¬zione, né cattiva soddisfazione: è soddi¬sfazione. Non è né tanta, né poca: è soddi¬sfazione. Non è né migliore, né peggiore, non è né mia, né tua: è soddisfazione. La soddisfazione che procede dalla precisa¬zione, dalla precisione. Perché cautelarsi contro la soddisfazione? È una questione, perché è ciò che accade in numerosi casi.
C’era Anna Scarsi che chiedeva qualcosa.
Anna Scarsi Voglio fare un’osservazione. Se la libertà della parola tende alla cifra, al¬lora io parto dal numero zero che mi rappresenta l’infinito, il tutto o il niente. Quindi, la cifra, che è quello che mi specifica il nu¬mero in questo caso, acquista un altro va¬lore. Fino a che punto ha valore una cifra? C’è un limite nella cifra? Perché io capisco lo zero ma, il valore che hanno gli altri numeri, che non hanno più valore matematico come quantità, acquistano un altro valore? È così o no?
R.C. Non si tratta solo di numeri. Certamente la cifra è il valore, anche il va¬lore del numero o il valore delle cose. La ci¬fra è il valore. Ora, lei dice “C’è un aspetto di quantità, e c’è un aspetto di qualità”.
A.S. C’è questo passaggio di…
R.C. Ci sono entrambe le cose. C’è la quantità e c’è la qualità. Senza quantità, non c’è nemmeno la qualità, occorre pure che ci sia la quantità, solo che la quantità è incontabile. È a partire dall’in¬contabile che si giunge alla qualità.
A.S. Si può identificare il mio numero, la situazione, o no? Si identifica una cifra?
R.C. Può fare un esempio?
A.S. Per esempio, uno è unico. Ma posso dare un altro significato al numero due che non procede dall’uno e che si distingue dall’uno.
R.C. Ah ecco, in questo senso?
A.S. Sì.
R.C. Intanto, l’uno non è unico, l’unico procede dall’uno, ma l’uno non è unico. È la questione del figlio, questa, che il figlio non è il “figlio unico”. La questione dei numeri è una questione importante, in effetti, che è da attraversare. Per esempio, questa sorta di sovrapponibilità tra l’uno e l’unico è una questione.
A.S. Ci sono gli altri comunque, il tre, il quattro, il cinque… Una persona ci può ragionare sopra questo termine.
R.C. Quindi, lei che cosa dice? Chiede se tra la questione dei numeri e la questione della cifra ci sia una…
A.S. Relazione.
R.C. In certo qual modo c’è una relazione, ma non è una relazione diretta e costante.
A.S. Posso partire da questa consi¬derazione per portare avanti tutto quello che c’è all’interno di questa si¬tuazione.
R.C. Per dire, già “tra lo zero e l’uno”, trascorre l’infinito. Quindi, perché ci sia l’uno rispetto allo zero, c’è bisogno dell’in-finito. La questione del numero è certamente importante, perché poi, così come interviene il numero, esige sempre l’infinito, cioè l’intervallo tra lo zero e l’uno. Già ne abbiamo detti tre: zero, uno, intervallo. Parlare del numero è perciò parlare di una logica i cui termini sono al¬meno tre. Nel caso dello zero e dell’uno, c’è l’intervallo. Zero, uno e intervallo è già una logica triale. Allora, abbiamo zero, uno e tre. E è impossibile togliere lo zero e l’uno da questa combinazione, e è impossibile togliere il tre dallo zero e dall’uno.
Pubblico Al quattro…
R.C. Lei è già al quattro! Un momento! Ora, la questione è che, parlando, inter¬viene la struttura di zero, uno, inter¬vallo. Zero, uno, intervallo. Ciascuna parola si situa in questa struttura: zero, uno, intervallo. Come attri¬buire un senso noto alle parole se ciascuna parola sta in questa struttura di zero, uno e intervallo? È impossibile raffigurarselo, perché ciascun termine ha una struttura che è costituita da zero, uno e intervallo. Che cosa vuole dire? Che ciascuna parola è nome, significante e Altro. Nome, signifi¬cante e Altro dal nome e dal significante, quindi zero, uno e intervallo. Parlando, si produce questa struttura.
È possibile sa¬pere quel che si dice? Saperlo prima se quel che si dice si effettua nella strut¬tura di zero, uno e intervallo, di nome, si-gnificante e Altro? No. È possibile padro¬neggiare la lingua? Padroneggiare la parola? No. Si può ascoltare e intendere a condizione di esplorarne la struttura, di ammetterla e, quindi, lasciarsi fare l’e¬sperienza della struttura temporale, senza fretta di attribuire a tutto ciò che sentiamo un significato immediato, un valore immediato, un senso immediato: “Hai voluto dire questo, hai voluto dire quello”, “Ah, questo vuole dire quello”. Equazioni immediate: “Ha detto così, vuole dire che…”, “Ah, questo? Allora…”, “Questo è segno di…”, “Ha fatto così, vuole dire che è…”, cioè un sistema di analogie, un sistema analogico, di equivalenze.
M.B. Sarebbe meglio dimenticare che ri¬cordare queste cose.
R.C. Ecco, adesso veniamo anche a que¬sto. Il sistema delle equivalenze è antilinguistico, è contro la lingua, contro la parola, toglie la lingua. È come se noi avessimo uno strumento e non volessimo usarlo. C’è la lingua con il suo modo e noi, invece, vogliamo applicare il modo delle equivalenze, delle similitudini, delle analogie che non ha nulla di linguistico, perché la lingua trova la sua sfumatura per ciascuna cosa assolutamente caratteristica. E noi vogliamo togliere via questo per fare riporti extralinguistici. Perché? In nome di che cosa? Della comunicazione? Ma la comuni¬cazione sta proprio nella sfumatura. Se noi la togliamo, che comunicazione abbiamo? Non ce l’abbiamo più. Abbiamo una sistematizzazione non la comunicazione; sosti¬tuiamo alla comunicazione la sistematiz-zazione, due cose antitetiche.
Che discipli¬narmente venga chiamata comunicazione la sistematizzazione, non vuole dire che sia in realtà comunicazione; è comunicazione nella scienza del discorso, è sistematizza¬zione perché si avvale del codice di riferi¬mento ma, quanto alla logica particolare, è tolta, è abolita, non c’è più. Allora, in que¬sto funzionamento della parola vige la di¬menticanza!
M.B. Sì, quello che stiamo facendo, trac¬ciando adesso.
R.C. Sì, che non è per ciò, tuttavia, esercitabile. Lei dice: “È meglio dimenticare che ricordare”.
M.B. Dimenticare nel senso che, troppo codificati, non cerchiamo più la parola di cui stiamo trattando questa sera. Dico, pre¬ferisco dimenticare che tradurre il discorso più in breve con meno parole…
R.C. Esatto. Ma la dimenticanza c’è.
M.B. Dimenticare per fare fluire di più, cioè come qualità. Dimenticare le cose per trovare la parola più spoglia, parola nel senso che stiamo trattando questa sera, non la parola più povera.
R.C. Certo.
M.B. È facile dimenticare per pulire.
R.C. Ecco, questo sarebbe un pro¬gramma ecologico! Il programma ecologico quando interviene? Quando la rappre-sentazione del negativo sembra potere satu¬rare l’infinito, anche suturarlo. Ecco che allora interviene il programma ecologico, il programma di depurazione. Abbiamo il pericolo di satu¬razione, quindi dobbiamo depurare. È una procedura di sistemi finiti, per cui an¬che la mente diventa un sistema finito, da trattare ecologicamente. “Dobbiamo sgom¬brare il campo”.
Ma il campo si sgombra da sé perché è infinito, quindi né si sgombra né s’ingombra. Ciascuna cosa si situa nell’adiacenza, e anche senza il programma ecologico, non c’è il pericolo di satura-zione. È bello questo, è bello che non ci sia pericolo di essere sommersi dai rifiuti. Ecco, nella pa¬rola avviene proprio così. Non c’è il pericolo che le scorie, i rifiuti, gli aspetti negativi possano sovrastare, saturare l’ambiente in modo che, per soffocamento, la parola muore. La dimenticanza è struttu¬rale, è strutturale all’infinito. Non è come dire che, a un certo punto, bisogna dimenti¬care per non essere sommersi da ciò che è avvenuto prima, perché c’è questo pro¬cesso di dimenticanza che è proprio all’in-tervallo.
M.B. Può spiegare?
R.C. È proprio all’intervallo. Abbiamo detto: zero, uno e intervallo tra lo zero e l’uno. Ecco, nell’intervallo tra lo zero e l’uno c’è la dimenticanza, così come c’è il sogno.
M.B. Sa perché facevo riferimento alla di¬menticanza?
R.C. Ha posto una bella questione.
M.B. Perché proprio gli insegnanti, e certamente anche i genitori, quando in¬segnano, la cosa che piace di più è che lo stu-dente si ricordi la cosa che viene detta “Ricordati che questa regola, questa cosa…”. A mio modo di vedere, specialmente noi italiani, faccio questo riferimento, siamo così legati al ricordo, anche di ciò che siamo stati, alla cultura e a tutto quello che abbiamo avuto che, secondo me, tutto ciò è un legac¬cio, si chiede troppo al passato.
Il fatto di ricordare perennemente, per cui andiamo avanti con commemorazioni continue dove è maggiormente presente il concetto della morte che della vita, nel senso che “Quello è morto, quello è santo, quello è morto in guerra…”, tutte queste commemorazioni che facciamo in maniera continua, per me è negativo. Per cui vedo il popolo italiano come uno dei più commemorativi, che si agganciano al ri¬cordo in maniera più pro-fonda e questo diventa un po’ l’altra sponda, l’eccesso di ciò che è nei confronti del presente, che non viene quasi trattato come fosse un tempo che deve veloce¬mente “spazzolarsi” tra un passato che è stato di orrori e un futuro che non sappiamo concretizzare, e quindi ci pen¬siamo e non ci pensiamo. Per me è un’indicazione che si basa troppo sul ricordo, ma è un mio modo di vedere.
“Non dimenticare”, e a un certo punto noi abbiamo il vissuto di vite altre, di quelle che ci scaricano con il fatto di “Non dimenticare, non dimenti¬care, non dimenticare”. Allora, non dimentichiamo Michelangelo, ma non sap¬piamo chi è Picasso. Non è poi così ur¬gente sapere chi è Michelangelo, ci inse¬gnerebbe di più sapere chi è Picasso. Facciamo più Leopardi, ma Leopardi è già vicino comunque, è sempre il ricordo Rimembro ancor. E quanto rimembriamo!
Questo punto io lo vedo non in senso specifico ma più generale, una saturazione nell’insegnamento dove la persona che abbiamo davanti, il ragazzo, viene dopo tutti i ricordi didat¬tici che noi gli dobbiamo dare. Questo lo trovo asfissiante nei confronti di colui che li riceve, ma anche di noi che tutti gli anni procediamo a ricordargli la Seconda guerra mondiale, Lorenzo il Magnifico, così come ciascun professore per la materia che tratta. Questo snelli-mento del ricordo, un pochino, per favo¬rire la dimenticanza, lo troverei utile nella fase dell’insegnamento. Voglio dire, anche con modestia, non è che sto facendo un discorso, ma mi piace confrontarmi.
R.C. Esatto. Questa è una cosa impor¬tante. In effetti, molto spesso, l’insegna¬mento avviene per rimembranza! Questo è un capitolo della settimana prossima che lei ha introdotto. Infatti, si tratta di far sì che qualcosa entri nella memoria, non giunga dalla memoria, ma entri nella memoria.
Pubblico Qualitativamente?
R.C. Sì, con la sua qualità. Magari questo lo vediamo meglio la settimana prossima, perché è proprio ciò che riguarda il prossimo in¬contro. Comunque, è curioso che ciò che viene avvertito come eventualità. Per esempio, lei diceva “Sarebbe opportuna la dimenticanza” e quindi avverte la sua even¬tualità.
M.B. La libertà, che dovrebbe produrre li¬bertà.
R.C. Molto spesso, però, viene posto come se potesse avere un risvolto negativo o un’eventualità negativa che possa essere impedita: “Ci vorrebbe”, cioè come se potesse non accadere.
M.B. È come l’ombra, nessuno la vuole.
R.C. Ecco, l’ombra.
M.B. La dimenticanza è come l’ombra, nessuno la vuole.
R.C. L’ombra è un esempio del due.
M.B. Anche del tre.
R.C. Perché del tre?
M.B. […] Questo è un punto di vista di Leonardo Da Vinci. L’ombra che non si fissa sulla parete […] e l’altra ombra che procede…
R.C. Di che cosa è fatta l’ombra?
M.B. Della non-luce pari a quella che il¬lumina l’oggetto.
R.C. Quindi, luce e tenebra, non tutta luce, non tutta tenebra; l’ombra.
M.B. Non tenebra, però è l’intervallo della tenebra, che non è nero.
R.C. Esatto. Non tutta luce, non tutta te¬nebra. L’ombra. Il due. Così siamo arrivati al due, a proposito dei numeri.
M.B. Poi, ci sono anche le ombre colorate, non è vero che l’ombra è sempre grigia.
R.C. Io non ho detto che è grigia.
M.B. L’ha legata al nero, quindi è una gra¬dazione del nero.
R.C. Chiaroscuro, non tutta luce, non tutta tenebra.
M.B. Anche l’ombra può avere il suo co¬lore.
R.C. Benissimo, ma adesso è solo per in¬dicare il modo, qual è il modo del due. E il modo è il chiaroscuro, non tutto chiaro, non tutto scuro.
M.B. Come dire che l’ombra richiede la luce, il soggetto è quello…
R.C. No, il soggetto no.
M.B. Il soggetto che crea l’ombra, che ostruisce la luce e pertanto crea l’ombra; non ci sarebbe ombra.
R.C. Il soggetto non importa. Costitutivo dell’ombra è la luce e la tenebra. Come dire che costitutiva dell’ombra è la contraddizione. C’è luce, c’è tenebra e quindi c’è contraddizione che, tuttavia, non nega nessuno dei due termini ma, anzi, è es-senziale che ci siano entrambi. Una con¬traddizione che non nega né contrappone i termini della contraddizione. Un esempio della logica diadica.
Infatti, accanto alla logica del tre che abbiamo vi¬sto prima, c’è la logica diadica, logica del due. Qual è il modo della logica diadica? È l’ossimoro, ossia alto-basso, grasso-magro, luce-tenebra, cioè l’ombra. Facciamo un altro esempio? Ci sono due termini in latino, hostis e ospes, che desi¬gnano il forestiero, l’estraneo, lo straniero. Hostis, cioè nemico, e ospes, cioè amico, ospite. Allora, che lo straniero sia hostis o ospes, riguarda il dispositivo che viene allestito al suo riguardo. Chi incontra il forestiero può considerarlo nemico o può considerarlo amico, può ospitarlo. Di per sé il forestiero è amico-nemico e si situa nell’ossimoro, e può accadere che il nemico di oggi diventi l’alleato di domani. La poli¬tica ce lo indica, la politica come disposi¬tivo di strategia verso la qualifica delle cose.
Dunque, il dispositivo stesso procede dall’amico-nemico, da questa dia¬dicità. Non, o amico o nemico, ma amico-nemico, l’apertura da cui può instaurarsi il dispositivo come dispositivo di acco¬glienza o dispositivo di guerra. Perciò, lo straniero, lo statuto di straniero procede dall’amico-nemico, dall’hostes-ospis. Che sia ospite, che sia ospitato, che venga ac¬colto o che venga combattuto, da cosa di¬pende?
M.B. Dal dispositivo preparato.
R.C. Esatto, ma che venga allestito un dispositivo di accoglimento o un dispositivo di guerra, da cosa dipende?
M.B. Da chi lo ospita. No, anche…
R.C. Arriva un forestiero in città e uno dice “Toh, è arrivato un nemico”, per¬ché ha l’idea che ogni estraneo sia contro di lui. Un altro dice “Toh, è arrivato un amico”, perché pensa che ogni elemento che si aggiunge è un apporto per la città. In un caso viene allestito un dispositivo, in un altro caso ne viene allestito un altro. Non dipende dal forestiero in questione. Certo, se il forestiero si presenta con un esercito alle spalle, armato di tutto punto, con uno spiegamento di forze, è più facile che debba essere considerato in un certo modo piuttosto che in un altro, ma il forestiero che arriva così, di per sé, può non prestarsi a essere subito individuato in un modo o nell’altro. Che cosa, dunque, contribuirà a riconoscerlo come amico o come nemico, come pericolo o come collaboratore, come apporto, come ciò che si aggiunge ai mezzi e agli strumenti per l’impresa di cia¬scuno? Dipende da una cosa molto sem¬plice. Chi vuole provare a rispon¬dere?
Pubblico Dall’itinerario in gioco.
R.C. Sì, in qualche modo, certo. Se è l’iti¬nerario secondo la logica della parola o se è nella logica del discorso. È vero ma, come accade, come funziona?
Pubblico Nei rapporti…
R.C. Lei dice se si stabilisce un buon rapporto sociale?
Pubblico Bisogna tornare alla do¬manda, perché la domanda mi sembrava di¬versa.
R.C. Arriva lo straniero, come verrà ac¬colto lo straniero? Verrà accolto o non verrà accolto? Se verrà riconosciuto amico o nemico, da cosa dipenderà?
Pubblico Dall’itinerario.
R.C. Dice dall’itinerario.
A.S. Dipende cosa intende per itinerario. Secondo me dipende da chi lo accoglie, dal padrone di casa. Diciamo che se si riferisce a dei preconcetti, a delle sue idee già presenti, inquadra quel tizio dentro una determinata area di pen¬sieri, oppure se si dispone all’accoglienza dice “Vediamo, potrebbe essere, come no”. Non riesco a spiegarmi.
Pubblico L’itinerario sarà fatto sem¬pre dalla logica della parola oppure dalla logica del discorso, e da questo dipenderà l’autoc-tono…
A.S. Sì, se si forma uno stigma della per¬sona, se si riferisce a…
Pubblico Non solo. Dipenderà anche dal livello di interlocuzione che crea, perché dipenderà da come si pone la sua idea.
R.C. Lei diceva?
M.B. Dipende dalle aspettative di chi lo riceve, nel senso di cosa si aspetta chi lo ri¬ceve, a seconda delle aspettative che ha cia-scuno. Alcune sono aspettative di possibilità e altre di impossibilità, cioè, non tanto quanto è lui, ma quanto gli altri si aspettano da lui, e allora c’è chi si predispone a riceverlo e chi no, a seconda delle aspettative degli autoctoni.
Roberto Canestrale Posso citarla? “Se c’è soggetto, la conferma della soggettività impedisce il dispositivo. Bisogna dissipare la soggettività, è necessaria la domanda. Senza la domanda abbiamo il soggetto. Dalla domanda sorge il titolo”. C’entra con quello che stiamo dicendo o no?
R.C. Questa è materia esattamente di quando?
R.Ca. Del corso sulla formazione dell’in¬segnante. Io mi sono fatto quest’idea.
R.C. C’era un’altra mano alzata.
A.S. Sono d’accordo con quanto diceva la signora, sulle idee che uno ha e sulle sue aspettative, sullo stigma, non so come vuole chiamarle. Si può dire sul grado di aper¬tura, sulla logica della parola che io intendo, come dice lei, o sulla logica del discorso che si rifà a un sistema, a un in¬sieme di precognizioni?
Pubblico Potrebbe essere che non capiamo come viene accolta, e che non ce ne facciamo un problema per non ca¬dere nella logica del “è bene, è male”.
R.C. Non ce ne facciamo un problema!
Graziella Sandonà Nella misura in cui si dice “La logica della parola o la logica del discorso”, per quel poco che posso avere capito, tanto non è in questione la quantità, se con questa sua ag-giunta alla questione che aveva posto prima e poi al tentativo, al percorso di risposta del signore qui davanti, si dice “Logica della parola o logica del discorso”, in questa dualità, viene a cadere la logica della contraddizione; se niente è vero allora niente è falso, la verità sta nella contraddi¬zione. Adesso non voglio farla troppo lunga, però mi andava un po’ di al¬leggerire l’argomento e dico: “Non lo so come verrà accolto”. Ok?
R.C. Eppure, è una questione che per l’e¬ducatore è essenziale.
G.S. Adesso lei “allunga” il termine, è una questione che per l’educatore si pone. In termini temporali non so come verrà ac-colto.
R.C. Esatto. E, tuttavia, è… Sì, c’è un’altra mano alzata.
Lucio Panizzo Prima ha detto “Lasciando farsi l’esperienza”, quindi ammetterla.
R.C. Lasciandosi fare.
L.P. Sì, è questa la questione. È come dire che c’è qualcosa di ambiguo che chiede chiarezza. Allora, non bisogna eliminare l’ambiguità, perché la chiarezza si staglia sull’ambiguità, che poi è la questione del due. Quindi occorre un percorso, un itine¬rario, da lasciare fare però, non da impedirlo per trovare la logica e la chiarezza della questione che lei ha posto, perché la chiarezza deriva dall’am¬biguità e non viceversa. È una cosa che lei diceva e che mi sembra di avere ascoltato in un al¬tro corso. Comunque, mi sembra che sia questa la questione: accogliere la domanda e, man mano, intendere di che si tratta. Non c’è altro modo. È questa l’educazione, quello che io ho inteso intorno all’educa¬zione.
L’esempio che lei faceva del fore¬stiero pone una questione di ambiguità, però occorre che venga svolta l’ambiguità; ma l’ambiguità è originaria, come dire, è il due, è l’ombra.
R.C. Appunto, e non è già scontato que¬sto. Abbiamo molto spesso davanti a noi esempi di invidia, di gelosia, di ostilità. Come mai? Genitori che picchiano i bambini, bambini che si picchiano tra di loro. Come mai? Come c’entra questo con l’esempio dello straniero che arriva in città? C’entra o non c’entra? Forse c’entra. Come accade che, magari, arriva un nuovo collega a scuola o nell’istituzione e c’è chi si chiede se sarà amico o sarà nemico. A partire da questo sarà accolto o sarà respinto. Ci sarà chi lo accoglie, ci sarà chi lo respinge.
S.B. E l’indifferenza? Come dire, mica tutti sono amici o nemici.
R.C. Ci sarà chi proporrà la variante dell’indifferenza, certo. A partire da cosa?
S.B. Dall’interesse, praticamente non en¬tra né come amico, né come nemico nel mio itinerario, in quello che sto facendo non ho interessi.
R.C. Certo. Ma questo è un caso particolare degli altri due, non è una terza via, ma un caso particolare della stessa logica per cui verrà considerato amico o nemico. Difficilmente verrà considerato amico-nemico. Noi di¬ciamo quasi mai. Ma verrà considerato o amico…
M.B. Non sta nell’indifferenza questa cosa?
R.C. No, l’indifferenza è a partire dal massimo dell’interesse.
M.B. Dal massimo dell’interesse?
R.C. Sì, è una variante dell’interesse, l’in¬differenza.
M.B. “Avariante”, con la a davanti?
R.C. No, una variante. C’è una mano al¬zata lì in fondo.
Marina Nives Pojani Diceva prima che, rispetto alla scienza della parola, nella scienza del di¬scorso nulla deve apparire come novità e come imprevisto. Come viene accolta una persona da cosa dipende? Da come ci si dispone. Insomma, se uno parte basan¬dosi su una concezione già data e che può essere riferita al forestiero, o anche al bambino che magari pretende qualcosa o dà fastidio, come ci si pone rispetto alla novità?
R.C. Sarà capitato che, magari nel corso dell’anno scolastico, a un certo punto giunge in classe un alunno nuovo. Mai suc¬cesso?
L.G. Sì, succede, magari se è disponi¬bile, è dopo nell’atteggiamento…
R.C. Cosa accade in classe, cosa si veri¬fica?
L.G. Lo vedi diverso. Tu hai delle aspet¬tative ma, nello stesso tempo, non le trovi nel bambino. Vedi che ci sono altre cose, al¬tre sue aspettative e da parte mia manca il punto d’incontro. Questo sì, può capitare e magari ci vuole tempo per riuscire a incontrarsi.
R.C. Cosa accade al prediletto dell’inse¬gnante quando arriva un bambino nuovo?
L.G. Non parliamo di prediletto.
R.C. Parliamo di prediletto! Per esempio, al prediletto dell’insegnante, quando arriva un bambino nuovo in classe, cosa accade?
L.G. È geloso, molto geloso. Non si parla di gelosia, ma vede che le attenzioni non sono più rivolte a lui, vengono rivolte a altri. Un esempio pratico: tre anni e quattro anni. L’anno scorso i bambini avevano tre anni, quest’anno sono cre¬sciuti e sono diventati di quattro. Le at¬tenzioni di quest’anno sono rivolte sempre a quelli di tre, perché hanno maggiore bisogno, e i bambini di quattro anni hanno vi¬sto che l’atteggiamento nostro è diverso. Adesso si pretende di più, si vuole qual¬cosa di più, e lo dimostrano in gelosia, in atteggiamenti un po’ diversi, perché loro si considerano come l’anno scorso, con lo stesso modo di fare, le stesse esigenze. Quindi, hanno un altro atteggiamento, c’è un altro scontro.
Ma, parlando di scono¬sciuto, come ha detto lei, si presenta in classe un bambino nuovo che ha la stessa età degli altri. È diverso, è un bambino diverso dal gruppo. Non che sia… Ogni bambino è a sé, perché nessun bambino è uguale, però, dal gruppo di bambini che hai già avuto, con cui hai già fatto esperienze, ti aspetti delle cose. Il bambino nuovo che ha uno, due o tre anni, vedi che le aspettative non sono le stesse e, nello stesso tempo, vedi che il bambino che è venuto per la prima volta a scuola ha delle esigenze e le chiede, magari non aper¬tamente, però ha altre necessità, questo sì e si nota. E questo si vede non solo attraverso il discorso, ma anche in tutto il suo modo fare, nel mio e nel suo.
R.C. Quindi arriva in un gruppo.
L.G. Arriva in un gruppo che è già ben or¬ganizzato. C’è anche un’altra cosa: riuscirà a entrare nel gruppo?
R.C. Questo gruppo organizzato, è orga¬nizzato attorno a cosa?
L.G. Attorno a persone adulte, ma anche fra loro. Per esempio, a tre anni, di solito, cominciano a conoscersi dopo un po’, perché non vedono il compagno, le amicizie si formano più avanti. Allora si nota come si formano le amicizie, si cercano fra loro, perché magari hanno gli stessi gusti, gli stessi interessi, amano gli stessi giochi. C’è chi è meno aggressivo, chi è più aggressivo, chi è più dolce. Adesso c’è anche l’aggressività, molta aggressività nella scuola materna.
R.C. Lei dice aggressivo.
L.G. Ci sono anche le aggressività, molte aggressività.
R.C. Ci sono anche le aggressività? Può fare un esempio?
L.G. Un esempio di come intendo io l’aggressività nel bambino? Non accettare che un bambino prenda un gioco, accettare di picchiarlo perché “Lui mi ha preso il gioco e io lo rivoglio”, non usare il linguag¬gio, ma usare solo gesti, morsi, calci. Questa è aggressività.
R.C. In che senso ciò sarebbe aggres¬sività?
L.G. Perché non sa comunicare con la pa¬rola, con il discorso certe sue emozioni, in un qual modo. Poi bisogna anche vedere, perché ci sono altre cose.
R.C. Quindi, lei giustamente dice che si tratta di un problema di comunicazione, un problema di…
L.G. Un problema di comunicazione. Anche di atteggiamento, perché bisogna valutare l’atteggiamento che ognuno ha nei confronti del compagno.
R.C. Un problema di comunicazione nel senso che x vede y in un certo modo.
L.G. In un certo modo, secondo i suoi pa¬rametri.
R.C. E quel modo avvia una procedura. Allora, in che senso questo sarebbe aggressività?
L.G. Da un atteggiamento. Per me l’ag¬gressività è il comportamento che un bambino ha nei confronti di un altro bambino, come comportamento non comune.
R.C. Ah, ecco, come comportamento! Allora l’aggressività è un concetto che trova la sua base nel comportamento.
L.G. Sì, nel comportamento. Sapere usare il comportamento anziché il linguaggio, anziché nell’espressione.
R.C. Cioè nell’idiozia?
L.G. Nell’idiozia in che senso? Proprio idiota!
R.C. Nel senso più preciso del termine, nel suo senso etimologico. Lei sa il senso a cui mi riferisco?
L.G. Povera creatura!
R.C. No, non c’entrano le povere creature.
L.G. Io mi chiedo, delle volte, se si parla di persone.
R.C. L’idiozia sarebbe l’assenza di carat¬teristica. Lei sta dicendo che l’aggressività è un’assenza di caratteristica.
L.G. Posso esprimermi a modo mio? Mi esprimo con i miei termini proprio “da tre anni”. Un bambino che io intendo aggres-sivo è un bambino che vuole…
R.C. È un idiota, è un animale che segue il suo istinto. Questa è l’idiozia.
L.G. È solo una persona educata in una de¬terminata maniera.
R.C. Ora, o noi qualifichiamo l’aggressi¬vità o rimaniamo nel giardino zoologico. Questo intendo dire. Abbiamo aperto un capitolo importante della questione di oggi. Purtroppo, lei si è riservata proprio per i minuti…
L.G. Parleremo la prossima volta.
R.C. Perché mi pare importante questo.
L.G. Certo. L’aggressività per me è una cosa da contenere.
R.C. Da contenere, esatto. Sono state cre¬ate le gabbiette apposta!
L.G. E, insomma!
R.C. Adesso io scherzo, esagero, però mi accorgo che c’è una questione veramente importante di qualificazione rispetto al cal-derone che viene chiamato aggressività, dove c’è di tutto, qualunque cosa che non si riesce a distinguere viene chiamata ag-gressività, che è la base per l’etichettatura e per una serie di considerazioni che non si rivolgono…
L.G. Può parlare la prossima volta di que¬sto argomento?
R.C. Certamente.
L.G. Mi farà un grande piacere, perché è una cosa che ultimamente con i bambini è molto sentita.
R.C. La questione dell’ostilità con l’elabo¬razione intorno all’aggressività.
L’efficacia dell’insegnamento
Ruggero Chinaglia Ha formulato delle domande per oggi?
Luigina Giraldo Pensavo alla questione dell’aggressività che aveva iniziato la set¬timana scorsa.
R.C. In merito a ciò non ha formulato qualche questione precisa?
L.G. Ho pensato a quello che avevo detto io e a guardare un po’ di più i bambini a come si comportavano, se c’erano motivi per cui si comportavano con una certa aggressività oppure con un’altra. Loro l’aggressività non la considerano una cosa cattiva, per loro è come fare una carezza, in un certo senso. È un modo per ottenere o perché gli hanno tolto qualcosa. L’aggressività del bambino non è cattive¬ria, è un modo di esprimere le sensazioni del momento. Oppure ci sono altri tipi di aggressività, dovuti all’immedesimarsi in certi personaggi, in certe situazioni, pensando proprio alla persona cattiva che picchia, che fa del male, ma non per fare del male, perché, per loro… Dicono: “Lo facciamo per scelta”, “Non ci facciamo male”; ma non conoscono i limiti della lontananza l’uno dall’altro. Loro vogliono dare un pugno all’amico perché lo fanno per gioco, invece in certi casi si accorgono che fanno del male. Noi abbiamo creato proprio stamattina una cosa molto bella, ci siamo fatti un angolo dove si deve usare la gentilezza e non le maniere aggressive, però poi c’è sempre quello che si esprime attraverso l’aggressività.
R.C. Certo. Quindi è in corso di elabora¬zione questa faccenda.
L.G. Per noi è sempre in corso l’elaborazione, perché incomincia dall’inizio dell’anno.
R.C. Giustamente.
L.G. Cerchi sempre situazioni, cerchi di incanalare l’aggressività.
R.C. Deve essere incanalata?
L.G. Non sempre. Non incanalata, nel senso di riflettere su certe azioni, su certi modi di fare, dicendo al bambino: “Trova altre soluzioni per quello che fai, prova a pensare se ci sono altri metodi. Quando un bambino ti prende un gioco, tu gli dai un morso perché ti ha preso il gioco, invece prova a vedere se ci sono altri si¬stemi”.
R.C. Sì, magari c’è anche un cazzotto, non solo il morso!
L.G. Qualcosa che non lasci traccia, di¬cevo, in modo che le mamme dopo non di¬cano “Mio figlio è un mostro”!
R.C. Esatto. Lei si chiama?
L.G. Luigina.
R.C. Non Maria Luigia. Ah, è lei Maria Luigia. Infatti, mi pareva. Lei è Maria Luigia e lei è Luigina. Quindi, an¬che Maria Luigia…
Maria Luigia Mi dissocio in parte.
R.C. Ecco, lei si dissocia. Sentiamo al¬lora la sua formulazione qual è.
M.L. A riguardo dell’aggressività? Dipende dal momento, dal bambino, anche dal mio stato d’animo. A volte sono un po’ più tollerante, a volte sono un po’ più in¬vasiva, invadente. Mi preoccupo più di tutto dell’incolumità di questi soggetti, della loro incoscienza, che non si procu¬rino dei danni eccessivi, perché può succe¬dere purtroppo. Ciò è dovuto anche all’am¬biente, alle barriere architettoniche, facil¬mente dobbiamo porre molta attenzione. Eppure, non mi ricordo di avere avuto a che fare con dei casi di bambini estremamente aggressivi, cioè un’aggressività distruttiva o oggettiva, sempre lesiva nei confronti degli altri. Ogni tanto capita al bambino perché sta attraversando magari un mo¬mento un po’ particolare, che si manifesta in questo modo, coi morsi, con le spinte, con l’invadenza nei confronti degli altri.
L.G. […] l’ansia e la paura che si facciano male. Sento molto questa tensione, ho sempre il terrore che si facciano male.
M.L. Anche perché, avendo due figli ma¬schi abbastanza vivaci, ci ho fatto il callo forse, non lo so.
R.C. Secondo lei, da dove viene l’aggressività?
M.L. Secondo me viene sempre da un di¬sagio, da un mal stare.
R.C. Mal stare. Sarebbe il malessere?
M.L. Il malessere che può essere di tan¬tissimi generi, anche fisico. Può essere un’indisposizione, una opposizione, tante cose. C’è anche la televisione che condiziona, soprattutto quando c’erano i Power Rangers, quando c’erano certi personaggi particolari della televisione. Loro si imme¬desimano nelle varie parti e noi vedevamo imitare questi personaggi in ma¬niera troppo aggressiva. Per loro la vita è anche cartoni animati. I cartoni condizio¬nano moltissimo un bambino, soprattutto se sono cartoni violenti, perché loro non sanno vedere l’aggressività del cartone e la riportano nella realtà, perché, poi, il robot chi è? Si danno delle botte, ma poi ritorna in piedi e loro non vedono nella realtà il farsi male. Per fortuna adesso non ci sono più.
L.G. Spero non arrivi qualcos’al¬tro, perché l’imitazione… Anche se provi a parlare di questi personaggi… Quando c’e¬rano le Tartarughe Ninja, uno portò un film di queste tartarughe e gli dicevo: “Guardate, ci sono altre ma¬niere”, e loro: “Va’ via!”, non gli impor¬tava niente, per loro c’era solo il film da vedere.
R.C. Certo. È evidente. Ci sono altri con domande intorno alle questioni che ab¬biamo sin qui dibattuto, cose da chiarire, frutti di riflessione? Ci sono dei frutti della riflessione di questa settimana o della scrittura? Non ci sono frutti? Una settimana senza frutti? Noi abbiamo seminato. Nessuno? Nemmeno Canestrale che è così preciso nello stilare gli appunti?
Marzia Banci Provo a farle una domanda, solo che non vorrei chiacchierare sempre io. L’altra volta abbiamo parlato del valore della parola, del discorso. Qui, noi ave¬vamo come tema L’educazione senza ostilità, che si è fatto presente quando c’era da accettare lo straniero, quando s’era posto il que¬sito “Come viene accettato lo straniero?”. Però, l’educazione senza ostilità non l’ho ritrovata nei miei appunti in quanto era stato espresso. Ora, o io non ho compreso o non è stato sviluppato. Perché, fra essere insegnante, fra essere genitore, fra essere persona che dico “maleducata”, nel senso che è venuta su da tanta educazione, quindi non so dove sta l’educazione e dove sta la non educazione. Avevo interesse che fosse ripreso il titolo per dare uno svolgimento, se fosse possibile.
R.C. Diciamo che ne abbiamo parlato la settimana scorsa. Forse occorre esplicitare un po’.
M.B. Io non l’ho compreso.
R.C. Nel senso che sono sorte le basi per precisare oggi qualcosa in più, per ri¬prendere la questione che si era po¬sta la settimana scorsa sul finire dell’incon¬tro, e che ci dà occasione di precisare la questione dell’ostilità.
Consideriamo il termine aggressività che ricorre spesso. Ricorre frequentemente nei discorsi, talvolta a proposito, più spesso, possiamo dire, a sproposito. Il termine aggres¬sività cosa sarebbe, stando ai dizionari e ai manuali? Sarebbe una ten¬denza più o meno spiccata, più o meno in¬nata verso un comportamento violento con¬tro gli altri e contro le cose. L’aggressività si rivolge, come no¬zione, a quella di comportamento, privile¬giando una caratteristica che è dell’animale e sfociando in una sorta di etologia umana. È noto che gli animali si distinguono per essere domestici o selvaggi, mansueti o aggressivi, docili o feroci, e ciò rientra nell’attribuzione dell’aggressività.
Si tratta, invece, di distinguere tra l’aggres¬sività e l’aggressione. In ciascun caso umano si tratta dell’aggressione, mentre l’aggressività è una sorta di categoria che servirebbe per applicare l’etologia agli umani, per fare entrare gli umani in un or-dine e in un genere animale, dunque per potere attribuire genericamente una catego¬ria.
La questione che interessa, in termini di educazione, di clinica e di parola, è eventualmente la que¬stione dell’aggressione. Come accade che, in una determinata circostanza, in un de¬terminato contesto, in un determinato caso vi sia aggressione? Per cui si tratta di intendere la particolarità, la singolarità, la qualità perché vi sia intervento effi¬cace. Se ammettiamo l’aggressività come potenzialità comune, facciamo dell’educa¬zione un addestramento, abolendo così la specificità e la logica dal caso che abbiamo dinanzi, per una riconduzione a una gene¬ricità, a una standardizzazione. Cioè, ci priviamo di uno strumento per interve-nire, per intendere e intervenire.
Il termine aggressività, che è un neo¬logismo recente, è proprio quanto di più generico si possa attribuire a qualcuno. Ammettendo l’aggressività in quanto tale, come potenzialità, l’Altro è sempre un pericolo, è sempre una minaccia. Potenzialmente aggressivo, potenzial¬mente pericoloso, per cui potenzialmente sempre da correggere, po¬tenzialmente sempre da guarire.
Consideriamo invece l’aggressione nella sua logica e nella sua struttura, perciò nel suo originario. Effettivamente, come accade spesso, si verifica che il bambino, o il ragazzo, o l’adulto va verso un compagno, un amico, un’amica e fa qualcosa che risulta violento, e subito gli viene detto che così non bisogna fare, senza tuttavia capire di cosa si tratti e a che cosa si sta dicendo di no. Questo perché l’aggressione, secondo uno schema pre¬concetto, è fatta coincidere con l’odio, quando invece è tutt’altro, trattandosi nell’aggressione, di una parodia del¬l’amore. Aggredire indicava, un tempo, l’andare verso qualcosa o qualcuno per parlare, e questo è il significato che troviamo in alcuni testi poetici, letterari di qualche secolo fa, significato che poi è andato man mano svolgendosi verso un’accezione negativa.
L.G. Forse, anche per imporre la propria idea. Lei ha detto “Andare verso qualcuno o qualcosa per parlare”, ma anche per esporre un’opinione…
R.C. Per parlare.
L.G. Parlare tranquillamente…
R.C. Adesso non sappiamo. Intanto, te¬niamo conto che c’è questo aspetto. Ag¬gredire ad-gredior sarebbe, in latino, andare verso. Quindi, c’è andare verso quel che si desidera, andare verso qualcosa o qualcuno per parlare di quel che si desidera. C’è l’istanza di desiderio, di de¬siderio che tuttavia non è padroneggiabile, e che perciò incontra la resistenza. La resistenza non è da parte di qualcuno, è resistenza del significante. La resistenza non è un attributo soggettivo, è resistenza del si-gnificante nel suo funzionamento. Adesso lo chiariamo meglio perché è l’essenziale.
Effettivamente, qualcuno notava che la rappresentazione dell’aggressione si verifica nel caso dei bambini, ma senza togliere nulla a altri casi, nel tentativo di prendere qualcosa, di togliere qualcosa. È coglibile immediatamente nel caso dei bambini che, nell’aggressione verso un bambino, un bambino che ha qualcosa, o c’è qualcosa che l’altro bambino o gli altri bambini vorrebbero prendergli o condividere, ecco che dove il desiderio non trova modo di articolarsi nella parola, viene immediatamente posto in atto il tentativo di prendere con un gesto, di prendere quella cosa di cui si tratta o la caratteristica. Un bambino che afferra un altro per i capelli oppure per i vestiti…
M.B. Quindi è l’atto violento che fa di¬ventare il gesto aggressivo. Esiste l’ag¬gressività quando ci si esprime con un atto violento.
R.C. Questa è la banalizzazione. Viene chiamata aggressività questa istanza nel momento in cui viene “tradotta” in violenza. Invece, è altrettanto aggressione nel mo¬mento in cui ci sia qualcosa che va verso l’altro secondo un’istanza di desiderio. C’è la consuetudine di tradurre l’aggressione come atto violento, non tenendo conto di questo andare verso, qualificandolo come aggressivo solo nella misura in cui sia un gesto d’irruenza, di violenza, un gesto che produce effetti di drammatizza¬zione, il bambino che urla, il bambino che piange, oppure un graffio, uno schiaffo, un pugno, qualcosa; ma è altrettanta aggressione una carezza. Strutturalmente, schiaffo o carezza sono due aspetti del-l’aggressione, due facce della stessa cosa.
L.G. Bisogna vedere anche cosa intende l’altro che riceve.
R.C. Qui entriamo in un altro contesto, della cosa come viene letta, come viene accolta o non accolta l’aggressione, questa parodia amorosa, che si tratti della ca¬rezza o dello schiaffo.
L.G. Anche una parola.
R.C. Sì, certo.
L.G. Perché noi vediamo soltanto i gesti per paura che si facciano male, non ci cre¬diamo tanto alle parole […].
R.C. Valore.
L.G. Sì, esatto, è la parola giusta.
R.C. Che è senza peso. E qui si apre il capitolo dell’immunità, del dispositivo immunitario della parola, che adesso non affrontiamo perché da solo comporte¬rebbe tutto un corso, comunque, giusto per intendere che la questione c’è e che è essenziale per ciascuno, come testimo¬niato oggi anche dal discorso medico. Oggi la ricerca nel discorso medico si orienta moltissimo nel campo dell’immunità. Cancro, AIDS, malattie di vario genere considerate au¬toimmuni o non autoim¬muni, tutto ciò ha prodotto un’attenzione verso quello che il discorso medico chiama sistema immunitario; mentre nella parola noi constatiamo l’esistenza di un dispositivo immunitario, dispositivo non sistematico e che per cia¬scuno è es¬senziale.
Quindi, si tratta di indagare e intendere come l’insorgenza di alcuni ac¬cidenti come l’infarto, l’ictus, il tumore, l’AIDS e altre malattie, dipendano dalla perdita del dispositivo im¬munitario, un aspetto del quale è dato proprio dal peso delle cose, quando le cose cominciano a pesare, ossia quando le cose diventano sostanza, sostanziali. Già que¬sto è un indizio che il dispositivo immu¬nitario non c’è più. Magari poi ve¬diamo di addentrarci ulteriormente, ma prima proseguiamo con la questione che stavamo indagando. Non che questo non c’entri, evidentemente, però ci porta un po’ altrove, ma non tantissimo, perché nella questione dell’aggressione, soprattutto quando non si tratta più di bambini, ma di ragazzi o adulti, l’ag¬gressione che si rappresenta effettiva¬mente nel colpire qualcuno, nel percuo¬terlo, assalirlo, toccarlo, ferirlo, indica una non articolazione, una assenza di artico¬lazione del desiderio, per un tabù del tempo.
Pubblico Del desiderio?
R.C. Del desiderio per un tabù del tempo, per una rappresentazione del tempo, cioè per la prevalenza del tabù che si compie nel soggettivismo.
M.B. Posso, scusi, perché ho perso il senso.
R.C. Sì, è un passaggio difficile questo.
M.B. Perché sto pensando al tabù.
R.C. Esatto. Lei pensa al tabù. A quale tabù?
M.B. Al tabù del tempo. Il tabù io lo in¬tendo come la cosa proibita, da non fare. Del tempo. Tempo in¬teso?
R.C. Occorre precisare la nozione di tempo. Facciamo un esempio, la durata, l’idea di durata è un tabù del tempo. La nozione di durata è una negazione del tempo, della temporalità, privilegiando una misura rite¬nuta possibile del tempo e abolendo il tempo. Quello che nel discorso occiden¬tale si chiama tempo, e qualificato in mesi, giorni, anni, ore, minuti, secondi, non è il tempo, è un’idea di durata, è una misura¬zione, quindi è una spazializzazione. Il tempo, propriamente, è immisurabile. Immisurabile, incontabile, imprevedibile, inconoscibile, infinito e istantaneo. Accade che gli umani tentino di rappre¬sentarselo, ma ciò non vale a padroneggiarlo. Noi ci accorgiamo del tempo per i suoi effetti, ma non possiamo vedere il tempo, o toccare il tempo, o contare il tempo. Ci accorgiamo del tempo per i suoi effetti e ne abbiamo una rappresentazione attraverso alcuni suoi indici.
M.B. Il limite è per le cose, non del tempo. Voglio dire, il limite è la mia cre¬scita, è la foglia che cresce, è il sole, sono altri soggetti. Il tempo non si esprime nelle cose. Le cose sono così, ciascuna porta avanti se stessa, ma non in relazione al tempo.
Pubblico Le rughe…
M.B. Ma non sono le sue, sono le mie. Io posso avere le rughe a 35 anni, a 25, a 18, a 98…
R.C. Le rughe non c’entrano niente con il tempo.
M.B. Neanche i capelli bianchi, nean¬che…
R.C. La ruga acquista un significato per gli umani chiaramente per via che pensano alla morte, ma non per il tempo.
William Gasparini Si parlava di limiti. C’è chi considera la vita, il solco della vita.
R.C. Possiamo considerare la morte un indice del tempo, ma non è il tempo. È un indice.
M.B. Se guardiamo gli elettroni, i protoni e i neutroni, ci danno il corpo fisico per la diret¬trice del tempo, perché questo era e questo saranno. Voglio dire, non è che io sono elettrone, protone e neutrone, ma quando non ho più questa fisionomia, i miei elettroni, protoni e neutroni ci saranno comunque, quindi non ho perso niente, hanno cambiato forma. In Lavoisier nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il tempo non c’entra.
R.C. Come non c’entra?
M.B. Adesso noi misuriamo il tempo, ci siamo dati questa cosa, però abbiamo detto che è un indice per l’uomo, è un effetto di cui l’uomo tiene conto, non un’espressione del tempo. L’uomo si misura attraverso questo.
R.C. No. È un indice nella parola, perché se aboliamo la parola non c’è nemmeno l’indice. Occorre tenere conto che tutto ciò esige la parola e la sua logica. La stessa idea di tutto è un modo di negazione della parola. Già Leonardo Da Vinci diceva che il tutto risulta una parte nel momento in cui c’è la parola, e attorno alla questione del tutto anche i logici si sono a lungo interrogati per trovare che non c’è il tutto. Esiste ciascuna cosa nell’infinito e, stante l’infinito, non c’è il tutto.
M.B. Scusi, ma l’infinito è già infinito. Voglio dire che l’infinito, come diceva lei, col tempo si misura. Allora, solo perché non è misurabile è infinito, e poi quello che non sia misurabile è infinito. Poi, ci sarà qualcuno che misura di più e quindi…
R.C. La questione è logica, non tecno¬logica. È una questione logica. È chiaro che uno dei miraggi principali del discorso occidentale è di trovare il fondamento. L’idea è che non è stato tro-vato per mancanza di strumenti abba¬stanza precisi ma, perfezionandoli… Ecco, allora, che l’indagine va sempre più verso il piccolo, il più piccolo, l’infinitamente piccolo, il piccolissimo, ma ciò non può togliere il pa¬radosso di Achille e della tartaruga, così come non può togliere il paradosso della menzogna.
Simone Barison Anche il paradosso di Achille e della tartaruga si pone nell’infinito.
R.C. No, perché l’infinito sta tra lo zero e l’uno, quindi è insuperabile. L’infinito sta tra lo zero e l’uno e non è superabile proprio per la proprietà del tempo che è divisione, divisione che funziona parlando. Il tempo è la divisione che funziona nell’atto di parola, per cui ciascun significante, parlando, differisce da sé e si situa in una differenza incolmabile.
M.B. Mi scusi. Il tempo è la divisione della parola in cui ciascun parlante…
R.C. Ciascun significante si divide da sé.
Cecilia Maurantonio Il tempo è divisione della parola?
R.C. Tra quanti sono qui presenti, cia¬scuno ha scritto una frase differente. Questo è già una testimonianza che il tempo interviene in modo assolutamente imprevedibile, incontenibile e non assog-gettabile alle intenzioni di questo o di quello. L’ascolto stesso è un effetto temporale. Quindi, noi ci troviamo esposti, parlando, all’effettualità temporale.
S.B. Se diciamo che l’infinito sta tra lo zero e l’uno, definiamo per questo già dei limiti, lo zero e l’uno, per cui l’infinito sta tra zero e uno. Ma
possiamo assegnare dei limiti?
R.C. Occorre che lei intenda cosa vuole dire “tra lo zero e l’uno”.
S.B. Che sono dei paletti?
R.C. No.
S.B. O sono dei “tra”, dico tra uno e l’al¬tro, presuppongo un inizio e una fine.
R.C. No. Che cosa non è chiaro fin qui?
Maria De Lorenzis Lei ha detto che l’aggressione indica l’assenza del desiderio per un tabù del tempo, cioè il passaggio…
R.C. Non ho detto l’assenza.
M.D.L. L’assenza no, ma l’articolazione del desiderio…
R.C. Assenza di articolazione, non di de¬siderio. È il contrario. È l’assenza di articolazione del desiderio.
M.D.L. Sì, praticamente intendendo il tempo come qualcosa di definito e il desi¬derio…
R.C. Per un tabù del tempo. Così ho detto, mi pare.
M.D.L. Intendendo il tempo come qual¬cosa di definito e il desiderio… Cioè, nel senso di articolazione del desiderio che sfocia nell’atto, come praticamente in atto in una cosa compiuta. Quindi, la differenza tra l’atto e la parola. L’atto non indica il tempo, mentre la parola indicherebbe il tempo. Ma perché l’atto non indica la trasformazione, non indica il tempo, mentre la parola sì? Perché, nel momento in cui c’è il detto, praticamente già c’è stata una trasformazione che noi non riusciamo poi… Anche fare qualcosa, non solo parlare, modifica una situazione. L’impronta delle mani su una guancia o fare un oggetto, da una sostanza fare un’altra cosa, può indicare l’indice del tempo, perché diventa una cosa defi¬nita.
R.C. No, è il contrario.
M.D.L. Del tempo che è passato.
R.C. Uno schiaffo ha poco di temporale nell’accezione che dicevamo poco fa. Perché giunge uno schiaffo?
M.D.L. […].
R.C. Lo schiaffo è proprio il segno del¬l’assenza di parola. Ma in che termini? Nei termini dell’assenza di autorità: non c’è nome che funziona, non c’è titolo. Può accadere una circostanza in cui lo schiaffo sia l’intervento da fare, ma è rarissima, è proprio quella circostanza particolarissima, non come invece accade. Basta andare per strada e la cosa più comune da vedere è che una mamma picchia il suo bambino, e spesso per motivi assolutamente inutili, perché ha lasciato cadere per terra qualcosa, o ha chiesto una cosa, o ha alzato la voce, e nei modi veramente più assurdi e abominevoli. Non c’è parola. Ma non parola nel senso che non c’è dia¬logo. Non c’è parola, cioè, quella madre non si situa nella parola e non situa nella parola quel bambino. Sono due animali che stanno tra loro in modo animalesco e, allora, il gesto dell’uno è visto come mi¬naccia per sé, e scatena una reazione che la minaccia comporta, cioè la contromossa. La mossa e la contromossa.
M.D.L. La differenza tra l’atto e la pa¬rola…
R.C. L’atto è atto di parola, innanzitutto. L’atto, cos’è l’atto? È atto di parola. Non c’è antinomia tra l’atto e la parola. Abbiamo l’atto come atto di parola, quindi atto che si situa nella logica della parola.
M.D.L. Poi, volevo chiedere un’altra cosa. Quando interviene l’autoaggres¬sione, cioè l’aggredire se stessi, nella pro¬pria persona c’è l’identificazione con due possibili persone; possono essere tante cose. Se noi intendiamo l’aggressione pa¬rodia dell’amore, allora l’aggressione verso se stessi cos’è?
R.C. Anche quella che si chiama aggressione di sé è sempre qualcosa che esige il sé, e il sé non sono io. E anche questo occorre situarlo in una struttura e in una logica che non sia binaria. Ora, stanno emergendo degli esempi che bisogna qualificare. Nel senso che, con il termine aggressività e, per estensione, aggressione, rischiamo di considerare cose che non stanno nella struttura dell’aggressione. Non è detto che l’autolesionismo rientri nella struttura dell’aggressione; oppure si tratta di indagare e trovare qual è la sua particolarità rispetto a questo, ma non va da sé. Non va da sé. Così come non va da sé che lo sia il suicidio, o l’omicidio, o la rivalità, o l’idea di concorrenza, o l’invidia, o la gelosia, o la fantasia di strappo, quella che Freud chia¬mava Penisneid, l’invidia del pene. Tante cose ci sono.
M.B. L’aggressività può essere ostilità? Si può negare l’ostilità all’aggressività?
R.C. Dicevamo la settimana scorsa che l’ospite è amico-nemico, l’estraneo è amico-nemico. Mettiamo che un estraneo se ne va per la strada, tranquillo, estraneo, amico-nemico. Incontra l’algebra, la quale algebra, cosa gli fa? Lo divide in due, metà amico e metà nemico. Uno più, l’altro meno. Uno positivo, l’altro negativo. L’algebra dicotomizza, nel senso che attua una rappresentazione del tempo. Il tempo divide parlando, e quindi ciascuna cosa differisce. L’algebra divide algebricamente, cioè lasciando un segno, un segno positivo da una parte e negativo dall’altra. Allora, quell’estraneo, dopo avere incontrato l’algebra, diventa o amico o nemico. Non più amico-nemico, ma o nemico o amico, aut-aut. Una parte sarà ospite e l’altra sarà ostile. L’ostilità viene da questa rappresentazione dicotomica delle cose che hanno incontrato l’algebra, l’algebra come modalità di applicazione della logica binaria. L’ostilità è il prodotto dell’applicazione della dicotomia, di un fantasma che opera l’alternativa esclusiva o-o, rispetto allo sta¬tuto originario e-e, ossia amico-nemico, un’alternativa esclusiva, di contrapposizione.
M.B. Scusi. In questo caso, sempre re¬stando nell’ambito di due persone che s’incontrano, stabilire… Lo straniero, dato che sono io che lo sto guardando, può essere lui ostile o sono io ostile? Voglio dire, l’ostilità è una cosa che può riguardare me o lui. O questo no? O diventiamo ostili?
R.C. Nel novantanove per cento dei casi riguarda entrambi, per dir così.
M.B. No, nel senso che, anche come di¬ceva, nei ragazzi, nelle cose, nelle persone, non è perché quello ti viene addosso e ti dà un morso, adesso prendendo… Per esempio l’Altro che diviene ostile.
R.C. L’aggressività non è un caso di ostilità. L’aggressione non è un caso di ostilità, è un caso d’amore, è un caso di desiderio, è un caso, possiamo dire, di acting out. Rispetto alla differenza che il processo di desiderio incontra, rispetto al paradosso della realizzabilità del desiderio, ecco che l’aggressione si pone come acting out, come il tentativo di realizzare il desi¬derio fuori dalla parola.
Occorre sia chiaro che il desiderio è irrealizzabile. Irrealizzabile il desiderio! Come dire, e qui torniamo alla questione che abbiamo introdotto la volta scorsa intorno alla lin-gua, che il desiderio è qualcosa che è artico¬lato linguisticamente e trova la sua soddi¬sfazione con la lettera e nell’etica. Il significante, differendo nel suo processo, rilascia la lettera. Il processo di qua¬lificazione del significante, che rilascia la lettera, è ciò che soddisfa il desiderio.
Allora, il processo di soddisfazione del de¬siderio è ben lungi da essere ciò che si ritiene sia, e cioè che il desiderio possa essere soddisfatto o realizzato con la presa di quello che si ritiene essere il suo oggetto, che invece è ciò che lo causa ma che non lo soddisfa!
Quello che Freud ha chiamato la nevrosi, in particolare la nevrosi da transfert, ma già con il termine nevrosi si chiarisce bene, è proprio il fraintendimento di ritenere che il desiderio possa soddisfarsi con ciò che lo causa, quando, invece, il desiderio va in direzione della lettera e non in direzione di ciò che lo causa. Come dire che noi non sappiamo ciò che soddisfa il desiderio prima che trovi soddisfazione. È molto semplice questo, ma per taluni è insopportabile, assolu¬tamente insopportabile.
Ora, in particolare in un bambino in cui il processo linguistico non è ancora ben avviato, articolato, l’av¬vertire il desiderio e cercare di prendere ciò che ritiene di essere la causa e ciò che ne dà soddisfazione, può risultare imme¬diato, per cui va a prendere la cosa che sente gli manca, nel senso che… Sì, Luigina.
L.G. Voglio chiedere una spiegazione. Ci sono dei bambini, magari vedono una macchinetta, ognuno per conto suo la vede, e arrivano perché la vogliono prendere tutti e due. Uno arriva prima, l’altro arriva dopo.
R.C. Chiaro. E quindi l’altro lo piglia, lo butta via e si prende la macchinetta.
L.G. No. L’altro piange, dice: “Quella l’ho vista prima io”. Ma, chi ce l’ha prima, chi l’ha presa prima? “Io, perché l’ho vista prima io”.
R.C. Siamo già in una avanzata situazione di conversazione in quel caso, è già un momento di articolazione.
L.G. No, ma l’immediatezza di tutti e due…
R.C. C’è qualcuno che è arrivato prima, però anche chi è arrivato dopo.
L.G. Ma loro non capiscono che l’altro è arrivato, perché l’ha vista anche lui. Per loro, quando l’hanno vista, il meccanismo di andarla a prendere è immediato, però non riescono a capire.
R.C. Tuttavia, la questione linguistica qual è? La questione linguistica, strutturale, che riguarda la struttura della parola, è che “macchinetta”, la macchinetta o quell’altra cosa, è un significante!
W.G. L’oggetto di desiderio è un signifi¬cante? L’oggetto presunto è un significante?
R.C. È un significante!
Pubblico Non ho capito. La parola è un significante o l’oggetto?
R.C. La parola, cioè “macchinetta”.
Pubblico La macchinetta è reale, e la parola “macchinetta” è un significante del¬l’oggetto?
R.C. È significante della macchinetta.
Pubblico Dell’oggetto macchinetta?
R.C. Dell’oggetto macchinetta, va bene. Allora, è attorno al significante “macchinetta” che litigano i due bambini? Attorno all’oggetto?
Pubblico Litigano con la parola e con l’atto intorno all’oggetto macchinetta.
R.C. L’oggetto e la macchinetta non coin¬cidono! L’oggetto che causa il desiderio, e ciò che viene desiderato, non coincidono! Diceva bene Luigia: il bambino vede un altro bambino guardare la macchi¬netta, e desidera la macchinetta. Desidera la macchinetta perché? Perché ha visto l’al¬tro bambino che la guarda. Quindi, c’è uno sguardo che funziona come oggetto che ha causato il desiderio in direzione della mac¬chinetta, che è il significante del desiderio.
Pubblico La fa ritenere desiderata.
R.C. Esatto, per esempio.
Pubblico Ma succede anche a noi, un mito, un cantante famoso, un attore, un divo è desiderato in quanto sai che è desi¬derato.
R.C. Certo. Comunque c’è una struttura, c’è una combinazione. L’oggetto che causa è indotto dal desiderio, mentre ciò che viene desiderato è il significante, in questo caso “macchinetta”. E il si-gnificante, tuttavia, nel momento in cui entra nel processo di qualificazione, non è lo stesso, differisce, cioè risulta menzo¬gnero. Dunque, la macchinetta non soddisfa il desiderio. Tanto è vero che se il bambino arriva a prenderla, dopo cinque minuti la lascia e si rivolge altrove.
M.B. C’entra qualcosa la competizione?
R.C. La competizione è un fantasma, per esempio, di desiderare o di potere usufruire della stessa cosa. Competere: domandare in-sieme la stessa cosa. La competizione è andare verso lo stesso traguardo.
M.B. Quindi, l’aggressività può scaturire da questo fantasma? C’è un collegamento o no, secondo Lei?
R.C. Sì. Qui usciamo dall’ambito dei bambini. Ci sono varie forme di competizione, nel lavoro, in termini pro¬fessionali, oppure…
Pubblico Normale competizione.
R.C. Sì, normalissima, proprio la più normale! Nel senso che è un fantasma che nega la temporalità, nega il tempo, in quanto presume che la mia domanda e la tua domanda o la sua domanda, si rivol¬gano verso la stessa meta, e possano trovare soddisfazione dalla stessa cosa. È propriamente un fantasma di abolizione del transfert, cioè del funzionamento della parola. È un tabù del tempo. Come la gelosia o lo zelo.
M.B. Questo fantasma lo fa crescere l’e¬ducazione? Viene coltivato nel campo del¬l’educazione, specialmente didattica?
R.C. Questo fantasma è coltivato dai cultori dell’algebra, quelli dell’aut-aut. I cultori dell’algebra sono gli stessi che promuovono il ricatto, la recriminazione, la rivendicazione; così abbiamo già co¬perto il novanta percento dei guai.
Pubblico La ripicca.
R.C. Bravo, la ripicca. Sono le varie forme di abolizione del terzo. L’algebra questo fa, ribadisce che tertium non datur. Non c’è terzo. Tertium non datur, cioè o-o, positivo o negativo quando, invece, esiste anche il neutro. Dicevano per esempio i la¬tini: maschile, femminile e neutro, tre generi. I greci dicevano: singolare, plurale e duale. Introducevano il terzo negato filo-soficamente, per altre vie, in altre forme, nella grammatica per esempio.
Chi sono i cultori, diceva lei, del fantasma di esclusione? Sono quelli che Leonardo chiamava gli umanisti, i “trombetti”, quelli che si appellano alla conoscenza del si¬stema, di come devono essere le cose, le cose finite.
M.B. Nel 1998?
R.C. Chi sono nel 1998? Vuole un elenco o solo qualche accenno?
M.B. Un accenno.
R.C. I pedagoghi, gli psichiatri, gli psico¬pompi.
Pubblico Gli?
R.C. Gli psicopompi. C’era lo psico¬pompo nell’Inferno. Psicopompo: il tra¬ghettatore di anime, la guida delle anime morte. Ce ne sono tanti che guidano le anime, morti che guidano le anime morte. Questi coltivano il fantasma delle anime morte, cioè dei morti viventi, che sono coloro che vivono e pensano di es¬sere già morti data la loro predestinazione; e sono numerosissimi. E poi ci sono quelli che dicono: “Tu hai bisogno di una guida. So io come fare” e sono gli psico¬pompi che la sanno lunga sulla morte del-l’Altro. Essendo già morti molto prima è chiaro che la sanno lunga o, meglio, credono di saperla lunga sulla morte. Vuole altri esempi? Bastano questi! Quanti, cioè, si appellano alla scienza del discorso, all’insieme delle cose finite. Ogni sapere disciplinare fa riferimento a questo fantasma.
M.B. Quindi, rimanerne incontaminati è possibile?
R.C. Adesso lei introduce la contamina¬zione.
M.B. No, ma nel senso che… Siamo sem¬pre legati all’educazione. Io parto sempre da questo tema.
R.C. Questo fantasma non è che debba es¬sere purgato. Non si tratta di epurare la società dai fantasmi, di epurare la vita dalle fantasie. Importa at¬traversarle.
M.B. Il fare, insomma.
R.C. Brava, certo. Ho visto delle mani alzate. C’era Simone Barison, poi Maria Luigia, poi ho visto anche… Non lei, dietro di lei. Non quello che diceva: “Après-moi, le déluge”! No, dietro di lei c’è ancora qualcuno. Non è che finisce tutto. Dietro di lei c’è ancora qualcuno.
S.B. A proposito dei bambini, è stato detto che, non essendo il processo linguistico articolato in ciò che avvertono come og¬getto di desiderio, vanno incontro a tale oggetto.
R.C. Sì.
S.B. Allora sono, per usare un ter¬mine un po’ provocatorio, “spacciati” finché non arrivano a avere un sistema linguistico articolato, in cui possono svi¬luppare il desiderio.
R.C. Per questa via i bambini entrano nel¬l’esperienza di parola. Il bambino si rende benissimo conto che la macchinetta, a un certo punto, sorge come interesse perché interessa all’altro bambino o altre cose. Certamente, c’è tutto un modo di…
S.B. Si può aiutare un bambino a elabo¬rare questo desiderio, oppure è necessario che cresca per potere elaborare e articolare la questione?
R.C. Esatto. Questa è una bella domanda.
S.B. Una clinica dei bambini.
R.C. La questione di cui si rende subito conto un bambino, e la cui esperienza è importantissima, è la frustrazione, che gli psicopompi moderni, i morti che traghet¬tano le anime morte, attribuiscono come caratteristica soggettiva: “Tizio è frustrato”, “Quell’altro è frustrato”, “Una situazione frustrante”, “Bisogna evitare la frustra¬zione”. È assurdo! La frustrazione è costi¬tutiva della parola, è costitutiva dell’espe¬rienza del desiderio!
Frustrazione vuole dire vanità. L’esperienza della vanità è es-senziale. Frustra, in latino, vuole dire invano. Invano, vano. Indica che tu non puoi prendere l’oggetto. Questa è la frustrazione. L’oggetto non è prendibile. La soddisfazione non viene dalla presa del¬l’oggetto, perché l’oggetto è vano, è vuoto, è invisibile, è intoccabile e quindi il tenta¬tivo di prenderlo è vano. Ciò non vuole dire che non lo fai, ma tenti invano. Frustra: invano. Ma non è che per questo uno diventa frustrato. Per nulla. Attraverso l’esperienza della frustrazione c’è modo di accorgersi della struttura della parola. Non è il soggetto frustrato, ma co¬stitutivamente l’atto è vano e intro¬duce alla frustrazione, che non è un guaio. Assolutamente. È esperienza costitutiva, e occorre pure che avvenga. Dice: “Ma que¬sto sarebbe frustante, se accadesse sarebbe frustrante”. Prima, William Gasparini mi pare, evocava la questione della droga. Ecco, possiamo dire che chi non accetta la frustrazione, si rivolge poi alla droga. Chi ritiene che la frustrazione sia un optional, cerca la soddisfazione nella sostanza, in quella cosa che sicuramente mi consente di evitare la frustrazione: la droga. Assurdo, perché, anzi, è un supplemento alla fru¬strazione, ma è supplemento alla frustra¬zione che viene da un’esigenza di articolare qualcosa che non è stato articolato.
Ecco che la questione della così detta terapia della droga occorre che tenga conto di questa struttura, non che crei l’ambiente protetto per evitare la frustra¬zione, ma che consenta di articolare la frustrazione, consentendole un incontro in condizioni di elaborazione, non di evitamento. Questo sì. La droga, ma poi c’è tutta una vasta gamma delle possibili rappresentazioni di ciò.
Questa è propria¬mente la questione del transfert, cioè del funzionamento della parola, funzionamento lungo cui la parola incontra la tra¬sformazione, incontra la metafora, la me¬tonimia, la trasposizione. Incontra e esige, innanzitutto, un processo di astrazione che è essenziale fin dall’infanzia. Un processo di astrazione. Questa è la questione essenziale per i bambini, senza cui non c’è nemmeno l’adulto se non av¬viene il processo di astrazione: dall’oggetto, alla cosa, alla parola. Da papà e mamma, a Dio. Da papà e mamma, al sem¬biante. Processo di astrazione, in cui cia¬scuna cosa ha uno statuto intellettuale e non sostanziale, e esige la parola con la sua logica e con la sua qualità.
C’è chi dice: “Ma è troppo piccolo per ca¬pire”. Assurdo! Se capisce, vuole dire che non è troppo piccolo. Se è troppo piccolo, non capirà. Ma non possiamo prescrivere noi se può capire o non può capire, se ca¬pirà o non capirà. Importa av¬viare il processo di astrazione, consentire che si avvii. Non ostacolarlo, prima di tutto. Come alcuni traghettatori di anime morte, invece, talvolta tendono a fare, inca¬nalando, prescrivendo tipi, modelli, età per un funzionamento di un certo tipo o di un altro.
Pubblico Che ritarda assolutamente la stigmatizzazione.
R.C. Sì. Non lo stigma, ma le stigmatiz¬zazioni. Esatto. Anzi, favorendo lo stigma, cioè che ciascuna cosa abbia la sua caratte-ristica, la trovi nella parola. Senza stigma¬tizzazione, che è la moralizzazione dello stigma, della caratteristica e quindi la ge-neralizzazione. Certo. Ciò è precisis¬simo.
Lucio Panizzo Volevo dire che, se la fru¬strazione dimostra che l’oggetto non è prendibile, che c’è un tentativo di presa che però risulta impossibile, allora lei ha parlato dell’astrazione. L’astrazione com¬porta che c’è un itinerario verso la qualità. Se la frustrazione indica che l’oggetto non è prendibile, come trovare la soddisfazione se l’oggetto non è prendibile? Allora, dal¬l’oggetto verso la qualità, ma attraverso un processo di astrazione.
R.C. Esatto.
L.P. È questa la via, dal sembiante alla cifra.
R.C. Esatto. La questione qual è? In che modo talvolta viene ostacolato, impedito questo processo? Finalizzando l’atto alla soddisfazione, cioè situando la soddisfa¬zione dove crediamo che sia, in termini drogologici. “Fai questo, fai così, fai colà, fai quello”, “Fai così, che è per il tuo bene”, “Fai così, perché così va bene”. Tutta una serie di prescrizioni finalizzanti e, molto spesso, distoglienti, perché fina¬lizzano a una soddisfazione presunta. Già questo è una sorta di prescri¬zione sostanzialista, come se si dovesse abolire il dispendio, come dovesse essere eco¬nomizzato: “Il maggior risultato con il mi¬nimo sforzo”. Ecco, la psicosi è assicurata. Prescrivere a qualcuno l’ideologia del maggior risultato col minimo sforzo, è assolutamente letale, vuole dire togliere il dispendio, togliere la base stessa della soddisfazione, togliere la ricerca, togliere la particolarità dell’itinerario, dello svol¬gimento. Senza dispendio, non c’è nem¬meno godimento. Tutto deve essere ri¬sparmiato, tutto nel piccolo, nel poco. Questo è già un incanalamento verso una forma di quel fantasma che dicevamo prima, di economia del tempo, della soddisfazione, della ricerca, dello sforzo, cioè del risparmio più che dell’economia.
M.B. Questa è una teoria economica, la si potrebbe lasciare nell’economia e non nella vita. Voglio dire, la teoria che ha enunciato lei è una teoria economica, keynesiana. Allora dico, è lecito? È giusto? Lo possiamo fare di portarlo nella vita o lo possiamo lasciare nell’economia?
R.C. È già nella vita se è nell’economia. Diceva Jacques Lacan una cosa molto semplice: “Il motto che spesso si sente fare ‘O la borsa o la vita’, è solo apparen¬temente un’antinomia, una possibilità di scelta. Se togli la vita, che te ne fai della borsa? E se togli la borsa, che te ne fai della vita?”, nel senso che fanno parte en¬trambi della vita. L’economia è nella vita.
M.B. Ma non è l’unica sostanza della vita.
R.C. Certo, ma c’è un’integrazione delle cose, non è che si possa adottare una logica in un pezzetto, poi in un altro pezzetto un’altra logica. C’è un’integrazione. Le cose avvengono per integrazione.
Pubblico La borsa e altro.
R.C. È la questione dell’integrità delle cose. Le cose sono integre, non sono ma¬late, non sono da salvare. C’è l’inte¬grazione, la chiarezza, l’integrità.
S.B. Ha detto qualcosa su come evitare d’impedire il processo di astrazione, ma come favorirlo?
R.C. Lo stiamo dicendo. Prima di pensare a come favorirlo per i bambini…
S.B. Come promuoverlo, dico.
R.C. Bisogna prima accorgersi di qual¬cosa, bisogna prima avere inteso qualcosa, situarsi nella logica della parola, altrimenti si favorirà l’impedimento.
S.B. Ma, dato per scontato che…
R.C. No, non diamo per scontato nulla!
S.B. Ammettiamo…
R.C. Stiamo propriamente parlando dei modi per favorire e, tenendo conto di que¬ste cose, sicuramente il modo dell’inter¬vento già è un altro. Non è che si possa prescrivere come. Non c’è né prescrizione positiva né prescrizione negativa, perché si tratta di attuare qualcosa che sta nella parola, e non è che possiamo trasfor-mare la parola in una disciplina.
S.B. Però abbiamo detto che nei bambini la parola non è ancora…
R.C. Abbiamo detto “il processo lingui¬stico”.
S.B. Il processo linguistico non è an¬cora…
R.C. Certo. Questo, comunque, è solo un pretesto per capire qualcosa che riguarda anche l’adulto, in cui non sempre il pro¬cesso linguistico è articolato nei termini della parola ma, molto spesso, si attua in¬vece in termini dicotomici.
Ho visto una mano là in fondo.
Alessio Menegazzo È la mia. A proposito dell’aggressività, mi sembra che Freud, non so in quale testo, parli di […]. Adesso non so se sia in un caso clinico che lui ha seguito. Mi pare parli di un uomo che, dopo avere avuto una relazione con una donna, insomma, dopo questo episodio, è diventato aggressivo proprio per questo motivo.
R.C. Questo introduce a un aspetto del¬l’aggressività o, meglio, dell’aggressione, a una caratteristica che è l’erotismo. Prima dicevamo carezza o schiaffo, due aspetti della stessa cosa. In entrambi i casi c’è un erotismo che riguarda l’oggetto e il tempo, cioè una sorta di fantasma di padronanza e di controllo sulla fonte, sulla meta, sull’oggetto del piacere. L’erotismo è questo.
Mi rendo conto che ci sarebbe da spendere qualche parola in più ma, come spesso accade, le questioni emergono in scadenza di tempo e di orario, per ciò è una que¬stione che annoto e sicuramente la ripren¬diamo la prossima volta. Mi pare, adesso, che la questione dell’ostilità forse risulta maggiormente svolta rispetto alla volta scorsa e consenta d’intendere che si tratta di […]. Il titolo L’educazione senza ostilità, è un invito al ragionamento. Caso per caso, si tratta di intendere quel che accade, non di partire dalla presunzione di sapere, ma di dotarsi di umiltà, generosità e intelligenza nella pratica di ciascun giorno che riguarda l’educazione, l’insegnamento e l’educazione.
Qui avevo alcune altre note intorno all’affrontamento, alla rivalità, alla gelosia e all’invidia che eventualmente riprendiamo la volta prossima, vedremo anche la questione stessa della paura, in che modo si combina con questo.
Ecco, per oggi terminiamo qui. Le cose che ciascuno ritiene che esigano un’ulteriore precisazione può annotarle, durante la settimana ci riflette, ci scrive qualcosa e così la volta prossima possono venire formulate delle ulte¬riori richieste, domande, annotazioni.
Il progetto e il programma di vita
Ruggero Chinaglia Ci sono domande ri¬spetto alle cose fin qui proposte? Ecco, c’è una prima domanda.
Marzia Banci Che è composta da quattro.
R.C. Bene!
M.B. La prima difficoltà è che devo ap¬profondire il significato di cifra e lettera, perché non solo non mi è chiaro, ma mi è proprio oscuro, nel senso che mi manca… Credo di comprendere nel prosieguo ma, siccome mi manca la precedente, ho difficoltà. Quindi, mi servirebbe capire questa cosa: tra la lettera e la cifra che dissonanza… Non so neanche formulare bene la do¬manda, perché non ne so. Poi, un’altra cosa che era rimasta in sospeso l’altra volta, era come favorire l’astrazione. Inoltre, le volevo chiedere che differenza c’è tra astrazione e idealizzazione. Un’altra era una riflessione a riguardo dell’educazione, se ho capito bene, emerge che la persona è come è a seguito dell’educa-zione che ha ricevuto, però, è anche vero che a pari educazione ottengo personalità molto diverse sia in una classe che…
R.C. A pari?
M.B. A pari educazione, nel senso che io faccio la stessa comunicazione in una classe o in famiglia, mi muovo in un certo modo, ma poi ottengo allievi che hanno un modo di reazione – io dico di reagire, agire e interagire – che è di¬verso. Allora, vorrei sapere da dove scaturisce questa possibilità di diversità a pari trattamento? Ecco, una domanda un po’ così… Un’altra riflessione l’avevo fatta sul tempo, tempo che, a mio modo di vedere – ammetto che sono proprio ignorante – non esiste in natura. È una misura che ha dato l’uomo, mentre la natura procede, diviene. Ecco, diviene, ma non con il tempo. Quindi, il concetto di tempo che noi diamo è quasi uguale, uso questa cosa un po’ grossolana, a dire il litro, il quintale e il metro. Quindi, l’uva cresce indipendentemente da quanti quintali sarà. Questa versione del tempo la trovo dappertutto. Ho cercato anche il tempo della parola, nel verbo che appunto non sapevo, che a sua volta ha quattro tempi e così via. Però il tempo, in fondo, io credo che è un pensiero umano che in natura non c’è, è una cosa che non è in natura il tempo. E così lancio queste quattro domande, riflessioni e ringrazio.
R.C. Grazie a lei. Sono cose interessanti. Benissimo. Queste intanto sono quattro belle questioni. Ce ne sono altre?
Anna Borgato Io ho la questione del de¬siderio. Mi chiamo Anna Borgato. È una cosa che intuisco, ma non l’ho capita bene, perché a un certo momento è venuto fuori che il desiderio trova la sua soddisfazione con la lettera e nell’etica. Sono cose che per me non hanno… Non so dove andare a metterle, a prendere e a mettere, non hanno connessione, almeno non lo so.
R.C. Altri? Altre domande, altre nota¬zioni? Luigina?
Luigina Giraldo No.
R.C. Come? Ci lascia senza il suo contri¬buto?
L.G. Oggi no, cerco di stare un po’ zitta. Non ho niente da dire.
R.C. Per ora.
L.G. Per il momento no. Se ho qualcosa da dire, alzo la mano.
R.C. Va bene. L’accento delle domande verte intorno alla questione linguistica, quindi significante, lettera, cifra, etica. Sono aspetti della logica funzio¬nale, cioè della logica secondo cui la pa-rola funziona.
La parola, funzionando, in¬contra una trasformazione. Che esistano, per esempio, la metafora, la metonimia, quella che Freud chiamava la condensazione… Pensate a un sogno dove un termine, un’immagine del sogno nel rac¬conto che la descrive, non è dicibile in un’unica parola. Per descrivere un’imma¬gine o una situazione c’è un rac¬conto molto articolato, dove ciascun det¬taglio può indicare una cosa, ma anche un’altra e un’altra ancora, e poi un ricordo che si combina con questo, cioè, dove un dettaglio che sembrava unico risulta costituito da tanti particolari che lo compon¬gono, e magari in un momento successivo se ne aggiungono ancora, e ciò indica che quell’immagine, quella parola, quel detta¬glio del sogno risulta, in realtà, la conden¬sazione di molte cose che sono con¬fluite in un unico dettaglio, in un’unica immagine.
Ecco un viso, un volto, un luogo che sembra conosciuto in una certa circostanza, ma c’è un partico¬lare che si aggiunge, oppure che manca e quel particolare che manca si situa in una concatenazione, e il materiale per descriverlo è molto ricco, aumenta rispetto all’immagine, o a quella parola, o a quel dettaglio. Un’immagine ne con¬tiene molte, molte altre. Oppure, a quel¬l’immagine si collegano azioni, pensieri, desideri, giudizi, situazioni che rimandano a un altro momento della storia, a un’altra situazione, a un altrove, quindi con uno spostamento da una cosa a un’altra, da una situazione a un’altra, da una cosa a un desiderio per esempio, oppure a un’istanza che riguarda quella cosa ma anche altre. Quindi, quel significante che sembrava definire un’immagine, nel racconto differisce, ne esige un altro e un altro ancora.
Raccontando, il termine che sembrava potere descrivere bene quella cosa, risulta ambiguo, impreciso, menzognero. Esige una precisazione, un’altra parola, e la cosa che sembrava così inequivocabile, raccontando, fa venire in mente un’altra cosa, per cui non sono più sicuro se si tratta di quella cosa o di un’altra. Come ac¬cade parlando, non solo in relazione al rac¬conto di un sogno, ma come accade par¬lando per raccontare, per comunicare e anche scrivendo dove, anzi, la scrittura è ancora più esigente e in-dica propriamente l’inesistenza del sino¬nimo. Infatti, se usi una parola è quella, non può essere un’altra e se cerco di usare un sinonimo mi accorgo che è un’altra cosa, e nel momento in cui inter¬viene un altro termine ciò comporta un’altra sfumatura; è un’altra parola.
Non c’è pro¬prio la possibilità che un termine possa equivalere o risultare uguale a un altro, quindi ciascun termine risulta particolare e non identico a sé nel momento in cui fun¬ziona, nel momento in cui entra nel funzionamento e, in questa sua diffe-renza incontra la lettera, che è quel che resta, quel che si scrive di un si¬gnificante che differisce.
Io posso nomi¬nare un termine, per esempio “ric¬chezza”, ma questo termine risulta travolto da ciò che può indicare. Uno può pensare alla ricchezza di un paese, la ricchezza delle risorse, la ricchezza economica di qualcuno, oppure la ricchezza intellettuale, la ricchezza di idee. È un ventaglio di possibilità, ma una sola di queste possi¬bilità si scrive nella frase in questione. Una sola delle possibilità, diciamo così, del si¬gnificante giunge a costituire la sua lettera e a rilasciare un effetto di sapere nella struttura della frase.
Pubblico Può ripetere, per cortesia?
R.C. Dicevo che, del ventaglio di possibilità che ha il significante di rappre¬sentare un significato, è uno quello che si scrive nella frase, da cui procede un effetto di sapere, e è questo che chiamiamo let¬tera, la lettera di quel significante che, quindi, non è una caratteristica univoca e irripetibile di quel significante, ma è la lettera in quel caso. In un altro caso è un altro. E in un altro caso, un altro sarà anche il matema e l’effetto di sapere che ne con¬segue. Perciò è impossibile, a partire dai significanti, giungere a una semiotica, cioè a una corrispondenza biunivoca tra signifi-cante e il suo significato, tra quello che il significante sembra indicare e l’indicato.
M.B. Impossibile giungere alla corrispon¬denza biunivoca.
R.C. Esatto. Non c’è una corrispondenza biunivoca. Per ciò importa l’ascolto di quel che si dice. Importa l’ascolto, perché ciascuna combinazione è differente, è nuova. La parola non è mai la stessa. Il si¬gnificante non è mai lo stesso significante, non porta mai alla stessa lettera.
Pubblico Può portare allo stesso si¬gnificato, però.
R.C. No, appunto, nemmeno allo stesso significato.
L.G. Io voglio esprimere… Uso delle pa¬role, uso delle lettere, però per definire ciò, per esempio il colore giallo, questo è l’u¬nico sistema per dirlo. Non posso tro¬vare altri sistemi per arrivare a dire che per questo significato corrisponda il giallo; comunque si può usare, questo in¬tendo io.
R.C. Sì, ma lei prende adesso una frase svincolata dal contesto. Mettiamo che c’è un bambino, le mostra un disegno e dice: “Il sole è giallo”, e ha in mano un disegno dove il sole è giallo. Benissimo, ma se una persona viene da lei e magari piove, le dà una spinta e le dice: “Il sole è giallo”, lei non ha più punti di riferimento per dire: “Ah, ci siamo capiti”. È lì che inter¬viene la questione, l’esigenza di qualifi¬care ciascun termine per indicare cosa sta dicendo con una frase inequivocabile, ma che è in un contesto apparentemente sbagliato. Non si tratta di dire che straparla, ma bisogna fare uno sforzo. Sta dicendo qualcosa che a me non è affatto chiaro, ma sta dicendo qualcosa.
Questo è un caso estremo, un caso che, di¬sciplinarmente parlando, sarebbe un caso di malattia. Dice “È malato”. Ma, in assenza di confine disciplinare, a noi non interessa dire se è malato o non è malato, interessa intendere quello che ci sta dicendo, sia nel caso più banale, sia nel caso estremo, per¬ché, in realtà, ciascun caso è estremo, anche quello banale.
Ciascun caso è estremo, cia¬scun caso è un caso di comunicazione estrema, cioè non convenzionale e non ba¬nale, anche dove sembra che possiamo tranquillamente essere d’accordo sul senso, sul significato, sul valore di ciascuna pa¬rola. Ma se lasciamo che il racconto prose¬gua, possiamo accorgerci che non è affatto così, e quello che ci sta at¬torno è Altro, è qualcosa di imprevedibile che, dandolo per banale, noi impediamo che si dica. Oppure, ritenen¬dolo esagerato, o sbagliato, diciamo che non è così. “Il sole è verde”, “Ma guarda che devi dire che il sole è giallo”. Ecco che è un altro modo per to¬gliere la comunicazione, per non intendere di che cosa ci stanno parlando.
L.G. Adesso mi viene in mente un’altra cosa. Non entra il discorso, ma è una mia intuizione. In certi momenti si fanno degli incontri fra noi, coi bambini ci mettiamo allo stesso livello.
R.C. Questo è impossibile.
L.G. Cerchiamo di metterci allo stesso li¬vello.
R.C. Questo, pedagogicamente parlando, è un errore.
L.G. Oddio! Ci mette in crisi. Lasci perdere questa frase. Mentre si fa conver¬sazione coi bambini, si parla…
R.C. Nel senso che, anziché cercare di mettersi allo stesso livello parificando le cose, cerchiamo di intendere le differenze, la differenza assolutamente estrema che c’è in ciascuna parola, allora può darsi che accada qualcosa di interessante. Ma an¬diamo avanti.
L.G. Faccio un semplice esempio. Si fa una conversazione su un argomento, come ha detto lei, “Il sole è giallo”, si parla del sole che è giallo e in cielo. Capita un altro bambino che viene fuori con un al¬tro discorso: “Io ho le scarpe rosse che mi ha comprato al mercato mia mamma ieri”. Lei ha fatto questo discorso e ha detto che, entrando una persona, che parla e dice che il sole è giallo in un contesto diverso, entra nel discorso. Il tempo cambia, c’è il temporale e lui dice: “Il sole è giallo”. Quello che voglio dire è che, i bambini, anche se parlano di cose di¬verse fra loro, non entrano nell’argomento che si sta trattando; anche se le scarpe sono rosse e le ha comprate al mercato con la mamma, ha un certo valore il discorso del sole giallo? Sono riuscita a spiegarmi?
R.C. Sì. C’è sicuramente un ponte, solo che il ponte non è convenzionale. Si tratta di cercarlo, eventualmente.
L.G. Perché noi diciamo subito…
R.C. “Non c’entra niente questo”! Eh già, ma può darsi che sia ciò che ha fatto in una giornata di sole giallo. Ieri c’era un bel sole giallo e cosa ha fatto? Quindi, rispetto a un’affermazione statica è intervenuta un’usura, un uso per cui il sole giallo è en¬trato in ciò che ha fatto; stante il sole giallo, è accaduto qualcosa. Come dire, è intervenuto un effetto metonimico di spo¬stamento dal sole a quello che ha fatto con il sole giallo, in una giornata di sole giallo. Quindi, non è che non c’entra niente, c’è un collegamento, solo che è intervenuto in una modalità linguistica differente, cioè è intervenuto uno spostamento dal sole in sé a quello che è avvenuto col sole. Il sole resta un significante che ri¬chiama qualcosa che è avvenuto. C’è in ciascuna parola una “dop¬pia componente” di condensazione e di spo¬stamento.
È ciò che Freud chiamava “il complesso primario”. Condensazione e spostamento entrano in ciò che lui ha chiamato “il lavoro onirico”, e che si avvale di condensazione e spostamento, di metafora e metonimia. Lui è partito dal sogno per fare un esempio che fosse chiaro a tutti. Da alcuni è stato capito che bisogna dormire e sognare perché avvengano metafora e me-tonimia. Ma ciascuno, parlando, s’accorge che in quel che dice c’è metafora, c’è me¬tonimia, cioè c’è un uso e un abuso lin¬guistico per cui ciascun termine interviene in modo assolutamente particolare, non convenzionale, non retto da un codice ge¬netico ma retto da un codice linguistico che si attua lì per lì.
M.B. Scusi, sento un’altra presenza in questo discorso, è quella dell’orecchio. Noi con la bocca formuliamo la frase: “Il sole è rosso e quindi mi piace”, “Il sole è rosso e quindi mi scoccia”. Poi c’è l’orecchio…
R.C. Quelle che Jakobson chiamava “le funzioni fatiche”.
M.B. Poi, per chi l’ascolta, che a sua volta – forse adesso agganciandomi alla que¬stione del sole giallo e delle scarpe rosse – il bambino era così felice di avere le scarpe rosse che su tutta la pelle ha sentito il giallo, per cui ha detto “Io ho una cosa rossa”. Voglio dire, certe pa¬role proprio non le sentiamo.
R.C. Non lo sappiamo.
M.B. Ciò non di meno la persona le pro¬nuncia, ma noi riusciamo a non sentire, a volte, neanche il tono di voce di chi parla se quello è antipatico, è noioso, ha una flemma, io sono stanco, lui parla lenta¬mente. Dobbiamo tenere conto, anche nel pronunciare la parola, il gesto che si fa, cioè tutto quello che è la parola, poi la per¬sonalità, perché non è una parola costruita a mezz’aria.
R.C. Alla personalità arriviamo tra poco, ancora non l’abbiamo qualificata.
M.B. Però c’è l’orecchio anche, che è importante.
R.C. Eh sì. È essenziale. “L’unico buco – diceva Lacan – che non si può chiudere”.
M.B. E che funziona sempre, che non dorme.
R.C. Esatto. L’unico buco che non si può chiudere, l’orecchio. Come dire che, nostro malgrado, qualcosa udiamo. Talvolta però, come dice lei, siamo assordati dal rumore del convenzionalismo, per cui sentiamo qualcosa ma non udiamo, e ciò che udiamo addirittura non giungiamo a ascoltarlo. Che quel che si dice giunga a udirsi, a ascoltarsi fino alla cifra è la procedura temporale. È il tempo a con¬sentire che quel che si dice si oda, si scriva, si ascolti e si cifri. Il tempo, ma che tempo?
Giustamente, rilevava Marzia Banci, non il tempo naturale, quello che ri¬sulta in realtà una misura. La misura del tempo non è il tempo, è una sua spazializ¬zazione, è un modo quasi per abolirlo, per ritenere che si possa controllare, padro¬neggiare, gestire. C’è un altro tempo, l’altro tempo della parola che interviene nell’itinerario intellettuale, nella comunicazione, nella scrittura, nel fun¬zionamento, e è il tempo come divisione. Il tempo è divisione, non è nient’altro che questo: il tempo divide ciascun significante. D’altronde, ciò è l’etimo stesso della parola tempo, che deriva dal greco temno, taglio, divisione.
Pubblico Il tempo divide ciascun si¬gnificante?
R.C. Da sé, rispetto a sé. Quindi, par¬lando interviene la divisione di ciascun si¬gnificante da sé. In questo modo funziona.
L.G. Non comprendo, non riesco a capire la divisione come funziona.
R.C. Quando dico “Parlando il signifi¬cante differisce da sé”, differisce in quanto si divide, in quanto incontra il tempo, il tempo che è divisione e produce la divisione, la differenza.
Maria Odorizzi Divisione che, in questo caso, potrebbe essere intesa come il con¬trario dell’omologazione, della categoriz-zazione, a proposito di incomprensione.
R.C. L’omologazione, quindi…
M.O. Far rientrare tutto dentro le casel¬line, le categorie. È il contrario della divisione.
R.C. Esatto. Proprio così.
M.O. La differenza sarebbe la lettera?
R.C. La lettera segue la differenza.
M.O. Perché, in quanto c’è la differenza, segue la lettera.
R.C. Esatto, brava. La lettera è il compi¬mento della differenza. No, l’etica, voglio dire.
Pubblico. Calma! La lettera è il compimento…
R.C. L’etica è il compimento della diffe¬renza dal significante alla lettera.
M.B. Si può identificare l’etica, allora?
R.C. O, possiamo dire, è il compimento del desiderio dal significante alla lettera. È una nozione di etica che non richiede il com¬portamento, ma indica come ci sia un per¬corso. È compimento rispetto a un per¬corso, rispetto a un processo, è compi¬mento di un processo, processo linguistico, intellettuale, artificiale, che esige vi sia la parola, la lin¬gua, il tempo, cioè la parola con i suoi mezzi e con i suoi strumenti, con la sua struttura.
M.B. A proposito di tempo, ho parlato con una persona che segue la lingua, un esempio ora non me lo ricordo, ma proprio ogni verbo, e mi ha detto che ognuno ha in sé quattro tempi. Cioè, se metto in una frase “Io cado”, c’è il tempo che è “cado”. Ora, quanto tempo impiego a fare l’og¬getto “cado”? Un’ora, tre se-condi? Cioè, il soggetto contiene cado. Poi, nel pronunciarlo, questo è il tempo dell’evento, cado quando? Poi c’è il tempo di riferimento nella frase, per esem¬pio “Io cado quando leggo”, perché lo devo vedere nel contesto. Inoltre, c’è un altro tempo che adesso mi sfugge. Quindi, il verbo “cado” mi tiene so¬speso il tempo, sempre, cioè non riuscirò mai a calcolare il tempo di “cado”. Faceva un altro esempio: “Io stavo scrivendo una lettera. Non l’ho finita”. Anche lì, quando finirà la lettera? Ognuno di noi che leggerà questa frase penserà: “La finirà domani? La finirà fra tre ore?”. Quindi, mi spiegava che il tempo, dietro ai verbi – che io non sapevo, è la prima volta – c’è uno spazio ampio. Ecco, in questo senso qui. Proprio perché pareva che la lingua… Dice: “Io cado” più chiaro di così! Poi, invece, se andavi a analizzare il gesto, c’è ancora tanto tempo. Si trovano altri tempi e ciascuno…
R.C. Esatto. Ben più di quattro.
M.B. Forse anche di più. Adesso me ne ha dati quattro e sono rimasta già sorpresa.
R.C. Ha fatto quattro esempi del processo dal significante alla lettera. Ma possono essere ben più di quattro. In quel caso, questo signore ha fatto un’indagine trovandone quattro. E questo limitatamente ai verbi. Ma non è solo con i verbi, accade con ciascuna pa¬rola, con ciascun significante.
M.B. Quindi, dobbiamo compierlo, questo processo?
R.C. Ciascun significante, dicendosi, si divide e, dividendosi, si piega e, piegan¬dosi, si ode e, udendosi, si scrive e, scri¬vendosi, si cifra. Quindi è una continua torsione linguistica effettuata dall’inter¬vento del tempo. È questo che caratterizza l’a¬lingua, la lingua non come un sistema ma come alingua, cioè come un’altra lin¬gua, come qualcosa di infinito, le cui com¬binazioni non sono perciò prevedibili nel¬l’ambito della grammatica.
M.B. Possiamo riavere quella…
R.C. Procedura?
M.B. Sì.
R.C. Dicendosi, le cose si dividono.
M.B. I significanti si dividono?
R.C. Sì. Le cose, i significanti, le parole. Dividendosi, si piegano.
M.B. Perché?
R.C. No. Dividendosi si odono e, uden¬dosi, si piegano.
M.O. Al nostro volere, alla nostra intui¬zione.
R.C. No, si piegano, cioè incontrano una sfumatura come effetto della piegatura.
William Gasparini Ha detto che si odiano?
R.C. Si odono. Anche si odiano, se vogliamo, dove l’odio è appunto una caratteristica del tempo, di ciò che si di¬vide. L’odio è la totale assenza di vischio¬sità.
M.O. Lei, quando vede che cominciamo a capire, bisogna che ci complichi la vita, altrimenti che scopo avrebbe il suo essere docente?
R.C. No, è stato gentilmente William Gasparini a fornire questo incremento!
M.O Ma siete d’accordo!
R.C. Certo. Dicevo che dividendosi si odono, udendosi si piegano, piegandosi si scrivono e scrivendosi si cifrano. Questa è la procedura della comunicazione.
Simone Barison C’è un momento in cui si può essere certi di essere arrivati alla ci¬fra di una questione, oppure è infinito questo processo? Quand’è che uno dice: “Ah ecco, adesso sono effettivamente arri¬vato alla qualità di questo caso, di questa questione, di questa combinazione”?
R.C. C’è modo di accorgersi dall’afori¬sma che giunge, dalla scrittura che dalla qualità procede. Infatti, la stessa qualità si scrive, nel senso che è l’esperienza della parola originaria.
S.B. Ma quand’è che posso dire: “Sono arrivato alla parola originaria” e non in¬vece: “Merita ancora di essere elaborata questa parola stessa”?
R.C. Lei vorrebbe sapere prima.
S.B. Voglio sapere se si arriva con… Se è possibile riconoscere che a un certo mo¬mento il processo è arrivato alla cifra, alla cifratura e non, invece, che non possa riprendere, che non possa rilan¬ciarsi la questione, che non possa riaprirsi il caso, si potrebbe dire, dimostrando che effettivamente…
R.C. Certo che può riaprirsi il caso, ma non è lo stesso caso. Non è possibile appli¬care alla forma servi la forma dei, o vice-versa. Lo stesso sant’Agostino distingueva tra la forma servi e la forma dei, dove Dio non può essere qualificato attraverso le proprietà del visibile, perché è invisibile. Allo stesso modo, non possiamo tentare di ar¬ginare l’infinito con le proprietà del finito applicandovi l’immaginazione.
S.B. Non si può mai dire che si è arrivati alla cifra di una combinazione. In base a cosa dico: “Ecco, adesso, effettivamente, ciò che si dice è arrivato alla qualità”?
R.C. A lei interessa sapere dire che è arri¬vato?
S.B. Se è possibile, perché annunciato questo processo, evidentemente in qualche modo è stato constatato. Ci sarà modo di constatare che si è giunti alla qualità di una questione, alla cifra di una combinazione linguistica. Mi chiedevo, in quale modo si constata ciò?
R.C. Questo è ciascuno a constatarlo. Ciascuno nel suo itinerario giunge a questa constatazione. Lungo la ricerca, lungo l’i¬tinerario, lungo il processo di qualifica¬zione giunge a constatare ciò. Non è che possa essere assegnato come limite convenzionale.
S.B. Adesso, però, così come all’inizio, una combinazione linguistica sembra tal¬mente chiara da essere evidente. Poi, in¬vece, entrando nel processo di ricerca, si capisce che così tanto chiara non era.
Cecilia Maurantonio Da quanto sta emergendo in questa lezione, le materie, storia, geografia, eccetera, diventerebbero come pretesto per la ricerca e per ciò che è l’interesse particolare di ciascuno, nel senso che, il valore, per esempio di un insegnante, non procede da quale laurea ha preso o da quanto ha preso in quella laurea, perché, per quanto noi svolgiamo un certo programma nella scuola, non è che ci si richieda chissà quale immenso sforzo in questi termini.
Proprio l’insegnamento di ciascun insegnante, però, implica innanzitutto istituire non solo in ciascuna classe, ma ciascun giorno un dispositivo differente dove ci siano, esi¬stano queste istanze, con direzioni, opera¬zioni, dove si precisino e si precisi anche il tipo di materia che in quel momento viene usata dalla classe, o da chi ci è di fronte, anche per trovare altre proposte. La programmazione della scuola segue il fare. Quindi, in un certo senso, quanto c’è in termini di cultura, come conoscenza, funge da pretesto e da esca per qualcosa che effettivamente già non si sa; anche per l’insegnante. Perché, in prima istanza, c’è la questione dell’insegnante come cifra e la qualificazione di ciascuna cosa.
R.C. Certo. Questa è, diciamo così, rife¬rita alla scuola, una idealizzazione. Mi sembra, per le testimonianze che ho, che per ora la scuola sia piuttosto distante da ciò. Tuttavia, se noi coltiviamo que¬sta idealizzazione, probabilmente non ac¬cadrà mai nulla nella scuola che possa ap¬prossimarsi a questo.
La questione è che ciascun docente non si deve situare nella scuola come istituzione ideale o reale, ma si deve situare piuttosto nell’insegnamento, nella parola. Si deve situare nel progetto e nel pro¬gramma di vita proprio. Solo così potrà consentire che l’esperienza della scuola divenga, per lo studente, la base per il suo progetto e per il suo programma di vita. Se non avviene questo, la scuola ha fallito. La scuola come effetto di istituzione della pratica di ciascun insegnante. La scuola in quanto tale non esiste, è un’istituzione ideale; occorre che si istituisca come dispositivo ef¬fettivo.
M.B. Effettivamente, l’insegnante assume in assoluto la responsabilità di ciò che avviene, se non sa tenere la posizione di ga¬rante.
R.C. No, nel senso che è un’altra la no¬zione di responsabilità che occorre inter¬venga. Prima facevamo l’esempio del si-gnificante, della lettera e dell’etica. Che s’instauri l’etica in un discorso è raro. Che ci sia l’istanza dell’etica, cioè del compimento dal significante alla lettera, quindi che chi parla avverta che c’è una tensione linguistica che esige non si possa dire qualunque cosa, questo è il frutto di un lavoro, il frutto di un lavoro onirico direbbe Freud. Lavoro analitico, lavoro di formazione, formazione alla qualità, for¬mazione alla tensione linguistica, all’ascolto, alla comuni¬cazione della parola.
Lo stesso avviene per il nome. Dal nome al simbolo c’è un compimento. Questo compimento è la legge. Il terzo compimento è la clinica, che è il compimento della scrittura pragmatica, compimento del cammino, del percorso della parola dall’intervallo all’Altro, all’irrappresentabile, il compimento del pragma. Se nel primo caso abbiamo il compimento della frase, nel secondo caso abbiamo il compimento della sintassi e nel terzo caso il compimento del pragma. Frase, sintassi e pragma sono le tre strut-ture di quel che funziona: significante, nome e Altro.
Allora, qual è la questione importante? Che la base è la pa¬rola, è la lingua. Non è il docente e l’allievo. Occorre un processo di astrazione dalla persona del docente e del¬l’allievo per giungere a cogliere l’impor¬tanza della lingua, dove si tratta dell’intellettualità e non della personalità. L’educazione è educazione alla qualità, non educazione alla personalità. Il concetto di personalità è un concetto obsoleto, è un arcaismo. Discutere sulla personalità di Tizio o di Caio è discutere sulla sua so¬stanza presunta, senza tenere conto che c’è la parola, che c’è istanza di parola, che c’è istanza di qualità. Se la persona, dicevano i latini, è la maschera, cosa può essere la personalità? È la fissazione della maschera, non è più maschera. Non è più maschera, diventa essere, lo stato delle cose.
La personalità è una dichiarazione di morte, è lo stato del soggetto, è la contem¬plazione del cadavere. A meno di non in-tenderla per altro verso, come car¬nevale. Personalità come mascherata, come carnevale, come sfilata delle maschere. Benissimo, allora, se è una sfi¬lata di maschere è impossibile da fissare. Oggi è una maschera e domani è un’altra maschera. Che importanza ha definirla? Invece, l’origine di questo termine mira di più alla definizione. È un termine caro al¬l’antropologia criminale, caro a Lombroso. Personalità è un termine che nega la parola. Personalità con la sua “teoria della personalità”. Può essere interessante se di¬viene teoria della maschera. Teoria della maschera, questo sì! Teoria della masche¬rata, per cui si tratta di intendere che ciascun atto comporta la maschera in quanto istanza dello sguardo.
M.O. […] Mi è sfuggita questa frase che mi stava a cuore.
R.C. Le stava a cuore e, ciò nonostante… Ha visto?
M.O. Scrivendola, mi concentro sulla scrittura. Teoria della maschera, dove, cioè, rovesciando il concetto di…
R.C. La maschera sta nel tea¬tro, quindi nella…
Pubblico Rappresentazione.
R.C. No. Nella dimensione delle imma¬gini che si muovono differentemente dal cinema. Il cinema è un aspetto. Il movi¬mento delle immagini si chiama cinema per un aspetto e teatro per un altro, come semovenza. Movimento è il cinema, semo¬venza è il teatro. La maschera sta nella semovenza delle immagini. Indica come l’immagine si divide per l’incontro del tempo. Così come il significante nel linguaggio, l’immagine nella dimensione di sembianza, incontrando il tempo, si di¬vide anch’essa e risulta semovente, quindi mai fissa ma mobile. Ecco, lì stanno il teatro e la maschera. Quindi, azzardando, la personalità è l’arte del teatro.
Non credo, però, che la psicologia contemporanea la qualifichi in questo modo, neanche la pe¬dagogia; l’antropologia criminale non ne parliamo. La nozione di personalità, dove la situiamo? Nella parola, per cui oc¬corre intenderla nel teatro e non nel codice genetico o come tara, come maschera, come mascherata, mai fissa, come apporto dello sguardo, dell’istanza dello sguardo alla semovenza dell’immagine, quindi an¬ch’essa in un dispositivo. “Ha una perso¬nalità, oserei dire”. Ma quale personalità!
Accade spesso che venga assegnato a Tizio e a Caio una per-sonalità come qualcosa di stabile. È una condanna, è un marchio che viene asse¬gnato, mentre occorre intendere che la maschera è costitutiva, ma sotto una ma¬schera c’è un’altra maschera e, sotto, un’altra maschera ancora, e poi un’altra e via così. E il viso è una maschera an¬ch’esso. Dunque, si tratta sempre di una maschera, della maschera.
S.B. Se ciascuna persona è maschera non come situazione della maschera, altrimenti sarebbe la personalità o come possibilità di movimento di maschere, non si rischia di dire che ciascuna persona diventa un carnevale? Cioè, è impossibile anche ri-conoscerla. È impossibile: di fronte a una situazione, in un momento agisce in un modo, in un altro momento in un altro. Questo, nel nostro mondo, è una qualità molto ne¬gativa, viene tenuta distante. Si dice “Questa persona è instabile, la pensa così e altre volte la pensa colà”.
R.C. La maschera non c’entra con il ragio¬namento.
S.B. Come con il ragionamento?
R.C. Quello che sta dicendo lei è il ra¬gionamento che non c’è. “Un giorno ra¬giona in un modo, e un altro giorno ragiona in un altro modo”. Non c’è il criterio. Questa non è la maschera, ma è l’as¬senza di ragionamento, l’assenza di criterio. La ma¬schera non esclude mica il ragionamento. Il carnevale non esclude il ragionamento. Non esclude nulla.
S.B. Ma esclude che ragioni in modo asso¬lutamente diverso in ciascuna occasione.
R.C. Quella è la pazzia.
S.B. Esatto.
R.C. Eh no! La logica non viene mai meno e il ragionamento nemmeno. A meno di non volere assumere l’assenza di logica e rappresentarla nella pazzia, ma quello è un altro discorso. Lei sta citando il caso di chi crede di potere fare quello che vuole. Il vero pazzo è chi crede di potere fare quello che vuole. Questo, di¬ceva Machiavelli, è il pazzo: “Il principe che fa ciò che ei vuole non è savio. Il popolo che fa ciò che ei vuole è pazzo”. Se n’era accorto già Machiavelli. Ma non è la questione della maschera, questa. È la questione del di¬spositivo intellettuale, della logica e del ragionamento. Il dispositivo implica l’oc¬correnza. L’occorrenza! Se aboliamo l’oc¬correnza, allora abbiamo la credenza di po¬tere fare quel che si vuole a prescindere dall’occorrenza, da ciò che occorre fare. Invece, l’educazione occorre sia educazione all’occorrenza, non a fare quel che si vuole, cioè alla pazzia.
Ugo Riso Mi ricollego a quello che in qualche modo viene fatto. Penso che la parola sembra quasi apparire a tratti e c’è l’infinito che si cela dietro le parole, dietro ai significati.
R.C. No, non si cela mica. È proprio…
U.R. Perché viene da pensare. Proprio ieri stavo leggendo un libro di Rodari, Grammatica della fantasia. Lui usava questa immagine in cui le parole sono espressamente pronunciate per lanciare dei lampi in questa direzione, si aprono ai possibili significati. Mi veniva da pensare che di fronte a questa pro¬prietà che ha il linguaggio e qui, sin¬ceramente, anche la mia difficoltà nell’en¬trare nel tipo di analisi che stiamo se¬guendo, mi verrebbe da cercare un attimino nel corso precedente. Cioè pensavo un po’ a Rodari, quindi al¬l’artista che in qualche modo si pone, mi sembra, in modo giocoso di fronte alle proprietà del linguaggio; come dire che lui, invece che farne […] come può essere un cruccio, nel senso anche personale, rie¬sce a farne ciò, penso se ne accorga; […] sembra che, in qualche maniera, l’alterna¬tiva sia quella di farci condurre dal gioco. Nel testo mi sembra che l’artista in qualche modo faccia un po’ questo. Sì, magari cor¬regga. Intanto credo ci sia una difficoltà in sé, quella di imparare a rompere le gabbie in cui si trovano i significati, le pa¬role, come ci hanno abituati a usarle, come degli utensili, come la lavagna che per il suo utilizzo non mi viene mai in mente di metterla come soprammobile. Quindi, se¬condo me, un primo compito per noi può essere questo. Credo che anche la creazione artistica abbia i suoi diritti, i suoi percorsi.
R.C. L’artista spesso viene rappresentato come il limite della ragione. In realtà, considerando l’itinerario di molti artisti, di sicuro non all’inizio, ma proprio in un certo cammino, ci si può accorgere di una logica assolutamente precisa e di rigore estremo che hanno seguito nel loro cam¬mino, e dove c’è anche gioco, cer-tamente, ma dove l’artista, diciamo, né conduce, né segue il gioco, ma si attiene alla direzione che la sua ricerca sta se¬guendo. Quindi, anche la questione arti¬stica occorre indagarla in modo non ro-mantico, cioè senza pathos, senza pregiu¬dizio.
Come dicevo, noi ammet¬tiamo che ciascuna cosa è estrema, quindi non possiamo fare dell’arte la rappresen¬tazione della follia, né della scienza la rap¬presentazione della ragione, situandole agli estremi, perché ciascuna cosa è estrema. È estrema, dunque non ultima. Estrema non perché sta a una estremità, ma è estrema perché è un caso di qualità.
C.M. Scusi, la nozione di estremo attiene anche all’analogia?
R.C. È estrema, cioè senza paragoni, senza analogia, senza somiglianza, senza omologia, senza possibilità di omologazione, senza specularità. L’unico vero estremista è la parola, non questo o quel partito, non questo o quell’appartenente al partito. È la parola. Che ci sia l’estremismo è dovuto all’infinito. Ogni forma di mediazione presuppone invece il finito, l’assenza d’infinito.
S.B. Di mediazione?
R.C. Sì. Mediazione. Ha presente il motto in medio stat virtus?
S.B. Di medietà?
R.C. Medietà, mediazione.
S.B. Ha detto “Ciascun caso è estremo”?
R.C. In extremo stat virtus!
M.B. Posso dire? A proposito di quella volta che mio figlio disse che di un racconto non si ricordava la cosa più interessante, e disse: “Ma non mi ricordo più niente” dopo due o tre giorni, mentre pranzavamo, ha detto: “Sai cos’ho pensato? Che le virtù stanno in mezzo e per ciò la virtù è mediocre”.
R.C. Perfetto. Se stesse nel mezzo, sa¬rebbe una mediocrità. Bravissimo.
S.B. Invece, per Aristotele è eccellenza la virtù che sta in mezzo, l’eccellenza è la medietà, non la mediocrità.
R.C. Certo. Perché presuppone il sistema finito, quindi ciò che sta in mezzo è, ap¬punto, l’eccellenza.
S.B. Nell’infinito, però, non si può nean¬che parlare di medietà o di estremo.
R.C. Io non ho parlato di estremo, ma di estremismo. Non di estremità. Ho precisato prima che mi riferivo all’estremismo e non all’estremità.
S.B. Ha detto che ciascuna cosa è estrema.
R.C. Esatto. Non che sta all’estremità. È estrema. È un caso assoluto.
S.B. Ciascuna cosa è un caso di qualità senza avere compiuto l’itinerario…
R.C. No, non ogni cosa. Ciascuna cosa è la cosa estrema, quindi è secondo la logica nel dispositivo della parola origina¬ria. Non è ogni cosa, una cosa qualunque. È quella cosa che, fra le tante, ha incon¬trato distinzione, funzionamento, dimen¬sione, relazione e operazione, e dunque si è qualificata. Secondo lo stigma, secondo l’operazione, secondo la dimensione, se¬condo la funzione, secondo la relazione si è qualificata. Quella è ciascuna cosa. Ogni cosa sono le cose prese tutte assieme, indistinte, nella dimensione di materia; quella che è chiamata la massa è la materia della parola.
S.B. Comunque, anche la nozione di estremismo, nell’infinito, mi pare poco… Si può parlare di estremismo nel¬l’infinito?
R.C. Estremo è un superlativo assoluto.
S.B. Ma l’assoluto…
R.C. Indaghiamo! Lei vuole essere subito così rapido. Vediamo se sia così oppure in un altro modo. Può darsi che sia come dice lei, indaghiamo!
C’erano altre domande? Luigina?
L.G. No. A me piace stare indietro, però la cosa ha il punto debole che si sente poco da qua.
R.C. Si sente poco lì? Vede, la prossima volta qui, in prima fila.
L.G. Non ho capito niente.
R.C. Se n’è accorta adesso?
L.G. No. La prossima volta lo dico prima!
R.C. Ho capito. E io vi avevo preparato tutta una lezione sull’immunità, sull’im¬portanza dell’immunità nell’insegna¬mento.
Pubblico Ma siamo qui!
R.C. Voi mi avete invece distolto, por¬tato altrove. Però, ci sono venuto volentieri. Perché voi magari pensate che l’immunità non abbia niente a che vedere con la scuola e con l’itinerario scolastico, con l’efficacia dell’insegnamento e invece è essenziale. Comunque, quello che ab¬biamo detto oggi era assolutamente neces¬sario per intendere la nozione di immu¬nità. Io ho risposto alle quattro questioni poste?
M.B. A una no.
R.C. Quale?
M.B. Quella relativa all’educazione: “Pari educazione com-porta reazioni diverse”.
R.C. A pari educazione quale persona¬lità?
M.B. Ma lei l’ha seccata molto. Ha asciugato…
R.C. L’ho asciugata? È un po’ umida? Quindi, questa è rimasta un po’…
M.B. Passiamo a altro, forse si specifi¬cherà più avanti.
R.C. No, perché lei dice “A pari educa¬zione”. Ora, lei capisce che l’idea di parità dovrebbe essersi dissipata a questo punto. Anche con la questione della ma¬schera e della legge, dell’etica, della cli¬nica, con il compimento della sintassi, della frase e del pragma, che non sono mo¬dalità inscritte nel codice genetico ma sono liberi compimenti.
M.B. Sì, è vero, non l’avevo identifi¬cata.
R.C. Ah, ecco. Lei pensava che si riferisse a un’altra, invece era riferito a questo. L’idea del “pari trattamento” e della “pari educazione” è qualcosa che è da analizzare, perché l’idea di parità è sempre parità sociale, all’insegna della parità sociale, all’insegna per ciò, di una società senza parola, perché la dissi¬pazione dell’idea di parità sta proprio nel funzionamento della parola.
M.B. Perché qualità e quantità a volte… Lei aveva detto che la qualità sta nella quantità.
R.C. No. Procede.
M.B. Ah, procede dalla quantità. Non l’a¬vrei detto io, difatti. Perché altrimenti la vita, che è qualità, cos’è, anche quantità? La vita non è quantità. Diciamo che è qualità, altrimenti è sopravvivenza.
R.C. È anche quantità. Quantità di cose. Se è solo qualità, allora quante cose? Una sola? È una monotonia. Occorre ci sia anche la quantità, dunque l’infinito.
M.B. Vanno insieme queste due entità, qualità e quantità?
R.C. Sì. Senza essere entità.
M.B. Quindi l’essere e l’avere vanno d’accordo?
R.C. Né d’accordo né in disaccordo, perché seguono due logiche tra loro disgiunte.
M.B. È diverso dire “quantità-qualità”, o “essere-avere”?
R.C. Sì. Ho preso nota. Magari per la prossima volta vedo di precisare qualcosa di più. Altre domande? Per esempio, Anna Borgato, le ho risposto? Forse non del tutto?
A.B. Io avevo capito a un certo mo¬mento. Adesso bisognerebbe ripetere un po’.
R.C. Io non le dico di ripetere, perché non sono sant’Agostino. Sa cosa diceva sant’Agostino? “Il tempo, io so cos’è. Ma se me lo chiedi, non lo so più”. È un bel modello di scuola, questo. La scuola di oggi è fatta su questo modello: “Sai cos’è il tempo?”, “Sì”, “Dimmelo!”, “Non lo so”. Ci vuole un’altra scuola non fondata sulla conoscenza, bensì sull’ac¬quisizione. Ma di questo ne parliamo la set¬timana prossima. È un altro modo della scuola non fondato sull’apprendimento, ma sull’acquisizione. Più bello!
Su que¬sto squarcio verso l’avvenire, oggi ci sa¬lutiamo e ci diamo appuntamento alla settimana prossima.
I dispositivi di direzione
Ruggero Chinaglia Cominciamo l’incontro di oggi. Ci sono domande, a parte quelle che avrebbe da formulare Maria Luigia? Luigina, lei niente?
Luigina Giraldo Non ho niente da dire in questo momento. La mia attenzione è rivolta a altro.
R.C. E Maria Luigia?
Maria Luigia Mi sto concentrando.
R.C. Si sta concentrando! Va bene! Altri? Lei?
Pubblico Io l’ascolto.
R.C. Così, senza intervenire?
Pubblico Le dirò che non sono venuta di mia spontanea volontà a questo corso.
R.C. L’hanno spinta?
Pubblico È venuto mio marito a un corso in passato e lui è entusiasta e l’ammira molto, infatti la segue alle varie conferenze. Voglio capire…
R.C. Da dove viene tutto questo entu¬siasmo!
Pubblico E, fatalità, mi è arrivata la supplenza, per cui ho detto: “Come insegnante adesso posso partecipare”, e sono venuta. Quindi la sto ascoltando.
R.C. Ah, ecco, per capire bene. E come mai non è venuto anche suo marito?
Pubblico Dobbiamo dividerci.
R.C. Dovete dividervi?
Pubblico Nel senso che io sono ve¬nuta qua, e lui sta seguendo un altro corso.
R.C. Ho capito. Va bene. Quindi lei sta raccogliendo…
Pubblico Sì, perché poi dobbiamo concentrarci, perché siamo di due direzioni didattiche diverse.
R.C. Va bene. Allora, anche per ripren¬dere alcuni elementi che sono emersi qua e là, vorrei ribadire l’importanza della lin¬gua, della questione linguistica che è un altro modo per dire l’importanza della parola.
Marzia Banci Scusi, è ben spiegata que¬sta cosa in una dispensa sull’educazione, alla fine del primo capitolo. [N.d.R. Il riferimento è alla dispensa Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione].
R.C. “È ben spiegata”! Ah, bene.
M.B. Di tutto quello che ha detto in questi incontri, leggendo quella pagina…
R.C. C’era già tutto!
M.B. Secondo me, rende bene.
R.C. Dove esattamente? Su questa?
M.B. Questa.
R.C. Vediamo.
M.B. Questa qua che parla del sesso. Chi l’ha scritta?
R.C. Ah, addirittura! Adesso vediamo.
M.B. L’ascoltiamo “con la benda”!
R.C. Ah, questa? Il mito del padre primi¬tivo. Eh sì, è ben resa, no? È vero.
M.B. Credo di averla capita, così.
R.C. Infatti, non ho ripreso queste cose perché sono già qui.
M.B. Portatili.
R.C. Ecco. Prendete bene nota! Certo, il mito del padre primitivo descritto da Freud in Totem e tabù è la base per capire la questione del significante e del nome, in particolare come s’instaura il nome, dal nome l’autorità e dunque la legge come legge della parola, come com¬pimento della sintassi, non come legge severa, o come legge punitiva, o come sistema di codici, ma come compimento.
Per giungere, tuttavia, a intendere l’impor¬tanza di ciò che abbiamo chiamato il funzionamento, il funzionamento della parola, e che comporta che non c’è chi sappia già cosa la parola voglia dire, per¬ché le parole non vogliono dire niente, si tratta di tenere conto di due paradossi che stanno nel funzionamento, il paradosso della menzogna, o paradosso della differenza da sé del significante, e il paradosso dell’equivoco, o paradosso del qui pro quo.
Questi due paradossi contraddistin¬guono due impossibili, l’im-possibile della rimozione e l’impossibile della resistenza, che possiamo chiamare come la funzione del non, n-o-n, che è anche l’abbreviazione della formula latina ne oinum. N-o-n, non uno, dunque lo zero. Zero e uno, uno e zero, e non c’è modo che lo zero diventi uno e che l’uno diventi zero, ma zero e uno sono nell’adiacenza, nella numera¬zione infinita, nell’innumerazione: zero uno, uno zero, uno zero zero… e così, nell’adiacenza degli zeri e degli uno, in una combinazione che è impossibile da prevedere e da riprodurre.
Ora, che ci siano questi due impossibili comporta la difficoltà di parola, cioè l’assenza di fa¬coltà e di facilità. È anche per questi due impossibili che per ciascuno si tratta del¬l’idioma, che il parlare è idio¬matico e segue la logica particolare a ciascuno. E tenere conto di questa base linguistica è essenziale quanto all’educa¬zione e all’insegnamento, quanto alla comunicazione e all’ascolto. È essenziale e difficilissimo, perché questi due impossibili contraddicono i capisaldi aristotelici della logica del di¬scorso, della logica predicativa: principio di identità, di non contraddi¬zione e di terzo escluso, principi che stanno alla base del buon senso, del senso comune, del luogo comune, del discorso comune.
Accanto a questi due impossi¬bili, tuttavia, c’è un’altra funzione, che è il contingente, cioè la funzione di Altro. Quindi, sui due impossibili, la rimozione e la resistenza, abbiamo nel contingente la funzione di Altro, col quale ter¬tium datur. Tertium datur! Non è più o bianco o nero, ma c’è Altro. E con la funzione di Altro si apre la gamma in¬finita delle occorrenze, imprevedibili, in¬calcolabili, irrappresentabili.
Un problema nel discorso occidentale è dato proprio dall’accoglimento dell’Altro. Come ac¬cogliere quanto e quale di Altro c’è in quel che si dice? Questa è la que¬stione alla base di ciascun dispo¬sitivo intellettuale in quanto dispositivo ar¬tificiale, perché non è un procedimento naturale accogliere l’Altro. Tutt’altro, è un procedimento artificiale, un procedimento intellettuale. Che parlando intervenga la struttura della rimozione, della resistenza e dell’Altro, è qualcosa che non è pensabile, eppure è in questa direzione che si tratta di attuare lo sforzo intellettuale per l’approdo alla qualità, alla qualità della parola, del dispositivo, della produzione, della scrittura, della comunicazione. Senza ammettere e intendere la logica della nominazione, quindi la logica della parola, tutto ciò che è proprio della parola viene assunto e rappresentato da chi ritiene di dovere sostituirvisi.
Pubblico Chi si ritiene di?
R.C. Da chi ritiene di dovere sostituirsi alla parola. Per esempio, l’impossibile della rimozione e l’impossibile della resi-stenza vengono rappresentati nell’impos¬sibilità di parlare, di pensare, di fare, nell’indecisione, nella paura, nella balbuzie, nell’autismo, nell’afasia, nell’astensionismo, nella rinuncia, nelle dimissioni, nelle varie figure e rappresen¬tazioni della dicotomia fra positivo e ne¬gativo, o della gestione e del controllo del tempo, dell’amministrazione e della ge¬stione dell’oggetto, così come del fanta¬sma. Le cose, anziché disporsi in quel che si dice, vengono assunte e rappresentate da ognuno che le attribuisce a sé o a altri. Da ciò le rappre¬sentazioni del debole, dell’incapace, del malato, della pecora nera, della pecora bianca, dell’ultima ruota del carro, della prima ruota del carro, cioè varie rappresenta¬zioni zoologiche. Oppure delle cose i cui segni vengono attribuiti alla società, alla famiglia, all’Altro come segni da assu¬mere o da rigettare.
Allora, c’è una que¬stione essenziale che riguarda il non tra¬durre in segni, etichette, definizioni ciò che accade, ciò che viene rappresentato, ma dell’importanza di dare udienza a quel che si dice nelle rappresentazioni, perché si tratta di rappresentazioni delle logiche, le logiche particolari della parola.
Per ca¬pire dove sta andando la civiltà basta inter¬rogare il disagio. È solamente interrogando il disagio che noi possiamo intendere dove si rivolge la civiltà, quale sarà la situazione fra dieci, venti, cinquant’anni, non per virtù di preveggenza, ma perché il disagio è proprio l’indice delle esigenze logiche, quindi esigenze culturali, artistiche e scientifiche di ciascuno. È l’indice che queste esigenze sono assolutamente impedite dal disposi¬tivo conformista in atto, e che esigono una trasformazione che non potrà non av¬venire se non rischiando l’implosione o l’esplosione del sistema.
Occorre accorgersi dei modi che ognuno attua, a sua volta, per favorire il mantenimento dei dispositivi conformisti, per incre-mentare le rappresentazioni del disagio. E ciò va esplorato, elaborato, inteso, at¬traversato in particolare nella scuola, dove avvengono i primi incontri con le esigenze di ciascuno, esigenze intellettuali cui ven¬gono opposte, normalmente, le modalità più banali dell’assenza di intellettualità che cominciano già con l’invito rivolto ai bambini di stare fermi, fermi e zitti. “Perché?”, “Zitto! Perché di sì!”. Quante volte “Ah, ma adesso sono stanco, la¬sciami stare”, “Adesso non è il momento”, “Questa cosa, dopo, domani, un’altra volta”. Oppure, accade qualcosa, ma quella cosa non è interrogata, non è in¬tesa come sintomo di un contesto. E, poi, magari dopo qualche mese, si con¬statata che quel bambino o quel ra¬gazzo ha cambiato scuola, ha lasciato gli studi, ha un problema, ne ha combinata una di grossa. Dice “Strano!”, “Ma sì, era un po’ così, però sembrava tanto bravo, tanto buono”. Invece, giorno per giorno, era dinanzi agli occhi, dinanzi alle orec¬chie l’indice di un disagio che però non ha trovato udienza, ascolto, il rilancio, non ha trovato il dispositivo efficace perché il disagio si articolasse, si svolgesse. Non ha trovato la clinica perché al massimo può incon¬trare le definizioni della psicopatologia quando viene consul¬tato il così detto “esperto”: “Ha questo, ha quello, bambino difficile, disturbato, ragazzo deviante…”.
L’andamento a scuola, l’efficacia, che vi sia profitto negli studi è un indice importante proprio della…
L.G. Prima parlava di bambini piccoli, adesso io parlo di adulti. Quello che voglio dire è che anche un adulto, oppure un ragazzo… Io non lavoro con ragazzi, quindi è un problema nuovo, non ho espe¬rienza. Lei ha detto che i ragazzi, delle volte, trasmettono i propri disagi con qual¬cosa, manifestano. Però, per¬ché un ragazzo deve sentire l’esigenza di avere un aiuto esterno quando delle volte lo può ottenere da solo?
R.C. Da soli non si fa nulla! Da soli, nel¬l’isolamento, non accade nulla. Se qual¬cosa accade o può accadere, è in un disposi-tivo dove non c’è chi sia solo. Quindi, da soli non si fa nulla. Ciascuno fa da sé, ma non da solo.
L.G. È una cosa che non avevo pensato.
R.C. Tante volte io sento persone che mi interpellano…
Alessio Menegazzo [Rivolto a Luigina Giraldo]. Può dire il suo nome, per corte¬sia?
L.G. No! Non mi piace. È inutile. Con tutte le stupidaggini che dico!
R.C. È per la trascrizione, non è per schedarla. È per fare poi la dispensa con gli interventi di ciascuno.
L.G. Aiuto! Quindi mi conosceranno vita natural durante! Luigina Giraldo.
R.C. Lei potrà dire “C’ero anch’io”. C’era una volta una trasmissione della “TV dei Ragazzi” che s’intito¬lava C’ero anch’io.
L.G. Io ho terminato, ma la risposta che mi ha dato non è stata…
R.C. E terminava così: “E voi potrete dire: ‘C’ero anch’io.’”. Era una trasmis¬sione intelligente, ricostruiva avveni¬menti storici riportati a mo’ di cronaca, quindi cose di trent’anni fa, però è un’in¬venzione.
L.G. È la prima volta che mi capita di registrare le mie osservazioni.
R.C. Ci sono cose che accadono per la prima volta. Ma noi stavamo dicendo che spessissimo mi ac¬cade di ascoltare persone che dicono “Ma io avvertivo l’esigenza di un aiuto, ma pensavo di potere farcela da solo”. Oppure “Io sarei voluto venire già tempo fa per avere un consiglio, un’indicazione, però mi dicevano tutti: ‘No, devi farcela da solo! Devi farcela da solo, perché puoi farcela da solo!’”. Devi, puoi, fai! Fai da solo! Dice “Però, io, da solo, non ce la faccio”!
È effettivamente impossibile fare da soli. Cosa vuole dire fare da soli? Perché la parola stessa è un dispositivo non monoli¬tico, non isolato. La parola stessa indica che ci sono relazioni, funzioni, dimensioni, cause e che per questo ciascuna cosa esige di disporsi in un dispositivo per trovare la direzione verso il compimento, verso la qualità, verso la conclusione. Come potere obbligare all’isolamento? Non è possibile.
M.B. Quando c’è disagio, il più delle volte si esprime come isolamento. Tante volte il disa¬gio si esprime nel fatto che la persona si isola e dice “Io non ho bisogno di uscire”, e questo vuole dire che ha bisogno di uscire. “Io non ho bisogno di mangiare”, e il più delle volte… Adesso è l’anoressico che dice “Io non mangio”. Il bulimico dice “Ho fame”. Come dire: quello che già fa escludendosi, fa la richiesta di aiuto, in genere non richiede, richiede nell’esclu¬dersi. Allora uno dovrebbe accorgersi che, siccome quello si esclude, forse ha biso¬gno.
R.C. Sì, solo che adesso lei pone un caso già compiuto, eclatante.
M.B. Si esprime, riesce a mostrarsi.
R.C. Sì, a mostrarsi attraverso una rap¬presentazione in cui si evidenzia che c’è un problema di dicotomia. Per esem¬pio, dall’ossimoro grasso-magro a o grasso o magro, o tutto grasso o tutto magro. Lì è già avve¬nuta una dicotomia rispetto all’apertura. L’apertura è negata, è tolta, dicotomiz¬zata in una alternativa.
Tutto ciò non è che avvenga così, spontaneamente, ma è la conse¬guenza di una serie di avvenimenti, di comunicazioni, di sbarramenti che vengono incontrati e che, a un certo punto, vengono elaborati in un certo modo, o non vengono elaborati, per cui sfociano in una rappresen¬tazione di alternativa: tutto cibo o niente cibo. Che, poi, qual è il cibo di cui c’è effettivamente esigenza? Cosa deve rappresentare il cibo assunto in maniera spropositata o addirit¬tura negato? Di quale appetito si tratta? Di quale cibo? Di quale nutrimento?
È rappresentato nel cibo perché, attorno a quel cibo, ci sta tutta una costellazione di cose sia in famiglia, sia fuori dalla famiglia. Evidentemente è il modo con cui alcuni elementi del familiare vengono assunti, rappresentati, vengono fissati o mobilizzati a seconda dalle circostanze e dei casi; vengono evidenziati comunque. Ma ridurre ciò a un disturbo dell’alimenta¬zione è umoristico! È comico!
Cosa vuole dire “disturbo dell’ali¬mentazione” se l’alimentazione non c’entra proprio niente? Certo, se non nel senso dell’istanza del nutrimento vitale, dell’i¬stanza di vita, questo sì. E ciò allude a quale sia l’incidenza della rappresentazione della morte in quel di¬scorso, in quel caso, che però è tutto da esplorare.
L’anoressia? L’anoressia non è mentale, l’anoressia è originaria e dice che non c’è sostanza. C’è l’anoressia in¬tellettuale, originaria, per cui non c’è so¬stanza. L’anoressia mentale, come viene chiamata, è la sostanzializzazione dell’istanza originaria. Dice “Mangia! Prendi! Piglia questo, piglia quello, manda giù!”. Ecco, dove c’è l’istanza originaria di insostanzialità, di irrappresentabilità della so¬stanza, del legame, della relazione, viene invece rappresentato in modo da risultare assolutamente insopportabile, e la sostanzialità è portata alla sua punta, alla sua estremità. Quindi, a maggior ragione ciò esige la parola, esige il dispositivo di parola, di comunicazione, di intellettualizzazione di quello che viene sostanzializzato.
Anche il fare da soli è un modo della sostanzializzazione, come se si dicesse che non c’è bisogno di co¬municazione, di rela¬zione, di transfert. Nell’istigazione, nella proposta di fare da soli, c’è la negazione di tutto ciò, per questo è una proposta micidiale. Nessuno può fare da solo, in nessuna circostanza! Ma, quando e come può es¬sere possibile fare da soli? Che cosa? Se c’è chi vuole fare un esempio, lo consideriamo.
L.G. Per esempio, quando una per¬sona sta male, prendiamo il caso di una persona che beve. È difficile comunicare con una persona che non si rende conto di questo. Delle volte, anche se si cerca di aiutare questa persona, a parte che ci sono dei motivi, è faticoso entrare nel suo mondo, e non accetta il mondo che ha di fronte. Se uno beve si può dire “Guarda che si possono prendere le malattie del fe¬gato”. Adesso io non ho esperienza, è un mio ragionamento. Anche se riesci a par¬lare con una persona che beve, è difficile per me entrare nel suo mondo, perché devi conoscere la sua sofferenza, prima di tutto, per riuscire a comunicare. Poi, quando hai capito, riesci forse a entrare. Ma anche la persona stessa fa fatica, non vuole coinvolgere un esterno, perché vive il suo mondo; il suo mondo è quello e ba¬sta. Se ha raggiunto un rapporto con un’altra persona è al livello che ha quasi superato, si può dire, la sua malattia, chiamiamola malattia, secondo il mio ra-gionamento. Non so perché non ho espe¬rienza. È una riflessione mia, personale.
R.C. Ma è importante. Però, lei dice “malattia”.
L.G. Non so definirla nella maniera cor¬retta.
R.C. Lei dice malattia, per cui è diffi¬cile, dove questo evoca come prima immagine la malattia, che possa attuarsi un intervento prima che quella situazione non si sia rappresentata come malattia! Allora l’alcolista deve bere molto per trovare ascolto in quella situazione!
Ci sono migliaia di indizi di ciò che costi¬tuisce il lasciarsi andare, ciò di cui si tratta in quelle che sono dette “le varie malattie”. Si tratta sempre dell’idea di lasciarsi andare, cioè un’idea di morte. Solo che questi indizi non vengono colti se non quando entrano nelle catego¬rie ammesse come patologiche. Uno fuma e dice “Beh, il fumo, fino a cinque è am¬messo, fino a dieci pericoloso, da venti in poi è il tumore sicuro… Però, dopo tanti anni!”. Ebbene, è già la prima sigaretta, sono già le prime cinque che pongono la questione, non dalle quaranta alle sessanta. Sono le prime cinque, sono già le prime cinque che costituiscono l’indice della questione, non le ultime venti, non il terzo pacchetto. La prima metà del primo pac¬chetto pone la questione, così come non è il terzo litro o il quinto litro: è il primo bic¬chiere preso in un certo modo, o ripetuto in un certo modo. È il primo bicchiere!
Si tratta di cogliere gli indizi del lasciarsi an¬dare alla morte come sostanza, a ciò che la rappresenta e che viene assunto in quanto morte. Il vino che l’alcolista beve è la morte. Il fumo, la sigaretta del tabagista, è la morte. La droga del drogato è la morte. Sono forme della morte. Si chiamano in un modo o nell’altro perché c’è stata una certa elaborazione, per cui quello è il segno della morte, e allora quello viene assunto e non un altro. Per un’altra persona è un’altra sostanza. Si tratta sem¬pre della morte, ma per taluni nella forma di alcool, per talaltri nella forma di droga, di cibo, di fumo.
A.B. Ricerca della morte, di “andare verso”, diciamo.
R.C. Verso oppure sfida. Può essere ri¬cerca della morte, oppure sfida alla morte.
L.G. Lei ha detto “Tutti abbiamo bisogno di aiuto”, cioè, non “tutti”…
R.C. No, io non ho detto questo, sono sicuro di non avere mai detto questa cosa qui.
L.G. È vero. Però, quando ci si trova in una determinata esigenza, in generale si ha bisogno di aiuto, si cerca l’aiuto. Non sempre la persona che ha bisogno di aiuto lo accetta.
R.C. Ma perché?
L.G. Perché?
R.C. Perché c’è una certa pubblicità del¬l’aiuto che lo rende inaccettabile.
L.G. Come la mia.
R.C. Esatto. Sia il modo con cui lo si porge, sia il modo con cui lo si pubblicizza rende l’aiuto assolutamente mortifero. Allora, un conto è l’aiuto origi¬nario, ossia l’Altro – possiamo chiamare l’Altro la funzione di aiuto – e un conto è l’altruismo, che potremo chiamare la funzione di morte. L’altruismo è letale, l’aiuto no. Sembrano la stessa cosa, apparentemente, aiuto e altruismo. “Ma l’altruismo si fa di aiuto”. No! L’aiuto è una cosa e l’altruismo è un’altra. L’altruismo è micidiale. Da cosa procede l’altruismo? Procede dalla nega¬zione dell’Altro, procede dall’inscrizione del bisogno altrui nei bisogni riconosciuti, che vengono somministrati secondo ricette e schemi consolidati, secondo la credenza di dovere conoscere la sofferenza altrui per alleviarla. Ma questa è l’altra faccia della morte. È morte.
L.G. Nel senso che non si arriva alla causa. Non riesco a afferrare perché la morte, perché si arriva…
R.C. Che cos’è la sofferenza?
L.G. È un disagio.
R.C. È l’idea che noi abbiamo del disagio, quindi è una costruzione fantastica. È la nostra idea del disagio altrui. La sofferenza è ciò che evoca in lei lo spetta¬colo di qualcosa che vede. Ora, questa evocazione non ha niente a che vedere con ciò che la evoca. È ciò che lei pensa di quella cosa, ma non è la cosa. Ora, lei interverrà nei confronti di quella cosa se¬condo la sua idea e sarà in un’altra galas¬sia rispetto all’esigenza effettiva di quella cosa. Capisce?
Pubblico Stiamo parlando di una patologia? Questo discorso lo riferisce alle patologie o alla sofferenza in generale? Per esempio, penso agli aiuti umanitari, a queste cose qua.
R.C. Gli aiuti umanitari intesi come che cosa?
Pubblico Non so, per esempio tanta gente si è mobilitata per la ex Jugoslavia per portare le coperte d’inverno o il cibo, perché anche qui il bisogno, quello che si vede rimanda a noi un biso¬gno, un bisogno che delle volte può essere primario, non so come dire, avere una casa, essere coperti, avere una medi¬cina quando ne hai bisogno. Si riferi¬sce, questo discorso che lei sta facendo, solo alla patologia o anche a questo tipo di bisogni?
R.C. È chiaro che se c’è una persona che non ha da mangiare, non ha la casa, non ha da coprirsi, dice “Forse è un disagio psi-chico”! Diamogli prima da mangiare e da vestire, poi ci occuperemo anche di altre cose. Cioè, non è che si possa in¬scrivere tutto nel “disagio psichico”. Se una persona non ha da mangiare, diamogli prima da mangiare poi, sicuramente, la questione non si esaurirà lì ma, intanto, se ha fame, occorre che mangi. Questo è fuori dubbio.
Pubblico In ogni caso, siamo sempre noi che vediamo, e l’immagine della sofferenza viene filtrata attraverso noi che vediamo.
R.C. È sicuro, questo sicuramente. La sof¬ferenza è una rappresentazione soggettiva.
Prima c’era una mano alzata da parte di Simone Barison, mi pare.
Simone Barison Per quanto riguarda la dicotomia rispetto all’apertura, come rap¬presentazione di una alternativa “O tutto cibo o niente cibo”, si diceva, per esempio, che il cibo sarebbe un modo in cui al¬cuni elementi familiari vengono assunti, evidenziati. La domanda è se ciò che un disagio rappresenta è esclusivamente di origine familiare, oppure, per un individuo, per una persona il disagio può essere indi¬cazione di un blocco extra-familiare, che non c’entri nulla con la famiglia, ma che riguardi altre relazioni, altri motivi della sua vita, della sua esistenza. Il disa¬gio è sempre da indagare nell’ambito di relazioni familiari, oppure si può andare a rintracciarlo altrove?
R.C. Familiare nella misura in cui la fa¬miglia rappresenta l’origine, quindi sarà sicuramente reperibile nella mappa della famiglia tanto più quanto la famiglia costi¬tuisce la rappresentazione dell’origine, con ciò che comporta. Che, poi, questo possa comportare la riproduzione al di fuori della famiglia dello stesso schema, non toglie…
S.B. Alla base ci sarebbe sempre, comun¬que, una relazione familiare o con elementi familiari.
R.C. La rappresentazione della famiglia come origine, cioè la rappresentazione della famiglia come tabù dell’incesto, tabù della grazia e tabù della carità; come tabù del tempo per dirla molto semplicemente. Grazia, carità e verginità sono virtù del tempo. Adesso, se avremo tempo, entreremo anche nel detta¬glio di queste virtù.
S.B. E fuori di questo, si può es¬sere certi che qualsiasi forma di disagio sia reperibile nella rappresentazione della fa¬miglia come tabù del tempo?
R.C. Sì.
S.B. Questo è importante, mi pare.
R.C. Sì, è importantissimo.
S.B. È una questione che delimita, oppure è un punto di riferi-mento, in qualche modo.
R.C. Sì, perché la famiglia costituisce la traccia della nominazione, la traccia dell’interdizione e delle sue rappre-sentazioni.
S.B. Quindi, è fondamentale il ruolo dei genitori come educatori, per quanto ri¬guarda poi quale sarà lo svolgimento della vita del figlio.
R.C. Certamente, è importantissimo.
S.B. Rispetto all’educazione da parte dei genitori, poi la scuola e gli altri dispositivi possono avere una funzione o di rimedio o di…
R.C. Esatto. Possono costituire un’occa¬sione di verifica, di elaborazione, di rilan¬cio oppure di conferma di una serie di chiusure.
S.B. O di sostituzione, se la famiglia è scadente come qualità di educazione. Penso sia una cosa abbastanza diffusa.
R.C. Sì.
L.G. Però, tante volte, ci sono persone che hanno adottato… Per esempio, c’è stato quel caso, in Umbria mi pare, dove un ra¬gazzo è stato adottato da piccolo da due genitori e dicono che, nell’insieme, come educazione, hanno cercato di fare…
R.C. Del loro meglio!
L.G. Del loro meglio. Però lui cosa ha fatto? Il pedofilo, cioè ha ucciso. Allora, a questo punto, anche la famiglia cosa c’entra? La famiglia, sì, ha dato il suo.
R.C. Ma noi non sappiamo qual è stato questo meglio, qual è stato il loro meglio. Non abbiamo nessun elemento di questo meglio.
L.G. In buona fede però, perché tutti, penso, in una maniera danno il loro me¬glio.
Pubblico Tra lo zero e l’uno c’è l’in¬finito.
R.C. Noi non sappiamo il loro meglio in cosa sia consistito.
L.G. Sì, tra lo zero e l’uno c’è l’infinito, però una famiglia… Noi, esternamente, ma¬gari vediamo attraverso certe azioni, certi modi di fare dei bambini, come si compor¬tano, allora vediamo il comportamento un po’ del genitore, però si parte già dicendo “Una famiglia che fa del suo meglio”. Non può essere una famiglia perfetta, non esi¬ste. Mi sembra una cosa assurda questa.
R.C. Se il loro meglio è stato la rigida applicazione di uno schema morale, loro hanno fatto del loro meglio, si sono affidati a una certa impostazione, l’hanno applicata e hanno fatto del loro meglio. La conse¬guenza è stata poi quella.
L.G. Quanti casi ci sono nella vita che dei genitori morali, con una moralità ben precisa ma, nel difetto diciamo, sono riusciti a ottenere un figlio capace di fare qualcosa. Ce ne sono, non è una cosa nuova, non è definita una cosa del genere. Almeno per me, posso anche sbagliare. Se nella vita ogni famiglia dà il meglio, non sarà mai il meglio perché, nella famiglia, nes¬suno ha insegnato a nessuno come fare il geni¬tore, quindi c’è sempre il pro e il contro. Dopo, c’è la persona che sa cogliere la parte in una maniera o in un’altra, certi aspetti almeno, perché è difficile. Chissà quanti casi ci sono nella vita, io non li conosco, però ci saranno casi dove pur con genitori che hanno dato un’e¬ducazione sbagliata, hanno un figlio stupendo. Può esserci.
R.C. Quindi non gli hanno dato un’edu¬cazione sbagliata! Se questo ragazzo ha trovato lì un dispositivo e la direzione, vuole dire che, come educazione, non era così sbagliata.
L.G. Forse è conoscere il sistema, cioè come porgere una certa educazione, o forse è il modo di vedere un’educazione, come la intendo, come la intende un altro. Io ho raccontato la storia del pedofilo non perché il genitore sia stato per¬fetto. Lui ha detto così, la gente del paese ha detto così. Dopo, non so, ognuno ha una sua opinione, ognuno vede le cose a modo suo. Adesso non ho un’idea di… Se ho un esempio da fare.
R.C. Adesso è di attualità il caso Carretta. Anni fa c’era quel ragazzo di Verona, Maso. Poi c’è stato quello di Varese, poi Genova, tanti casi emblematici di famiglie irreprensibili. Non erano tutte famiglie irreprensibili?
L.G. Da quello che dicono. Non c’ero, quindi non ho visto.
R.C. Componenti di una comunità irre¬prensibile, cittadini, lavoratori, comunità di lavoratori, eccetera, eccetera.
M.B. Ma di questo passo arriviamo alla razza ariana, allora. Dal bello nasce il bello, dal buono nasce il buono. Sarebbe così!
R.C. Eh no!
M.B. Dico appunto che, di questo passo si arriverebbe a dire che esiste un bravo che riproduce il bravo, il brutto che riproduce il brutto.
R.C. Per nulla, infatti.
M.B. Quindi, quanto detto sulla razza ariana dovrebbe corrispondere a una verità.
R.C. Appunto. Tanto più la comunità mira a essere bianca, pulita, bella, scevra dal male, purgata da ogni rifiuto, tanto più coltiva al suo interno ciò che mira a espellere.
Pubblico Dove?
R.C. Nei suoi figli! Nei suoi figli! Che a un certo punto daranno pure notizia che la missione è compiuta. Missione riuscita e cioè il cerchio è perfettamente riuscito. Quindi, il pargoletto è il perfetto prodotto dell’alimentazione di ciò che è stato espulso. Ciò che è stato espulso, è stato l’alimento del pargoletto, della famiglia, della comunità, della città.
Ugo Riso Perché c’è questo meccanismo di circolarità? Perché, nel momento in cui ciò che viene rifiutato deve divenire ali¬mento? Non riesco a vedere la conse¬quenzialità della cosa. Sembra quasi che il figlio stia in attesa.
R.C. Perché il principio dell’espulsione ha come altra sua faccia l’assunzione. Ciò che io voglio gettare fuori dalla città è ciò di cui mi alimento, è proprio l’alimento privile¬giato.
M.B. Posso dire un’esperienza soggettiva che ho avuto l’altro giorno in una prima classe, che mi ha fatto venire fuori questa definizione? All’Isti¬tuto d’arte, in genere, il primo anno, quasi tutti i genitori vengono al colloquio coi professori per cono¬scerti. Quel giorno sono venuti tutti i geni¬tori di quella classe. Quando è finita, al pomeriggio dopo averli ricevuti, mi è venuta in mente questa frase, che poi sono due: “I figli portano i problemi irri¬solti dei genitori”. Infatti, mi facevano solo le domande che interessavano a loro. Io gli dicevo dieci cose del figlio, ma loro ne sentivano una sola. Quindi, a loro non interes¬sava il figlio. Loro venivano già con una do¬manda; a chi interessava il voto e a chi altro, ma ognuno aveva una cosa. Alla fine, mi è venuto in mente quello che ho detto, che i figli portano i problemi irrisolti dei genitori, perché vedendo i figli e i genitori mi era combaciato questo fatto. Per me i figli sono, uso questa pa¬rola, migliori, nel senso che i genitori il loro problema lo portano magari da quarant’anni, dico un’età media di genitori che hanno un figlio di quattordici anni, e che per ciò si presentava molto corposo per loro. Nel ragazzino, invece, vedevo che c’era, ma il giovane era migliore, nel senso che il problema era meno evi¬dente. Un pomeriggio, dopo un passaggio di trenta persone, mi si è presentata questa figura.
Questa mia esperienza forse può rispondere alla questione sua e della signora e anche a quello che dice lui, che ciascuno veniva a chiedere quello che in realtà a lui era mancato, per esempio se andava bene in italiano. Il genitore aveva una sua idea, ma non aveva presente il figlio, era un problema suo. E dopo, con gli anni…
Così, quel po¬meriggio, mi è venuta come una fotografia questa cosa, queste due imma¬gini che si sono sovrapposte.
R.C. È molto preciso quanto lei dice. L’insegnante dispone di un materiale clinico enorme. Nella maggior parte dei casi va perduto. Anziché divenire occasione di intervento, risulta occasione di pettego¬lezzo con i colleghi e basta, o di riflessione tra sé e sé, ma potrebbe avere ben altra de¬stinazione intellettuale, perché è mate¬riale ricchissimo. È chiaro che l’inse¬gnante, attraverso gli incontri con i geni¬tori, può rilevare tante cose e potrebbe intervenire proprio in termini di orientamento della famiglia, non solo del ragazzo in questione. Occorre dire che, molto spesso, all’insegnante man¬cano tuttavia alcune dotazioni cliniche, per cui s’accorge di avere a disposizione il ma¬teriale, però l’intervento è un’altra cosa. Non va da sé, certamente. Poi, le dotazioni di cui di¬spone sono i così detti esperti di turno: pedagoghi, psicologi, psichiatri di riferi¬mento.
M.B. Scusi, mentre lei diceva “Esperti di turno”, a me è suonato “Aspetti di turno”. L’insegnante prende degli aspetti di un turno, del turno di quando il ragazzo gli passa lì, nel momento in cui ce l’ha a disposizione. Questi aspetti sono non faticosi, nel senso che non vai via col mal di testa perché urlano, ma proprio riuscire a mettere insieme il materiale umano e intellet¬tuale è il lavoro che deve fare il professore. Questo turno è così esiguo, così saltuario… Ma forse è necessario che sia così. Però, questi aspetti di turno che occupano l’insegnante, aspetti nei confronti della vita, sono aspetti a cui avrei piacere di dare più peso, di dargli più valore, proprio valore in tutto ciò che si può immaginare con questa parola. Valorizzarlo e dargli valore, perché lì sta il suo momento, il suo tempo, il taglio di aspetto di turno.
R.C. Ha detto una cosa importantissima, molto bella. Che le cose e le persone trovino il modo della valorizza¬zione è tanto essenziale quanto difficilis¬simo. Direi che è uno dei primi compiti dell’insegnante far sì che ciascun studente incontri il processo di valo¬rizzazione, la spinta alla valo¬rizzazione. Che, magari nonostante esperienze negative in famiglia, avverta che c’è anche per lui l’eventualità della valorizzazione, del valore. Questo è importantissimo: che ciascun studente non sia precluso, non sia escluso naturalmente, socialmente, biologicamente, per predesti-nazione!
M.B. Non dovrebbe essere economico. Economico è dire quanto vale, nel senso del voto, anche quanto costa.
R.C. Esatto, per un processo inecono¬mico.
M.B. Ineconomico, messo in un intervallo, nel suo tempo, non “Da-a”.
R.C. Esatto.
M.B. Noi mettiamo il seme e pensiamo al frutto, ma l’intervallo della crescita è fon¬damentale, è rilevante.
R.C. È chiaro. L’educazione ha un di¬spendio senza risparmio, senza finalismo. Senza risparmio, quindi senza facilità. Perché l’idea di una vita comoda, di una vita facile, di un successo facile, di un risultato facile, immediato, senza sforzo viene proprio dall’apologia del ri¬sparmio, da un’educazione che neghi il di-spendio e che collochi ogni cosa in un finalismo: il maggior risultato con il minimo sforzo. C’è un’ideologia che pro¬pone questo.
Intanto cominciamo col pro¬porre il massimo sforzo e vediamo quali sono i risultati, ma massimo sforzo! Già dire massimo sforzo è illogico, nel senso che non c’è né massimo né minimo. Lo sforzo occorre che sia estremo, che sia sforzo, cioè immisurabile, perché è quando ognuno comincia a pensare di potere ri¬sparmiarsi che poi si lascia andare, perché misura sé, misura l’Altro, misura la morte, la centellina, se ne ciba a piccole dosi, giorno per giorno, fino a quando decide di assumerne una dose un po’ più grossa, e poi ancora un po’ di più, ancora un po’, ancora un po’. Ciò vuole dire che il progetto di vita non c’è, c’è solo la morte, la morte sostanza che diventa il metro, la misura di tutte le cose.
L’importanza del progetto di vita è assoluta.
L.G. Bisognerebbe averlo fino alla morte questo approccio, perché, quando si incomincia la scuola è in una certa maniera, si vuole trovare sempre il meglio per ogni cosa. Ma poi passano gli anni, e dopo dieci anni cominci a dire “Beh, insomma, qualcosa posso lasciare”. E si va avanti così. Invece, è giusto fare questa riflessione.
R.C. Si comincia già a morire un po’ di più.
L.G. Si comincia a morire: “Ah, va bene, sono vecchia, sono vent’anni che insegno, sono stanca”. Invece, ci vuole sempre…
R.C. Eh già, la stanchezza.
L.G. E via di seguito fino a ses¬sant’anni. Il più delle volte dico ai miei colleghi: “Mi vedo senza dentiera, col ba¬stone in mano”.
R.C. Esatto. L’apologia della morte che viene fatta attraverso la stanchezza.
A.B. Quando non si chiede il massimo sforzo a una persona, diciamo a un bam¬bino…
R.C. Né massimo né minimo. Assoluto, estremo.
A.B. Uno pensa di potere risparmiare, di dire “Tanto ce la faccio”.
R.C. “Adesso riposati che sei stanco”!
A.B. Quindi misura se stesso, si regola a se¬conda… Mi è sfuggito il passaggio per ar¬rivare all’idea di morte. È perché si dà già per spacciato in pratica? Si ri¬sparmia, nel senso che dice “Più di così non posso fare, non voglio, non posso, non devo e quindi già tanto così mi basta”?
R.C. Esatto. È già un soggetto limitato quello. Tutto il protezionismo materno verso i bambini è micidiale. È l’educazione all’alimentazione, al pericolo, cioè “Attento a questo, attento a quello, non fare così, non stancarti, non sudare, non agitarti, sta’ fermo”. L’ideale materno del bambino è il bambino morto, bello, fermo. Composto! “Composto nella bara” si dice. “I resti furono compo¬sti”. “Stai composto, nella bara, immobile, buono, tranquillo, non disturbare”!
M.B. Un nano. Io vedo che è un nano uno così, di bassa statura ma che si comporta come un ometto. È come un ometto.
R.C. Ecco: “Fai il bravo ometto”! Occorre dire che il messaggio mortifero passa at¬traverso miriadi di cose, anche le più inno¬cue apparentemente, le più banali. Perché un bambino che ignora le cose si chiederà in ciascun caso “Perché?”, in quanto ignora. L’igno¬ranza è la condizione della curiosità, e ignorando e ricevendo un’indicazione, un messaggio, un biglietto, una prescrizione, si chiederà “Perché?”. Poi ne riceve un’al¬tra e dice “Perché?”, e le combinerà in¬sieme. E a un certo punto si darà le risposte, in quanto non può vivere senza risposte. Poi, quando l’ha formulata, chiederà conferma. Non prima. Dopo. Dopo averla formulata, chiederà: “Perché questo?”.
Non pensate di potere rispondere a una do¬manda difficile di un bambino con un luogo comune o con una fesseria, perché c’è da fare la figura del fesso. Se il bambino chiede una cosa è perché ha già trovato una risposta: chiede solo la conferma perché la sua curiosità ha già lavorato! Non è una curiosità brada, è una curiosità intellettuale già al lavoro e giunta a una costruzione. Chiederà dettagli, conferme e verifiche.
Tutta una certa imposta¬zione secondo cui non bisogna parlare ai bambini di certe cose prima di una certa età perché potrebbe fargli male, è un’idio¬zia. Se un bambino chiede una cosa, è per¬ché quella cosa è già al lavoro, è già quasi acquisita e quindi occorre dargli ulteriori strumenti per andare avanti, non per bloccarlo, non per dargli una cappa entro cui stare, ma dargli strumenti per lavorare ancora.
Ecco che il bambino troverà in questo modo una spinta, troverà alimento e quell’alimento è prezioso. Ma se gli viene detto “Ah, questa cosa qui… Veleno! Veleno, è roba cattiva, pericolo!”, comincia a sorgere la rappresentazione del negativo, del pericolo, del male, della morte. E a un certo punto verrà col¬tivata l’idea di male, di negativo, di morte che suscita tanta attenzione.
L.G. Io voglio dire una cosa. Quando ab¬biamo fatto la prima assemblea con i geni¬tori, è venuta l’insegnante di religione e ha parlato del suo programma scolastico, quello che deve svolgere durante l’anno. Parlando della Pasqua, ha detto che parlerà della morte. Ci sono stati dei genitori che non hanno accettato l’idea di parlare della morte a un bambino di cinque anni. Lei ha detto che cercherà solo di sfio¬rarlo nei cinque anni, mentre nei tre ne parlerà in un’altra maniera. Ciò è sem¬pre stato un argomento abbastanza difficile per un bambino di questa età. Quindi, lei come lo affronterebbe l’argomento? Non lo affronterebbe per niente se per caso a un bambino di tre anni gli muore la mamma o il papà? È un problema, è una sofferenza molto grande. Come affrontare, cosa fare in simili casi? È difficile.
L’insegnante di religione ha detto che sfiorerà l’argomento, oppure nei tre anni non par¬lerà della morte, ma racconterà la storia della morte, della Resurrezione, che muore per risorgere.
R.C. C’è da dire questo: nulla di ciò che non si capisce può essere nocivo! Neanche nulla di ciò che si capisce! Ma, intanto co-minciamo, dato che c’è tanta pruderie, a porre una base.
Nulla di ciò che non si ca¬pisce può costituire male o qualcosa di nocivo, perché non si capisce. Quindi, se non lo capisco non entra nel mio dispositivo; non lo capisco! Mi re¬sterà un interrogativo, forse sì, forse no. Se costituisce interrogativo è qualcosa che entra nel processo e se ne può parlare. Se lo capisco costituisce materia per il sapere, per la scrittura, per la qualificazione, e neanche in quel caso può costituire elemento nocivo, dun¬que il problema non sussiste.
L.G. È una cosa difficile quando hai un bambino di tre anni che gli è morto il padre e devi parlare della morte. Vengono fatte delle domande abbastanza… La madre penso ne parli, però è una cosa da capire, è una cosa molto, molto… Forse perché non riesco a capirlo ancora io.
R.C. Ora, se lo capisce, entra nel processo di qualificazione.
L.G. Si danno delle spiegazioni evasive, più di tutto.
R.C. La cosa peggiore è la pruderie, cioè fare di un elemento un elemento morboso! Allora sì che attorno a questo si co¬struiranno fantasie tutte rivolte al negativo, al peggio, al male, perché c’è qualcosa di vietato.
Il problema non sta nei bambini, sta negli adulti che si sentono spiazzati rispetto a questo, hanno questa pruderie, questa idea del male, l’idea della morbosità.
William Gasparini Volevo porre una domanda, una domanda di una ilarità in¬credibile. È la risposta che può creare un problema a chi deve darla?
R.C. Certo! Ma è chiaro.
W.G. Perché la domanda è lineare: prima c’era, adesso non c’è. Più chiaro di così.
R.C. Dov’è andato? Chiaro.
A.B. Lei ha bambini che glielo chiedono? E cosa gli dice? Dov’è andato, per esempio?
W.G. Dipende dal contesto. La prima volta, mio figlio, il maschio, quando aveva quattro-cinque anni, passeggiando in quar-tiere ha visto un cane vecchio e mi ha chie¬sto se moriva e io ho detto: “Sì, morirà”. Poi mi ha chiesto se morivo io. Gli ho detto: “Sì”, e ha pianto.
R.C. Ma andiamoci piano! Sì, ma andiamoci piano, non subito!
W.G. Mi aspettavo una reazione, effetti¬vamente qualche lacrima, poi gli è passata.
R.C. Certo, comunque, non adesso, non subito.
W.G. E è tornato e tornerà sull’argo¬mento, sicuramente.
R.C. Certo. Quanto più potrà parlarne, tanto meno sarà problema, perché poi si scrive in un processo di acquisizione delle cose, ma anche incontra la dimenticanza. Diceva Jonesco che abbiamo diritto alla dimenticanza. In effetti è così, c’è anche l’oblio.
Ma ciò che è toccato dal divieto, dall’impedimento, che si fissa, resta come ricordo. Altrimenti ciascuna cosa, in quanto è presa nel processo di qualifica¬zione dove c’è l’occorrenza, c’è l’Altro che è fatto di sogno e di¬menticanza, pertanto…
L.G. Dimentichiamo.
R.C. Ma certo, è così. Lei capisce che, dato che l’Altro è fatto di sogno e dimenti¬canza, dell’idea di sofferenza che lei può avere rispetto a un’immagine, quell’im¬magine non sa nulla.
L.G. È successo che una bambina di due anni e mezzo si è stesa sul letto con la ma¬dre, perché la madre stava male, le ha portato la pastiglia e la madre è morta. Il padre è tornato a casa la sera e le ha tro¬vate tutte due a letto, una morta e una stesa dicendo che la madre dormiva. Quando è venuta a scuola, lei, per un anno intero, fa¬ceva “morire” tutte le bambine. Andava in casetta e diceva: “Tu sei la mamma morta, devi fare la mamma morta”. Quando no-minava “la mamma morta”, tutti rimane¬vano scioccati. C’era chi non voleva fare più la mamma morta, perché non ne po¬teva più, e invece lei non riusciva a sdram¬matizzare la situazione che aveva vissuto, per me. Non so, però non sape¬vamo come affrontare il pro¬blema, perché era un problema abbastanza difficile. Oppure c’è qualche bambino che festeggia, c’è la festa della mamma e la festa del papà. Quando un bambino è senza papà, gli è morto il papà, cosa puoi dire a questo punto? È un problema, perché il papà è una cosa che gli manca, perché lo nomina. E vive questa sofferenza, perché lo vedi che vive la sofferenza. È una cosa abbastanza difficile da cercare di fare capire ai bambini.
R.C. No, il bambino…
L.G. O drammatizza come faceva Chiara, che faceva fare a tutte le sue amiche “la mamma morta”, e lei si metteva in fianco, oppure l’altra si chiude in se stessa e parla poco dei suoi affetti, oppure trova in altre persone amiche della mamma, o fratelli della mamma, trova l’affetto maschile che gli manca. Almeno questo io vedo.
Però, se un bambino chiede: “Perché il suo papà è morto?”, perché fra loro par¬lano, come glielo spieghi? È un problema, o forse è perché lo sento io come problema. È una cosa per me difficile da spiegare, però è una cosa, una realtà che mi si presenta. Anche se cerchi di essere evasiva, magari dicendo: “È andato in cielo”, “Dove?”. “In una stellina” qualcuno ha detto. “È lì in cielo che ti guarda da una stellina” dice una mamma, però, più di questo. Cer¬chi di sdrammatizzare certe situazioni che sono abbastanza drammatiche per certe età. Se già un adulto fa fatica a accettare la morte di per sé, almeno io faccio fa¬tica a accettarla, un bambino di tre anni o di due anni e mezzo…
R.C. Il bambino non ha nessuna difficoltà a accettarla, nel senso che non l’accetta! La morte è inaccettabile intellettualmente, cioè non è né accettabile né inaccettabile. È qualcosa di impensabile, irrappresentabile e per un bambino è così, quindi ne parla tranquillamente! Il problema si pone per l’adulto che, avendo il tabù della morte, lo attribuisce anche al bambino, e quindi deve costruire lo stesso tabù anche per il bam¬bino.
W.G. Creargli già un problema.
R.C. Ma poi finisce così! Per il bambino è una curiosità assolutamente scientifica, intellettuale, senza paura, senza tabù. Ma dopo un po’ gli viene comunicato che deve averne paura e deve averne tabù.
Maria Odorizzi Un bambino un po’ più grande che può avere vissuto in famiglia l’esperienza di una morte, non dei genitori diciamo, lui la collega alla morte dei geni¬tori. Io, per esperienza personale, vedo che alcuni bambini, anche senza avere mai preso l’argomento di conversazione morte, ma per averne sentito vagamente parlare, ti chiedono e ti dicono, fanno un trasferi¬mento, trasferiscono l’idea di morte di una qualunque persona o di un animale, all’idea che, come diceva il signor Gasparini, possa morire il genitore.
Qui c’è tutta un’altra faccenda, mi sembra. Lui vede il timore di perdere la figura di riferimento, la sicurezza, il se stesso più grande, la protezione – adesso non so bene – e questo provoca una sorta di terrore nel bambino indipendentemente dal fatto che la mamma o il papà si sforzino in tutti i modi di rassicurarlo, di fargli vedere la morte come un qualcosa di assolutamente fisico, naturale e di sperimentare tutti i possibili escamotages al riguardo. Nel senso che questa non è una paura indotta, è proprio… Fa parte… Come posso dire? È il crollo di un bisogno, è il crollo della soddisfazione di un bisogno che il bambino vive, il ti¬more della perdita di una parte di sé. Non so come spiegarmi quello che intendo. Qui non si tratta di una paura indotta o di un tabù indotto.
R.C. L’esperienza della perdita, l’espe¬rienza della mancanza, l’esperienza della privazione è un’esperienza originaria, av¬viene parlando. Con l’atto di parola, questa esperienza c’è già. Allora, non c’è da preservare nulla a nessuno, perché il bambino, già cominciando a parlare, fa l’espe¬rienza della perdita: vuole dire una cosa e non ci riesce, vuole farsi capire ma non ci riesce, chiede una cosa e non ce l’ha. Più esperienza di questo, quanto a perdita, mancanza e privazione! È qualcosa che fa costitutivamente in ciascun mo¬mento. Non c’è da risparmiare niente a nessuno. Certo, non è che per questo biso¬gna essere brutali. Si tratta di trovare il modo della comunicazione, ma senza pen¬sare che debba suscitare chissà quali sfa¬celi.
M.O. Non intendevo dire questo. Non volevo dire di risparmiargliela, anzi. Vo¬levo dire semplicemente che è un dato di fatto, che non si può neanche dire che lui non la conosce, quindi non ne soffre, anzi ne soffre ma, piuttosto, parlan¬done, affrontandola, sdrammatizzandola potrà semmai, superarla o rimuoverla o dimenticarla, ma fa parte proprio della sua esperienza originaria, come diceva; è una cosa che c’è e che non si può negare.
R.C. Esatto.
M.B. Secondo me, l’esperienza della morte viene mal vissuta perché nelle fami¬glie, per esempio, non sono più presenti i nonni, i quali anche con i loro racconti… Cioè, i genitori, noi, facciamo il presente, il quotidiano, mentre i nonni, con i loro racconti, secondo me portavano in casa un tempo dietro ai genitori e dietro ai bambini, e davano al bambino il senso di un passato, per cui anche il genitore dovrà avere un passato che lo vede giovane, e questo amplifica lo spazio-tempo del bambino. Non è più oggi per oggi “Se domani muore mio padre”, “Mio padre, mio nonno mi ha detto che ha fatto questo”, “Mio padre deve ancora fare tutto questo”. Secondo me la presenza dei nonni con le loro storie, con il loro tempo di racconto, davano un pas¬sato al bambino, un concetto di passato che a mio modo di vedere era importante.
Inoltre, sento molti genitori che non pren¬dono un animale perché muore e se muore, soffre. “Avevamo un cane, è morto, ha pianto; non ne prendo più nessuno”. Quindi, non importa tutta la felicità del tempo che il bambino passa col cane, da uno a quindici anni, da uno a tre anni, e non lo fa nascere perché gli muore, quindi tronca tutto un tempo di vita. Questo con¬cetto dell’animale lo sento, mi infastidisce. Proprio sentire questi genitori dire “Avevo un gatto, è morto, non lo vogliamo più”. Ma perché, la morte fa schifo? E tutto il tempo di vita?
Questo, secondo me, a mio modo di vedere è una forma per educare qualsiasi bambino, anche da grande, a pen¬sare che ti può morire tuo padre. Voglio dire, è la morte che pian piano avanza, dalla pianta all’animale, al nonno. Poi può essere il padre, il vicino di casa, il fratello e te stesso; e questo ti dà una gradazione.
“Non si dice al nipote che la nonna ha il tumore”, sicché la nonna era bella, poi la nonna per un po’ di tempo scompare, è morta. Ho conosciuto una famiglia che ha fatto così. Quindi, la nonna dov’è finita che stava tanto bene? È morta. Non c’è stato il tempo di dire: “La nonna è andata giù, era affaticata, aveva male”, un pensiero che la morte ti consuma o non ti consuma, la vita ti consuma. “È morta, è scomparsa dalla circolazione”.
Secondo me, questi sono tutti passaggi in cui la morte diventa un taglio con la spada, una cosa inaspettata, un catacli¬sma che ti coglie da un momento all’altro. Poi viviamo nell’appartamentino, non ve¬diamo scendere il sole, non lo vediamo ve¬nire su, non vediamo crescere un albero, non abbiamo il concetto di nascita, e allora abbiamo paura della morte, non capiamo il ciclo di vita. Non vediamo nascere un gatto, non vediamo nascere un cane, i fratelli non nascono, i cugini non nascono. Scusate lo sfogo, ma io la vedo così, vivendo come donna qualsiasi in un posto qualsiasi.
R.C. La questione che lei pone è impor¬tante, nel senso che quello che importa ef¬fettivamente per ciascuno, e che com¬porta sia vano vietare o prescrivere ciò di cui bisogna parlare o non bisogna parlare, che bisogna fare o non bisogna fare, è il pro¬getto di vita, la questione dell’avvenire, progetto e programma di vita la cui istanza comincia dalla nascita. È questo che si tratta di promuo-vere con l’educa¬zione, con l’insegna¬mento: il progetto e il programma di vita!
La morte è qualcosa che può intervenire come significante nel dispositivo di pa¬rola. Non ci sono parole da evitare, è qualcosa che può intervenire, ma se in¬terviene nel dispositivo di parola, nel progetto e nel programma di vita, non è un elemento negativo. È qualcosa che verrà a inscriversi nel cammino, nel per¬corso, nell’itinerario, verrà a qualificarsi. Benissimo! È importante e essenziale che ciascuna cosa si qualifichi, perché ciascuna cosa viene dal bene-male e va verso la qualità. Viene dal bene-male, non è male e non è bene. Viene dal bene-male e va verso la qualità.
Se noi diciamo che è male le impediamo di qualificarsi, togliamo qualcosa a qual¬cuno. E non c’è motivo che togliamo al-cunché a chicchessia. Quindi, non si tratta di impedire nulla, si tratta di favorire, di promuovere a che ciascuno dica, faccia senza risparmio, in direzione della qualità, in direzione del compimento del progetto, che è progetto di vita.
Perché ciò accada, io ho insistito molto in questo corso sulla questione linguistica, sulla questione della parola. Ebbene, que¬sta è effettivamente la questione essen¬ziale, perché ciascuno esiste nella parola, vive nella parola, parla, comunica, auspi¬cabilmente, nella parola, perciò secondo la logica della parola originaria.
La scom¬messa è questa per ciascuno: situarsi, tro¬vare la propria sede nella dissidenza della parola, cioè nella parola originaria, non nella logica del discorso, non nell’alterna¬tiva fra bene o male, fra positivo o nega¬tivo, fra la vita o la morte, ma nella parola originaria, quindi nel progetto di vita, se¬condo la particolarità di ciascuno, verso la qualità.
Questa è la scommessa, la scommessa dello psicanalista, ma occorre divenga anche la scommessa dell’inse¬gnante, la scommessa dell’educatore, la scommessa di ciascuno che si trova nel dispositivo intellettuale.
Allora, è con questa scommessa che ci salutiamo e concludiamo il corso.