- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
L’EDUCAZIONE E LA DIREZIONE. AUTORITÀ, RESPONSABILITÀ, CAPACITÀ, DECISIONE
- L’educazione, l’ambiente, la civiltà
- L’educazione senza ostilità
- L’efficacia dell’insegnamento
- Il progetto e il programma di vita
- I dispositivi di direzione
L’educazione, l’ambiente, la civiltà
Si tratta qui di una testimonianza, soprattutto, delle acquisizioni, degli elementi, delle indicazioni che provengono dalla pratica e dall’esperienza psicanalitica e dell’esperienza cifrematica. La cifrematica è la procedura, l’esperienza e la scienza della parola. Procedura, cioè logica, particolarità, esperienza ossia ciò che si produce e si effettua, scienza nel senso della novità, del nuovo che si produce nell’esperienza stessa, quindi scienza non come riferimento da cui partire, non come codice, come bagaglio, ma come quella presa che la parola produce nell’attuale. È un’accezione di scienza certamente non usuale, non riferibile a quello che è il discorso scientifico, che invece si appoggia su capisaldi ben definiti per la riproducibilità di ciascun esperimento.
Qui si tratta, invece, di un’esperienza assolutamente non riproducibile, come è ciascun atto di parola. In questo sta la sua difficoltà, ma anche la sua originarietà. In questo sta l’esigenza di formazione, l’esigenza di ricerca, esigenza di un itinerario, come itinerario intellettuale per acquisire quegli elementi che non possono venire, per così dire, insegnati o imparati per apprendimento.
È questa una caratteristica della pratica e dell’esperienza analitica, dove ciascuna questione esige di venire attraversata e non di conformarsi a uno schema per una applicazione generica o generale. Si può qui intravedere un primo connotato della questione educazione, dell’educazione e anche della direzione, che indicano quindi l’impossibilità di poter esercitare un controllo, un dominio, una padronanza sulla parola, sui gesti, sugli atti e anche sui pensieri, sui modi con cui ciascuna cosa si fa e giunge a compimento.
L’educazione e la direzione indicano che non c’è la possibilità di esercitare un controllo, un dominio e una padronanza sulle cose. Da questo primo “connotato” dell’educazione, si può cominciare a porre la questione dello statuto dell’educatore, dunque anche dello statuto dell’insegnante, come chi in prima istanza ha da fare un itinerario intellettuale, chi in prima istanza ha da attraversare determinate problematiche, determinate questioni, determinate difficoltà per poter fornire di volta in volta, caso per caso, quelle indicazioni che sono indispensabili all’itinerario di ciascuno, bambino, ragazzo, adolescente che sia. Per fornire questa indicazione, occorre che l’insegnante, l’educatore si trovi alla punta delle questioni stesse non alla coda, per dir così, ossia che non le tratti come questioni generiche, come questioni banali, come questioni facili, come questioni di tutti.
Un dato che emerge dall’esperienza clinica e analitica è che non c’è chi sia tale, in particolare che sia tale per nascita, per censo, per predisposizione e quindi per predestinazione. Capita molte volte di sentire affermare da parte di alcuni insegnanti che un ragazzo sarebbe “predisposto” verso quella determinata materia, quella data cosa, quella data scuola, quel dato tipo di corso di studi. “Predisposto”. Ora, questa idea della predisposizione da dove viene? Giustamente può accadere che, vivendo in una certa famiglia, in un certo contesto, facendo alcune cose, ci sia un orientamento, una direzione verso una cosa piuttosto che verso un’altra, che vi sia quindi un’identificazione verso una determinata istanza piuttosto che un’altra, ma questo non comporta la predisposizione, che è parente stretta della predestinazione. è molto impegnativo perciò, per un insegnante, nei vari momenti, nei vari gradi della scuola, poter assegnare un indirizzo, un orientamento a un ragazzo, magari per il fatto che va bene nella sua materia.
Capita spesso che, siccome un ragazzo con un insegnante lavora bene, ha dei buoni risultati, nelle sue note caratteristiche viene detto: “È predisposto per…”; “Ha una predisposizione per…, quindi si consiglia la tal scuola”. Molto spesso, poi, la “tal scuola” risulta fallimentare, perché non c’era nessuna predisposizione, in realtà. Ciascuno funziona sulla base di un progetto e di un programma che questo progetto esige. Allora, l’educazione è proprio ciò che mette in discussione, mette in questione la credenza nella predisposizione, dunque nella predestinazione, la credenza che vi sia, cioè, qualcosa di innato in qualcuno.
Non c’è nulla d’innato, per questo importa l’educazione; se ci fosse l’innatismo, l’educazione sarebbe inutile, assurda, perché tanto c’è già il carattere innato; invece è proprio che non c’è, per questo l’educazione è essenziale. Che cosa vuol dire educare? Educare a che cosa? La sfida dell’educazione è educare alla qualità. Educare alla qualità comporta l’educazione come missione impossibile, come missione di cui non se ne sa mai abbastanza, come missione che non può appoggiarsi a uno schema o a un modello. In questo senso anche Freud, a suo modo nel suo tempo, diceva che poneva l’educazione tra i tre mestieri impossibili: educare, governare, psicanalizzare. Impossibili nel senso che non procedono dalla possibilità, dalla facilità, da un’idea propria delle cose, perché questo equivarrebbe ad assicurarsi il fallimento.
Educare alla qualità, intanto, comporta una certa accezione di qualità. Che cosa vuol dire qualità, educare alla qualità? Non vuol dire che qualcosa è meglio di un’altra: qualità è un assoluto, nel senso che la qualità è ciò che risponde allo specifico di un caso, quindi esclude il possibilismo. La qualità e in particolare l’esigenza della qualità che la parola ha – questa esigenza sta nella logica stessa della parola – comporta un altro modo di ragionare, un altro modo di fare, un altro modo di pensare; esclude il soggettivismo, intendendo per soggettivismo l’idea personale che io posso avere di qualcosa. L’approdo alla qualità non è, perciò, un approdo facile, banale, scontato. Quale sia dunque la qualità, non è dato sapere prima.
Qual è la qualità di una domanda, la qualità di un’istanza, la qualità di una ricerca? Non lo sappiamo, se non al compimento; non sappiamo prima dove si diriga una domanda, dove si diriga l’esigenza di qualcuno, bambino, ragazzo, adolescente o adulto. Io ho modo di constatare innumerevoli volte che, per ciascuno, l’esigenza essenziale è propriamente la qualità. Non si può dire, comunque, che ci sia modo frequentemente per chi avverte questa esigenza, di trovare dispositivi che orientino, indirizzino, favoriscano l’approdo alla qualità.
Il più delle volte mi è capitato di constatare che, a fronte di un’esigenza di qualità, quelli che vengono proposti sono dispositivi conformisti caratterizzati da un’idea comune di bene, di bene dell’Altro e, questa idea comune di bene non corrisponde affatto alla qualità, all’esigenza di qualità, a ciò verso cui la domanda si rivolge. È questo che occorre considerare in modo attento: la domanda non si rivolge al bene, si rivolge alla qualità. La domanda di ciascuno che si rivolge quindi all’educatore, all’insegnante, al medico, ai genitori, a un amico, a un parente, per un’informazione, per un’indicazione, per un orientamento, non si rivolge al bene ma alla qualità.
Ora, la questione è che, parlando, interviene la struttura dello zero, il nome, dell’uno, il significante, dell’intervallo, l’Altro.
Come attribuire un senso noto alle parole se ciascuna parola sta in questa struttura di zero, uno e intervallo? È impossibile da raffigurare, perché ciascun termine ha una struttura che è costituita da zero, uno e intervallo. Che cosa vuol dire? Che ciascuna parola è nome, significante e Altro, simultaneamente; nome, significante e Altro dal nome e dal significante, quindi zero, uno e intervallo. Parlando si produce questa struttura.
È possibile sapere quel che si dice? Saperlo prima? Se quel che si dice si attua in questa struttura di zero, uno e intervallo, di nome, significante e Altro? No. È possibile padroneggiare la lingua? Padroneggiare la parola? No. Si può ascoltare e intendere, invece, a condizione di esplorare questa struttura, di ammetterla e, quindi, lasciarsi fare l’esperienza di questa struttura temporale, non avendo fretta di attribuire a tutto ciò che sentiamo un significato immediato, un valore immediato, un senso immediato.
L’esigenza dell’educazione procede da questi elementi.