- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
L’EDUCAZIONE
- Amicizia, solidarietà, relazione
- Innamoramento e amore
- Il narcisismo
- L’amore del padre e l’odio della madre
- Sessualità, generosità, riuscita
- I dispositivi sessuali nella famiglia e nella scuola
Amicizia, solidarietà, relazione
Ruggero Chinaglia Incominciamo il corso L’educazione, che, non nascondo, presenta delle difficoltà date le questioni che pone. Ma, con il contributo di ciascuno, ci sarà modo di affrontarle in termini di équipe, di ricerca.
Il progetto, lungo i vari appuntamenti, è di svolgere varie questioni che si pongono nell’educazione intesa come dispositivo di parola. Ciò comporta un’esplorazione per quanto attiene alle logiche e alla struttura della parola. Oggi, il primo incontro verte sui termini amicizia, solidarietà e relazione.
Per porre la questione di cosa si tratta quanto all’educazione e alla parola, cominciamo con un esergo tratto dal saggio di Nietzsche Sull’avvenire delle nostre scuole, nel quale dice: “La cultura comune a tutti è la barbarie”.
Dunque, cos’è l’educazione, come intendere questo termine e la questione che l’educazione pone? Ma non la così detta buona o cattiva educazione, le buone maniere, l’etichetta, ma l’educazione come ciò che dà l’orientamento, la direzione, l’indicazione verso la qualità delle cose.
Nel corso esploreremo quale sia l’orientamento, la direzione, l’indicazione che occorre affinché si ponga l’eventualità della qualità, come qualità della vita, per ciascuno che la intenda non come sopravvivenza, ma come dispositivo della qualità, per ciascuno che miri alla qualità e che alla qualità si rivolga.
Questo non vale per tutti. È un’utopia pensare che ciò possa valere per tutti e, oltre a essere un’utopia, è anche la negazione della constatazione che non va affatto da sé che ci sia l’approdo alla qualità, quand’anche ve ne sia l’istanza e l’esigenza. L’approdo, infatti, comporta un itinerario, un cammino, un percorso, una vicenda; comporta lo sforzo intellettuale come sforzo della ricerca. Qualità che è da intendersi come lo specifico, l’unicum, l’unicità di un dettaglio, di un caso, di una vicenda, quindi come caso di cifra.
Per constatare come la questione della qualità non sia per tutti e non sia nemmeno così diffusa, basta scorrere le recenti vicende che sono accadute in Italia quando, attraverso giornali, radio e televisioni, veniva scandito con insistenza e con forza, uno slogan a proposito di quei ragazzi che a Tortona sono stati protagonisti del lancio di sassi sulle automobili dal cavalcavia dell’autostrada. Lo slogan che viene periodicamente ripreso e scandito quando a essere autori di episodi, magari incresciosi, sono ragazzi e giovani, recita che costoro lo fanno perché hanno la testa vuota. Dice che si tratta di teste vuote.
È uno slogan che caratterizza più gli autori dello slogan stesso che non coloro ai quali è rivolto, nel senso che dire che si tratta di teste vuote è un modo dell’ottimismo, come dire che non c’è da preoccuparsi, in quanto sono cose che possono capitare a chiunque abbia la testa vuota. Invece no, non è così. Effettivamente, non c’è da preoccuparsi, ma occorre occuparsi, leggere e intendere queste vicende e le cose che accadono, perché non sono casuali, non accadono per una sfavorevole congiuntura astrale, ma sono la conseguenza, il frutto di qualcosa che è in corso.
Si tratta di interrogarsi intorno a quel che accade per intendere se non sia la conseguenza di un insegnamento, di un messaggio, di una ideologia che è in corso da dieci, venti, trent’anni se non addirittura nell’ultimo secolo, e che le cose che accadono sono la conseguenza, il frutto di questo messaggio, di questa ideologia e di una certa impostazione così detta mentale.
Negli ultimi anni c’è stato un notevole incremento di episodi di cui i giovani sono stati protagonisti, e che sono stati colti e indicati come indicatori di un disagio, dai suicidi più o meno collettivi con i gas di scarico delle automobili, al caso Maso e di altri ragazzi che hanno ucciso i familiari, agli incidenti stradali del sabato sera, al lancio, appunto, delle pietre sull’autostrada.
A fronte delle varie campagne per la prevenzione o la repressione di ciò che muove questi episodi, c’è da chiedersi che cosa sia stato effettivamente avviato come indagine per intendere come e perché queste cose accadono. Non sono episodi solamente da condannare, ma da leggere in termini clinici, cioè sono da leggere e da intendere per capire quale sia la logica per cui avvengono.
Ciò riguarda l’educazione. L’educazione non è solamente rivolta ai giovani affinché non commettano certe cose, ma è rivolta a ciascuno in quanto lavoro incessante di indagine, di ricerca, di analisi, di elaborazione per cogliere, per leggere, per intendere quel che accade e intervenire come occorre.
Ecco l’effettiva educazione da cui nessuno è esente, e che non è limitata a qualcosa da impartire secondo determinati canoni, ma può avvenire con la lettura dell’attuale, e per leggere quel che accade nell’attuale occorre avere inteso come e perché, quale sia la logica o le logiche che sono in gioco caso per caso.
Peraltro, è ciò che accade nella scuola. Il modo di condurre l’educazione nella scuola occorre si avvalga di intendere, man mano, ciò che sta accadendo nel dispositivo della classe, per capire perché alcuni fanno certe cose, altri ne fanno altre, in che relazione questo si combina con l’insegnante, con i compagni, con il particolare dispositivo rappresentato da insegnante e alunni, da una parte di essi rispetto a altri e nelle svariate e infinite combinazioni che questo può dare. Cioè, non intendendo la classe come qualcosa di stabile, ma in un continuo movimento, in un continuo processo di trasformazione. La classe non già come un insieme inerte, ma come un collettivo che risente delle logiche della parola, sia dell’identificazione, sia del transfert.
La scuola ha la chance di dare effettivamente un contributo all’educazione, dato che costituisce un dispositivo dove i ragazzi, fin dalla più giovane età, trascorrono svariate ore del loro tempo in una combinazione di gioco, di lavoro, di studio, di insegnamento. Questa combinazione può risultare di formazione e di educazione, anche se questo non va da sé. Infatti, non basta passare insieme del tempo per approdare a aspetti di qualità, a un insegnamento che comporti un messaggio, che dia delle acquisizioni e che comporti l’instaurazione, per ciascuno, del cervello artificiale.
Il cervello artificiale è il dispositivo dell’indagine, della ricerca, dell’ascolto, e comporta una certa inquietudine verso le cose, non ritenendo che siano sempre le stesse, sempre uguali, già date, già acquisite e che vogliono dire per tutti la stessa cosa. La scuola si costituisce come dispositivo per l’instaurazione del giudizio e non già per il mantenimento dei pregiudizi, delle credenze, delle superstizioni.
Anche qui ci soccorre Nietzsche con una precisa notazione, sempre tratta dal saggio Sull’avvenire delle nostre scuole, dove dice: “Occorre avere non soltanto dei punti di vista, ma anche dei pensieri”, come dire, occorre non avere solo pregiudizi, punti di vista, soggettività. Soggettività, cioè “Io la penso così”. Sì, ma in base a cosa? “Così, a naso”!
Occorre avere dei pensieri, cioè occorre vi sia l’instaurazione del giudizio, occorre intendere la logica per cui qualcosa è giudicato in un modo piuttosto che in un altro. Occorre avere dei pensieri non nel senso di avere delle preoccupazioni, ma nell’accezione di pensiero proposta da Nietzsche, che mi sembra interessante, come ricerca del perché, del modo, di quale sia, di volta in volta, ciò che è opportuno fare per giungere al compimento, per giungere alla qualità di quel caso, di quel dettaglio, di quella cosa. In questo senso avere un pensiero: avere un indirizzo, una traiettoria, un orientamento non per partito preso, per un’ideologia preesistente, per una superstizione, per una appartenenza religiosa o ideologica, bensì per una valutazione specifica di quella circostanza, di quel caso, di quel dettaglio.
Questo non va da sé, nemmeno può avvenire per tutti, ma occorre che vi sia l’opportunità e che siano almeno poste le condizioni affinché ciò avvenga per chi a questo mira, per chi avverte l’esigenza della qualità, e non che già da parte delle istituzioni, da parte di chi è preposto a questo, vi sia uno sbarramento.
Porre le condizioni è difficile, comporta una formazione, comporta vi sia in prima istanza, per chi deve porre le condizioni, una ricerca in corso in questa direzione. E, dunque, l’aggiornamento dell’insegnante non va disgiunto dalla sua formazione, come formazione intellettuale alla ricerca, all’indagine, come formazione alla parola, alla qualità, alla civiltà della parola. In Italia, in Europa, sul pianeta a tutt’oggi, noi assistiamo nelle varie sedi a una civiltà del discorso, non a una civiltà della parola. Questo dato lo preciseremo meglio, perché ha delle implicazioni rilevanti rispetto a ciò che stiamo facendo.
Prima questione: non dare nulla per scontato, nulla come già acquisito, cioè non improntarsi alla logica della sufficienza. La sufficienza è pensare che qualcosa è già acquisito, è già dato, è già fatto, è già detto una volta per tutte, e questo equivale a cessare ogni funzione di educazione. Se questo è il messaggio, se questo è ciò che viene inteso da chi ha a che fare con noi, allora termina ogni educazione nell’accezione che proponevo prima, cioè come dispositivo della ricerca verso la qualità. Qui sta il difficile della cosa.
Proviamo a considerare gli elementi del titolo di questo corso L’educazione. Come pensare a sé e all’Altro. C’è un accento posto sull’educazione e un accento posto sul come pensare, cioè sul pensiero come logica, come logica delle operazioni, come logica del perché accadono le cose, del perché e del come. Il pensiero indaga su questo, l’operatore opera in questo senso. E ancora nel titolo troviamo a sé e all’Altro. Ma come intendere questo sé? Pensare a sé qui non è inteso nel senso del se stesso, ma nel senso del sé come oggetto che sta nella parola, oggetto che è causa di godimento, di sapere e di verità. Si tratta del sé che viene dall’autòs, quel sé che indica l’imparalo da te, il ricercalo da te, l’indagalo da te. Autòs: ciascuno ricerchi da sé, faccia da sé, osi da sé. Autòs, non in quanto se stesso, non da solo, ma da sé.
Cosa vuole dire ciò? Che io esisto in un dispositivo dove ci sono altri, ma nessuno degli altri può fare al posto mio, nessuno degli altri deve fare per me, né io per altri. Ciascuno faccia da sé accanto a altri, senza negare che altri esistono.
Occorre intendere, però, di cosa si tratta quanto al sé e quanto agli altri, perché è da ciò che dipende il modo dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà, della sessualità. E proprio da questo modo, da come per ciascuno esistono i vari elementi nel suo dispositivo, i vari elementi delle logiche, dipende se ci sarà l’approdo alla qualità. Ovvero, se si instaura l’attesa che qualcuno faccia al posto mio, non approderò a nulla, tanto meno alla qualità. Occorre vi sia progetto, programma e che ciascuno compia il progetto secondo il modo opportuno, che io non so già quale sia, che lui non sa già quale sia, ma che può emergere dall’integrazione dei modi.
È chiaro che se sino dalla più giovane età un ragazzo è bersagliato da tutta una serie di informazioni in base a cui può credere di dovere stare attento al male, alla malattia, alla morte, alla fatica, al dispendio, di dovere risparmiarsi, di dovere cercare di fare il furbo, di dovere arrangiarsi secondo le varie superstizioni, è poi difficilissimo che con i suoi mezzi possa svolgere e articolare questa massa di informazioni che vanno nella direzione del pericolo del male, della morte, della malattia, del negativo senza che vi sia mai un elemento clinico, cioè qualcosa che si rivolge alla sua qualità, anche dove sembra destinato al male, al negativo, senza che vi sia analisi e clinica delle cose, senza che vi sia ascolto, ma sempre con l’applicazione di una sanzione, di una legge severa, di una prescrizione o di un divieto che, in modo implicito, testimonierebbero l’esistenza del negativo, del male, di tutta una serie di cose da evitare, di una cappa sotto cui bisogna stare.
Non è difficile che un bambino, un ragazzo si adegui a questo, che si adegui al senso comune, ai luoghi comuni e che realizzi con la sua condotta, con le cose che dice, con le cose che fa, queste stesse prescrizioni e divieti, questa stessa ideologia del negativo, rappresentata da ciò che possiamo chiamare l’ideologia del discorso occidentale, ossia la scienza del discorso, il logos.
Il logos ha una prima prescrizione assoluta, che riassume tutte le altre, e è che tutti gli uomini sono mortali! Questa prescrizione aristotelica riassume tutte quelle che dicevo prima e prescrive la via breve; anziché la via dell’indagine, della ricerca, dello sforzo, anziché il superamento della difficoltà dove questa si pone. “È difficile? Allora non lo faccio”, “È difficile? Allora mi devi aiutare”, “È difficile? Te lo fai tu”, è la risposta più comune di chi si imbatte in una difficoltà credendo che non debba esserci, credendo che la difficoltà sia un’ingiustizia, un torto e che in realtà non dovrebbe esserci, perché le cose dovrebbero essere piatte, lisce, andare da sé.
Questa è l’ideologia vigente, e rispetto alla difficoltà, rispetto allo sforzo da compiere c’è la protesta, la ribellione, la rivendicazione, il ricatto. Ciò non è per caso, ma è una conseguenza della logica del discorso che viene dal logos, dal discorso occidentale che adesso vedremo di spiegare in dettaglio. Infatti, si tratta di acquisire una formazione che tenga conto di come funziona la parola, di come funzionano le cose, di come accadono.
Dire la parola è dire le cose, i significanti, le immagini, le parole. La parola è il dispositivo dove nulla è escluso, dove le cose avvengono per integrazione perché nulla è escluso. Quindi, non riguarda solo il verbale, il preverbale, il pensiero, il non pensiero: c’è il verbale, il non verbale, il preverbale, il gesto, il sorriso, il pensiero. Ciascuna cosa sta nella parola, sta nella sua logica particolare e è da intendersi quanto alla sua logica e alla sua struttura, perché non c’è la cosa naturale, non ci sono le cose naturali nella loro naturalità, ma c’è la natura delle cose, ciascuna cosa nella sua natura. Così interviene, per ciascuno, ciascuna cosa quanto alla sua natura, che non è mai la stessa, perché la natura non è naturale. La natura delle cose non è naturale, non è qualcosa che esiste ontologicamente. Questo già Lucrezio aveva cominciato a svolgerlo: De rerum natura. Non le cose della natura, le cose in natura, ma De rerum natura, cioè la natura delle cose, come le cose si strutturano. Natura, struttura. La natura riguarda la struttura delle cose, cioè come entrano nell’attuale.
Come le cose entrano nell’attuale? Come ciascuna cosa entra nell’attuale? Entrerebbe da sé se fosse una cosa naturale, e sarebbe per tutti allo stesso modo, avverrebbe per tutti allo stesso modo. Ma non è così, ciascuno può constatarlo. Non c’è caso che sia uguale a un altro. Ciascuno incontra secondo la particolarità, a suo modo, un caso, un dettaglio, una vicenda, una circostanza e questo esige che venga affrontata come occorre. Non c’è la ricetta, non c’è lo schema che possa essere applicato. Per questo la questione dell’insegnante, oggi, è la formazione clinica, non la formazione psicologica. La formazione psicologica non aiuta a nulla se non a credere che esiste la natura, che esistono le cose naturali, che possono esserci cose che valgono per tutti. Non è così. Occorre indagare sulla natura delle cose, quindi occorre la clinica, l’ascolto, l’intendimento.
Come accade che questa circostanza è “questa” circostanza, imparagonabile con altre? Ciò esige uno sforzo per capire, per intendere. Non serve la comprensione – cosa devo comprendere? – ma l’intendimento, l’ascolto di ciò che sta avvenendo, gli elementi in gioco, la logica di questi elementi, la combinazione in atto.
Lo strumento è la parola, e anche ciò da cui attingere per intendere è la parola, quel che si dice. Occorre distinguere tra quello che Tizio dice e quel che si dice in ciò che Tizio dice, perché altrimenti basterebbe la buona volontà, basterebbero le buone intenzioni. Ma le buone intenzioni non bastano, perché la logica non è la logica delle buone intenzioni: io non so quel che dico, non so già quel che dico! In quel che dico qualcosa “si dice” e l’ascolto sta lì, in questo scarto!
Se bastasse prendere atto di quello che Tizio, Caio e Sempronio dicono, sarebbe facilissimo. Questa è la lingua comune, è la lingua volgare, è la lingua che Machiavelli chiama la lingua dei litiganti. Occorre uno sforzo in più. Io posso avere l’intenzione di dire una cosa, e invece ne dico un’altra che porta da tutt’altra parte. “Ma no, io volevo dire questa cosa qui”. Sì, ma di fatto hai detto un’altra cosa! E questo può essere colto se c’è ascolto. Ma perché vi sia ascolto non basta la buona volontà, ci vuole la formazione, occorre quanto meno fare l’esperienza, accorgersi che la parola esiste in questo modo, secondo la sua logica e secondo la sua struttura, presa in un funzionamento.
Per ciò prima parlavo di scienza e esperienza della parola. Questa è la questione della psicanalisi, la questione della cifrematica. Non basta la scienza, perché se si trattasse solo di scienza della parola, avremmo una disciplina, e la psicanalisi potrebbe disciplinarizzarsi, diventare una psicologia.
L’insegnante si trova preso nell’esigenza di non trascurare la civiltà della parola, di non trascurare che esiste la parola, che noi siamo costituiti dalla parola, che ciascuno è costituito dalla parola. Poi, certamente, come dicevo prima, c’è chi può lasciarsi andare, abbandonarsi all’ideologia, alla scienza del discorso, cioè ai luoghi comuni, alle superstizioni, alle credenze, alle fantasie senza elaborarle, senza attraversarle e restandone al di qua.
La vita diventa un’esperienza interessante se costituisce un itinerario dove ciascuna cosa non è già data, altrimenti è una noia mortale. Se già tutto è dato, se già tutto è significato, se già tutto vuole dire questo e quello, se il destino è già stabilito e viviamo nella predestinazione, che vita è? Non è vita, è un’attesa della morte e la morte diventa una liberazione.
E invece no, non è detto che debba proprio essere così, c’è l’eventualità che non sia così. Che non sia così, però, non va da sé, occorre fare qualcosa, occorre intraprendere, occorre che vi sia domanda.
Un “compito”, diciamo così, tra virgolette, dell’insegnante è far sì che vi sia domanda, che si instauri la domanda. Cosa vuole dire che vi sia domanda? Domanda: manum dare, intorno al dare la mano. Si tratta allora di darsi la mano, di darsi una mano? O, piuttosto, che per ciascuno ci sia mano, che sorga la mano come mano intellettuale, come mano da cui procede la spinta verso la qualità, la domanda come spinta, la domanda come pulsione?
Non va da sé che ci sia questa spinta, perché non è una spinta naturale. Lo psicanalista, per esempio, esiste nel suo statuto specifico, particolare, perché introduce la domanda anche dove non c’è, con l’offerta di qualcosa che fa sì che vi sia domanda in direzione della qualità. Questa è la missione dello psicanalista. La funzione dello psicanalista è che vi sia domanda, pulsione, che non vi sia chi possa ritenersi soggetto alla morte, senza domanda.
La domanda, che Freud qualificava come pulsione, che troviamo in Leonardo da Vinci come forza, in Machiavelli come virtù, non va da sé, non è naturale, ma si instaura per forza. “Ma questa cosa la devo fare per forza?”. Sì, certo, è l’unico modo con cui le cose si fanno: per forza! “Ma, devo studiare? Devo studiare per forza? Io non vorrei studiare”. Sì, devi studiare per forza! Ma perché si instauri la forza occorre chi si trovi nella funzione di provocarla, una funzione assolutamente artificiale, una funzione intellettuale senza cui la forza non c’è.
Oggi, non è un caso che vi sia l’apologia della depressione, cioè l’apologia dell’assenza di forza. Non è assolutamente un caso in questa epoca di naturalismo, dove tutto deve avvenire democraticamente per naturalità. Allora, nulla accade e se qualcosa accade sono disastri, diciamo così, all’insegna della naturalità.
La questione è quella di un dispositivo artificiale in cui le cose possono accadere per forza. La classe è un dispositivo in cui le cose possono accadere per forza, perché se l’insegnante non è lì a indicare, a promuovere, a forzare, che cosa può mai accadere in classe? La gazzarra nel migliore dei casi.
C’è una funzione che esige la forzatura che procede dall’autorità, dalla capacità, ma non come doti personali, bensì come istanze della parola, come funzionamento della parola. L’autorità si instaura per il funzionamento di un nome, ma non perché uno alza la voce, ma perché c’è un nome che funziona e da quel nome procede l’autorità.
La capacità si instaura perché c’è un significante che funziona, e dal funzionamento del significante procede la capacità, che non è capacità soggettiva, per cui ci sarebbe il soggetto capace e il soggetto incapace, il soggetto debole, il soggetto malato. Troppo facile. Queste sono astuzie della ragione cui ricorre il senso comune quando si arrende alla natura.
Cecilia Maurantonio Come definirebbe la capacità?
R.C. Ciò che procede dalla funzione del significante, come compimento del funzionamento del significante, dell’uno. Mentre l’autorità è ciò che comporta l’incremento, l’aumento che viene dal nome, la capacità è ciò che viene dalla presa del significante, dall’incidenza del significante, dal funzionamento del significante. Allora, la capacità non è “Io sono capace o io sono incapace”, ma è la capacità che procede dallo statuto di quel significante. Potremo esplorarlo meglio. Adesso, forse riesce difficile cogliere immediatamente ciò, ma è giusto per dire che non si tratta dell’ontologia o della naturalità delle cose, ma della natura delle cose, della loro combinazione.
La stessa difficoltà è inevitabile. La difficoltà è difficoltà di parola, difficoltà della lingua, non è difficoltà personale. Difficoltà è un teorema: non c’è più facoltà. C’è qualcosa che non è facoltativo e nemmeno è facile.
Facile, facoltativo, difficile, è la stessa costellazione. Non c’è cosa che sia facile, non c’è cosa che sia facoltativa, questa è la difficoltà! Che non è un optional, ma è costitutiva dell’atto di parola dove, dicevamo, nulla è escluso. Riguarda il dire, il fare, lo scrivere, il pensare, ciascuna sezione delle cose. Per cui non è che si possa scegliere se fare o non fare, se vivere o non vivere. Si tratta di vivere, si tratta di fare, c’è la necessità di fare come occorre. E questa non è la predestinazione, tutt’altro!
C’era uno slogan che andava di moda: “Io devo essere libero di decidere se fare o non fare”. Che libertà è? Non c’è nessuna libertà, è la libertà dello schiavo. È lo schiavo che può scegliere se fare o non fare. La questione della libertà è la libertà di come fare, la libertà intorno al modo del fare, al modo della soddisfazione, perché la soddisfazione sta alla punta del compimento delle cose che si fanno, sta dove le cose che si fanno giungono alla loro qualità; lì c’è il piacere.
Chi dice “Io sono libero di scegliere”, che cosa è libero di scegliere? La morte. È un fraintendimento che nasce dalla soggettività, cioè dall’idea di essere soggetti. Solo in quanto è posta l’eventualità di essere soggetti uno può dire “Io mi ribello a questo”. Ma a cosa si ribella se non c’è soggetto, se non c’è lo “stare sotto”?
L’ideale della rivoluzione è che ciò che sta sotto deve arrivare sopra, deve affrancarsi, liberarsi. Questa è una fantasia che nasce dal logos, dalla scienza del discorso, dove non si tratta mai della domanda, se non nei termini del dialogo, dove la domanda ha già la sua risposta. Si tratta di distinguere tra domanda e richiesta; la richiesta è il modo con cui si enuncia la domanda, non è la domanda, cioè, la richiesta è un pretesto della domanda. La domanda è la spinta in direzione della qualità.
Talvolta, paradossalmente, talune richieste cercano di contrastare la domanda, ma la domanda è domanda inconscia, è domanda secondo la logica particolare della parola, esige l’ascolto, non è immediatamente risolvibile nella richiesta, perché, appunto, c’è la richiesta che è qualcosa che allude alla domanda, ma non la ricopre, non si sovrappone.
Anche nell’educazione l’esigenza di intendere in che direzione va la domanda certamente si pone. Quindi, la questione della domanda è importante perché mette in causa l’insegnante. “Questi ragazzi non hanno curiosità. Non vogliono nulla, non chiedono nulla, non fanno nulla, sono inerti, non hanno interessi”. Ma ci vuole ben qualcuno che promuova la curiosità, l’interesse, la voglia che di per sé di sicuro non c’è. Perché dovrebbe esserci? Voglia di che? Interesse di che? Per volere di chi? Divino? Occorre pure ci sia identificazione, emulazione, spinta, altrimenti perché dovrebbe accadere qualcosa?
Talvolta c’è come una sorta di pudore, di rispetto verso la forzatura, che viene considerata come violenza. “Ma sarebbe una violenza se io forzassi in questa direzione”. Occorre dire che sulle fantasie di violenza è sorta la psicanalisi a Vienna, alla fine dell’Ottocento, è sorta dalle fantasie di violenza che indicavano la logica, un’altra logica delle cose. Se queste fantasie fossero state rispettate anziché ascoltate, non sarebbe sorta la psicanalisi e saremmo rimasti ai manicomi. Se Freud non si fosse posto la questione di intendere, di ascoltare, di indagare queste fantasie, di non prenderle come tali, non sarebbe sorta la psicanalisi e non saremmo qui, forse, a parlare di questo.
Quindi si tratta della forza e della forzatura intellettuale, cioè di qualcosa che dà un orientamento, indica una via e dà un contributo in direzione della qualità. È facile che il rispetto diventi menefreghismo e, d’altra parte, il rispetto è l’altra faccia dello stupro. È solo in quanto c’è una credenza nello stupro che può esservi rispetto, altrimenti, che cosa si tratta di rispettare?
Occorre ascoltare, intendere, intervenire, dare un’indicazione che magari può essere sbagliata, ma darla è meglio che non darla, perché non dare lascia le cose dove stanno. Un’indicazione, diciamo così, anche sbagliata, comporta vi sia un’indagine su quell’indicazione, quanto meno, perché non c’è il soggetto imbecille, il soggetto idiota non esiste proprio. Ciascuno occorre sia situato nella virtù della parola, nell’intelligenza e non, per principio, nell’imbecillità. Questa è la base dell’educazione. Se, invece, viene postulata l’imbecillità, allora, chiaramente, non c’è niente da fare.
Importa la funzione dell’insegnante come promotore, come provocatore, come venditore di curiosità, venditore di pulsione di sapere. Tutto ciò va in un’altra direzione rispetto allo scibile del discorso occidentale, cioè rispetto al ritenere trasmissibili, divulgabili le cose in quanto si sanno già, in quanto già sapute.
Affrontare tutto ciò comporta affrontare la difficoltà della parola e mettere in gioco pregiudizi, credenze, convinzioni, acquisizioni che si credono già consolidate. Comporta l’umiltà, la generosità, l’intelligenza, la tolleranza. Sono le dita della mano della domanda… Ne manca una.
C.M. La lealtà non c’è?
R.C. No. Comunque, intanto abbiamo quattro dita, sono già buone, poi la quinta…
Pubblico Non si può mettere un po’ di affetto?
R.C. Un po’ di affetto? Ma l’affetto c’è se ci sono queste dita, altrimenti abbiamo i sassi sulle autostrade, abbiamo la strage della famiglia, abbiamo l’homo homini lupus, abbiamo il duello continuo.
La questione della solidarietà verte intorno a questo, però occorre attraversare l’ideologia del discorso, l’ideologia del logos per intendere che quel che accade è la conseguenza di questa ideologia. Ideologia che prescrive vi sia il rapporto, che gli uni abbiano un rapporto tra di loro. L’idea di relazione nella scienza del discorso è il rapporto: rapporto sociale, sessuale, di amicizia, di lavoro, cioè rapporto dell’uno con un altro uno, uno che è a fondamento del discorso.
Il logos ha come fondamento, come suo postulato, l’unità. La scienza del discorso dice che le cose incominciano dall’uno e finiscono a un altro uno. Bisogna sapere bene, con precisione, quando, come, dove le cose incominciano e dove finiscono, perché ciò consente di avere un completo controllo sulle cose, una buona padronanza, un buon equilibrio, altrimenti siamo stressati. Bisogna sapere quando le cose iniziano, ma soprattutto quando e dove finiscono. Cioè, dire che le cose iniziano, implicitamente dice che finiscono, e l’occupazione principale dell’uomo, in quanto soggetto al logos, è la fine.
“Io so che le cose finiscono” è l’essenza della conoscenza, che è conoscenza della morte. Questa è la preoccupazione, che è come dire che non c’è l’infinito. Io so che le cose finiscono, devono finire, per cui devo prepararmi alla fine. Nel discorso, questa preoccupazione è ciò che sta in ogni cosa, e ogni cosa è sotto questa cappa proprio perché l’uno è posto all’origine. Nella costruzione logica del discorso occidentale non c’è lo zero, le cose cominciano dall’uno, ma non essendoci lo zero non c’è nemmeno l’infinito, non essendoci lo zero le cose finiscono.
Ma, perché non c’è lo zero? Non c’è lo zero perché non c’è l’apertura, non c’è la diade. La logica del discorso occidentale è una logica binaria: o sì o no, o bianco o nero, o vivo o morto, o buono o cattivo, cioè è la logica dell’alternativa esclusiva che non ammette il terzo, non ammette il tre. Quindi, il rapporto è sempre un rapporto esclusivo, o buono o cattivo. “Io ho un buon rapporto con quella persona”, “No, io ho un cattivo rapporto”, “Noi abbiamo avuto un buon rapporto. Avevamo un buon rapporto, ma poi è degenerato. È diventato un cattivo rapporto”, “Noi che rapporto abbiamo? Che rapporto avremo?”, “Dobbiamo precisare i termini del nostro rapporto, in modo sia chiaro se è un buon rapporto o se è un cattivo rapporto, se è bene che finisca subito o se può durare un altro po’”. Questo rapporto è sempre il rapporto tra due contrari, risente dell’assenza di apertura, è un rapporto di un uno e di un altro uno, che sono tra loro in opposizione, antagonisti, o io o te.
Tutto ciò è Aristotele che ce lo prescrive, mica uno qualunque: tertium non datur! O A o non-A, o sì o no, A=A, A non è non-A. Principio di non contraddizione, principio di identità e del terzo escluso, che ne è la conseguenza. Non ci sono santi, così è! Questo rapporto è un rapporto fra due e bisogna stare attenti, perché uno è bianco, l’altro è nero e il terzo è un incomodo, non datur. Cioè, in questa logica, se arriva il terzo si becca uno dei due e l’Altro resta escluso. È sempre una lotta, una guerra contro il terzo.
E chi è il terzo? Ognuno può essere il terzo, la cui comparsa sulla scena è una minaccia, un pericolo. Poiché tertium non datur, se interviene il terzo vuole dire che sono escluso. Fantasia di esclusione che è quanto di più constatabile in ogni contesto.
L’ideologia vigente insiste sulla coppia. C’è stato un momento in cui si diceva “La coppia va bene anche aperta”. Si ammetteva la coppia aperta perché è evidente che senza l’apertura la coppia collassa, si uccide, muore, è la strage. Si diceva coppia aperta per indicare che c’è la necessità dell’apertura, ma quello che non veniva colto era che già la coppia rappresenta l’apertura. La coppia non è che una rappresentazione del due che è, appunto, l’apertura. Il due, ossia la diade. La logica diadica sovverte la prescrizione aristotelica: il due è costitutivo delle cose, il due è il modo, il due è la relazione.
Quando noi parliamo di relazione fra una cosa e l’altra cosa, questo fra è relazione. Infatti, il fra implica linguisticamente la diade che non si rappresenta in due cose. Se si rappresenta in due cose è solo per soddisfare il principio aristotelico del terzo escluso, ma se noi non dobbiamo soddisfare Aristotele – e noi non lo dobbiamo soddisfare, nessuno ce l’ha prescritto – allora possiamo prendere atto che c’è la logica diadica, il cui modo è dato dalla figura retorica chiamata ossimoro.
Ossimoro vuole dire acuto-sciocco, alto-basso, bianco-nero, caldo-freddo, cioè indica che c’è contraddizione senza contrapposizione. L’ossimoro è la base della tolleranza, senza ossimoro non c’è tolleranza, e infatti il discorso occidentale è un discorso intollerante. Può arrivare a vari gradi di tollerabilità, ma non giunge alla tolleranza estrema, costitutiva, la tolleranza della parola, quella tolleranza che Freud intravedeva nel sogno, un esempio della tolleranza dove le cose si contraddicono senza contrapporsi, senza escludersi.
Ma il sogno non è un caso particolare, in quanto il sogno è la struttura della parola. La struttura della parola è onirica, comporta il sogno e la dimenticanza, cioè comporta la struttura dell’Altro. L’Altro, procedendo dalla diade, è sogno e dimenticanza. Se invece noi procediamo dall’unità, se procediamo dalla scienza del discorso, se procediamo dalla logica predicativa, cioè dai principi aristotelici, l’Altro è il nemico. Nell’algebra l’uno è originario e per divisione genera due uni, che sarebbero due cose.
Nella logica diadica, invece, si tratta del due originario, che non nasce dalla divisione di qualcosa. È costitutivamente due e non è due cose, è due, cioè è apertura. Per via dell’apertura, altre cose possono esistere in una combinazione infinita, senza prescrizione di dovere essere così o in un altro modo, proprio perché c’è l’apertura.
Certo, è difficile controllare, esercitare il controllo dove non abbiamo più l’inizio e la fine ben sistematizzati, ma abbiamo che le cose avvengono e divengono in modo differente e vario. E è proprio lì che c’è l’eventualità della qualità, del qualis, dello specifico, di approdare a qualcosa di qualificato, che viene per qualifica e non perché “è così”! La qualità è dove si compie la qualificazione, l’itinerario, il processo, il lavoro di qualifica. Se sento una cosa e dico “Ah, questa la so già”, ebbene no, non so già! Occorre qualificarla, non è la stessa cosa.
L’apertura è essenziale anche perché vi sia collettivo. Una certa ideologia del gruppo è antitetica alla questione dell’apertura. Nel caso, per esempio, dei ragazzi di Tortona, la questione era di fare gruppo, di costituire un gruppo dove il singolo fosse compreso nel gruppo. Qual è la mano che ha scagliato il sasso? È la mano del gruppo. Non sono io, tu o l’altro, ma è il gruppo che ha scagliato il sasso. Non è più ciascuno, ma è il gruppo inteso come ciò che riassumerebbe i tutti. E poiché ciò è micidiale, allora questa sorta di fusione del gruppo incontra la pietra, il sasso che viene scagliato quasi a rompere la cappa e a ritrovare l’apertura per una via un po’ tortuosa, ma che mette in discussione questa sorta di legame di gruppo.
La questione della relazione è legame e slegame, non solamente tutto legame, ma giuntura e separazione, coppia aperta, ossimoro. D’altronde, non intendendo l’originarietà del due, come intendere il discorso isterico, per esempio? Il discorso isterico è sempre a lamentarsi del legame che affligge, che stringe, che è troppo stretto, che è troppo vincolante, eppure, se il legame-slegame viene negato è un problema, perché si interrompe qualcosa. Si interrompe un’amicizia, si interrompe l’amore, si interrompe ciò che è in atto perché il legame è vissuto come obbligo. Ma è proprio lì che interviene la solidarietà.
È curiosa l’origine del termine solidarietà. Il soldo era la paga del soldato a Roma, che era costituito da un certo numero di pezzi, di monete, dodici o quindici. Poi, nel basso impero, all’epoca dei carolingi, questo soldo divenne moneta a sua volta, valendo prima un dodicesimo, poi un ventesimo della lira imperiale. Diventa moneta, ma rimanendo sempre qualcosa che riguardava più parti, cioè erano più pezzi di denaro che costituivano il soldo.
Il diritto canonico e amministrativo parlano di obbligazione in solido. Per esempio, quando più persone decidono di fare una società e per farlo contraggono un debito, si dice che rispetto alla restituzione dello stesso sono obbligati in solido. Cosa vuole dire? Che se al momento della restituzione, Tizio, Caio e Sempronio non sono in grado di restituire, ebbene, Felicino può essere chiamato a restituire per tutti gli altri. È obbligato in solido, per solidarietà ma, evidentemente, la solidarietà non è ciò a cui costoro giungono, ma è ciò da cui partono. Cioè, la solidarietà sta alle spalle, ovvero, è per via di solidarietà che questi tizi costituiscono la società.
La solidarietà, ciò da cui procede l’obbligazione, è l’apertura. Ciò non equivale a quanto viene inteso oggi per solidarietà, cioè la logica dell’aiuto, l’altruismo. Ma, infatti, la solidarietà è la relazione originaria, l’apertura da cui procede l’obbligazione in solido, cioè il legame-slegame. Queste persone non sono un gruppo, ma risultano obbligati in solido nel senso che decidono di fare un debito in collaborazione. Ma non per questo sono in gruppo, nel senso che non sono significati dal debito o dal credito. Perché ciò vale anche per il credito. Può esserci un’intrapresa, può esserci un progetto che viene messo in atto. Il progetto procede dalla solidarietà come apertura.
Federica Bietolini Non come necessità? Lei parla di solidarietà come apertura, a me pareva come necessità.
R.C. Diciamo che, essendo originaria è intoglibile, ma senza l’apertura non si porrebbe l’eventualità di questo accadimento. Non si tratta, però, del gruppo, in quanto non c’è la fusione, la coesione, l’identità di idee, di pensieri, di opere. C’è, invece, la solidarietà che non è all’interno, ma è costitutiva, sta alle spalle, è la relazione stessa di solidarietà, ossia di legame-slegame così come il soldo che aveva più pezzi i quali, però, non erano fusi o legati insieme. Erano legati-slegati: legati in quanto erano la paga del soldato, slegati in quanto erano dodici o quindici pezzi. Questa è la relazione, legame-slegame, giuntura-separazione.
Per ciò, quando qualcuno parla dell’obbligo “Io sono obbligato, mi sento obbligato a fare questo”, “Ah, ma allora mi sento obbligato”, non è detto che ciò sia un male. Senza l’obbligo la cosa in questione si farebbe? E se proprio l’enunciazione dell’obbligo fosse l’apertura, ciò per cui quella cosa si fa? “No, no, per carità, non dev’essere un obbligo. Devi farlo per volontà, per volere”, “Ma io non voglio”, “Allora fai a meno”. E, magari, così, proteste e malumori. “Ma come? Io voglio farlo”, “Ma vuoi farlo o non vuoi farlo?”, “Voglio e non voglio”. Cioè, nessuno vuole, nessuno sa quel che vuole, perché non si tratta del volere. Il volere è una modalità aristotelica. “Voglio o non voglio?”. Il discorso ossessivo si crogiola sul volere o non volere.
Le cose non si fanno per volere, si fanno per forza, per una esigenza di soddisfazione e di compimento, per la necessità che quel caso comporta, perché bisogna fare quella cosa e, allora, se bisogna farla, si fa. Stare lì a chiedersi “Ma io, veramente, voglio o non voglio?”, sarebbe la nevrosi, cioè l’applicazione dell’aristotelismo dove tertium non datur. Invece “Voglio e anche non voglio”!
Luigina Corsatto Comunque devo fare, il senso è questo?
R.C. Se la questione è che, per l’esigenza del caso quella cosa è da fare, occorre farla. Come? Nel modo opportuno. Non si tratta più di scegliere se farla o non farla, ma di come farla. Però, se io credo di potere stare lì a trastullarmi se farla o non farla, se credo che la mia dignità si manifesti propriamente nella libera scelta, questo è un fraintendimento che comporta l’attesa perenne.
Ecco la nevrosi ossessiva, ecco il discorso isterico, ecco il discorso paranoico, ecco il discorso schizofrenico come modi di applicazione della presunta libertà soggettiva, o come reazione alla libertà soggettiva, che è la stessa cosa. Dove non c’è mai l’occorrenza, ma sempre il possibile o il non possibile. “È possibile o non è possibile?”. Non è né possibile né non possibile perché occorre! Katà tò chreon, secondo l’occorrenza diceva il poeta. Il fare si fa secondo l’occorrenza, non secondo la possibilità.
Pubblico Non c’è il pericolo, in questa logica, che se non viene vissuta dal singolo, sperimentata dal singolo, possa essere imposta da qualcuno, il quale si arroga il diritto di decidere ciò che occorre e quindi obbligare?
R.C. Lei dice che può costringere qualcuno a fare quel che non vuole fare, senza un’indicazione precisa che ciò si situa nel suo itinerario?
L.C. Mi riferivo al sociale, più che al caso del singolo. Non è su questa linea sottile che è stata interpretata e distorta la teoria del superuomo? Una linea molto sottile su cui possono nascere società e ideologie molto autoritarie. Il principio è buono, ma poi l’applicazione…
R.C. Esatto, adesso lei è già andata molto avanti, già all’applicazione su base sociale.
L.C. Ma la solidarietà mi ha portato a questo.
R.C. In che senso?
L.C. Perché, se la solidarietà deriva da più pezzi fusi insieme, occorre…
R.C. Che “non” sono fusi insieme!
L.C. Che non sono fusi insieme, va bene, ma occorre che a questi pezzi sia data la libertà di obbligarsi in qualche cosa, e non che ci sia una funzione esterna che li unisce insieme e che decide.
R.C. Esatto, infatti questo dicevo. La solidarietà è costitutiva e è ciò da cui può procedere una decisione. La decisione segue logicamente la solidarietà, procedendo dall’apertura. Data la solidarietà, può seguire la decisione di fare qualcosa, ma è perché la solidarietà è alle spalle. Non è solidarietà fra Tizio, Caio e Sempronio, non è solidarietà nel senso della relazione umana, della relazione tra uni. È solidarietà della parola, è una logica, non una relazione interumana. Non è che, poiché c’è solidarietà tra me e te, allora facciamo. C’è solidarietà originaria, la solidarietà della parola. Per la logica diadica noi facciamo, non perché c’è solidarietà fra noi. Forse è difficile questo.
L.C. No, è il passaggio all’obbligo.
R.C. Sì, certo, l’obbligo. Riprendo questo termine che viene dal diritto romano. Obbligazione in solido. Obbligazione, obbligo. È obbligo, ma anche obbligo che non obbliga a niente, perché c’è questa…
L.C. Conservazione dell’uno, del pezzo, cioè la conservazione del pezzo.
R.C. Esatto, è giuntura e disgiuntura. C’è il soldo che non è un’unica moneta, ma è fatto di più pezzi che “stanno insieme e non stanno insieme”. Stanno insieme nel senso che costituiscono il soldo, ma non stanno insieme di per sé, in quanto sono pezzi fra loro sparsi. Quindi sono giuntura e separazione insieme.
L.C. È un preservare dall’annullamento il singolo.
R.C. L’obbligo, l’obbligazione è l’apertura che sta alle spalle, è il modo della relazione. Non è l’obbligo tra Tizio e Caio, non è l’obbligo tra due. A partire dall’obbligazione in solido, dalla solidarietà, ecco che può scriversi un contratto. Ma il contratto segue la solidarietà, non è che dal contratto derivi la solidarietà. Capite l’importanza di questo? Non dal contratto si arriva alla solidarietà, ma dalla solidarietà giunge il contratto!
Barbara Valerio Solidarietà come occorrenza.
R.C. No, non è all’occorrenza la solidarietà.
B.V. Ma quella legale è all’occorrenza.
R.C. Sì, ma quello era un esempio. Ciò che comunemente passa come obbligazione in solido, non è più la regola del diritto romano, è un contratto che viene stabilito, per cui in quanto clausola di un contratto è applicata all’occorrenza, ma già diventa un’altra cosa. Come solidarietà è originaria.
B.V. Sì, ma io mi riferivo al legame-slegame, per cui il legame c’è all’occorrenza quando ci si trovi nella solidarietà.
R.C. No, è legame-slegame, è costitutivamente legame-slegame, non è ora legame ora slegame. Sarebbe troppo facile, troppo comodo. È costitutivamente legame e slegame, giuntura e separazione, bene-male; non ora bene, ora male, ma bene-male, così come amico-nemico. L’amicizia come modo della relazione, non è “ora siamo amici e ora siamo nemici”, ma è amico-nemico, come dire che l’amicizia è il modo dell’alleanza. L’alleanza, anche nell’ebraismo, comporta giuntura e separazione: c’è alleanza e poi può esserci la guerra e poi di nuovo alleanza. Il modo della relazione infatti è diadico.
Nel modello ideale della relazione, dapprima tutto è buono, poi la relazione “si rompe” e tutto diventa cattivo. Ma questa non è la relazione, è un dispositivo di altro genere, dove viene applicato, a un certo punto, il taglio, la dicotomia. Cioè, su qualcosa che è costitutivamente diadico viene calata la spada di Alessandro, come nel nodo gordiano, così da ottenere un pezzo buono e un pezzo cattivo.
L’amicizia, però, è costitutivamente diadica, nel senso che il suo è il modo dell’ossimoro, per cui c’è amico-nemico. E non è l’Altro il nemico, e l’amico non è l’Altro: amico-nemico è l’apertura, è il due, è la relazione.
A partire da questo modo procedono i dispositivi. Poiché c’è amico-nemico, poiché c’è solidarietà, poiché c’è la relazione diadica, allora è possibile attuare dispositivi temporali dove non è che le cose debbano essere o così o cosà, ma seguono l’occorrenza.
Il nemico non è chi ci sta dinanzi, se così fosse avremmo il nemico come rappresentazione dell’Altro, cioè del terzo. Ogni terzo che ci compare dinanzi sarebbe il nemico. E allora ecco la variegatura dei possibili nemici: ora il cinese, il giallo, il comunista, il nero, l’extracomunitario, il vicino di casa, quello che ci guarda storto. No, è l’Altro come modo della differenza.
L.C. Sarebbe la paga del soldato.
R.C. No, la paga del soldato sta alle spalle. È grazie a questo che noi non dobbiamo temere il nemico. Lei capisce che è l’unico modo di articolare il discorso paranoico? Perché la psichiatria non “ci dà fuori” col discorso paranoico? Perché segue i principi aristotelici, non coglie le indicazioni della parola.
La clinica è clinica della parola, altrimenti rimaniamo nella psicopatologia e nella etichettatura di ciò che è bene e di ciò che è male e stop, senza possibilità che quello che è considerato male possa articolarsi, svolgersi e rivolgersi alla qualità. Nella scienza del discorso c’è una sorta di condanna preventiva per cui, ciò che è ritenuto male dovrebbe restare male, e ciò che è ritenuto bene dovrebbe restare bene. Dato questo incasellamento, se ciò che è bene diventa male, allora c’è il demonio “Era così buono, com’è che poi è diventato cattivo? Deve essere intervenuto qualcosa, una cattiva amicizia, un influsso malefico”. Invece no, bene-male non sono scindibili.
Dicevo che la solidarietà è alle spalle, non è dinanzi a noi. Certo, questo è difficile. C’è tutta un’impostazione, tra virgolette “culturale”, ideologica, per cui noi abbiamo il nemico di fronte. C’è tutta una teoria della guerra per cui il nemico non è alle spalle, ma è di fronte, è ciò che vedo schierato davanti a me. Occorre un certo lavoro per elaborare la fantasia che il pericolo, il nemico è dinanzi a me, per cui devo stare attento.
Questo è il maternage: “Occhio! Hai il nemico dinanzi a te. Attento, non fare questo, non fare quello, non fare così, vai lì, vai là, vai su, vai giù, questo no, puoi morire, puoi finire in prigione”. Il maternage è l’educazione come prigionia pensando che il nemico, la morte, il pericolo è dinanzi, sempre davanti, sempre imminente.
Capisco che è difficile cogliere in prima istanza la questione, ma è tuttavia importante, essenziale. Infatti, nel momento in cui ciò che risulta una fantasia, una fantasmatica del discorso occidentale, può approdare alla civiltà della parola, al dispositivo della parola, alla logica della parola, si instaura un altro modo di vivere. Senza la logica e la struttura della parola non ci sarebbe la clinica come il compimento nella ricerca, e saremmo condannati al labirinto tra i due impossibili senza giungere mai all’occorrenza e neanche al piacere. È con la clinica che c’è l’approdo al piacere nel senso che qualcosa si precisa, si staglia nella sua logica, per cui si dissipa rispetto a una fantasia, a un’idea di pericolo, a una credenza, a una superstizione. Come si dissipa una superstizione? Per via della clinica.
B.V. In quest’ottica dell’occorrenza…
R.C. Ottica? Se fosse un’ottica!
B.V. In questa ipotetica situazione di occorrenza in cui bisogna fare sempre quello che occorre, cioè quello che è nella necessità delle cose, il desiderio è relegato a uno stadio infantile o continua a esistere?
R.C. Ah ecco, il desiderio, certo. Ormai per questa sera siamo al termine, però prendo nota perché è una questione importante.
B.V. Però mi ha bocciato il legame-slegame.
R.C. Come bocciato? È per questo che le è sorta la domanda, a partire da questa combinazione. Lei dice “il desiderio”. Qual è la domanda precisamente?
B.V. In una vita vissuta secondo il principio dell’occorrenza, che posizione ha il desiderio? Il desiderio sembra avere una connotazione infantile, nel senso che da bambini si desidera, poi si cresce e si fa quello che occorre.
R.C. Certamente, il desiderio non è qualcosa di soggetto alla cronologia, nel senso che è inestinguibile, però è qualcosa che esige la qualifica. Bisogna che qualifichiamo il desiderio, e ciò mi pare importante perché si collega con qualcosa che dicevo prima. In che modo il desiderio sta nella pulsione? La pulsione risponde a qualcosa che è chiamato desiderio. E di cosa è costituito ciò che viene chiamato desiderio? Adesso non anticipo perché sarebbe una cosa frettolosa, però prendo nota.
Se ci sono altre domande, altre cose anche per la prossima volta? Il tema sarà Innamoramento e amore, siamo quasi, come dire, a fagiolo.
Pubblico […].
R.C. Ecco, lei già apre una variante, parla di desideri. Lei dice “i desideri”.
Pubblico Più d’uno.
R.C. Ci sono altre notazioni, domande, curiosità, notazioni, obiezioni?
Ida Baccelle Troppi presupposti.
R.C. In che senso?
I.B. Nel senso che c’è troppa carne al fuoco, molte cose dette così, c’è anche difficoltà a capirle. Molta morale.
R.C. Molta morale?
I.B. A differenza di quello che dice lei, che ce l’ha con Aristotele, sembra che la morale ci sia solo in Aristotele e anche nel terzo incomodo.
R.C. Mi spieghi un po’ questa faccenda.
I.B. Già se l’ho chiamato terzo incomodo, l’ho già etichettato.
R.C. È nella struttu
ra dell’intolleranza che il terzo risulta un incomodo, certo.
I.B. Infatti.
R.C. In realtà, senza il terzo c’è la paralisi.
I.B. E come si colloca in tutto questo l’accettazione, l’accettazione completa? Perché se c’è l’accettazione completa non c’è più né il sì né il no, anche se poi, alla fine, dobbiamo arrivare a un qualche giudizio. Insomma, bisogna arrivare a dare un giudizio alla fine, no? Un giudizio alla fine c’è comunque.
R.C. Perché alla fine?
I.B. A metà o al principio, voglio dire che ci si trova sempre davanti un giudizio quando si è a una scelta. Questo è un fatto, non è una morale. Questa era la morale della favola.
R.C. Ma lei parlava dell’accettazione.
I.B. Sì, mi chiedevo come si colloca l’accettazione, perché parlando di accettazione mi pare che si tratti proprio della solidarietà, per certi aspetti. Ma mentre nella solidarietà è implicato il sì, il no ingloba tutto. Nell’accettazione mi pare che non sia inglobato tutto. O è inglobato tutto? Quando si dice accettazione non ci dovrebbe essere un contrasto, oppure c’è il contrasto anche nell’accettazione?
R.C. Ma è accettazione di che cosa e da parte di chi?
I.B. Accettazione di sé e dell’Altro.
R.C. Ah, adesso ho capito.
I.B. O non si colloca per niente e è un altro discorso?
R.C. È importante il discorso che lei fa, perché è qualcosa da elaborare. Infatti, è un luogo comune molto propagandato quello che bisogna accettarsi per come si è, per quel che si è. È da analizzare questa proposta, perché riassume alcune cose che dicevo sulle prescrizioni mortifere della scienza del discorso, del logos, che presuppone il soggetto morto. Dire che bisogna accettarsi per come si è presuppone il soggetto morto. “Tu sei morto e devi accettarti come morto”! È il morto vivente che non può incontrare assolutamente nessuna trasformazione. Ha i suoi limiti, i suoi segni, i suoi tic, i suoi tabù e deve stare così. Questa è la rappresentazione del morto.
Allora la prossima volta, oltreché di innamoramento e amore, parleremo del morto vivente.
Innamoramento e amore
Ruggero Chinaglia Nell’incontro di oggi puntiamo a qualificare l’innamoramento e l’amore, ma proseguiremo a esplorare le questioni che riguardano la logica diadica di cui abbiamo già cominciato a parlare la settimana scorsa, cioè amicizia, solidarietà, relazione. Infatti, c’è qualche ulteriore precisazione da fare in merito a esse, anche tenendo conto che i termini e i modi delle questioni che costituiscono il materiale del corso non vengono dall’accademia, da un sapere disciplinare, partecipabile o imparabile, ma vengono dall’esperienza della parola originaria e dalla sua scrittura. Esperienza che si scrive con l’intervento straordinario della novità, dell’inedito, dell’eccezione, ossia dell’eccellenza. L’eccezione indica la logica dell’eccellenza.
Eccezionale è l’oggetto che interviene in modo imprevisto e imprevedibile a cangiare l’avvenimento. L’eccellenza è la condizione indispensabile, imprescindibile perché qualcosa incominci, in particolare perché incominci nel suo itinerario verso la qualità, verso la qualificazione. La domanda parte dall’eccellenza, non può mai venire meno e non è mai il caso di banalizzarla o volgarizzarla, tanto meno di cercare di toglierla per facilitare le cose.
Ogni tentativo di facilitazione risulta un modo per sbarazzarsi dell’eccellenza, ossia della causa, di ciò che promuove, istiga, di ciò che nella parola costituisce l’oggetto. E tutto ciò importa a proposito della questione dell’innamoramento e dell’amore che è il tema di oggi.
Parlavamo la settimana scorsa della logica diadica, della relazione, di ciò che fa sì che le cose risultino inconciliabili. L’inconciliabilità delle cose è l’armonia. Ciascun tentativo di armonizzare le cose ottiene proprio l’effetto contrario, toglie l’armonia, ma non l’armonia naturale, bensì l’armonia originaria della parola che è, appunto, l’inconciliabile, ciò che non può mai puntare verso l’unità, ciò per cui non si può mai togliere l’apertura, ossia il due, la diade, la relazione.
Dicevo che amico e nemico non sono l’uno l’opposto dell’altro, non costituiscono una contrapposizione, casomai costituiscono una contraddizione, contraddizione che non si contrappone. Quindi, amico-nemico costituiscono il modo dell’apertura, il modo della relazione, non già una dicotomia, non già una coppia oppositiva. L’amico non è ciò che è in alternativa esclusiva al nemico, ma amico-nemico sono il modo dell’ossimoro, il modo della relazione, ossia comportano che ci sia contraddizione senza alternativa esclusiva, senza contrapposizione. Quindi, l’amicizia è ossimorica e anche l’armonia è ossimorica: amico-nemico, bene-male, alto-basso.
L’armonia non è ciò che talvolta viene pensata come armonia ideale dove tutto va bene. Quella non è l’armonia, ma è il regno della morte, il regno dell’ideale, il regno della calma che lo psicofarmaco tenta di riprodurre.
Lo psicofarmaco serve a riprodurre il regno ideale di una presunta armonia dove tutto dovrebbe essere piano, senza piega, senza increspatura, senza differenza, armonico, univoco, senza dissidenza, senza disagio, naturale. Questa naturalità ideale è quella che viene postulata e perseguita dalla così detta teoria del conflitto che, pur rappresentando un arcaismo, propone ancora oggi, con un certo seguito, che le cose debbano essere univoche, prescritte e seguite in un certo modo da tutti.
Il malessere, il disagio sarebbero l’espressione del conflitto, cioè dell’alternativa esclusiva che andrebbe sanata togliendola, cioè rendendo le cose univoche, ovvero togliendo la contraddizione, togliendo il due originario.
Su questa presunta necessità di unificazione, di universalizzazione, di univocità, sorgono varie figure di normalizzatore, sorge l’idea stessa di normalizzazione, perseguita ora dal politico, ora dall’educatore, ora dalla guida, ora dallo psicoterapeuta. Sono questi i vari modi con cui viene perseguita la scena ideale dove viene tolta la contraddizione, dove viene tolta la diade intesa come ciò che genera il conflitto.
Ma il conflitto è un’idea che segue alla logica aristotelica, cioè alla logica dell’alternativa esclusiva, dove c’è un uno e c’è un altro uno. Allora, i due uno fra di loro confliggono, soprattutto se sono contrapposti. Ecco la polemica! La polemica è pensare che esistano due idee, due uni, due cose uguali che si contrappongono, quindi confliggono. L’ostilità è un altro modo del conflitto, cioè le cose dovrebbero essere in un certo modo e quel che non segue questa prescrizione al dover essere, entra in conflitto.
Conflitto. C’è tutta una teoria dell’insorgenza della nevrosi che si baserebbe sul conflitto. Ci sarebbero due istanze tra di loro in conflitto, due cose che simultaneamente dovrebbero andare in direzioni contrarie, queste confliggono e su questo conflitto che cosa succede? Che si perde la ragione, che è una ragione ben da poco se basta una contraddizione per perderla. È un’idea di ragione molto domestica, molto labile. Tutto ciò perché l’idea di partenza è quella dell’essere, un essere immutabile le cui caratteristiche sono poste da ciò di cui abbiamo parlato la settimana scorsa, cioè dai principi di identità, di non contraddizione e di alternativa esclusiva, di terzo escluso.
Questo comporta che anche nell’educazione, nell’orientamento, venga talvolta postulata una traiettoria, una linea diritta mediante la quale le cose dovrebbero giungere alla loro destinazione, alla loro meta. Non si tratta più dell’itinerario della qualificazione delle cose, non si tratta più della qualità, ma si tratta del significato, si tratta dell’ideologia. La linea prescrive come pensare, come ragionare, qual è il senso, il significato delle cose, come bisogna saperle.
Ogni teoria dell’apprendimento parte da questo, parte da un presunto animale fantastico, l’uomo, che deve comportarsi in un certo modo per essere quell’animale reale che deve essere. Questo animale fantastico è il soggetto, ciò che viene comunemente chiamato il soggetto. Soggetto come ciò che sta sotto alla parola, come ciò che il discorso occidentale ha creato per cercare di controllare e dominare la parola a favore del discorso, di una scienza del discorso che non desti inquietudine, che non dia sorprese rispetto al sapere.
Il soggetto dovrebbe padroneggiare, controllare la parola, i suoi effetti, gestire le cose, evitare le contraddizioni, evitare le inquietudini, prescrivere, vietare, guidare, come se le cose fossero già note, come se tutto fosse già saputo e si trattasse di trasmettere il sapere. Questa è la scienza del discorso, ciò su cui nascono le discipline, ciò su cui nasce l’università, ciò su cui nasce anche la religione ortodossa. È la negazione del figlio, cioè la negazione del significante che funziona e quindi differisce e, differendo, produce altro sapere.
Le discipline e l’università sorgono sull’eliminazione del significante che differisce, e si basano su un nome del nome stabile, sulla parola in quanto stabile, che non produce sapere nuovo, ma che è trasmissibile in quanto tale. Su questa idea sorge la corrente dottrina della comunicazione, che più che comunicazione si trova a essere una trasmissione dati.
Con la parola sorge, invece, la questione da dove le cose vengono, dove vanno, cosa vogliono dire, dato che la stabilità che il discorso occidentale postula nella comunicazione non viene incontrata e, anzi, parlando, ciascuno si accorge che la materia della parola è tutt’altro che stabile, che si incontrano lapsus, sviste, paradossi, dimenticanze, controsensi. Quindi, la padronanza sulla parola non riesce, la parola è qualcosa che sfugge. Ma proprio per ciò che sfugge, per ciò che non si riesce a prendere, c’è domanda!
Domanda, cioè spinta, pulsione, ricerca, curiosità. La stessa curiosità non avrebbe nessun motivo di esistere se le cose stessero come postula la scienza del discorso, se cioè le cose si sapessero già, fossero già note, fossero stabili, se il significato fosse sempre quello, se cioè non ci fosse una combinazione infinita delle cose per cui senso, sapere e verità risultano aspetti della parola che non rispondono a un codice predeterminato, ma di volta in volta sono effetti sorprendenti, nuovi, cioè temporali.
Proprio per questa caratteristica della parola, la domanda esige la mano intellettuale, mano le cui dita sono costituite dall’umiltà, dalla generosità, dall’intendimento, dall’intelligenza e dall’indulgenza.
Cecilia Maurantonio In luogo della tolleranza?
R.C. No, non in luogo. Intendimento e intelligenza in qualche modo indicano la stessa questione, quindi si tratta effettivamente anche della tolleranza.
Umiltà nel senso della disposizione all’ascolto, della disposizione a intendere ciò che ciascuna combinazione comporta e generosità nel senso dell’ammissione dell’Altro, della differenza nella parola.
L’educazione che comporti la severità, chiaramente manca al suo stesso compito, in quanto prescrive e toglie l’ascolto come se applicasse i canoni di un discorso, senza tenere conto di quel che sta avvenendo, di ciò che è in atto in quel momento. È molto facile applicare la severità, è assai difficile, invece, lasciare che vi sia generosità nell’intervento, intervento che l’educatore o l’insegnante nella sua funzione occorre compia.
Si tratta di non confondere l’autorità con la severità, l’autorità con l’autoritarismo, la generosità con la bontà o con l’altruismo. Perché occorre certamente che vi sia aiuto, ma non è detto che l’altruismo aiuti. L’altruismo può risultare la negazione dell’aiuto in quanto prescrive qualcosa nel senso dell’identità reciproca.
Per esempio, può capitare che un ragazzo dica “Io non riesco a fare i compiti, non riesco a fare questa cosa per la scuola”. Allora i genitori dicono “Ti diamo una mano, ti aiuto, te la faccio io, ti aiuto a farla”. Ecco, non è detto che ciò risulti un aiuto, anzi, l’aiuto sta nel far sì, che si instauri il dispositivo opportuno perché ciò che risulta impossibile fare, trovi il modo di venire fatto. Non è detto che questo debba comportare che la mamma aiuti il bambino, il ragazzo, oppure che debba trovare una complicità nell’ammissione di incapacità, perché questo è un torto all’intelligenza.
Si tratta di trovare un dispositivo opportuno perché ciò che viene enunciato come impossibile, trovi la sua via. Sta qui l’aiuto, dove invece l’altruismo è come se togliesse l’intelligenza, togliesse la fiducia, togliesse il dispositivo. Taglia corto e dice: “Facciamo insieme”! Oppure: “Fai così”! Prescrivendo il modo di fare. E questo può valere banalmente per i compiti, ma ha un’importanza ben superiore in altre cose.
Infatti, accade che certe modalità che vengono applicate nell’educazione dei bambini, permangano come istanza, ossia “Io devo essere aiutato. Tu mi devi aiutare, senza l’aiuto non ce la faccio”! Cioè, sempre con un’idea di sé come mancante, incapace, bisognoso, quindi come soggetto. Soggetto carente, mancante, bisognoso.
Queste rappresentazioni traggono il loro materiale proprio dalle modalità che, fin dai banchi di scuola, vengono applicate in relazione a ciò che viene enunciato come aiuto. Certamente, ciascuna domanda è domanda d’aiuto, ma non di altruismo. Non è domanda di venire riconosciuti come soggetti incompetenti, incapaci, deboli, inabili! È domanda di aiuto in direzione della qualifica di ciò che sta nella domanda.
Nadia Vidale Posso chiedere una cosa? Mi sarà capitato un mese fa. Si tratta di una bambina di quarta elementare. La nonna che si occupa della bambina dice che, siccome la bambina non vuole fare i compiti, allora lei o altre persone che si trovano a casa, l’aiutano a fare i compiti.
R.C. Sono casi molto frequenti.
N.V. Sono casi certamente frequenti.
R.C. Anche perché è uno dei pretesti più immediati, per un bambino, per avere vicino qualcuno che altrimenti non sarebbe lì.
N.V. Io ho avvertito che non potevo fare finta di niente. Lungo la conversazione ho detto che era comunque meglio che la bambina andasse a scuola con i compiti da fare, oppure con il lavoro fatto da sola, completamente da sola.
R.C. Chiaro.
N.V. Però, poi, ripensando alla situazione, mi è sembrato che se la bambina andasse a scuola senza compiti, la maestra ne scriverebbe male, malissimo, e la cosa potrebbe peggiorare la situazione. Se da domani la bambina andasse a scuola con i compiti da fare, si direbbe che quella bambina va male a scuola, e ciò accentuerebbe il giudizio di incapacità che evidentemente c’è già adesso. Per cui, se è già stato deciso che alla fine della terza media questa bambina andrà a lavorare, così facendo ci andrà a maggior ragione. Cioè, verrà rinforzata l’idea di incapacità dal fatto che ci saranno i risultati negativi a scuola.
R.C. È possibile, certo.
N.V. Allora, mi chiedevo, dal momento in cui io dico questa cosa, forse dico troppo poco e tanto varrebbe che non dicessi nulla. Non posso dire “Facendole voi i compiti non la aiutate”, perché la cosa verrebbe sentita come una ingerenza. Mi si potrebbe rispondere “Va beh, provaci tu. E se fosse tua figlia? Noi già facciamo anche troppo”. Quindi mi sono chiesta a posteriori quale margine di intervento avessi.
R.C. Lei è nella funzione di insegnante della bambina?
N.V. No. Era una conversazione in una famiglia.
R.C. Perché qui, la questione dei genitori in questo caso, è che non vogliono mandare la bambina a scuola senza i compiti, perché farebbe brutta figura lei, ma anche la famiglia.
Pubblico Un giudizio che si ripercuoterebbe anche sulla bambina.
Pubblico Ma la bambina lavora a scuola?
N.V. La bambina a scuola ha un andamento altalenante. La famiglia è stata avvertita della cosa e ha respinto le indicazioni delle maestre, si è asserragliata dicendo che la bambina va benissimo così. La scuola ha avvertito che c’è un disagio, lo ha segnalato, ma è stato negato immediatamente.
R.C. Certo gli elementi sono un po’ scarni, tuttavia qui la questione è di intendere la domanda che la bambina rivolge ai genitori, ma anche verso gli insegnanti, segnalandosi in questo modo rispetto a quello che sarebbe un rendimento ideale dell’alunno che va bene.
Allora, bisogna certamente avvertire la famiglia, ma occorre anche instaurare quella comunicazione che forse in famiglia non c’è, provare a instaurarla nella scuola, allestire un dispositivo per cui questo disagio si articoli. Questa è la scommessa che riguarda l’insegnante, non solo come istruttore, ma come interlocutore di chi ha dinanzi a sé nella sua classe.
D’altronde, sono questi i casi attorno a cui, effettivamente, l’insegnante si trova sollecitato a svolgere una funzione, non dove tutto va da sé. Dove qualcosa non va, dove qualcosa non funziona, dove, probabilmente, vige una rappresentazione di sé o dell’Altro improntata alla sufficienza o alla deficienza per cui sembra possibile accontentarsi dei propri limiti, delle proprie ridotte capacità dove, insomma, c’è una accentuazione dell’impossibile come impossibilità soggettiva, lì occorre l’intervento eccezionale, straordinario che comporti l’eccellenza.
Un conto è l’impossibile della parola come impossibile della rimozione e impossibile della resistenza, ciò per cui la parola va verso la qualifica, e un conto è se si instaura la rappresentazione di sé o dell’Altro come soggetto, quindi come qualcosa di finito, di già dato, la cui identità è già certificata. Anzi, è proprio per l’impossibile che sta nella parola che c’è la spinta verso la qualifica, perché le cose non sono già dette, non sono già fatte, non sono già sapute, non hanno già senso e quindi tendono a qualificarsi. Questa tensione, questa tendenza procede dall’ambiguità, dal disagio, dalla diade, procede dalla relazione originaria.
Allora, in questo caso, l’unico modo che si presenta come varco rispetto all’identità imprigionante è il sintomo. Il sintomo è il varco rispetto alla rappresentazione già data di sé o dell’Altro, rispetto a una presunta identità che risulta come una prigionia, perché ogni identità assegna i limiti. Il sintomo tenta un varco rispetto a questi limiti.
Gianfranco Dalle Fratte In merito alla sua affermazione che ciascuna domanda è una domanda di aiuto, lei prima ha detto che occorre un dispositivo perché la domanda trovi il modo della sua qualifica.
R.C. Sì, il dispositivo che risulti opportuno a che la domanda si svolga, si precisi, trovi la sua qualità.
G.D.F. Perché arrivi alla qualità. Quindi serve un dispositivo, altrimenti non c’è domanda?
R.C. Certo, un dispositivo in cui possa avvenire la ricerca, l’indagine, l’analisi, la qualifica, la formazione, dove sia possibile trovare le risposte.
G.D.F. Allora, chi si crede soggetto ha il sintomo. Che lo abbia è una possibilità oppure no?
R.C. Diciamo che, per chi si crede soggetto, il sintomo è una risorsa, è una chance.
G.D.F. Ma può esserci o non esserci? Se io ho la rappresentazione di essere soggetto, quindi di stare sotto alla parola, il sintomo può esserci o può anche non esserci? Questa è la domanda.
R.C. C’è!
Per tornare al caso che poneva Nadia Vidale, è chiaro che c’è una surdeterminazione in ciò che viene proposto come sintomo, o impasse, o deficit, soprattutto come incapacità come lei diceva. Allora, dopo la scuola dell’obbligo, che accadrà? Se il rendimento a scuola deve significare del destino di ciò che avverrà dopo, sarà caricato di tutta una serie di rappresentazioni che non c’entrano nulla con la scuola e con lo studio. Se io avverto che in famiglia il papà, la mamma o chi altri spera, si aspetta da me che io prosegua gli studi, oppure che vada a lavorare, questo ha incidenza rispetto al rendimento a scuola.
E questo, se non entra in un dispositivo di comunicazione, di parola, diventa una predestinazione, una prescrizione, per cui ciò che avviene a scuola deve già costituire il segno di ciò che seguirà! Se i genitori vogliono che io vada a lavorare, nel caso che per me sia importante soddisfare il presunto desiderio dei genitori, allora io andrò male a scuola perché così non si porrà nemmeno l’eventualità di proseguire! Al contrario, invece, se l’istanza non è di soddisfare il desiderio dei genitori, ma piuttosto di autonomia, ecco allora che ci sarà uno sforzo per dimostrare l’eccellenza a scuola. Quindi, la deficienza, o la sufficienza, o l’eccellenza che vengono giocate a scuola, non hanno nulla a che vedere con le materie scolastiche.
Si potrebbero portare altri casi che comportano che non è la cosa in sé che determina la partita, ma una serie di combinazioni in cui è in gioco la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’Altro, come Altro che desidera, Altro che vuole da me, Altro che mi chiede di essere in un modo piuttosto che in un altro, Altro da amare, Altro da odiare, Altro che ama, Altro che non ama, cioè dove l’Altro è soggetto, non è l’Altro di cui si tratta in termini strutturali, cioè l’Altro dell’alterità, l’Altro modo, l’Altro tempo, l’Altro assoluto cioè la differenza irrapresentabile, l’Altro che caratterizza la struttura, sogno e dimenticanza. Diventa un altro.
La questione essenziale è come per ciascuno si instaura l’Altro. Solamente a partire dall’Altro come differenza assoluta noi avremo l’assenza di razzismo, non il narcisismo delle piccole differenze, ma il narcisismo assoluto, in cui avremo la qualifica delle cose in termini di assoluto, non di adeguamento a una rappresentazione.
Qui entriamo nell’ambito della precisazione intorno alle logiche della parola, quindi entriamo precisamente nel tema di oggi, dell’amore e dell’innamoramento. Occorre fare sempre lo sforzo di non ricondurre quel che si ode a quel che si presume di sapere. Questa è la condizione base dell’umiltà, da cui l’ascolto. Infatti, quando io dico Altro, il modo più facile di intendere l’Altro è come un altro, un altro rispetto a me, il così detto altro da sé, altro da me, altro da te. Quello che viene chiamato l’altro da sé, in realtà è la copia speculare di sé, è la copia speculare dell’uno, per cui l’uno e l’altro farebbero coppia. Sarebbe generosità ammettere che vicino all’uno ci stia l’Altro.
L’altro da sé inteso come un altro è banale, intellettualmente è proprio pochissimo “Ci sono io e c’è anche un altro”. Basta guardarsi intorno per capire che non siamo soli, che non siamo monadi. Ci sono io e vicino a me c’è un altro e un altro ancora, tanti altri. Questo sarebbe il pluralismo, il plurale, la pluralità dove, di volta in volta, possiamo valutare quest’altro che ci sta di fronte, vedere se è compatibile, incompatibile, gradito, sgradito, se è amico o nemico, se è simile o dissimile, se possiamo tollerarlo o se è intollerabile, se ha la pelle troppo chiara o troppo scura, se è pulito o se è sporco. Perché se è pulito è più simile a noi, se è sporco è meno simile. Questo modo di giudicare non è l’alterità, è il criterio omosessuale. Omo o uomosessuale, dove la base è il simile, la similarietà, l’omoios.
La questione dell’Altro invece, nei termini in cui è posta dal titolo, non è quella di un altro, ma dell’Altro, ossia dell’Altro come indice della differenza assoluta, indice dell’alterità, della differenza, dell’Altro tempo, cioè si tratta dell’Altro irrapresentabile. Non si può rappresentare come simile e non si può rappresentare come diverso; non si può rappresentare.
L’instaurazione dell’Altro comporta l’insignificabile, cioè che ciascuna cosa non significa un’altra cosa, che quel che si dice, quel che si pensa, quel che si fa, non è segno di qualcos’altro. Quindi, se io dico una cosa, questa non significa l’altra cosa che ci sta dietro o che ci sta sotto. Non è quella cosa! E se io la dico ciò non fa di me il segno di un genere, di una stirpe, di una famiglia, di una genealogia, di una ideologia. Non significa. Non significa nulla.
Ciò è qualcosa che è, a dir poco, essenziale. Freud diceva che è più facile per le persone comuni, per gli umani, confessare i propri peccati, confessare una colpa che non raccontare una fantasia, una fantasticheria, soprattutto se è un po’ particolare, una fantasia balzana. Perché? Perché è chiaro che il peccato e la colpa si appellano a un genere che c’è per definizione, e cioè al genere umano che è caratterizzato dalla macchia. Allora, se io ne confesso una in più, non è che mi discosto molto dal mio destino: “Sono macchiato. Siamo tutti macchiati”, perché noi tutti portiamo la macchia originaria, il così detto peccato originale!
È la macchia comune, per cui anche peccando più o meno, e quindi confessando i peccati, io resto comunque nella comunità, resto in comune, senza arrivare alla follia. Invece, una fantasia, una parola differente, un’idea differente comportano il giudizio, e il giudizio potrebbe estromettermi dalla comunità, dagli uguali, dagli omoios.
La questione del pensiero viene tradotta che un’idea, un pensiero mi significa, diventa il segno del mio essere, o del tuo essere, o del suo essere, comunque il segno dell’essere. Se pensi queste cose sei malato, matto, criminale, sei diverso, sei abnorme, sei così, sei cosà. Insomma, comporta una attribuzione, un segno. Immaginariamente, postulata la significabilità delle cose; allora un pensiero, un’idea, una fantasia “significa che”.
È proprio qui che la psicologia va a nozze, nel trovare i segni delle idee, dei pensieri, delle parole. Per cui se io credo che un’idea mi possa segnare, la tengo per me, e magari mi faccio segnare da quell’idea, nel senso che, effettivamente, posso giungere a crederci e a ritenere che sono segnato da quell’idea, che mi segni, cioè diventa la mia predestinazione negativa, oppure una predestinazione positiva, poco importa, comunque diventa segno dell’essere, segno della soggettività.
La severità procede sempre da questo segno, da questa significabilità, è l’applicazione della significazione. “Ah, hai fatto questo e allora vuole dire che…”. E segue la punizione. Cioè, ciascuna cosa, significando, viene inscritta nel sistema della colpa e della pena, cioè del giudizio severo.
È solo a condizione che non vi sia la significazione postulata che può instaurarsi l’ascolto, che può venire inteso ciò di cui si tratta nella domanda, in un sintomo, nella rappresentazione sintomatica che viene proposta, o nell’impasse. Se noi invece postuliamo il segno di, cosa diventa l’applicazione della significazione? Diventa l’applicazione alle cose di una genealogia, dell’albero genealogico, dove Tizio è figlio di Caio, figlio di Sempronio, figlio di Felicino, cioè è segno, porta il segno della discendenza, sarebbe il discendente, il figlio di, e sarebbe significato dalla genealogia.
La credenza nella genealogia e nell’appartenenza, quindi in una predestinazione vuoi positiva vuoi negativa, trasposta sul piano della comunicazione comporta, per esempio, la severità, comporta la significabilità delle cose, cioè comporta una lingua che dovrebbe essere comune e che, in quanto comune, vale, deve valere per tutti allo stesso modo.
È questa la lingua dei litiganti, cioè la lingua senza comunicazione, dove la significazione sta al posto della comunicazione, dove un senso, un sapere, un valore già dati vengono attribuiti a prescindere da ciò che si dice. Ecco, perché importa l’instaurazione dell’Altro, cioè della differenza assoluta che comporta l’aiuto e non già l’altruismo. Altruismo che sarebbe il segno di cosa farei io al tuo posto “Come farei io al tuo posto? Allora facciamo così”! Cioè, l’uno e l’altro la pensano allo stesso modo perché sono sempre uno, si tratta sempre dell’uno, dell’uno al plurale. Nel pluralismo, che sarebbe l’altruismo, non c’è né tolleranza, né generosità, né solidarietà, ma c’è l’identità, l’identità reciproca al plurale. Cioè, il pluralismo è una forma di procreazione dell’identico, una clonazione.
Vincenzina Carbone Questo modo di intendere il pluralismo, io lo definirei in un’altra maniera. Perché, se poi uno va a dire in giro queste cose nella società, è spacciato!
R.C. In quale società?
V.C. Se va a dire che il pluralismo è una clonazione.
R.C. Se lo dice così, magari, anche, ma se lo dice indicando le ragioni logiche per cui è così, di che cosa può venire tacciato? Che ha fatto una esplorazione della cosa che va al di là del senso comune?
Mentre comunemente si crede che il pluralismo sia il massimo della tolleranza, il pluralismo in termini logici è il massimo del razzismo. Se poi lei dice che ciò non sta bene dirlo rispetto alle convenzioni sociali, io posso essere d’accordissimo con lei. Si tratta proprio di non rimanere schiacciati dalle convenzioni sociali, di andare oltre le convenzioni sociali, di indagare le stesse convenzioni sociali, per intendere da dove vengono, dove portano, perché ci sono.
Le convenzioni sociali altro non sono che materia per la ricerca. Noi non dobbiamo accettarle o respingerle o adeguarci a esse. La questione intellettuale rispetto alle convenzioni sociali comporta di indagarle. Non si tratta né di accettarle, né di respingerle, perché sarebbe sempre un modo dell’alternativa.
V.C. Non vorrei trovarmi di fronte a una barriera di incomunicabilità, perché c’è una diversità enorme nell’uso del linguaggio. Non mi ritrovo in questo uso terminologico, perché ci potrebbe essere, a un certo punto, una barriera di comunicazione, per cui si rischia di non intendersi e di non potere comunicare. Se andiamo a indagare troppo, il termine pluralismo si trasforma in qualcosa di assolutamente contrario a quanto comunemente inteso, allora non ci si intende, ecco.
R.C. Tuttavia, occorre pure dare un contributo alla civiltà. Se noi ci troviamo oggi, a un punto in cui un termine sembra indicare una cosa e invece dice il suo contrario, e pur tuttavia viene accolto per quello che sembra indicare, cioè in un fraintendimento totale, occorre pure scuotere le intelligenze.
Se sulla base di ciò che viene proposto come pluralismo, noi ci troviamo coinvolti in una ideologia avvolgente che non lascia scampo, ebbene perché non dobbiamo levare una parola per indicare che quello che sembra il massimo dell’apertura, è una chiusura globale, un modo di dire sempre la stessa cosa, di proporre l’unica direzione, di togliere la dissidenza, l’intelligenza, l’arte, la varietà, l’aria?
E che cosa dobbiamo fare? Accettare? E perché? Occorre pure non togliere la parola. Non bastano le buone intenzioni. Uno dice pluralismo e sembra improntato alle migliori intenzioni. Ebbene, non bastano le buone intenzioni, non ci si può accontentare delle buone intenzioni e nemmeno delle cattive, cioè non ci si può accontentare delle intenzioni. L’educazione non può reggersi sulle intenzioni, buone o cattive che siano, perché le intenzioni non esistono, quindi non sono né buone né cattive perché non esistono!
Cos’è l’intenzione? Esiste la domanda, esiste l’esigenza di qualcosa, esiste l’istinto, il desiderio, il bisogno rispetto a qualcosa; questo è l’essenziale. Occorre, per la civiltà della parola, che l’essenziale non risulti spazzato via da ciò che può rappresentare un formalismo o una convenzione.
V.C. Del linguaggio o della parola?
R.C. Della parola. Il linguaggio sta in una delle logiche della parola. La parola è ciò che non manca di nulla, neanche del linguaggio.
V.C. Comunque, anche quella è una convenzione. Si tratta di convenzioni molto precise e limitanti anche. E allora?
R.C. Per esempio?
V.C. Si basa su delle regole ferree, a mio avviso, così come la matematica si basa su delle convenzioni senza le quali non esisterebbe. Non c’è nessuna certezza matematica se andiamo a togliere quelle convenzioni.
R.C. Ne può indicare una?
V.C. I numeri, il modo di indicare i numeri, uno, due, cifre da zero a nove, anziché zero e uno, binari.
R.C. Questa non è una convenzione.
V.C. Usare la cifra da zero a nove è comunque una convenzione.
R.C. È una logica. Se noi…
V.C. Per esempio, cosa si intende per due, la cifra due cosa rappresenta? Lo sappiamo tutti che cosa rappresenta due. È una cosa che non può essere dimostrata in alcun modo. Si sa, punto e basta.
R.C. Certo. Quindi lei dice che dipende dal sistema di riferimento che viene adottato. Perfetto.
V.C. È ovvio, anche la parola si basa su un sistema di riferimento, mentre il linguaggio secondo me è un modo di articolare queste regole.
R.C. Perfetto. Può darsi che lei dice linguaggio e io dico parola e intendiamo qualcosa che è molto prossimo, mentre se io dico linguaggio intendo una cosa totalmente differente da ciò che lei chiama linguaggio.
Pubblico La volta scorsa parlava dell’oggetto.
R.C. Oggetto che sta nella parola, non il soggetto della parola, ma l’oggetto.
Pubblico Quindi la parola viene prima, voglio dire.
R.C. Prima di che cosa?
Pubblico Dell’essere.
R.C. Ah, certo!
Pubblico Allora il linguaggio è strutturato attraverso le parole.
R.C. Occorre distinguere tra la parola e le parole. Quando dico parola intendo la parola in quanto logica e struttura, quindi presa nella sua logica, nel suo funzionamento, nella sua struttura e nella sua qualità. Non è una parola, è la parola. Se noi diciamo le parole, allora si tratta della questione del linguaggio.
Vally Pilotto Diceva prima che le intenzioni non esistono. Che le cose non siano basate sulle intenzioni sono d’accordissimo, anche perché in nome delle buone intenzioni si sono fatte e si continuano fare cose terribili. L’intenzione io la definirei come un pensiero che precede l’azione, un pensiero, se vogliamo, che è guida di un’azione, che vorremmo proseguire in un’azione.
R.C. Quindi un pensiero.
V.P. Sì, ma che vorrei proseguire in un’azione.
R.C. L’intenzione che cosa indicherebbe? L’interno rispetto a qualcosa che sta all’esterno: intus, intimo, intenzione. L’intenzione che cosa sarebbe? Qualcosa di intimo, il vero pensiero, il vero del vero. Non basta il pensiero? Che qualcosa venga qualificata intenzione non aggiunge nulla all’idea, al pensiero. Comporta solo la soggettività, quindi l’intenzione è ciò attraverso cui…
Pubblico Allora, esiste o non esiste il soggetto? Il soggetto esiste nella fantasia, però esiste.
R.C. Il soggetto in quanto tale non esiste, anche l’intenzione in quanto tale non esiste. Esiste ciò che si enuncia come fantasia, come fantasticheria, come idea. Dire che un’idea, una fantasia, qualcosa che si enuncia è un’intenzione, è un modo di farla significare, cioè l’intenzione dovrebbe significare il soggetto che la dice. Poi, introducendo il sistema delle buone e delle cattive intenzioni, per cui se l’intenzione è buona può venire accolta, ma se l’intenzione è cattiva, ahi, ahi, è male! E già questo, rispetto all’ascolto, costituisce una limitazione.
Se io qualifico l’intenzione come qualcosa che mi viene detto, introduco un sistema formale di riferimento improntato alla morale. Allora lei capisce che l’ascolto lì si frantuma, non si instaura più, ma sorge un sistema di riferimento morale, con una valutazione che è determinata dai termini di questa morale.
Pubblico A me interessava l’affermazione “l’intenzione non esiste”.
R.C. In quanto tale.
Pubblico Mi interessava definire in qualche modo l’intenzione.
R.C. La possiamo qualificare come fantasia. L’intenzione è una fantasia o una fantasticheria.
Pubblico Un pensiero.
R.C. Un pensiero, certo, che importa in quanto operatore. Se ascoltando una fantasia io intendo qual è l’operatore, che cosa opera nella fantasia, vengo assolutamente distolto dal sistema morale di riferimento che mi porterebbe a chiedermi se è buona, se è cattiva e dove va.
Lei dice che l’intenzione è rispetto a un’azione, e io guardo se questa azione è buona o è riprovevole, se mi piace o non mi piace. In questo modo dell’intenzione, cioè di ciò che opera in questo pensiero, lei non coglie nulla. Perché? Perché se si impronta l’ascolto alla coerenza tra pensiero e azione, è micidiale, non c’è più la libertà di enunciare alcunché! Perché se io dico una cosa devo farla! Perché se io dico una cosa questa mi rappresenta, mi significa! E allora non dico più niente! Questo è il realismo soggettivizzante, non le pare?
Pubblico L’intenzione in quanto operatore?
R.C. Per l’operatore che vi opera, non già per l’azione che dovrebbe seguire, ma per quel che vi opera come operatore, cioè come fantasma originario. In questo senso un pensiero lo qualifichiamo come logica della parola, cioè come logica delle operazioni, mentre non possiamo reperire una logica delle intenzioni, perché sarebbe molto riduttiva rispetto alle operazioni.
L’intenzione rispetto all’azione, in quanto mitologia dell’azione, è da indagare più che da applicare come schema educativo. Noi non possiamo ascoltare quel che si enuncia rispetto a un progetto traducendolo come un’intenzione, perché ciò equivarrebbe a inscrivere il progetto, o quanto meno la fantasia, l’idea del progetto, in un sistema di riferimento già dato.
In questo caso il meno che potrebbe accaderci sarebbe di togliere l’invenzione al progetto, nel senso che se ci sfugge qualcosa di una combinazione nuova, magari diciamo che si tratta di un’idea strampalata e non lo accogliamo. “Per carità, è un’idea strampalata, fandonie, fanfaluche, mattane. Fai una cosa molto più sensata, fai così”, “Ma, veramente, io pensavo a tutt’altro”, “No, no, non è una buona idea, non è un’intenzione saggia”. Ma ciò perché, anziché ascoltare l’idea, noi siamo già all’azione, cioè alla rappresentazione di quello che dovrebbe accadere secondo le nostre conoscenze. Ecco perché in termini logici, come dicevo prima, l’intenzione non esiste, perché è una riduzione operata in termini psicologici del fantasma, della fantasia.
La questione che interessa intendere nell’ascolto è la coerenza del fantasma, non la coerenza tra fantasma e azione. Un conto è intendere come un’idea insiste in un progetto per qualcuno, e un conto credere che l’idea comporterà che l’azione sarà conforme a ciò che ne pensa. Può darsi che qualcuno enunci qualcosa che non farà mai.
Vi faccio un’ipotesi di cosa comporta questo modo di leggere secondo la coerenza dell’azione. Se io dico che penso alla morte, vengo definito depresso e mi danno le pastiglie. Cioè, non devo pensare alla morte, perché potrei anche “farla”, se la penso, la faccio! Se dico “Ho pensato che potrei uccidermi”, “Per carità, venga che la ricoveriamo subito”! Questo è un esempio di cosa vuole dire l’applicazione della coerenza del fantasma all’azione.
Pubblico Il prendere alla lettera proprio.
R.C. Proprio coerenza, detto fatto. Non c’è nessun varco in quel che si enuncia, perché quel che si dice è fatto. Ma quando mai?
Pubblico Quindi, la prevenzione si fonda su questo?
R.C. Per esempio, tutto ciò che passa come prevenzione del suicidio è fondata sulla paura e sull’assenza di ascolto, quindi sulla credenza che la coerenza del fantasma non ci sia, e ci sia la coerenza tra idea e azione, la corrispondenza tra idea e azione. Cioè, se io penso questo, o se dico di pensare questo, o di fare questo, secondo questa lettura, lo faccio di sicuro. Ma quando mai?
G.D.F. Detto fatto.
V.C. Cos’è la coerenza del fantasma?
R.C. Il modo con cui un’idea opera. Lo statuto del fantasma è la coerenza per cui qualcosa opera come idea. C’è un operatore e si tratta di intendere quale sia e come operi. Tuttavia, è operatore di idee.
All’interno di un certo discorso che si basa su un’idea di controllo, dove cioè io mi credo soggetto e credo di dovere esercitare una padronanza su alcune cose, l’idea opererà in vari modi. Questi modi li possiamo chiamare insistenza, coerenza. Insistenza, dice che insiste in modo vario. Coerenza, dice che c’è un modo che ha quella caratteristica, quella particolarità.
C.M. L’operare del pensiero è come dire l’agire della parola?
R.C. C’è sia l’operare, sia l’agire. Dell’agire non abbiamo ancora parlato, per cui lei introduce qualcosa che non abbiamo ancora qualificato. Adesso ci arriviamo.
Un conto è l’azione come azione soggettiva, e un conto è l’azione della parola. Non è che l’azione non esista; c’è l’azione e la parola agisce. Come agisce? Agisce con i suoi effetti. Qual è l’azione della parola: il senso effettuale, il sapere effettuale, la verità effettuale.
La parola agisce con i suoi effetti, e gli effetti sono il sapere, che è ciò che si produce per la funzione di resistenza, il senso, che è ciò che si produce per la funzione di rimozione e la verità.
Rimozione e resistenza sono due funzioni della parola. C’è anche una terza funzione, funzione vuota o funzione di Altro, che è ciò che struttura il sogno e la dimenticanza.
C.M. E la verità?
R.C. La verità non funziona.
C.M. È un effetto di questa funzione?
R.C. No. La verità si instaura per la funzione di Altro, quindi esige un processo ulteriore. Diciamo che, in qualche modo, ha comunque a che vedere con questa funzione, si trova su questa funzione vuota, ma che la funzione sia vuota indica che non c’è qualcosa che possa colmare la funzione, che possa situarsi nella funzione per colmarla. Questo è l’Altro, come Altro insignificabile, irrappresentabile, perché non c’è nulla che possa porsi come ciò che soddisfa quella funzione.
Per questa componente di logiche non binarie, la parola sfugge alla logica binaria. Oltre alla logica diadica che abbiamo visto, la logica delle relazioni, ci sono altre quattro logiche singolari triali. Noi adesso stiamo considerando una di queste logiche, la logica delle funzioni dove ci sono tre funzioni, rimozione, resistenza e funzione vuota o funzione di Altro.
Perché ho introdotto ciò? Perché la settimana scorsa c’era chi aveva chiesto di precisare la struttura del desiderio. Cos’è il desiderio? Qual è la struttura del desiderio? Come dobbiamo intendere il desiderio? Noi non possiamo intendere la struttura del desiderio se non partiamo dal funzionamento delle cose, dal funzionamento della parola.
La parola, funzionando, differisce, e lungo la funzione di rimozione abbiamo il senso. Come avvertiamo il senso che procede dalla parola? Come senso in perdita, cioè parlando noi avvertiamo una perdita, un dispendio. Il dispendio, la perdita è ciò che instaura il senso, sempre come controsenso, cioè come senso inedito.
Perché a un certo punto si pone la questione del soggetto così detto mancante, carente, che avrebbe perduto qualcosa? Questo è il modo con cui viene giustificato, e in qualche modo controllato, l’effetto di perdita che ciascuno incontra parlando, perché le cose che si dicono non giungono mai a dirsi totalmente. Per quanto si dica, molto resta ancora da dire, c’è sempre qualcosa da dire. Questo effetto comporta la rimozione e il senso è dovuto alla funzione di rimozione.
Dalla funzione di resistenza abbiamo invece, come effetto temporale, il sapere. È la resistenza del significante, non la resistenza di qualcuno rispetto a qualcosa, è la resistenza del significante all’identità, poiché il significante nel suo funzionamento differisce. Il tempo introduce nella parola la differenza, per cui l’effetto temporale è che il significante differisce non solo rispetto a un altro significante, ma anche rispetto a se stesso; questo è il tempo nella parola. Il tempo è questo taglio per cui non c’è identità delle parole, né rispetto alle altre, né rispetto a se stesse. Dalla mancanza strutturale in atto del significante si produce sapere. La trovata, l’invenzione, procedono da questo differire.
Il desiderio è il paradosso introdotto dalla differenza e dalla mancanza, per cui non c’è chi possa dire tutto, non c’è chi possa dire quello che vuole. La mancanza struttura quella che Freud chiamava la Versagung, la disdicenza. Il desiderio muove dal paradosso del potere dire le cose e indica che non c’è chi possa desiderare le cose. Quindi, il desiderio non è il desiderio di qualcuno per qualche cosa, ma è la marca della mancanza strutturale delle cose. Cioè, strutturalmente, il desiderio non sta nell’enunciato “Io desidero”, ma nel paradosso di questo enunciato, nel senso che dicendo “Io desidero qualcosa”, questo enunciato incontra la differenza, la menzogna.
Il desiderio è quel che si enuncia rispetto alla mancanza costitutiva da cui muove la disdicenza, il sapere effettuale e indica il significante della menzogna, cioè della differenza, menzogna intesa come differenza costitutiva.
C.M. Ciò che si enuncia nella struttura della parola è mancante di significazione? Allora si parla sempre di desiderio oppure si qualifica in altro modo?
R.C. Il desiderio si qualifica in modo preciso, il desiderio non è ciò che qualcuno desidera, ma è un paradosso, il desiderio è la marca di un paradosso.
C.M. E come tale rimane.
R.C. Come quale, non come tale. È la marca di un paradosso che non per questo non incontra il suo svolgimento. La struttura del desiderio è essenziale per intendere l’amore e per intendere dove sta la soddisfazione.
Barbara Valerio È il godimento?
R.C. No, il godimento è un’altra cosa ancora.
B.V. È anche alla base della soggettualità.
R.C. Sì.
B.V. Non solo l’occorrenza, anche il desiderio è alla base della soggettualità.
R.C. Certo, indubbiamente.
B.V. Allora, io chiedo più precisamente il rapporto tra desiderio e occorrenza, un confronto tra le due cose, dato che ambedue invitano all’azione.
R.C. No, non invitano all’azione.
B.V. Porterebbero…
R.C. Noi adesso abbiamo qualificato il desiderio, che è caratterizzato dall’impossibile, nel senso che è metonimico, il desiderio si svolge lungo la serie infinita degli scostamenti.
Pubblico Uno stato dell’animo.
R.C. L’animo? Caso mai non è uno stato, ma un moto, se proprio vogliamo riportarci all’animo. Proprio per questa sua caratteristica di procedere lungo la differenza della parola, quel che si enuncia come desiderio non incontra mai il significante del desiderio, se non come menzognero, quindi in uno scarto. Scarto che rinnova la domanda e rinnova il desiderio, per cui rinnova il procedere dell’istanza del desiderio che è marcata da questo paradosso, che è il paradosso stesso della freccia e del bersaglio se vogliamo. Nel senso che il significante è menzognero e, in quanto menzognero, mai può trovarsi a soddisfare il desiderio, che ne è il paradosso. Il desiderio procede da questa mancanza a sé del significante.
Psicologicamente, la cosa viene convertita nell’enunciato “Io desidero quello che mi manca”, che è proprio una banalizzazione volgare. Io non desidero quello che manca a me, e soprattutto non è l’Io a desiderare. Il desiderio non è coniugabile come “io desidero”. Dire “io desidero” è un tentativo soggettivo di controllare questa metonimia, lo spostamento costante, infinito, del significante che differisce. Dire “io desidero, io desidero questo”, sarebbe la rincorsa alla parola piena.
L’isteria basta da sé a dimostrare la paradossalità di questa enunciazione quando dice “Ma non è questo che voglio. Non è questo, non è questo”. Basta leggere i casi di Freud, anche senza addentrarsi nel materiale clinico. L’isteria indica che “non è questo”, che “non è mai questo”! Per cui l’altruismo, che mira a soddisfare le richieste sulla base della credenza che “sia questo”, va in scacco costantemente, oltre che per i motivi che dicevo prima, perché “non è mai questo”, cioè non è mai sostanza ciò che viene chiesto, perché se “fosse questo”, si tratterebbe di sostanza.
La questione della droga ruota intorno alla credenza che il desiderio possa soddisfarsi di sostanza. La psichiatria risponde al desiderio con la sostanza e le discipline attuano la modalità di dare sostanza dove si tratta di materia, di logica, di qualità, di struttura della parola, che non è una struttura sostanziale, né formale. È qualcosa che si svolge, che è in atto, in trasformazione costante e esige l’ascolto, il fare, non la sostanza, non ciò che dovrebbe colmare la domanda.
La scommessa della domanda è di non trovare mai colmamento, ma soddisfazione in ciò che la rinnova, perché ciò che dà soddisfazione, simultaneamente rinnova la domanda.
La questione della psicosi sta qui. E dico ciò per indicare qualcosa riguardo al desiderio, ma non c’è solo il desiderio. C’è anche ciò che i greci chiamavano entusiasmòs e che Cicerone traduceva con istintus.
Quindi, accanto al desiderio c’è l’entusiasmo, l’istinto, che non è l’istinto animale, ma l’istinto come significante dell’equivoco, di ciò che è preso nella funzione di rimozione, cioè nel controsenso.
Pubblico L’entusiasmo è il significante dell’equivoco, preso nella funzione di rimozione?
R.C. Sì. Diciamo che l’istinto è il significante in cui l’equivoco è l’indice del funzionamento. Quindi, anche l’entusiasmo marca un paradosso rispetto alla stabilità. Né il desiderio è stabile, né l’istinto è stabile. L’entusiasmo è ciò a cui l’istinto trae, l’istinto come significante dell’equivoco.
Si dice “Fa quelle cose per istinto. È un istintivo”. Qual è il significante di questa istintività?
G.D.F. Non lo sa. Non lo sa mai.
R.C. Non lo sa di per sé, ma in ciascun caso si tratta di intendere.
G.D.F. Non lo sa perché agisce inconsciamente. Non c’è nessuno che lo sa.
R.C. Non è impossibile intendere, non è che le sia vietato, ma non va da sé. Non è l’istinto come istinto animale, per cui sarebbe dettato da leggi di natura, non è l’istinto come la fame, le spinte naturali. No, anche l’istinto è artificiale, risente della questione intellettuale.
Pubblico Quindi può giungere a un’acquisizione?
R.C. Certo. E poi c’è il bisogno. Quindi c’è l’istinto, il desiderio e il bisogno.
Il bisogno è il significante del malinteso, è il bisogno dell’Altro, il bisogno che è impossibile colmare con l’altruismo appunto, che è impossibile prevedere secondo una presunta teoria o ideologia dei bisogni. Ciascuno ha il suo bisogno, secondo l’occorrenza. E mentre istinto e desiderio sono contraddistinti dall’impossibile, l’impossibile della rimozione e l’impossibile della resistenza, il bisogno è contingente, cioè si situa nell’occorrenza.
C.M. Il contingente sarebbe la funzione vuota praticamente.
R.C. Sì. Tutto ciò per dire che quel che accade nella parola esige la perdita e la mancanza strutturali, avviene lungo la perdita, lungo la mancanza e lungo il dispendio.
La pulsione esige il dispendio, non il risparmio. Il dispendio dove c’è perdita, mancanza, ma non di qualcosa, di me o di sé, ma la perdita che istituisce il senso e la mancanza da cui procede il sapere. Cioè, perdita e mancanza sono due modi con cui la parola funziona. Se non ci fosse perdita, se il nome non fosse un nome in perdita, non avremmo il senso e la sensazione. Se noi vogliamo contenere il dispendio accade che avvertiamo l’angoscia come sensazione del dispendio che vogliamo contenere.
Tutto ciò era per introdurre alla questione dell’amore, senza cui era impossibile, effettivamente, cogliere di cosa si tratti.
Il narcisismo
Ruggero Chinaglia C’è chi ha da porre qualche domanda o questione in merito alle cose dette sin qui?
Nadia Vidale Io avrei da porre due questioni. Due o tre settimane fa, in una classe, una studentessa di seconda superiore dice che il libro Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, letto peraltro da tutta la classe, l’ha trovato brutto, bruttissimo, illeggibile, che ha fatto fatica a leggerlo. Richiesta di spiegare i motivi dice: “Perché parla male del padre”.
Allora in classe c’è stata una certa discussione, e in genere le è stato ribattuto nel merito, indicando i passi in cui si vede il padre sollecito. Ma io ritengo che la ragazza avesse proprio ragione, il padre in Lessico famigliare, secondo le convenzioni sociali, è messo in cattiva luce, è un grande scienziato, ma nei confronti della moglie e dei figli è quello che una volta si sarebbe detto un nevrotico, uno che nei suoi interventi considera sempre moglie e figli non all’altezza della situazione, li chiama asini, sempi, e è così per tutta la storia. Perfino nelle scene in cui c’è una certa sollecitudine, in realtà questa è basata sulla convinzione che la moglie e i figli non ce la faranno mai. Oramai hanno quaranta, cinquanta anni, sono sposati, hanno dei figli, ma questo padre li ritiene sempre non autonomi e non capaci di dirigere la propria vita. Allora, a me è venuto in mente un passo del libro bellissimo di Cristina Frua De Angeli Ma chi è questa bella principessa, dove racconta della madre che incontrava i tre figli di tanto in tanto, e poi dice: “Per mesi si dimenticava di noi”.
Ora, questa ragazza, tra le altre cose, diceva: “Io potrei scrivere una autobiografia, ma non potrei mai pubblicarla, potrei scriverla solo per me”. Questo mi incuriosiva e mi chiedevo: “Di che cosa si scrive?”.
Sono due libri molto diversi, anche se, per una certa leggerezza di scrittura, qualche contatto c’è. La Ginzburg parla di suo padre in termini non edificanti e così pure, quando parla della sua migliore amica, narra che quando le era possibile sganciava i figli da qualche parte, perché evidentemente le davano fastidio, non voleva occuparsene.
Ecco, come accade che nella scrittura si riesca a superare l’obiezione che la ragazza faceva “Sono fatti miei, di casa mia, sono cose che in pubblico non vanno dette perché si tratta di difendere una certa idea della famiglia”? Perché c’è qualcuno che dà testimonianza in tutt’altra direzione e che, evidentemente, non si arresta di fronte a questa obiezione, non la teme.
Lì per lì, ho detto che l’affetto, l’ho chiamato così, è quella cosa che regge alla storia, per cui io posso raccontare di un padre burbero come quello, o di un padre violento, oppure di una madre negligente, senza che questo rappresenti un azzeramento di quello che io ho chiamato l’affetto. Mi rimaneva la curiosità, mi sembrava che fosse stato colto qualcosa in quel giudizio, e avrei piacere di sentire qualcosa.
La seconda domanda è breve. Sto correggendo i compiti e mi accorgo che comincio dai voti bassi e arrivo a quelli alti, come tendenza.
R.C. Ciascuna volta?
N.V. Sì.
R.C. E poi li rivede o li lascia così?
N.V. Poi li lascio così perché c’è una verità in una correzione o nell’altra, c’è della verità in una valutazione e nell’altra.
R.C. Ma lei dice che questo andamento è indipendente dal valore dei compiti che corregge?
N.V. No, io credo che nel proseguire a correggere, intervengano altri elementi di giudizio rispetto a quelli che valevano all’inizio e quindi a un altro criterio di valutazione.
R.C. Esatto, non è lo stesso criterio. I compiti riguardano i ragazzi di che età?
N.V. Di quindici, sedici anni.
R.C. Quindi provi a fare l’operazione di rilettura, cioè, una volta corretti li rilegga per vedere se conferma la valutazione, oppure se per caso non ci sia della severità all’inizio, se lei incominciando non ritenga di correggere un suo compito.
R.C. Ci sono altre testimonianze?
Luigina Corsatto Riguardo all’autobiografia, Demetrio prende in esame molti aspetti dell’autobiografia come cura di sé, le motivazioni per cui, a un certo punto, uno può sentire il bisogno, come riflessione su se stesso, di dedicarsi all’autobiografia. È una cura di sé perché è una riflessione a posteriori, un’analisi interiore e un distacco da quello che si è vissuto, e nello stesso tempo è una rielaborazione in parte anche fantastica, ma fantastica non nel senso di fantasia, ma che entrano altri elementi non reali.
R.C. Quindi, l’autobiografia quasi come scrittura dell’esperienza. La scrittura dell’esperienza non appartiene a nessuno, non appartiene allo scrittore, non appartiene all’autore, ma appartiene alla letteratura e non tratta questioni personali; ciò che si scrive non è più cosa personale. Scrivendosi diviene altra cosa, diviene un caso letterario, un caso clinico, un caso di cifra, per cui non è più la scrittura del ricordo che, invece, la così detta autobiografia potrebbe rappresentare.
In questo senso, nella scrittura dell’esperienza non si tratta più dei fatti propri o delle fantasie proprie, ma della logica e della struttura che si scrivono in un’altra lingua, per questo risulta interessante, risulta “scrittura”.
Nella scrittura del ricordo, invece, è un po’ come parlare la propria lingua, è un po’ parlare come si mangia. Si dice “Posso parlarti francamente?”. Meglio di no, perché quando due persone credono di parlarsi francamente, si dicono le cose peggiori, senza nessuna elaborazione, così come vengono, in quella che Machiavelli chiamava la lingua dei litiganti, la lingua che viene ritenuta propria, personale.
La scrittura dell’esperienza è una scrittura che travolge la propria lingua, travolge la lingua personale, la scrittura personale e giunge alla qualità, alla qualifica delle cose che si scrivono, che non sono più cose qualunque, ma indicano una traiettoria, un percorso, un tragitto e portano al romanzo, che non è mai personale.
L.C. L’autore diceva che con l’autobiografia si arriva alla scoperta dell’adultità.
R.C. Bisognerebbe qualificare l’adultità. Certo, come divenire “adulto”, cioè come divenire qualità. Potrebbe intendersi così.
Cecilia Maurantonio A proposito dell’autobiografia è stato precisato che si tratterebbe del distacco. La questione è come possa avvenire il distacco. L’autobiografia può avere a che fare con l’autoritratto.
R.C. E cosa sarebbe l’autoritratto?
C.M. Un’impresa impossibile.
R.C. Perché?
C.M. Perché c’è appunto la riflessione. È impossibile guardare il guardatore, quello che procede da sé e giunge differente. L’autoritratto implicherebbe l’idea dell’inidentità.
R.C. Ah, del guardarsi guardato, bene interessante. È chiaro che non c’è autobiografia, così come non c’è autoritratto, c’è biografia e c’è ritratto.
L’idea dell’autobiografia è un’impresa impossibile dello scrivere i fatti propri, i ricordi propri. Certo, se l’impresa riuscisse sarebbe illeggibile, non ci sarebbe alcunché da leggere nell’autobiografia. Cioè, l’autobiografia trascorre nella scrittura dell’esperienza, è scrittura di un’altra cosa e in ciò sta il suo valore.
Nadia Vidale poneva l’accento sull’importanza dell’appuntamento e dell’incontro. Può accadere che genitori e figli stiano insieme tantissime ore tutti i giorni e non si incontrino mai, né abbiano mai appuntamento, per cui sono invisibili gli uni rispetto agli altri. Mentre può accadere che alcuni si incontrino per pochi momenti durante il giorno o durante la settimana, ma che quei momenti qualifichino una conversazione, uno scambio e abbiano effetti di comunicazione, di educazione.
Questa è proprio la questione “di base”, tra virgolette, del dispositivo dell’educazione il quale poggia sull’appuntamento e sull’incontro. Non è che le due cose coincidono, c’è l’appuntamento e c’è l’incontro. Cosa accade, per far sì che avvenga l’incontro, non va da sé. Ci può essere appuntamento senza nessun incontro. Perché all’appuntamento segua l’incontro, occorre che intervenga qualcosa di imprevisto, di inimmaginabile, di irrapresentabile, cioè che ci sia “il terzo”, che la cosa non si riduca a un duello, a uno scontro.
Come dicevamo, la questione è quella della terzietà, della struttura triale, dove ci sono tu, io ma c’è anche lui, dove c’è nome, significante e c’è anche Altro. L’incontro è caratterizzato dall’instaurazione dell’Altro.
C.M. Il fatto che ci sia appuntamento, anche se non c’è incontro, è già importante, perché per lo meno, indica che c’è chi si è accorto che c’è occorrenza e c’è domanda.
R.C. A maggior ragione se non c’è domanda! Cioè, l’appuntamento promuove la domanda, non è che occorre seguire la domanda, sarebbe il modo attendista. Occorre, soprattutto in una questione di educazione, che la domanda venga provocata, venga promossa, che si instauri. Allora un appuntamento è ciò che può far sì che si instauri la domanda, che si instauri un dispositivo.
C.M. Allora, anche la domanda si instaura, non è sufficiente solo formularla?
R.C. La domanda non è la richiesta, abbiamo insistito molto su questo aspetto la settimana scorsa mi pare. La domanda l’abbiamo definita come spinta, come pulsione, come ciò che va in direzione della qualità.
La richiesta è un pretesto per la domanda, è qualcosa che si enuncia ma che non necessariamente è la domanda. Per cui si tratta di intendere quel che si dice della richiesta, perché soddisfare la richiesta può equivalere a togliere la domanda, impedire alla domanda di svolgersi, di articolarsi in direzione della sua soddisfazione. La soddisfazione di una richiesta non corrisponde necessariamente alla soddisfazione della domanda, in quanto la soddisfazione della domanda sta nella qualità, nella qualifica, nella cifra.
C.M. La questione che mi ponevo è se vi sia modo di promuovere un appuntamento evitando però l’incontro. Questo modo indica cosa?
R.C. Quale sarebbe il caso?
C.M. Il caso in cui avviene di constatare un’esigenza, un’occorrenza, una domanda di precisazione, di elaborazione, nel quale però, nel momento dell’appuntamento, venga evitato l’incontro, vuoi perché non c’è ascolto, vuoi perché c’è angoscia, terrore, rispetto a certe questioni.
La domanda che mi pongo, e ciò che vorrei intendere, è come si articola questo modo, che a un certo punto diventa sistema se non trova una variazione.
R.C. Certo, è importante che cosa fa appuntamento, da dove giunge un appuntamento.
C.M. Certe volte c’è chi vuole un appuntamento ma non accoglie l’appuntamento.
R.C. È un caso provato? Non è chiaro a cosa si riferisca. A scuola dice?
C.M. Non necessariamente a scuola.
R.C. A casa? Per strada?
C.M. Ma che importanza ha?
R.C. Per intendere di cosa stiamo parlando.
C.M. Si tratta di un caso, ritengo sia un caso. È un caso? Non so neanche se si tratta di un caso, se si pone la questione di un caso.
R.C. Sono questioni importanti che riguardano propriamente la materia del corso: amore, innamoramento, narcisismo. Sono cose che ruotano attorno a questi elementi.
C.M. Lei mi ha chiesto prima se mi riferivo alla scuola. Anche lì si pone la questione dell’autorità, dell’appuntamento e dell’incontro, ma la scuola è solo un pretesto, in quanto ciò può avvenire in ciascun momento della vita, anzi è la questione della vita.
R.C. Peraltro, in che modo ciascuno può cogliere la questione del tempo e dell’oggetto, se non attraverso la serie e il ritmo delle cose che si fanno di incontro in incontro? Se noi togliamo l’appuntamento e l’incontro, noi togliamo alle cose l’oggetto e il tempo, cioè togliamo l’innamoramento e togliamo l’amore, e abbiamo l’eternità.
L’eternità è una situazione paradossale, in cui non esiste né l’appuntamento, né la scadenza. Se riuscissimo a immaginare di vivere senza appuntamento e senza scadenza, saremmo nell’eternità, cioè senza tempo e senza oggetto. La questione del tempo sembra più facile da capire, rispetto a quella dell’oggetto, però ritengo sia il caso di addentrarci nella questione.
Quella che comunemente viene chiamata l’attesa, non è una questione temporale, è una questione oggettuale. Molto spesso si dice “L’ora dell’appuntamento”, “L’appuntamento alla tal data e ora”, oppure “Sono in ritardo all’appuntamento”, e questo fa sì che venga ritenuta una questione di tempo. No, il ritardo, così come l’anticipazione, non è una questione temporale, ma oggettuale. Riguarda l’appuntamento, dunque riguarda il modo con cui interviene il punto, il puntamento, ossia l’istanza promossa dall’oggetto in quanto punto, che può essere punto di distrazione, punto di sottrazione, punto di astrazione, cioè può essere causa di desiderio, causa di godimento, causa di verità.
Si tratta del punto, si tratta cioè dell’oggetto, di ciò che causa il godimento, il dispendio, il desiderio, il sapere oppure la verità. L’appuntamento è ciascuna volta con l’oggetto, con la causa, di cui questa o quella cosa fungono da schermo. Per cui io so con chi e dove ho appuntamento, apparentemente; so qualche cosa dello schermo del punto, ma non quale sia il punto. Il punto è irrapresentabile, è qualcosa che sfugge alla presa, è invisibile. Il punto è ciò che in cifrematica viene chiamato il sembiante, ossia qualcosa che è singolare.
Sembiante, simulante, semen, uno nel senso del singolo, della singolarità, qualcosa di assolutamente singolare, ma anche triale: singolare e triale, e la trialità è simultanea.
Singolare in tre aspetti che riguardano la causa di godimento, la causa di sapere, la causa di verità. La resistenza del sembiante comporta la simultaneità e non la coincidenza. Non c’è coincidenza delle cose, le cose non coincidono ma sono simultanee. Non c’è cosa che possa avvenire nello stesso tempo, nello stesso modo, nello stesso punto di un’altra cosa, ma le cose esistono, avvengono nella simultaneità.
Simultaneità significa che ciascuna cosa esige la sua causa, la sua provocazione, la sua promozione, la sua identificazione. Importa l’identificazione con la causa; qui sta l’appuntamento. L’appuntamento esiste per l’identificazione con il punto.
Mentre il discorso occidentale insiste molto sulla identità del soggetto, la questione effettivamente importante è l’identificazione con l’oggetto. Senza l’identificazione non avviene nulla, sarebbe una forma di inerzia, ma nulla avviene per inerzia, e ciascuna cosa avviene secondo la sua logica.
Il primo passo della logica è l’identificazione con il sembiante, con il punto, con il punto di provocazione, con il punto da cui ci sentiamo tratti, provocati. Un punto vidi che radiava luce, dice Dante. Un punto lo trae, lo spinge nel cammino. È il punto che è imprescindibile nella parola, nella logica particolare di ciascuno.
L’identificazione con il punto è ciò che caratterizza l’innamoramento. Quindi, non è solamente un caso particolare che coinvolge due persone, ma è la condizione essenziale per ciascuno, per dire, per fare, per parlare, per situarsi in un itinerario, in un cammino, in un percorso, nell’esperienza. Cioè, se lei dà un appuntamento a x, l’appuntamento non è con lei, lei è lo schermo dell’oggetto, non è lei in quanto tale a costituire l’oggetto dell’appuntamento.
Questa è radicalmente la questione, in particolare nel dispositivo analitico che ha trovato elaborazione in Freud e dopo Freud. E questa è la struttura di ciascun dispositivo di parola, di ciascun atto di parola. Ciò che è essenziale è l’oggetto, un oggetto invisibile, inconoscibile, imprendibile che tuttavia esiste e funziona come provocazione, come promozione, come proposta.
Ciascun progetto prende avvio dall’esistenza di questo punto e va in direzione del compimento, della cifra, della conclusione. In questo tragitto sta il piacere, sta la soddisfazione che culmina nella cifra, nell’approdo alla qualità. Piacere che si distingue in gioia, gloria, felicità, fama, come dicevamo due incontri fa.
N.V. Freud, a proposito dell’identificazione, parla di moltiplicazione delle personalità psichiche, e dice che ci sono delle persone che assumono un comportamento per cui vengono identificate con un’altra persona. Vorrei sapere come la proposta di identificazione che fa lei sta in rapporto con quella di Freud, poiché mi sembrano cose completamente diverse.
R.C. Occorre che Freud sia letto, cioè si tratta di leggere Freud anche fra le righe, anche dove talvolta la lettura sembra facile perché noi la facciamo con il senso già dato delle nostre conoscenze. Occorre interrogare il testo più che la conoscenza.
Nella Metapsicologia c’è un passo assolutamente importante intorno alla questione dell’oggetto e della pulsione. Freud scrive che la struttura della pulsione richiede quattro cose: la fonte, la spinta, la meta e l’oggetto. L’oggetto, dice, è la cosa più variabile della pulsione, cioè la cosa di cui sappiamo meno, però è la cosa essenziale perché la pulsione è causata dall’oggetto. Dando questa struttura della pulsione, dice una cosa che ancora oggi non è stata accolta e, cioè che oggetto e meta della pulsione non coincidono: c’è l’oggetto e c’è la meta!
Oggi, la distinzione tra oggetto e meta non è accolta dal discorso gnostico, cioè dalle varie discipline e dalle rappresentazioni che dalle discipline derivano. Per esempio, basta parlare d’amore e dell’oggetto d’amore per accorgersi che ciò che viene inteso è che la pulsione va in direzione dell’oggetto, va verso il suo oggetto da amare. Così intende la psicologia: la pulsione andrebbe in cerca del suo oggetto. Errore. È proprio il contrario invece! La pulsione procede dall’oggetto e va in direzione della meta!
Questa pare una banalità, ma è essenziale perché, senza questo fraintendimento, non esisterebbe la fobia per esempio, la quale sorge ritenendo che la pulsione sfoci nell’oggetto e quindi finisca. Ecco la fobia: impedire alla pulsione di raggiungere l’oggetto, mantenere l’oggetto a distanza, ritenendo di potere padroneggiare l’oggetto, di conoscerlo, di sapere quale sia e, di conseguenza, di potere mantenere le distanze. La fobia non è altro che un modo della padronanza, un esercizio della padronanza allo scopo di evitare un male peggiore. La fobia è la rappresentazione dell’oggetto come oggetto amabile, come oggetto da amare, come oggetto da potere prendere, come oggetto da cui deriverebbe il piacere, la soddisfazione. Questa è la nevrosi.
La nevrosi è credere che la soddisfazione venga dall’oggetto, che l’oggetto sia buono o, se nega la soddisfazione, sia cattivo. Oggetto buono o oggetto cattivo introdotti dal kleinismo, come se l’oggetto fosse diadico. No, la diade è un’altra cosa, l’oggetto non ha nulla a che vedere con la diade, per cui non è né buono, né cattivo, ma è singolare e triale. L’oggetto non dà nessuna soddisfazione, è causa, è ciò per cui ciascuno avverte una spinta in direzione della soddisfazione, una spinta in direzione della ricerca, dell’itinerario, della qualità. La soddisfazione viene dalla cifra, dalla meta. La nevrosi si rappresenta l’oggetto per riuscire a prenderlo o per attuare una serie di accorgimenti, per evitare di raggiungerlo, come se fosse raggiungibile.
Questo è ciò che Freud elabora e di cui scrive attorno alla nevrosi da transfert e all’amore di transfert. Dunque, dato che l’amore non raggiunge mai il suo oggetto, non c’è amore se non di transfert, dove si tratta del dispositivo che trascorre di appuntamento in incontro, dove si tratta del dare e dell’avere, del lasciare e dell’essere, ossia del modo dello scambio, del modo in cui lo scambio funziona. Questa è la struttura dell’amore come amore di transfert, e non ce ne sono altri, cioè è amore lungo il funzionamento delle cose, lungo il modo con cui le cose si rivolgono alla loro qualità. Quindi, non c’è l’oggetto d’amore, se non come oggetto che causa, ma che non soddisfa l’amore.
L’innamorato non è l’oggetto dell’amore, l’amante non è l’oggetto dell’amore, l’amante eventualmente è protagonista dell’incontro, dove si tratta dell’Altro, non dell’oggetto, dell’Altro, cioè di ciò che avviene. Nell’incontro qualcosa avviene, questo importa nell’incontro, non è incontro con qualcuno, ma è incontro dove qualcosa si effettua. La portata dell’incontro sta lì, il valore dell’incontro sta in ciò che si effettua, in ciò che vi accade, avviene e diviene.
Per questo un incontro può risultare memorabile, può scriversi come contributo all’esperienza, come acquisizione, perché qualcosa accade come effetto di sapere, di senso, di verità, come effetto pragmatico. L’incontro, quindi, non è con qualcuno, ma con l’effetto temporale, con l’evento. Ciò che qualifica l’incontro è l’evento, il compimento dell’accadimento. Senza evento è la noia. La noia è un accento posto sul desiderio presunto dell’Altro, dove non accade nulla, dove non c’è incontro.
Importa, assolutamente, che per ciascuno vi sia un dispositivo dove, invece, c’è incontro, dove le cose accadono e si scrivono come scrittura dell’esperienza, come acquisizione che comporta la qualità, che comporta che prima e dopo l’incontro non siamo più gli stessi. Ecco perché l’identità, come dicevo la settimana scorsa, è una prigione, perché nega l’evento. La prescrizione di dovere rispondere a una identità è una sorta di divieto all’incontro, cioè di divieto a incontrare effetti temporali di trasformazione.
Ciò che risulta vitale è la trasformazione, non l’identità, non la stessità, perché è lì che il piacere si scrive come scrittura dell’esperienza, come lingua dell’esperienza, come qualità dell’esperienza, dove si coglie il caso di qualità, il caso di cifra, la logica e la struttura di ciò che è in atto. Lì c’è educazione, lungo la serie, diciamo così, delle trasformazioni avviene l’educazione, la quale si scrive come trasformazione.
Ecco che non basta dire come bisogna fare, come bisogna essere, come bisogna diventare attraverso la via positiva, o come non bisogna fare, essere, dire attraverso la via negativa, ma si tratta dell’esperienza. In ciascun momento, in ciascun settore, in ciascun caso si tratta dell’esperienza: come fare qui, ora, come affrontare in questo caso la così detta situazione.
Se incontro una difficoltà e penso che la difficoltà mi soverchia, è troppo grande, questa è la resa preliminare, è la cura di sé, è il pensarsi con limitazioni di varia natura. Rispettare questo pensiero, questa idea di sé o dell’Altro equivale a una messa a morte, equivale a impedire e a eludere la trasformazione e l’incontro. L’incontro, ciascuna volta, avviene per l’attraversamento della difficoltà. Con l’elusione della difficoltà non c’è incontro.
I soggetti non si incontrano mai, né incontrano alcunché, perché il soggetto, nella sua premessa, è l’antidoto all’incontro. Cioè, l’incontro non è tra Tizio e Caio, ma è l’incontro con l’Altro, con l’evento, e esige l’Altro che non è un altro qualsiasi, ma è l’Altro, che noi scriviamo con A maiuscola, che riguarda l’irrappresentabilità, l’alterità, la novità.
Senza l’instaurazione dell’Altro non c’è la novità, ma tutto viene ricondotto al ricordo, al noto, alla conoscenza. L’Altro è ciò che ci sta dinanzi. Se noi togliamo l’Altro abbiamo dinanzi il nulla, e abbiamo lo spavento, il panico, cioè l’emergenza dell’assenza dell’Altro. La stessa angoscia procede dalla strettoia che si produce nel momento in cui non c’è Altro. Ogni rassicurazione in direzione del sapere già come andranno le cose, è un contributo all’angoscia, alla paura, al terrore.
Ci sono vari modi con cui l’Altro viene rappresentato e, molto spesso, si incomincia a “aiutare” i bambini piccoli a rappresentarselo “Non fare questo altrimenti viene l’uomo nero, incontri l’uomo nero, incontri qualcuno che ti mangia”, come se noi sapessimo già quello che ci sarà. E, quindi, cosa sarà l’incontro? Con “l’uomo nero”! Con il “lupo cattivo”! E con i vari modi di porre una rappresentazione di ciò che è irrappresentabile. Così quando, rispetto all’annuncio di qualcosa che fa paura, si dice “Ah sì, è perché hai detto la tal cosa, perché hai fatto così, sei andato lì”, cioè, non viene ascoltato nulla e viene subita proposta una rappresentazione che giustifichi, che confermi la rappresentazione negativa; viene confermata la paura.
Non so se sono riuscito a comunicare l’importanza della questione dell’appuntamento e dell’incontro, quale sia la struttura dell’appuntamento e dell’incontro.
Vincenzina Carbone Da quello che è stato detto, mi sembra di avere capito che l’incontro crea novità, oppure è novità, giusto? Se l’incontro è novità in quanto alterità, la novità a un certo punto è panico, paura, oppure ho capito male?
R.C. È il contrario. Perché panico?
V.C. Ah giusto, è vero, stavo collegando male io. Ha detto che il panico è l’emergenza dovuta all’assenza dell’Altro. Quindi, l’incontro, in quanto crea alterità, toglie la paura, toglie il panico, giusto?
R.C. Diciamo che non alimenta l’ideologia della paura, nel senso che non è che la paura sia da togliere, perché non è che prima ci sia. Cioè, la paura non è originaria. La paura è la conseguenza di una fantasmatica, di una credenza, di una ideologia.
Nel momento in cui si afferma una certa impostazione, per cui l’incontro viene prescritto come pericoloso, da evitare, vietato, come qualcosa rispetto a cui bisogna usare delle precauzioni, delle riserve, dei preservativi, siamo sempre nell’ambito delle cautele da usare nei confronti dell’evento, come se occorresse guardarsi dall’incontro.
Pubblico Come liberarsi dalle fantasmatiche e lasciarsi andare all’incontro, e educare e educarsi all’incontro? Non so, ma io mi sento dentro alle paure, al panico, allora come imparare, lasciarsi andare?
R.C. C’è un solo modo, che è analizzare, articolare, svolgere la gnosi, cioè l’idea che le cose finiscano, l’idea che la soddisfazione si abbia quando la pulsione incontra l’oggetto, ossia tutto ciò su cui si regge la moderna psicopatologia. L’ideologia della paura, del contenimento, della precauzione ha un solo nome: la conoscenza! La conoscenza, ossia anche la coscienza.
B.V. Mi sembra che questo implicherebbe che ormai a ogni stimolo c’è una risposta. Ormai siamo in una condizione…
R.C. Siamo chi?
B.V. Noi.
R.C. Ma qui non c’è nessuno che sia d’accordo con lei!
B.V. Ma io devo ancora incominciare a parlare! Allora, io sento che sono sempre d’accordo con lei, seguendo il suo ragionamento lo sento esatto, di qualità, poi, nelle situazioni pratiche, immediate, non viene fuori questo ragionamento. Viene fuori la mia storia, la storia con i miei genitori, la mia fantasmatica. Se la strada è quella di filtrare sempre qualsiasi moto che venga da dentro, attraverso questa forma di razionalità, io avverto dei dubbi che esprimo per essere rassicurata.
Pubblico C’è una bella frase di Platone che dice: “Il destino dell’uomo è essere come può, non come vorrebbe”.
R.C. Sì, nel senso che fa entrare dalla finestra quello che manda fuori dalla porta. Cioè, potere, volere, sapere, essere, sono delle modalità che possono funzionare come sbarramenti, demarcazioni, restringimenti. Certo, è una bella frase, nel senso che mette in questione il volere essere, ma lo è ancora di più, perché mette in questione anche il potere essere, che è parente stretto.
Il contributo che noi possiamo restituire a Platone, da questo aforisma, è che volere essere e potere essere non danno nessuna soddisfazione. Certo, nemmeno il dovere essere o il sapere essere, proprio perché la questione non è quella dell’essere, cioè del modello da rappresentare, o da essere in conformità a qualcosa. Com’è esattamente la citazione?
Pubblico Mi collegavo al discorso che faceva Barbara Valerio quando diceva di essere d’accordo su tutti i passaggi che, però, poi si scontrava con una realtà, con i ricordi, con i limiti. Allora, mi è venuta in mente questa frase di Platone: “Il destino dell’uomo è essere come può e non come vorrebbe”. Non nel senso della predestinazione, non in questo senso.
R.C. Esatto, c’è un’apertura. Dice, infatti, che non si tratta di essere predestinati, né in una predestinazione positiva, né in una predestinazione negativa. In questo senso la citazione è interessante.
B.V. Vorrei precisare una cosa. Il mio dubbio riguarda il fatto che io posso essere due cose: posso seguire un po’ il mio istinto e essere fedele a me stessa, oppure posso usare costantemente tra me e l’evento, tra me e l’Altro, un filtro che mi impedisce. Queste sono le due possibilità.
R.C. Il filtro è una questione antica, il filtro magico, il filtro amoroso.
B.V. Sì, ma non quello, è un filtro come diaframma, non come ampliamento ma come ostacolo.
R.C. Beh, che noi lo rappresentiamo come diaframma o come sostanza che possa consentire un determinato avvenimento, si tratta sempre di una mediazione.
B.V. Il filtro cui mi riferisco significherebbe un allontanamento da se stessi, in pratica. Allora, nella clinica, l’allontanamento da se stessi ha un costo, secondo me. Il mettersi sempre davanti questa forma di razionalità è un costo, conveniente?
R.C. Perché lei lo mette in una partita doppia, costi-ricavi, dare-avere!
B.V. No, non è che lo metto in costi-ricavi. Ma vedo che in ogni scelta ci si porta dietro un bagaglio, so che con la scelta mi porto dietro il bagaglio e cerco di valutarlo.
R.C. Perché, cos’è che può capitare?
B.V. Quello che io temo? Il fantasma del momento è la perdita della spontaneità.
R.C. Esatto, quello è il punto, e va a finire che resta con il bagaglio! Ciò che lei teme di perdere è ciò che lei ritiene di avere come bagaglio e dice, però, che teme di perdere la spontaneità. Il fatto è che la spontaneità è impossibile perderla, perché si può solo acquisire!
B.V. E una volta acquisita?
R.C. Se ne acquisisce dell’altra, perché non è mai acquisita una volta per tutte. La spontaneità è virtù intellettuale per eccellenza, segue all’acquisizione e si avvale della ratio, della razionalità. La spontaneità segue la razionalità, non sta al posto della razionalità, né sta prima della razionalità. La spontaneità si instaura con l’esperienza della parola originaria.
La gnosi bandisce la spontaneità nel momento in cui ne fa l’elogio come naturalità, come qualcosa che dovrebbe stare al di qua della ragione. Invece, la spontaneità è effetto del dispositivo intellettuale, effetto della ricerca, dell’indagine, della qualifica. Allora si instaura la spontaneità, nel senso che ciascuna cosa trova il suo modo per compiersi.
È importante quello che lei dice sulla spontaneità, che però è impossibile perdere, si tratta di acquisire.
Gianfranco Dalle Fratte Esiste l’essere? Perché, per esempio, se non esistesse l’essere, non esisterebbe neanche l’essere soggetti. Come si fa per risolvere la questione? Lei dice che bisogna esplorare la gnosi, la conoscenza. Oltre a esplorarla teoricamente, c’è anche una pragmatica?
R.C. Sì, esiste e si chiama cifrematica, scienza e esperienza della parola originaria, questa esiste.
Giustamente, lei pone l’accento sulla distinzione tra teoria e pragmatica. Certo, non si tratta di imparare la teoria per applicarla, occorre fare l’esperienza della parola originaria. Senza l’esperienza, come può scriversi l’acquisizione? L’acquisizione è acquisizione nell’esperienza della parola originaria, cioè della parola che si rivolge alla qualità. E ciò non in astratto, ma nell’itinerario di ciascuno.
Si tratta di mettere in atto dispositivi dove possa avvenire l’esperienza della parola originaria, dispositivi dove sia analizzata, elaborata la gnosi, ossia la conoscenza soggettiva, l’idea della conoscenza, perché l’idea della conoscenza è l’idea della morte, della morte in quanto tale. La conoscenza è conoscenza della morte, cioè esige la fine del tempo, che è come dire che la fine del tempo è un postulato della conoscenza. Nell’infinito, nel dispositivo delle cose infinite, non c’è conoscenza, c’è indagine, ricerca, c’è acquisizione infinita, ma non conoscenza.
La volta scorsa avevo fatto un accenno alla questione della conoscenza come questione della cacciata. La gnosi è la credenza nella cacciata dal paradiso terrestre, è la credenza nella fine delle cose. Come ciascuno si trova soggetto a questa credenza, ciò è materia di indagine, di scrittura, della clinica.
Fernanda Novaretti Nell’imprevisto c’è un contributo all’angoscia o alla noia?
R.C. All’angoscia. Lei propone che sia anche un contributo alla noia? La noia sul versante del desiderio e l’angoscia su quello del godimento, sono parenti stretti.
F.N. Bisogna vedere dove si colloca l’imprevisto.
R.C. L’imprevisto, per essere tale, è inimmaginabile, imprevedibile, irrappresentabile. Ciò che viene chiamato imprevisto, il più delle volte è il previsto, il previsto negativo, il previsto o il prevedibile negativo, ciò che viene rappresentato come imprevisto nella sua variabile negativa, ma non è l’imprevisto. Quel che viene chiamato imprevisto, nel senso che viene già rappresentato, è tutt’altro che l’imprevisto. È una rappresentazione dell’Altro come uomo nero, come evento negativo, come incidente negativo. Ma l’imprevisto negativo è una rappresentazione dell’imprevisto, non è l’imprevisto, il quale, quando accade, è fonte di soddisfazione.
Perché l’imprevisto accada occorre vi sia programma, calcolo, progetto. Dopo avere calcolato e programmato, quello che accade che non si poteva prevedere è l’imprevisto. “Ho calcolato tutto, ho previsto tutto, deve avvenire così e così”, e allora può accadere l’imprevisto importante, ciò che qualifica, che dà l’aspetto artistico, culturale a quello che sta per accadere. Artistico e culturale, cioè la variazione e la differenza. Certo, occorre ci sia “calcolo”, tra virgolette, previsione. Ma non la previsione negativa, per cui uno dice “Ho previsto che andrà male, per cui non faccio nulla”! Quello non è il calcolo, ma è cedere a una rappresentazione negativa.
La previsione e il calcolo non sono né buoni né cattivi, né positivi, né negativi. Il calcolo è in direzione di ciò che accadrà proprio perché, quel che accadrà, non sia ciò che io so già che accadrà. In questo caso saremmo nella gnosi.
Capisco che è una cosa difficile, però è importante porre l’accento sui modi molteplici e vari con cui la rappresentazione interviene in vario modo, in vario grado e in varie misure a determinare, il più delle volte, una paralisi dove si tratta invece dell’incontro con l’irrappresentabile, con l’insignificabile, con qualcosa di differente e Altro.
C.M. Chiedo se la pianificazione può essere il modo di fare un calcolo che evita il rilievo e l’imprevisto, un modo di calcolare, un fare che ci garantisca che non c’è l’imprevisto.
R.C. Sì, pianificazione non è un termine molto interessante. Peraltro, noi non demonizziamo nessun termine, quindi nemmeno questo, nel senso che nemmeno la pianificazione può padroneggiare la parola.
Questo termine evoca un’idea della cosa piana, senza increspatura, senza piega, senza clinica, come se ci fosse qualcosa che possa poi procedere per automaticismo, liscia come l’olio. Invece, la questione è quella della clinica, cioè della piega che s’incontra. Non c’è cosa che non possa incontrare la piega e la clinica sta proprio nel non togliere la piega; non è un processo di stiratura delle pieghe, ma è un processo di accoglimento e di elaborazione della piega. Per cui, con la clinica ciascuna cosa trova il suo compimento, senza la clinica no. Senza la clinica, se ci troviamo di fronte a un caso particolare, dobbiamo decidere se è bene o se è male. Invece, non è né bene e né male, ma si tratta di lasciare che si volga alla sua conclusione. Come? Ciascuna volta il come è da trovare con la clinica.
Qual è la differenza tra clinica e psicopatologia? La psicopatologia è l’elenco di ciò che non va bene e che viene chiamato disagio, disturbo, malattia. La clinica è il modo, l’istanza con cui quella particolarità trova la via per procedere. Quindi, è essenziale la clinica, perché è con la clinica che le cose si scrivono. La scrittura segue la clinica.
Tutto ciò era per leggervi un passo dalla Metamorfosi di Ovidio. Quanto detto sin qui, introduce la questione del narcisismo che, purtroppo, spesso ha una connotazione negativa. Il narcisismo nella gnosi, nella ideologia gnostica ha una connotazione negativa, addirittura ci sono le psicosi narcisistiche, le nevrosi e i disturbi narcisistici, vari disturbi narcisistici.
Come mai attorno a questo termine è fiorita tutta una vegetazione negativa, mortifera? È vero che tra narciso e narcosi non c’è molta distanza ma, appunto, la narcosi è una rappresentazione di narciso, del narcisismo, non è il narcisismo. Narcosi sta per torpore, ma il narcisismo non è il torpore. Non ve lo leggo tutto, magari ciascuno, a casa, può leggersi il libro terzo delle Metamorfosi, dal verso 320 in avanti fino al 500 circa. Vi leggo due o tre cose.
Ma mentre spegnere vuole la sete, altra sete gli cresce, perché nel bere, sorpreso dal volto riflesso nell’onda, arde d’un’ombra, dell’ombra di sé che scambiò per un corpo. Di sé stupisce ed immobile pende dal viso ch’è suo, come di pario marmo una statua. Postosi in terra gli occhi contempla che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e d’Apollo e l’impuberi guance e le rosse labbra ed il collo d’avorio e il candore vermiglio del volto: tutti quei pregi rimira pei quali è mirabile desso. Senza saperlo desidera sé: mentre loda, è lodato; chiede ed è chiesto; e nel tempo medesimo brucia e accende. Oh quanti inutili baci non diede alla fonte bugiarda! Oh quante volte nell’acqua per prendere il collo fallace porse le braccia, ma non poté stringere sé dentro l’onde! Quello che vede non sa che cos’è, ma di quello che vede arde, e l’inganna l’errore medesimo che affascina gli occhi. Perché mai, credulo, tenti di prendere un’ombra fugace inutilmente? Quel che tu desideri, punto non vive! Vòltati indietro e sarà dileguata l’immagine cara. Altro non è quel che miri che l’ombra riflessa dal corpo, che non ha niente di proprio, che venne con te, con te resta, ma che con te se n’andrà, se tu pure potessi partire! E poi prosegue, dice Narciso Io sono te, me n’accorgo: l’immagine mia non m’inganna. Io di me brucio d’amore ed accendo la fiamma che m’arde. E che farò? Debbo chiedere od essere richiesto? E che cosa poi chiederò? Quel che voglio è con me: la soverchia ricchezza m’impoverisce. Potessi staccarmi dal corpo! Or un voto nuovo farò per gli amanti: vorrei che mi stesse lontano quel che vagheggio! Ma già mi rapisce il dolore le forze e non mi resta da vivere molto: mi spengo fanciullo! Disse, e tornò forsennato alla solita faccia riflessa e, intorbidando col pianto dirotto lo specchio dell’acqua, pel movimento dell’onde divenne l’immagine scura. Come s’accorse che il volto svaniva, gridò: Dove fuggi? Resta crudele, non abbandonare chi t’ama. Deh lascia, lascia che guardi l’aspetto, poiché non ti posso toccare! Porgimi tu l’alimento per questa infelice follia!
Mi sembra che non ci sia traccia di perversione o di psicosi in questi versi, anzi, una serie di questioni di grande, grandissimo interesse che chiedono di venire lette.
Pubblico Pensando a quello che ha detto prima, mi viene da dire che, nell’appuntamento di Narciso, c’è una identificazione con il sembiante.
R.C. Sì, e poi c’è la questione dell’immagine semovente, l’immagine altra. C’è un passo veramente interessante E, intorbidando col pianto dirotto lo specchio dell’acqua, pel movimento dell’onde divenne l’immagine scura. Quindi l’acqua, come ciò per cui l’immagine è altra, non è l’immagine di sé, è l’immagine altra, è l’immagine semovente, l’immagine scura, cioè inidentica. Poi c’è la questione del corpo, della domanda. Nel tempo medesimo brucia e accende, chiede ed è chiesto. Quello che vede non sa che cos’è, l’immagine non è la visione, non è il visibile, non vede l’oggetto, l’immagine stessa è altra da ciò che si vede. Altro che la gnosi con la conoscenza!
Ovidio! Non uno psicologo, Ovidio, un poeta. Quello che vede non sa che cos’è, ma di quello che vede, arde, brucia. Il fuoco come fuoco fatuo, come fuoco dell’identificazione, il fuoco fatuo da cui procede l’immagine come immagine semovente. Quello che tu desideri, punto non dire, perché mai credulo, gnostico, tenti di prendere un’ombra fugace inutilmente? Il mito di Narciso, come mito del narcisismo, dice che Narciso non si innamora della propria immagine e non muore. Leggetelo fino in fondo, dice proprio che non muore, perché l’immagine divenne scura, altra, un’altra immagine, un’altra cosa.
Certo, la mitologia dice che cade nell’acqua, muore e nasce un fiore. Come nel caso di Edipo, non c’è il cadavere che prova la morte, non c’è il cadavere, c’è un fiore. Cade nell’acqua. L’acqua è la materia dove l’immagine risulta altra.
Il narcisismo ha qui materia per ben altra lettura, come pure il testo di Freud Introduzione al narcisismo, che pur risentendo di una mitologia dell’epoca, pone questioni che imbarazzarono moltissimo gli psicanalisti dell’epoca. Infatti, proprio a partire dalla struttura del narcisismo, Freud si trova a dare un’altra struttura della psiche, un’altra struttura della pulsione, introduce la questione dell’oggetto e dell’identificazione dove, prima, c’era solamente il cerchio rappresentato dall’amore di sé e dal così detto egoismo. Occorre intendere quello che Freud chiama l’Io, che non è l’Io della coscienza, l’Io del soggetto.
È un testo difficile, ma molto interessante, come peraltro quello di Ovidio, che a leggerlo propone un’altra logica dell’immagine, un altro statuto dell’immagine, un altro statuto dell’acqua e dell’amore rispetto alla gnosi. Quindi, occorre leggerlo non secondo la gnosi, ma secondo la logica della parola.
C.M. Come qualifica l’acqua? Come si pone nel racconto di Ovidio la superficie dell’acqua?
R.C. Come ciò che rende semovente l’immagine, come alterità dell’immagine. È un pretesto per dire che l’immagine è semovente e altra. Non è l’acqua in quanto tale, anche se l’acqua evoca l’increspatura, si tratta dell’inidentità a sé dell’immagine, della non corrispondenza tra l’immagine e la visione, è ciò che si vede, il visibile.
L’amore del padre e l’odio della madre
Ruggero Chinaglia Questa sera è con noi il dottor Sergio Dalla Val, psicanalista a Bologna, e sarà lui che introdurrà al tema di oggi: L’amore del padre e l’odio della madre.
Intanto, colgo l’occasione per segnalarvi il corso: La scuola e il progetto di vita, che si terrà presso l’Istituto Selvatico, in Largo Meneghetti a Padova, il 15 e il 16 marzo, sabato pomeriggio, domenica mattina e domenica pomeriggio.
Abbiamo considerato sin qui, in particolare la settimana scorsa, alcune questioni inerenti all’amore e all’innamoramento. Abbiamo accennato anche, proprio un accenno, alla questione del narcisismo. Oggi proseguiamo esplorando alcuni aspetti clinici intorno alla questione dell’amore e dell’odio, di come l’amore interviene nei vari discorsi, della fantasmatica che l’oggetto possa diventare prendibile e che sia l’oggetto a soddisfare la pulsione. Tutto ciò per indicare qual è il solco in cui si situa l’intervento di oggi.
Sergio Dalla Val è psicanalista a Bologna da molti anni, ha fondato e dirige un’associazione culturale, dirige la “Libreria-galleria del secondo rinascimento”, dove sono ospitati, di volta in volta, avvenimenti anche a carattere internazionale, è un esperto di corsi rivolti alla formazione e all’aggiornamento in vari ambiti e in vari settori. Gli cedo volentieri la parola.
Sergio Dalla Val Sono contento di trovarmi qui presso di voi, con voi, perché mi sembra che, oggi, porre alcune questioni agli insegnanti sia un modo essenziale per contribuire non solo all’aspetto della formazione e dell’insegnamento, ma direi alla civiltà stessa, visto che ho sempre scommesso nella mia pratica e nella mia esperienza sulla questione della formazione e dell’insegnamento come questione essenziale per il destino stesso della parola.
Si tratta evidentemente di corsi non accademici, ma di riflessioni e considerazioni che provengono dalla pratica clinica e dalla lettura del testo della psicanalisi, testo che è nato esattamente cento anni fa.
La parola psicanalisi, voi sapete, è stata usata per la prima volta da Freud nel 1896 e, certamente, da allora le cose non sono più come erano precedentemente. Anche molti aspetti della realtà apparentemente ovvi, apparentemente scontati, che si situavano nel filone del pensiero filosofico o pedagogico, hanno dovuto trovare un’altra articolazione, un’altra elaborazione.
Prendiamo per esempio il titolo dell’incontro di oggi: L’amore del padre e l’odio della madre. Può risultare un titolo sorprendente perché, secondo il modo di pensare occidentale o comune, noi diciamo secondo la fantasmatica occidentale, si tratterebbe del contrario. L’odio viene spesso accostato al padre e l’amore risulterebbe una prerogativa materna.
Il discorso occidentale ci propone una relazione con il padre conflittuale, violenta, aggressiva. Fa del padre il portatore di questi “valori” e, invece, ci propone un’idea della relazione con la madre in termini amorosi, affettivi, e vede nella relazione madre-bambino il prototipo della relazione d’amore, della relazione d’oggetto, di cui forse avete parlato le volte precedenti.
Invece, Freud, a partire dalla pratica psicanalitica, ascoltando il discorso isterico, elaborando la ragione occidentale, si trova a constatare che le cose non sono propriamente così. Rileva che è una mitologia quella per cui il bambino si scontrerebbe con il padre o fuggirebbe dal babbo per rifugiarsi tra le braccia della mamma, oppure il fatto che, ahimè, ha spesso molta incidenza nei tribunali, che la madre sarebbe garante dell’amore, della protezione e dell’assistenza, mentre il padre avrebbe altri valori, spesso aggressivi, spesso violenti.
Freud l’ha constatato, prima di tutto, con i suoi studi sull’isteria. Si accorge che nei casi di analisi del discorso isterico, tutta una serie di situazioni che il discorso isterico enuncia, pongono al centro della logica delle relazioni la questione del padre. Cioè, il discorso isterico accentua in modo deciso e assoluto, sia rispetto alla formazione del sintomo, sia rispetto a una teoria della identificazione, una questione concernente il padre.
Articolando alcune fantasmatiche, per esempio della signorina Emmy Von N. oppure di Anna O., oppure di Dora, concernenti il padre, elaborando magari un dettaglio, un ricordo di una scena con il padre, accadeva che il sintomo che si scriveva addirittura sul corpo, che aveva un’incidenza anche in termini di paralisi, di contrattura, di impossibilità di parlare o di nutrirsi, si svolgeva e si articolava. Ciò consentì a Freud proprio una teoria della parola e del linguaggio, da cui sorse la psicanalisi.
È emblematica la situazione in cui un sintomo che da anni affliggeva una ragazza, e cioè una paralisi alla mascella, si sblocca nel momento in cui la ragazza ricorda una situazione in cui le fu rivolto un epiteto in modo deciso, e che lei avvertì, né più né meno, che come uno schiaffo morale, uno schiaffo al volto. Chiaramente, la metafora risultava determinante per questa sorta di iscrizione del sintomo sul corpo. Ecco, dunque, che un’umiliazione, un gesto rude, una situazione che risulta una sorta di schiaffo morale, nel discorso isterico si scrive come sintomo, sottolineando così la portata che ha il sintomo isterico, e cioè una portata linguistica, una portata comunicativa. Sembra, quasi, che qualche cosa che non si è riusciti a dire prima, e cioè: “Non ti sopporto perché il tuo modo di trattarmi è quello di prendermi a pesci in faccia (un’altra metafora) o di darmi degli schiaffi morali”, si dica attraverso il corpo. Per cui, quello che sottolinea l’isteria è quasi una sorta di linguaggio arcaico, un linguaggio in cui il corpo stesso comincia a comunicare. Dico arcaico perché è evidente che noi abbiamo del linguaggio l’idea che evolva passando dall’immediatezza del gesto corporeo, a una simbolizzazione attraverso le parole. L’isteria sembra soffrire di problemi di simbolizzazione, cioè non riesce a formulare linguisticamente una questione, ma solamente gestualmente e corporalmente.
Ecco che Freud scopre che, forse, il sintomo isterico non è costituito da altro, lui dice, che da parole che non giungono a dirsi, che non riescono a formularsi, che però non vengono negate, ma si dicono attraverso il gesto, l’atto e il corpo. E si accorge che non sono parole casuali, che non sono formulazioni qualunque, ma che c’è sempre una questione legata a una fantasmatica, a una situazione che porta e mette in gioco una scena, un ricordo, una fantasmagoria inerente al padre!
Nel discorso isterico il padre è inteso molto spesso come padre mancante, padre deludente, padre carente, per cui per un verso chiaramente rifiutato, criticato, ma per un altro verso, proprio per questo motivo, ancora più amato, ancora più desiderato, come se proprio la carenza del padre fosse vissuta come un qualche cosa che avvia la vicenda dell’amore nei termini di una logica del desiderio. Infatti, è tipico del desiderio il girare attorno a una carenza, a una mancanza. Per cui il padre impossibile diviene ciò che situa l’amore in un’impossibilità, ciò che fa sì che il gesto stesso di negazione venga colto come gesto di rilancio del desiderio.
Per questa via, come forse avete accennato le volte precedenti, ecco che vi è un’oscillazione del discorso isterico tra l’amore e il desiderio, proprio perché sembra che all’amore resti il destino di ruotare attorno a un impossibile. Effettivamente, abbiamo visto che c’è un impossibile nel discorso isterico, cioè l’impossibilità che qualcosa giunga a dirsi, e che questo qualcosa è legato alla figura del padre. È un qualcosa che pone in questione una vicenda di amore e desiderio.
Ma Freud riprende la questione del padre in un altro saggio molto noto, nel quale dice qualcosa dell’amore che si avvicina alla qualificazione di amore della cifrematica, cioè l’amore come custode del parricidio. In questo senso abbiamo dato come titolo L’amore del padre.
Cosa vuole dire custode del parricidio? Freud, nel 1910, scrive un libro che si intitola Totem e tabù. In quegli anni compie un itinerario importante, era giunto a scoprire l’inconscio, la rimozione, l’impossibilità di traduzione delle parole, la rimozione come particolare del discorso isterico, e si accorge che altre situazioni esistono grazie all’esistenza della rimozione. Trova che il sogno funziona anch’esso secondo una modalità di rimozione e che, per esempio, negli atti mancati, nei lapsus, nelle dimenticanze c’è un funzionamento che è molto simile a quello che accade nel discorso isterico. Poi trova che anche nell’arte possiamo trovare la stessa questione e, cioè di qualcosa che non giunge a dirsi direttamente, ma che ha bisogno di una sorta di traduzione, di trasposizione, cioè trova una vicenda metaforica per riuscire a comunicare.
Vediamo l’esempio tipico della poesia. È evidente che io potrei dire benissimo “Ah, questa mattina è bellissima, luminosa, eccetera”, però non avrei poesia. La poesia sorge quando il poeta dice: “Mattino, m’illumino d’immenso”. Voi vedete la portata della metafora e della catacresi nella poesia. Non dicendo che il mattino è bello, che la vita è bella, tutte cose che risulterebbero banali perché dirette, immediate, ma facendo intervenire una metafora, ossia una traduzione che mette in gioco altri termini, ecco che il contenuto che non viene enunciato, e cioè che la giornata è molto bella, viene sommamente evidenziato. Questo è il procedimento della metafora.
Se dico “Giovanni è un coniglio”, voi capite chiaramente che è molto più efficace che dire “Giovanni è una persona paurosa”. Curiosamente, dicendo coniglio, io non dico che la persona è paurosa, cioè questo termine è cancellato, però, tanto più è cancellato tanto più risulta evidente. Per cui io uso il termine coniglio, ma nessuno pensa a coniglio, pensa a pauroso. Quel che non dico, si dice in modo ancora più forte.
È un po’ la questione del sintomo isterico. L’esigenza di comunicare ciò che è risultata una delusione amorosa, per esempio, non si dice direttamente, ma si dice in modo addirittura più forte, bloccando la mascella. E anche nella questione dell’arte, l’artista riesce a dire delle cose straordinarie, e che ci colpiscono molto, proprio perché non le dice in modo diretto, ma le allude in quel che enuncia.
Ciò spiega anche perché l’arte è molto sostenuta dai regimi di solito, perché il regime ha bisogno non tanto di un ideologo, cioè di qualcuno che dica “Bisogna sostenere la classe al potere, eccetera”, ma ha bisogno di chi lo evidenzi in modo immediato, in modo metaforico, in modo quasi corporeo, icastico. Ecco allora il realismo socialista, per esempio. Oppure pensiamo alla chiesa cattolica, che sapendo che era difficile spiegare il Vangelo ai poveracci del medioevo, esortava gli artisti a dedicarsi alla raffigurazione.
Anche l’immagine, voi sapete, è una sorta di metafora, tant’è che le metafore sono chiamate immagini retoriche. C’è un aspetto metaforico nell’immagine, una sostituzione per cui quello che viene enunciato è lì, ma per enunciare qualcosa che non viene detto, e che si dice proprio per questo in modo ancora più dirompente.
Il funzionamento della rimozione, la funzione di sostituzione, in cui quel che si enuncia è ciò che propriamente sembra non essere detto, che sembra essere negato, Freud lo trova anche nell’arte, nella vita di ciascun giorno, nel motto di spirito, nel lapsus. Notate che l’equivoco ruota spesso attorno a una metafora. Pensate a uno dei motti che cita Freud. Due ebrei si trovano davanti a un bagno pubblico e uno dice: “Hai preso un bagno?”, e l’altro risponde: “Ma perché, ne manca qualcuno?”. Chiaramente, vedete che l’equivoco gioca sul senso metaforico del termine prendere, cioè nel senso di portare via e come metafora del farsi un bagno.
Ecco che, giocando sulla metafora, sorge non solo la poesia, ma anche l’umorismo. È per questo che Freud compie degli studi sull’umorismo, non certo per spiegarci le barzellette. Oppure compie degli studi sull’arte, ma non certo per criminalizzare l’artista, ma per dire che l’inconscio esiste non solo nei casi della nevrosi o della psicosi, ma in moltissimi aspetti della vita e dell’esistenza.
Ma ecco che scrive Totem e tabù, il cui sottotitolo è Alcune concordanze psichiche tra i selvaggi e i nevrotici. È un libro importante. È stato accusato di essere un libro antropologico, non clinico. Sembra servire a spiegare alcune usanze antiche, usanze di popoli ancora presenti ma, appunto, quasi dei relitti storici nella foresta Amazzonica o in Africa, e paragonarle così alla nevrosi, quasi a indicare – è stato letto così, purtroppo – che i popoli primitivi sono popoli incivili, non ancora nevrotici e dunque ancora arcaici, diversamente da noi emancipati.
Non era questo l’intento di Freud ma, forse, quello di constatare come spesso nella nevrosi e nella vita di ciascun giorno siano constatabili arcaismi, situazioni che, più che degne di una civiltà, sono degne del totemismo, sono degne di una mitologia tabuica, sono degne delle credenze magiche, animistiche, ipnotiche.
È constatabile come ciascuno che non si attenga alla logica della parola rischi di mettere in atto situazioni che non sono altro che superstizioni e arcaismi. In questo senso è essenziale leggere questo libro, anche per analizzare alcuni aspetti della società. Ma non è per questo che noi ne parliamo quest’oggi, ma perché tratta del mito del padre e, in particolare, del mito del padre primitivo. Per giungere a capire la connessione tra l’amore e il padre dobbiamo riprendere il mito del padre primitivo.
Questo mito dice che in tempi antichissimi, nella preistoria, la vita si svolgeva nell’orda, nella così detta orda primitiva, cioè vi era un padre geloso, violento, possessivo, che teneva presso di sé le donne, sia la madre, la sua compagna e sia le figlie e scacciava i maschi man mano che questi crescevano. Freud non dice il perché. A un certo punto narra che i maschi cacciati si coalizzano e uno di costoro, o più di uno nella coalizione, divenuto più forte del padre, lo uccide e ne prende il posto. Ma cosa accade a questo punto? Freud dice i figli che compiono il parricidio, l’uccisione del padre, per il momento non distinguiamo tra i due termini, si trovano a dovere amministrare a loro volta il branco. Finalmente sono felici, non c’è più il tiranno, possono prendersi le donne, ma subito comincia l’inghippo.
Una delle funzione del padre era di organizzare, di dirigere, di comandare le relazioni tra i membri del clan e, in effetti, morto lui, il rischio è che i fratelli si accapiglino tra loro, comincino a uccidersi tra loro, comincino a spartirsi le donne, ma uno vuole questa e magari vuole anche quella. Ecco, allora, che comincia il conflitto e si instaura la situazione che Hobbes chiamerebbe homo homini lupus, per cui i fratelli si scontrano tra di loro.
C’è poi la questione della madre che, chiaramente, è oggetto ben più mitizzato, ben più cercato delle sorelle, e se in qualche modo le sorelle possono essere spartite, di madre, come dice il detto, ce n’è una sola, per cui la lotta per la madre diventa la logica stessa del fratricidio. E allora che fare? Dice Freud: “Evidentemente, sorge così il contratto sociale”!
Vi ricordate del contratto sociale di Hobbes, Jung e altri? In fondo Freud è un contrattualista, cioè pone all’origine della civiltà, come noi la conosciamo, un contratto sociale, un patto. Questi uomini, per non uccidersi tra di loro e per regolamentare la società, fanno un patto, dice, un patto tra fratelli in cui si proibiscono a vicenda, grazie alle leggi, alle norme e alle regole, quello che prima il padre proibiva loro e, in particolare, si interdicono la madre, che deve essere assolutamente intoccabile per ciascuno dei fratelli, e si dividono equamente, a ciascuno la sua, le donne.
Con questo Freud spiega il sorgere delle regole, delle leggi, ma non solo. Egli dice che altre due vicende vanno a fortificare il patto. Abbiamo delle prove, scrive, delle supposizioni, delle congetture che i fratelli non solo uccisero il padre, ma anche lo divorarono. Perché? Perché, evidentemente, questo era un modo per appropriarsene, per farlo proprio. Lo divorarono, attenzione, spartendoselo proprio bene. A ciascuno spetta il suo bottino, potremmo dire noi. C’è un corpo ucciso da mangiare e se lo dividono, questo non solo perché a ciascuno vada la sua parte di bottino, ma perché in qualche modo ciascuno si senta partecipe dell’atto che ha compiuto.
Ammettiamo pure che siano stati due o tre quelli che l’hanno ucciso, e che uno solo abbia vibrato il colpo mortale, ma ciò che conta è che, poi, ciascuno deve mangiare di questo corpo, quasi per distribuirsi la responsabilità. Come dire: “Ma io non ho vibrato il colpo”, “Sì, però anche tu eri lì e ti sei preso la tua parte di premio” e, evidentemente, anche la parte di responsabilità e di colpa.
L’implicazione di questo gesto, di questa scena, è che in qualche modo ciascuno diventa quello che mangia secondo il principio tipico dei selvaggi, dice Freud, ma anche di alcune superstizioni nevrotiche. Per ciò, ciascuno mangiando un pezzo di padre avrebbe la possibilità di essere lui un padre, avendone preso la reliquia, il frammento, il pezzo, e può dire: “Beh, anch’io posso essere padre nella misura in cui ho partecipato al banchetto di coloro che si sono spartiti la sostanza-padre”. Ciò può sembrare molto strano, ma nemmeno tanto visto che, ancora oggi, si ritiene che quello che mangiamo diventa parte di noi.
Non più tardi di quindici giorni fa parlavo con il più grande geriatra vivente, Antonini, fondatore della geriatria italiana, il quale diceva che, per evitare l’ossidazione procurata nei processi metabolici dai radicali liberi, occorre prendere antiossidanti e faceva l’esempio della buccia delle mele. La buccia delle mele è una pellicola protettiva che protegge le mele, tolta la quale si ossidano immediatamente. Raccomandava di mangiare le mele con la buccia, perché la buccia delle mele, come protegge le mele così protegge noi.
Ora, io ho qualche dubbio che ciò che vale per le mele valga per noi! Si tratta dell’idea che mangiare voglia dire diventare in qualche modo quello che mangiamo, essere quello che mangiamo e che ciò che mangiamo divenga parte di noi.
Ruggero Chinaglia Il principio cannibalico, da cui procede tutta una mitologia cannibalica dell’inintellettualità, è ciò per cui si dice “Questo testo non l’hai digerito bene, non hai assimilato bene ciò che hai letto, non hai studiato al punto da assimilare”. La mitologia del cannibalismo funziona anche per ciò che riguarda lo studio, l’apprendimento, la lettura, dove viene in qualche modo scambiata la quantità per la qualità.
Perché il cannibale si ciba del corpo del nemico? Più che per una questione di nutrizione, per carpirne le qualità! Se il nemico era coraggioso, mangia il nemico e diventa coraggioso più del nemico, perché al suo coraggio aggiunge quello del nemico.
C’è una modalità del divenire per cannibalismo, cioè per assimilazione, per assunzione della qualità che starebbe nella sostanza. E questa è una credenza che ancora oggi, pur senza cibarsi delle carni dei propri simili, funziona attraverso altri modi, sempre credendo che si tratti di assimilare qualcosa, di carpire una qualità che sta nella sostanza anziché giungere alla qualità per quel processo di qualificazione, per quello sforzo intellettuale che sta nella ricerca.
Ciò è solo un accenno evocatomi dal riferimento che faceva Dalla Val, però è qualcosa che è tuttora molto in vigore nei modi di dire che trovano propagazione anche nella scuola, che poi però si scrivono come modi di fare, come modi di pensare. Noi possiamo dire che nella nostra società è assolutamente in vigore un cannibalismo bianco che è, appunto, la credenza di potere assumere le cose anziché acquisirle. C’è questa differenza, su cui vi invito a riflettere, tra l’acquisizione e l’assunzione, su cui magari torneremo.
È chiaro che l’educazione avviene per acquisizione, non per assimilazione. Non si darà mai il caso che qualcosa venga assimilato. È per un processo di acquisizione che l’educazione si scrive e giunge a compiersi, mentre, occorre dire, è riscontrabile una modalità d’impartire l’educazione che fa riferimento alla modalità cannibalica, cioè per introiezione, per assimilazione. C’è tutta una certa gergalità, anche della psicologia, per cui ci sarebbe l’introiezione, l’assimilazione, che sono figure del cannibalismo, modalità che fanno capo a quell’arcaismo di cui vi diceva prima Dalla Val, che è il caso, più che di prendere a pacchetto, di indagare per svolgere.
S.D.V. Giustamente, il dottor Chinaglia ha sottolineato questo aspetto portando un esempio dell’attualità di questo testo, ma potrebbero essere veramente tantissimi. Freud, se letto con attenzione, non tratta certo dei selvaggi, ma proprio di alcuni nostri arcaismi.
Dicevo che l’assimilazione passa attraverso la comunanza di sostanza. E la comunità è proprio come una sorta di assimilarsi dei membri tra loro, divenire simili e assimilarsi, assimilando una comune sostanza. Ora, non vogliamo aprire troppe parentesi, ma voi capite che tutto il discorso della droga e della comunità potrebbe situarsi a questo livello perché, non a caso, se voi ricordate, la droga entrò proprio negli anni Sessanta come rituale collettivo, come rituale di comunità. Oggi, magari, ci si reca nelle comunità credendo o cercando di sdrogarsi. Negli anni Sessanta ci si recava per drogarsi. Cioè, c’è l’aspetto del cibo comune, dell’assimilare la stessa sostanza per assimilarci a colui che mangiamo, nonché di assimilarci tra noi avendo mangiato la stessa cosa. Non è un gioco di parole, ma ciò è proprio strutturale!
Ecco perché Freud dice: “Affinché la società stesse in piedi – la società secondo il modello occidentale, secondo le mitologie occidentali – dobbiamo presupporre non solo che il padre fosse stato ucciso, ma che ci fosse anche questa forma di cannibalismo, questa assimilazione”. Ma emerge anche un’altra conseguenza, che cosa accade? Accade che occorre che ciascuno si ricordi che non può più pretendere di essere lui il padre, non può più pretendere di avere una funzione di autorità. Occorre che tutto sia distribuito, e occorre mantenerne il ricordo ripetendo una volta all’anno, simbolicamente, questo gesto di assassinio e di banchetto totemico. Per cui, dice Freud, avviene che presso i popoli primitivi, o anche presso i selvaggi contemporanei, l’animale che viene proibito, che è tabù per tutto l’anno, una volta all’anno venga preso, ucciso e divorato. Si sottolinea con ciò che nessuno deve più commettere parricidio, salvo una volta all’anno in cui si fa una grande festa, e in cui si ripete la scena del parricidio proprio per inscriverla in un ordine sociale. È la festa consentita, diciamo, dal momento in cui, per tutto il resto dell’anno, nel periodo feriale, questo rito non deve ripetersi. Il padre è stato ucciso, nessuno deve più essere ucciso, i fratelli non devono più uccidersi. Si può parlare di uccisione solo nel momento della festa. E Freud dice che ciò spiega perché molte feste si risolvono in banchetti.
Voi direte, ma cosa c’entra tutto questo con l’amore? Questa sembra piuttosto una storia di aggressività, di conflitti, di assassinio, di messa a morte. Cosa c’entra con l’amore? Ebbene, se andiamo a guardare, c’entra.
Freud chiama “obbedienza postuma” il fatto che i fratelli, a un certo punto, si proibiscono da soli quello che il padre prima proibiva loro, per cui a un certo punto dicono: “Qui, benissimo, non abbiamo più di mezzo il padre, ma come facciamo? Dobbiamo attenerci alla sua legge, perché, in effetti, tutto sommato, consente l’andamento della comunità. La sua legge diceva di non toccare la madre e, se noi non ci proibiamo la madre, qui succede il massacro. Il padre dava degli elementi di una legge, e noi prendiamo la sua legge come legge per tutti, non più la sua persona ma la sua legge”.
Freud si trova a enunciare la formulazione: “Per via di obbedienza postuma e per via di senso di colpa, il padre morto divenne più forte che da vivo”. Come dire che, guarda caso, l’elemento che viene eliminato, l’elemento che viene fatto fuori, pensando così di non averlo più tra i piedi e di potere fare ciò che si vuole, è poi l’elemento che in termini di senso di colpa, in termini di problema sociale, in termini di necessità di rifarsi alla sua legge è quello che più determina il nostro modo di vivere.
Allora, si può dire che c’è quanto meno un’analogia tra quello che dico adesso e quello che dicevo rispetto al funzionamento della rimozione, e cioè che nella rimozione l’elemento tolto di mezzo viene evidenziato. Nella metafora, addirittura, succede che l’elemento tolto di mezzo, e cioè la parola fifone che viene sostituita dalla parola coniglio, alla fine risulta evidenziato dalla parola coniglio, non eliminato, per cui se io dico coniglio voi intendete ancora di più fifone. È lo stesso procedimento che Freud trova alla base del padre primitivo. È constatabile, dice Freud, che il padre tolto di mezzo, il tiranno messo a morte, alla fine comanda più da morto che da vivo. Potremmo dire che l’elemento rimosso diventa più presente di prima.
Così Freud legge la questione della struttura della rimozione a livello della società: la legge procede dalla metafora, dalla rimozione, dalla sostituzione. Cioè, miticamente, prima c’è un padre, postuliamo che prima ci fosse qualche cosa, poi c’è un’uccisione e l’uccisione, però, non toglie di mezzo il qualcosa che c’era prima, ma è la base perché questo qualche cosa si riproponga.
È il meccanismo stesso dell’autorità, diremmo oggi. Qual è la differenza tra l’autorità del genitore e il senso di autorità che ciascuno può pensare di avere? Se, per esempio, voi vedete una persona che non passa con il rosso perché davanti al semaforo c’è un vigile, pensate: “Beh, non è che costui abbia un senso di rispetto per l’autorità, semplicemente ha paura della punizione, tant’è che se non ci fosse il vigile, magari, passerebbe con il rosso”. Voi capite che questa persona è come il selvaggio davanti al padre, cioè dice: “Io non faccio questo perché altrimenti il babbo mi ammazza”.
La vera autorità sorge quando tu, a un certo punto, ti poni una legge, segui una regola, una norma, uno statuto anche se non c’è il padre vivo che ti dà il colpo in testa, ma perché, per dir così, l’hai introiettata, direbbero gli psicologi! Ma, giustamente, il dottor Chinaglia poneva in discussione l’uso del termine introiezione, anziché del termine identificazione.
Infatti, parlare di assimilazione o di introiezione dell’autorità sarebbe come dire che l’autorità, la legge, la capacità di attenersi alle regole che, per esempio, dovrebbe sviluppare il bambino a scuola, dipendono dal cannibalismo, dovrebbero dipendere dalla capacità di assimilazione, come dire che, tanto più ti comporti da padre responsabile, tanto più hai assimilato il padre morto. Tanto più l’hai ucciso, tanto più sarai responsabile.
Invece, cosa ci dice la psicanalisi? La distinzione importante da capire, che mi rendo conto essere difficile, è tra messa a morte del padre e parricidio. Quando dicevo che l’amore è custode del parricidio, mi riferivo a questa differenza. Mentre comunemente si dice che la società si fonda sulla messa a morte del padre, cioè sull’aggressività, sul conflitto e sul suo superamento e, cioè, su forme di rappresentazione e inscenazione dell’odio, noi diciamo che la società procede, per dir così, dall’amore in quanto custode del parricidio.
Ma l’amore da dove sorge? Sorge dalla rimozione, cioè sorge dal fatto che qualcosa non giunge a formularsi, qualcosa resta impossibile, qualcosa è preso in una struttura di uccisione, ma non nel senso che io uccido il padre, ma nel senso che il padre, non più presente nella sua persona, mi rilascia una legge.
Vi faccio un esempio molto semplice. Il grande drammaturgo Arrabal, in una conferenza disse una cosa molto bella. Gli chiesero: “Ma lei com’è che è un uomo così battagliero?”. Voi sapete che Arrabal è spagnolo di origine, e quando imperava in Spagna il generalissimo Franco, gli scrisse una lettera aperta in cui denunciava tutti gli orrori di quel regime, che allora era abbastanza tollerato dalle nazioni civili, creando uno scandalo e naturalmente facendosi moltissimi nemici. Ancora negli anni in cui Cuba era vista come un mito del socialismo reale, cioè fino a poco tempo fa si può dire, è stato il primo a scrivere una lettera a Fidel Castro in cui denunciava la persecuzione degli omosessuali, delle donne, la fame, la persecuzione del dissenso che c’è a Cuba e che è innegabile che ci sia, al di là di essere filocastristi o filoamericani, non è questo il problema. Cioè, ha sempre preso delle posizioni decise, audaci, generose, pagando di persona, tanto che è stato accusato ora di essere troppo di sinistra dalla destra, ora di essere fascista dalla sinistra. Per cui le sue opere sono state spesso bandite dai teatri. In Italia non sono state mai rappresentate. Nel periodo in cui rappresentavano soprattutto Brecht, in quanto c’era tutta una serie di mitologie dell’arte per il popolo, per il socialismo, lui è stato totalmente boicottato.
R.C. Come Ionesco.
S.D.V. Come Ionesco, come altri. E allora disse: “Ma io da sempre mi trovo in una battaglia e sono spinto da una ragione molto semplice. Mio padre, un giorno, stava tornando a casa dal lavoro e mi hanno raccontato che, svoltando un angolo della strada, è stato catturato e portato via dalla polizia segreta. Però, io non l’ho visto morto, io non ho visto il suo cadavere. Io non so se veramente è morto. Io penso che, chissà, da qualche parte del mondo potrebbe essere ancora vivo. Potrebbe essere ancora vivo e un giorno io, che giro per questo motivo in tutto il pianeta – se voi chiamate Arrabal, oggi è a Padova, domani è a New York, dopodomani è a Parigi, poi inaugura una cosa a Mosca, quindi è a un congresso a Palermo, è veramente uno che ha fatto del pianeta e delle questioni di ciascun popolo la sua questione – mi aspetto in ciascun posto dove vado, un giorno, svoltato l’angolo, di trovare mio padre lì”.
Attenzione, dice: “Io trovo mio padre lì e lui mi dice: Sai, io sono stato via, io ho fatto la battaglia, io ho combattuto, mi hanno preso ma non ho ceduto, non ho tradito i miei amici – il padre di Arrabal infatti non ha parlato. Suo padre aveva delle posizioni molto importanti, però a seguito del suo arresto, probabilmente fatto per farlo parlare, non ci sono stati altri arresti o tradimenti – io non ho tradito, volevano uccidermi e sono scappato. E tu che cosa hai fatto?”.
Arrabal dice che, incessantemente, a partire da questa domanda che suo padre vivo potrebbe porgli, trova che qualunque cosa faccia gli sembra poca cosa e ha deciso che deve sempre combattere ciascun giorno contro il tiranno, contro il nemico, contro l’ignoranza, contro la stupidità, contro la malvagità, per potere dire a suo padre: “Ecco, vedi, io ho fatto questo”. Poi conclude dicendo: “In fondo, mio padre, non essendo più stato con me, mi ha fatto il regalo migliore che potesse farmi”.
Voi capite che in questo caso non è Arrabal che l’ha ucciso, non c’è stata una messa a morte, però il padre non c’è più fisicamente. E tanto meno c’è la sua presenza fisica, però, tanto più per Arrabal ha funzionato una presenza intellettuale, ha funzionato una presenza come provocazione, come messa in questione. Leggiamolo secondo i termini che dicevo prima. Potremmo dire che il padre non è stato rimosso da Arrabal, non è che lui l’abbia cacciato “Padre t’ammazzo, padre ti elimino, ti affronto e ti uccido”.
Leggevo un altro dettaglio, non si sa se inventato, e anche un po’ più orripilante, che dice, invece, di una messa a morte del padre. Qui siamo tra signore, per cui possiamo raccontarlo senza pudore. Leggevo di Dalì che aveva spessissimo questionato con il padre al punto che non lo volle più vedere. A un certo punto, a vent’anni, lo dovette incontrare. Suo padre lo fece chiamare e lui lo affrontò. Appena lo vide, si slacciò i pantaloni e si masturbò, prese il prodotto nelle mani e lo lanciò in faccia a suo padre dicendogli: “Tu mi hai dato questo e io ti rendo questo”.
Tutt’altro atteggiamento nei confronti del padre rispetto a Arrabal. Qui c’è un padre vivo, un padre che intralcia, ma non perché, poverino, lui sia vivo e debba farsi fuori. Evidentemente è un padre troppo vivo nel fantasma del figlio, che non lo sopporta, che non lo ammette e che lo vuole morto in un affrontamento, in una aggressività.
Ma questo non è il padre nell’accezione che si pone nella psicanalisi. Il padre che si pone nella psicanalisi è il padre come funzione, non come presenza. È rispetto alla presenza che il figlio può costituirsi come ribelle in un affrontamento. È dinanzi al padre come soggetto che il figlio si fa soggetto-figlio e dice “Io soggetto-figlio devo uccidere il soggetto-padre”.
L’esempio di Arrabal è utile per intendere qualcosa della funzione di padre, cioè per intendere come il padre, per dir così, morto, nel senso che non è lì presente, diventi più forte che da vivo. Il padre, se fosse stato presente, avrebbe potuto conculcare al figlio dei valori, però magari per questo motivo il figlio l’avrebbe odiato, e a questo si pensa parlando di odio nei confronti del padre. Invece, il padre di Arrabal ha instaurato dei valori, per dir così, proprio nella sua assenza.
Cosa ci insegna dunque il padre? Ci insegna che la funzione di assenza, quella che i matematici chiamano funzione di zero, non è una funzione inesistente, ma è una funzione ancora più importante, certe volte, della presenza fisica, del corporeo, dell’attaccamento corporeo, dell’attaccamento sostanziale. La funzione di zero è la rimozione!
Perché Freud indaga la rimozione? Perché dice: “Benissimo, a me interessano le cose che sono qui presenti, mi interessa che tu dica questa cosa, ma mi interessa anche quello che si omette in quello che tu dici. Perché mi va bene che tu mi dica che Giovanni è un coniglio, ma devo avere presente che tu, dicendomi che è un coniglio, mi dici anche quello che non mi dici in modo manifesto, cioè che Giovanni è pavido”.
Infatti, se io non avverto la metafora, cioè se non mi interrogo su quel che si dice in quel che mi dici, non capisco assolutamente nulla e ti vengo a dire: “Ma non è mica vero che Giovanni è un coniglio: ha due gambe e due braccia come noi”! Ecco la funzione dello zero. Per questo se vi capiterà di leggere un libro di cifrematica troverete sottolineato che la funzione di padre è la funzione dello zero, è la funzione della rimozione. È questa funzione che vale a indicare la portata di come ciò che si metaforizza, per dir così, entra in una assenza. E ciò conta moltissimo.
Ma, cosa c’entra questo con l’amore? Il “problema” è che l’amore è questa cosa qui! Se voi togliete dall’amore il sentimentalismo, il vogliamoci bene, il rispetto, l’amorevolezza, che cosa resta dell’amore? Quello che ci insegnano i poeti!
L’amore è una interrogazione attorno al non, attorno allo zero, attorno a quello che ci manca! Quando uno ama, non ha mai abbastanza. L’amore non è mai indice di una presenza, l’amore è la marca di un’assenza!
Leggiamo gli enunciati del discorso d’amore: “Tu mi manchi!”, “Non mi basti mai!”, “Io sono nulla per te!”. Non è un qualcosa che dica “Oh, come ti godo!”, “Oh, come mi sei presente!”, “Oh, tu…!”. No! Viene sempre indicato che c’è una funzione di zero.
Finché c’è la funzione di zero, quella che la psicanalisi chiama funzione di rimozione, l’amore sta in piedi e ve ne rendete conto anche nelle vostre famiglie, nelle vostre relazioni. Quand’è che dura e sta in piedi la faccenda dell’amore? Sta in piedi, sia il matrimonio, sia la relazione, sia il fidanzamento, sia la così detta coppia, finché voi dite “C’è ancora qualcosa da dire, finché non abbiamo detto tutto, finché c’è ancora parola, finché non c’è la pienezza”. Quando, invece, sembra che tutto sia presente, tutto sia conosciuto, cioè non ci sia più rimozione come noi diciamo, quando sembra che tutto sia completo, è evidente che l’amore sembra venire meno.
L’amore ruota attorno a un non dell’avere. Chi ha tutto non ama! Si dice spesso così. Tant’è che si dice “Ho perso il gusto per la vita, non amo più nulla”, “Ma, se hai tutto?”, “Proprio perché ho tutto!”. L’amore ruota attorno a un non dell’avere, ruota attorno alla rimozione. Ma questo non dell’avere è il non avere il padre, per dir così. Questo non sottolinea che il padre non ce l’hai mai abbastanza. Chiaramente, l’amore rifugge la pienezza, rifugge il “ho tutto”, rifugge il “non ho bisogno di niente”.
E ciò giustifica che l’isteria dica che l’amore ha a che vedere con il desiderio. È proprio perché, dinanzi a questo “non ho”, l’isteria aggiunge “Però desidero”. Ecco, questo è il giro in più che toglie di mezzo il godimento, perché questo “non ho”, proprio perché è dell’ordine dello zero, non è il “non ho niente”, perché dire che ci sono zero cose, non vuole dire che c’è niente. Lo zero è importante.
È la questione del non. Voi sapete che la logica di questo secolo ha esplorato la questione del non. Pensate, per esempio, alla negazione. Come faccio io a negare qualcosa? Non va da sé, dice Frege. Analizziamo l’enunciato “La chimera non esiste”. Innanzitutto, per dire che non esiste, dobbiamo pur pensare che in qualche modo esista, perché io posso dire: “Ma tu cosa intendi dirmi dicendomi che la chimera non esiste? Che cos’è la chimera?”, “Beh, sai, la chimera è quell’animale fatto con la testa di leone, poi c’è una testa di…”, “Ma come? Tu la descrivi così bene! Ma allora c’è!”, “No, non c’è!”, “Ma come fai a dirlo?”. Per cui, per un verso non c’è, per cui dico che la chimera non esiste, che nessuno ha la chimera, che nessuno è la chimera. C’è un non. Chimera uguale non chimere esistenti, uguale zero. Per cui zero chimere ci sono!
Però noi, per dire zero chimere, dobbiamo avere ben precisa l’esistenza della chimera, parliamo della chimera, possiamo addirittura baruffare se la chimera è fatta così o cosà. Come dire che non esiste solo perché non ce n’è un’unità e per di più visibile?
Per cui, dire che non esiste il padre solo perché mi dicono che è morto, mi dicono che non lo vedo più, non ne vedo la sua unità o la sua persona, non è ammissibile. Dice Arrabal: “Mio padre mi rilascia la sua funzione anche con la sua assenza”. La chimera, per me, funziona come mito anche se io non ce l’ho mai presente e visibile.
Voi capite l’importanza di ciò. Quando Freud parla dell’inconscio non dice altro che questo: che non sono solo le cose visibili che contano perché, con la rimozione, moltissime cose non sono più visibili, ma esistono. Questo, credo che abbia delle implicazioni anche nella scuola, nell’insegnamento. Per esempio, capita di frequente di sentire questo luogo comune: “Purtroppo qui i genitori non sono mai presenti. Il padre è sempre via e il ragazzo ha dei problemi perché il padre non lo segue”. Così il padre intanto si colpevolizza. Poi si mette a fare un po’ la mamma che segue il figlio maternamente. Magari fanno mezza giornata per ciascuno, perché qualcuno sia sempre presente, perché non è giusto che il padre sia assente e la madre presente.
Ecco, attenzione! Il padre c’è proprio in quanto funzione! Cioè, importa non il padre in quanto presenza ma in quanto funzione. E voi sapete che anche nell’etimo, oltre che nella matematica, funzione ha in sé l’idea di uccisione, tant’è che si dice “funge da”. Se questo funge da qualcos’altro è perché questo qualcos’altro non è qui.
Il simbolo funge da qualcos’altro, ma in questo modo ne evidenzia l’assenza, tant’è che Lacan dice che il simbolo uccide la cosa, tant’è che si dice che l’intelligenza dell’uomo, la cultura dell’uomo, sta nel fatto di riuscire a simbolizzare le cose, per cui a un certo punto, anziché ucciderti fisicamente, ti dico che ti vorrei morto. Si dice “Ha simbolizzato nelle parole”.
Chiaramente, è un fenomeno di astrazione, ma è anche un fenomeno per cui il simbolo fa sì che non occorra che ci sia la presenza della cosa. Voi capite che quando si dice che uno muore per la bandiera, non muore per quel pezzo di stoffa, muore perché la bandiera è simbolo della patria e sa che se perde la bandiera è persa anche la terra. E a sua volta, forse, la patria è simbolo di qualcos’altro, di ciò che nella patria magari non c’è, per esempio il figlio, o gli avi che magari sono morti, per cui non ci sono neanche più, però, dice, io combatto per la mia terra. È simbolo di tutte queste cose.
Allora capite che il padre è una figura simbolica, non tanto una presenza fisica. Questo dobbiamo sottolineare, e è importantissimo anche per divenire padre, per dir così, per avere una funzione di padre nella famiglia. Non basta essere il babbo per situarsi nella funzione di padre. E non occorre neanche!
Si dice “Eh poverino, in quella famiglia i genitori sono separati”. Un altro problema che ogni tanto mi pongono gli insegnanti. Sì, mi dicono, lei parla del padre e della madre, però molti ragazzi hanno una famiglia distrutta. Ma com’è possibile se questo tipo di famiglia oramai in Emilia-Romagna non esiste più? Il 70% dei bambini nelle classi sono figli di famiglie miste, vivono con la madre o con il padre e poi, dopo, il padre o la madre si risposano e hanno altri figli. Insomma, è tutto un guazzabuglio di genitori.
L’altro giorno arriva un ragazzo da me, sta finendo il liceo e deve scegliere la facoltà universitaria e io gli dico: “Con i genitori come va?”. Risponde: “Ah, benissimo, ne ho quattro!”. Chiaramente, si potrebbe obiettare sull’importanza di un papà e di una mamma biologici. Invece, è proprio per questo che la psicanalisi può essere utile, perché se la psicanalisi ci dicesse che ciascuno deve avere un papà e una mamma, allora con tutto questo guazzabuglio ciò non sarebbe più possibile.
Ma, appunto, la psicanalisi indica che, anche se ci sono quattro genitori o se ce n’è uno, occorre che comunque qualcosa della funzione del padre e del mito della madre, che adesso vedremo, si instauri.
E la funzione del padre è il simbolico, è la funzione dello zero, è il fatto che le cose sono importanti non per la loro presenza ma per il loro funzionare in una sostituzione. È il venire meno del realismo, perché appunto, se io sono realista, dico: “Ma cosa me ne frega della bandiera, me la calpestino pure! A me interessa la mia terra”. Ma, non capisci che perdere la bandiera è già avere perso la terra? Tant’è che Lacan, a proposito del detto o la borsa o la vita, afferma che il pavido può dire: “Va beh, chi se ne frega, io perdo la borsa e mi tengo la vita”, però, che vita è se ti hanno tolto la borsa? Perché è evidente che la borsa è anche un simbolo della tua vita, va al di là della borsa in quanto tale. È l’uomo senza qualità che pensa così.
Poi, c’è chi addirittura ne fa uno status symbol! E questo è un problema. Quando il simbolo passa a status symbol è come se avesse perso il rimando alla funzione che sottende, e valesse solo per il riconoscimento sociale. Lo status symbol è un simbolo che vale non in quanto ti rimanda al padre, ma in quanto ti fa bello nei confronti dei fratelli! Né più né meno.
Se Arrabal facesse quanto fa per essere lodato dai fratelli, la sua battaglia sarebbe uno status symbol. Invece, la sua battaglia, noi diciamo, è per valori simbolici e fa gesti altamente simbolici, cioè fa gesti che sono non realistici ma che rilasciano un messaggio di valore, sono metafore di qualità. E l’amore, dicevo, sta proprio qui. Se volete, c’è dell’amore nel gesto di Arrabal, ma non di amore caritatevole.
Noi potremmo dire che è un gesto d’amore quello della madre, ma che è un gesto d’amore anche quello del missionario, e certamente è così. Ma, attenzione, che il vantaggio, per dir così, di questa accezione di amore, di amore come custode del parricidio, e adesso forse avete qualche suggestione per intendere questa frase, è che si tratta di un amore non sentimentale e, soprattutto, è un amore non oblativo.
Certamente la madre, per lo meno come ce la immaginiamo, è un simbolo dell’amore più del padre, ma è il simbolo dell’amore come amore oblativo, come amore che ti nutre, che ti protegge. Il padre non sta lì a darti un amore che ti nutre e ti protegge, anzi, il padre di Arrabal lo ha lasciato da solo per la sua battaglia politica. Una persona potrebbe anche dire “Beh, quello per farsi la sua battaglia politica non ha pensato alla famiglia, per cui, alla faccia dell’amore! Era un insensibile, una persona cinica che, pur di difendere e di non tradire i suoi amici, ha mollato la famiglia”.
Io ho in analisi una persona, una ragazza, che ha sempre odiato suo padre. È venuta in analisi con un odio feroce per il padre, che tra l’altro è una persona in gamba, colta, laureatasi ancora quando le lauree non erano così frequenti come oggi, ma che si è trovato in una situazione problematica, una truffa in qualche modo, e praticamente non ha voluto confessare chi erano i complici, per cui, praticamente, si è assunto la maggior parte della responsabilità – e per inciso, ecco la funzione del padre, la responsabilità, quella che invece i fratelli si spartiscono, si condividono – è così, alla fine, lo hanno condannato a pene pesantissime e la figlia non l’ha mai visto. Si è fatto venti-venticinque anni di galera. Lui non voleva vedere la figlia in quella condizione e la figlia ne aveva ricavato un odio, appunto l’odio del padre, apparentemente: “Mio padre mi ha lasciato in queste condizioni. Non glielo perdonerò mai!”. Le ho detto: “Ma guardi che…”, e chiaramente sta capendo con molto dolore, che il disprezzo che lei ha tributato a suo padre, credendo che suo padre l’avesse disprezzata, questo odio, questo conflitto che era nato tra i due, era magari, perché no, sobillato dalla madre, che a un certo punto si è vista abbandonata in quella situazione e che dice “Tuo padre è un delinquente”!
Sì, dico io, ma un momento a dire delinquente. È stato condannato, ma andiamo a vedere perché, per come, cioè, errare humanum est, oppure ha fatto un errore di calcolo, oppure è stato un gesto di responsabilità? Chiaramente, è molto facile dare l’accusa e la croce al padre per quello che è accaduto. Questa ragazza sta cominciando a elaborare che, forse, non è che il padre sarebbe stato più padre se avesse rinnegato i suoi principi, la sua etica e la sua istanza simbolica per dire: “Beh, io penso alla mia famiglia e così mando in galera gli altri e me ne sto a casa io”.
Questa è un po’ la vigliaccheria corrente. Siamo in una società in cui non esiste la funzione di assassinio, cioè la funzione del padre, ma una società che ha messo a morte il padre, in una società della irresponsabilità. E ecco che, guarda caso, fiorisce il pentitismo. Non è un caso che più di uno che aveva responsabilità rispetto a un atto, faccia come i fratelli col padre primitivo e dica: “Io non c’entro, anzi c’era anche lui, e tira dentro gli altri. Anche lui ha mangiato della mafia”.
E quindi, dicendo che quello ha mangiato della mafia, io prendo 500 milioni e l’altro va in galera! Siamo addirittura correi. Vediamo che oggi, purtroppo, il mito di Totem e tabù e andato addirittura più degradando con fenomeni di tipo mafioso, perché, almeno nel mito, tra i selvaggi tutti si prendono una parte di responsabilità. Qui, c’è oggi chi se la toglie grazie ai meccanismi del pentitismo.
Questo per dire che la questione dell’amore non è solo la questione di essere amorevole, e sicuramente non è in questa accezione che abbiamo messo nel titolo L’amore del padre, cioè di essere tenero, sentimentale, dolce, tutti valori che vengono considerati valori dell’amore. No! Propriamente, se andiamo a radicalizzare, rispetto alla psicanalisi troviamo che l’amore è la funzione del non dell’avere, ma non nel senso dell’egoismo.
Il proverbio dell’amore, come dicono gli antichi, è proprio questo: chi più ne dà, più ne ha. Non è che prima bisogna avere per poi dare, ma di solito è proprio chi non ha che dà, e chi più ne dà, dice il proverbio, più ne ha. Quindi, non bisogna avere per dare. Tant’è che uno che dà quello che ha in sovrappiù fa la carità. Non è propriamente un gesto d’amore, così sono buoni tutti. La vera difficoltà è mettersi in gioco quando non si ha. E che l’amore abbia a che vedere con il non avere, si trova anche in Platone nel Simposio dove, non a caso, dice che Amore è figlio di Penia e di Poros. Penia che sarebbe la povertà e Poros che è l’espediente. Certamente la psicanalisi è andata oltre. Non è che io dica che il non dell’avere, la funzione di zero, la funzione della rimozione sia la povertà. Tutt’altro! Dico che il soggetto povero, chi si considera povero, è spesso chi crede di potere rappresentare il soggetto della rimozione, colui che dice “Io sono colui che non ha niente, come colui che è privo, che si trova nell’impossibile, che si trova nella castrazione, che si trova nell’amore, che ha bisogno dell’amore degli altri. Io mi trovo bisognoso”. Non si tratta di ciò in questo caso.
R.C. Forse è un non avere che non comporta la miseria o la povertà, quanto il non possesso. La questione della possessione diabolica è da esplorare anche in questa direzione.
La questione del funzionamento della parola, del funzionamento della rimozione, l’amore che riguarda la tensione verso l’avere, ma che incontra sempre il non strutturale dell’avere, è dato dal funzionamento. Il funzionamento della rimozione comporta che è impossibile possedere la parola, è impossibile averla nel senso del possesso, della presa, perché la funzione di rimozione in atto comporta il differire, comporta la differenza, comporta che il nome, funzionando, non è identico a sé.
Il nome è il significante rimosso che funziona adiacente a un altro significante. Quindi, il funzionamento comporta sempre uno scarto. Questo scarto è il non, che comporta l’impossessione, l’impossesso, il non avere, il non avere delle cose, il non avere della parola.
Il non dell’avere non comporta la privazione, la miseria, la povertà. Queste sono le rappresentazioni soggettive del funzionamento. Il non dell’avere comporta esattamente che il non è strutturale, è una condizione a cui non si può porre rimedio, diciamo così, anche se la mitologia, la fantasmatica tenta di colmare, di sanare questo non, di giungere alla completezza, per cui abbiamo le varie fantasmagorie dei vari discorsi e delle varie nevrosi.
Ecco, ho fatto un inciso perché mi sembrava importante, perché è ciò su cui gioca il fantasma materno, la nevrosi, la miseria e la povertà, cioè proprio partendo dall’idea di dovere avere o di dovere disporre di qualcosa. Fantasia nevrotica che accentua l’impossibile, che prende atto dell’impossibile, perché ogni fantasia nevrotica procede da una constatazione strutturale. È una presa d’atto, solo che gioca poi il misconoscimento. Su ciò che pure viene constatato, gioca. Come dire “Sì, però, comunque… Sì, è così, però ti dimostro che si può fare in un altro modo”.
È strutturale che non si possa partire dall’avere, perché è strutturale il non dell’avere, e la fantasia nevrotica dice che solo avendo posso, solo se io avessi potrei fare, per dire che non può, per dire che è impossibile partire dall’avere, così come è impossibile partire dall’essere sul versante della resistenza.
S.D.V. A questo proposito mi viene in mente una notazione del grande psicanalista Jaques Lacan. Diceva che l’amore cortese è proprio un espediente furbo nel quale, se un uomo non può avere una donna, può pensare che sia perché è lui che non la vuole. È questa la questione.
Invece, l’amore ruota attorno al non avere. Per esempio, al non potere mai “avere” il partner. Quando uno pensa che oramai il partner ce l’ha già, e dice “Beh, oramai con mia moglie è tutto fatto”, ecco la noia mortale, viene meno l’amore.
R.C. C’è il macabro detto che il matrimonio sarebbe la tomba dell’amore, dove per matrimonio viene appunto inteso il possesso. È chiaro che l’idea di possedere la donna, il partner, quella sì è la tomba dell’amore, perché una volta presunto il possesso, quello che si ha non conta più. Importa quello che non si ha, cioè il non della rimozione lungo cui procede la “tensione verso”. Allora c’è la pulsione. Se il non viene tolto, la tensione non c’è più.
Allora, l’amore è la tensione verso il conseguimento, verso la qualità, in definitiva verso il tentativo di avere quel che è impossibile avere. In questo senso l’amore è eterno, perché il non della rimozione è impossibile toglierlo. Ma, se noi fantasmaticamente presumiamo sia tolto, ecco che effettivamente non c’è più la pulsione, non c’è più l’amore, non c’è più questa custodia del parricidio, perché qualcosa non funziona più nel momento in cui si presume di possederla, che il possesso sia instaurato.
È chiaramente una fantasia che, come tale, è impossibile che si realizzi, però può in qualche modo funzionare qua e là. Tutte le varie storie in cui qualcosa finisce sono basate sul non che viene tolto. Qualcosa non funziona più, cioè si instaura l’idea di possesso che è l’idea stessa della fine.
S.D.V. A me pare che abbiamo detto qualcosa a proposito del padre, poi, se ci sono delle domande riprendiamo.
Adesso abbiamo la seconda parte da affrontare: l’odio della madre. E qui, se l’amore del padre viene in qualche modo concesso, a parlare di odio della madre si rischia il linciaggio!
R.C. Per capire bene il risvolto verso cui stiamo andando, occorre insistere su questo: l’amore esige che qualcosa funzioni, esige il funzionamento, esige il padre che funziona. Il padre esiste in quanto funziona come nome, diceva Dalla Val. L’amore c’è come custode del funzionamento, della funzione di padre, della funzione di zero, funzione di nome. L’amore esige il funzionamento. Ma la madre…
S.D.V. La madre non funziona! E questa è l’altra cosa sconcertante, perché se c’è una cosa di cui tutti sono certi è la funzione materna. Si dice che la madre ha una funzione insostituibile, che la funzione materna è di fare questo e di fare quello. Poi, ancora, la madre sembra assolutamente certa: mater certa, pater numquam. Notate che ruota proprio attorno al pater numquam ciò di cui abbiamo parlato prima. Pater numquam, il padre non.
Ma, appunto, la funzione materna sarebbe la funzione procreativa, la funzione distributiva, sarebbe la funzione di dare la vita.
R.C. Tanto entra, tanto esce. Quel gesto di Dalì è rivolto alla madre più che al padre. È questa la questione. Il gesto di Dalì si può leggere e intendere solamente cogliendo la fantasmatica della madre che funziona, che distribuisce ciò che riceve, per cui: “Hai ricevuto questo e questo ti prendi, cioè questa sei”. E il gesto che Dalì apparentemente fa verso il padre, lo fa verso la madre in realtà. Cioè, lo fa verso un padre materno, verso una madre che è presunta funzionare.
S.D.V. E la madre è presunta funzionare perché è presunta avere la funzione per eccellenza, quella che dicevo prima, e cioè la funzione di morte!
La funzione per eccellenza è la funzione di morte. Vi ricordate quando ho detto che il simbolo uccide la cosa, e che anche nell’etimo della parola funzione c’è la parola uccisione? Ebbene, checché se ne possa dire, checché l’uccisione nella mitologia sia una questione di uccisione tra padre e figlio, il problema è che l’uccisione, la più terribile, la più temuta, il funzionamento economico della morte è deciso, è attribuito dal discorso occidentale, alla madre!
E qui capite subito come nasce il discorso occidentale, nasce con Socrate, il quale dice: “Io sono figlio della levatrice, colei che può fare nascere, che sa come fare nascere, ma che sa anche come uccidere i bambini”!
Il problema della madre è tutta la retorica della madre che ama, che si sacrifica, che fa nascere, certamente, ma è una retorica che nasconde qualcosa, nasconde l’incubo del discorso occidentale, cioè che la madre uccide! La madre può decidere della vita e della morte. E ciò è qualcosa che viene fuori a ogni passo se andiamo a vedere i miti. Pensiamo alle Parche che sono una figura della madre: c’è la Parca che dà la vita e la Parca che taglia il filo. Pensiamo a un detto frequente in Emilia, non so qui, un detto che spesso la madre, arrabbiatissima nei confronti del figlio, pronuncia: “Piantala, guarda che io ti ho fatto e io ti disfo”!
Chiaramente, è come dire che qui c’è veramente il potere sulla funzione. La funzione materna sarebbe la funzione di potere sulla funzione. Per cui sarebbe l’odio come odio transitivo, l’odio come l’eliminazione dell’Altro, l’odio come qualcosa che taglia con le cose, che dà il taglio, che tronca il filo. E potete constatare anche da questa frase come alla base dell’odio c’è la vendetta. Anche nel mito greco non c’è il vendicatore ma ci sono le vendicatrici, le Erinni, le Arpie, tutte figure della severità materna. Chi presiedeva l’Areopago? Atena, cioè colei che può decidere della vita o della morte.
Dunque, la funzione di madre così idealizzata dal discorso occidentale ha come copertura il fatto che il discorso occidentale pensa, e in modo molto drammatico –sta qui la drammaturgia del discorso occidentale – che la madre possa detenere la funzione, cioè possa detenere l’uccisione. Mentre la faccia positiva della funzione di madre, intesa nel senso della bontà della madre, sarebbe l’Euménide.
Le Euménidi sarebbero la faccia buona, quelle che portano bene a Oreste rispetto alle Erinni, che costituirebbero la faccia cattiva. Anche nel mito, prima erano le Erinni e poi divengono le Euménidi. Sembra un po’ che la mamma ti porta bene, ti alleva, però l’altra sua faccia sarebbe che ti può portare male. E c’è sempre il sospetto che tanto più ti potrebbe portare male, tanto più devi ringraziarla per il fatto che ti vuole bene! Questo si chiama debito materno, cioè tu devi volere bene a tua madre, perché è colei che ti ha dato la vita. Voi capite che il debito materno, per questa via, sfiora tout court il ricatto.
Se io, a un certo punto, mi faccio dare dei soldi da mio padre, posso dire: “Te li restituisco”, tant’è che uno dice: “Mi dà un fracco di botte, ma quando sarò un po’ più grande gliene darò anch’io”! Oppure, pensate al diritto paterno. Il diritto sorge quando, a un certo punto, uno commette un crimine. Benissimo, viene punito, viene condannato e c’è il risarcimento. Ma pensiamo invece al diritto materno, rappresentato dalle persecutrici, dalle vendicatrici che dovrebbero colpire Oreste perché ha compiuto matricidio. Chiaramente, sono forze della natura, per cui siamo al crimine ecologico!
Una società conflittuale “normale” è una società in cui chi rompe paga, ma se il crimine diventa un crimine ecologico, non è più un crimine contro qualcuno, ma diventa un crimine contro la madre terra, per cui si pagano delle cifre pazzesche per l’inquinamento.
Nella società paterna, maschile, l’uomo uccide l’orso e paga la multa per averlo ucciso. Ma nella società ecologica ci sono delle istanze rispetto alle quali tra l’orso e l’uomo è meglio uccidere l’uomo, perché di uomini ce ne sono sei miliardi, di orsi pochi. Cioè, il crimine contro la natura è un crimine materno, un crimine contro la madre, e un crimine contro la natura non ha prezzo, è un crimine contro la vita. E proprio il crimine contro la vita diventa un peso incolmabile.
Così, se tu mandi a quel paese tuo padre mandi a quel paese un tizio che poi non sai neanche bene che cosa ci sta a fare. E l’altro può dire: “Accidenti, mio figlio non mi vuole bene e, in effetti, cosa ho fatto io per lui?”. Però, d’altra parte, sa anche che, come padre, non poteva mica fare granché. È inquietante questa posizione, vale a dire: “Va beh, gli darò da mangiare. No, gliene dà mia moglie. Allora cosa faccio? Mi metto a fare la mamma anch’io, gli do anch’io un po’ da mangiare”! Ma un padre capisce che non è questo ciò che si vuole da lui. Ci vuole, appunto, la responsabilità, l’autorità, la presenza simbolica.
La questione, invece, del debito materno è che la violazione del patto con la madre diviene una violazione delle leggi della vita, delle leggi della natura. Abbiamo un bellissimo libro che si intitola Il mito di Ajasè e la famiglia giapponese, in cui si mette a confronto il mito dell’occidente, che è il mito del padre, con il mito dell’oriente che è il mito della madre. In occidente c’è il mito di Edipo, che incontra il padre al crocicchio e lo uccide. Si tratta del mito del parricidio, del mito dello scontro.
R.C. Ne abbiamo parlato nel corso precedente.
S.D.V. In oriente c’è il mito della madre, il mito di Ajasè. E lì non succede mica niente tra figlio e madre. Non è che lui ammazzi lei, no! È tutto un gioco.
R.C. È il mito del perdono.
S.D.V. È il mito dell’accusa, del ricatto, del riscatto e del perdono. È un mito giocato in dimensioni assolutamente di odio, ma di odio che non entra mai nell’atto. Il mito di Edipo è un mito dell’atto. Il mito di Ajasè è un mito della gestione del rapporto, e questo ci porta all’accezione nuova che la psicanalisi dà all’odio e al mito della madre dicendo, attenzione, occorre che non ci sia la funzione materna!
C’è un libro che si intitola, invece, proprio così: La funzione materna. Così, mentre tutti si interrogano su come funziona la madre, noi diciamo che non esiste la funzione materna. E allora cosa esiste? Se abbiamo detto che il padre esiste come funzione, mentre la madre non esiste come funzione e non ha da esistere come funzione, come ha da esistere la madre?
La madre ha da esistere come indice. La madre non è funzione, ma è indice. Indica, indice. Indice di che cosa? Indice del tempo!
Voi vi chiederete cosa vuole dire indice del tempo. Potremo arrivarci già attraverso le mitologie perché, in effetti, la prima cosa che si pensa è il fatto che il primo atto di una mamma è aspettare. La donna, a un certo punto, comincia a aspettare un bambino. Ecco che da quel momento questa donna è mamma, almeno potenziale, perché adesso non ci addentriamo a capire se il feto è o non è, non entriamo nella polemica.
E, dunque, cosa fa la donna in quel momento, cosa può fare? Comincia a aspettare. Comincia a contare i giorni, i mesi, terzo mese, quarto mese, eccetera. Di che cosa si tratta? Della gravidanza. La gravidanza non è un atto, è un periodo, un tempo in cui accadono certe cose. Ancora più radicalmente, c’è un enunciato molto bello che ha fatto un giorno una ragazza, diceva: “Ma vede, per me è come se l’atto sessuale non finisse lì, con la scopata, ma è come se finisse con l’arrivo della mestruazione”.
Questa è una cosa che forse qualcuna di voi ha provato, è abbastanza particolare, interessante, perché per un uomo può capitare che vada con una ragazza e il giorno dopo per lui sia un atto completamente dimenticato. L’atto sembra essere, per dir così, sincronico, sembra essere un atto che può finire lì, così, senza resti, anzi, magari spera che non lasci resti. E, chiaramente, poi ne fa un altro e un altro ancora. È un po’ come nell’uccisione del padre: Edipo incontra uno a un crocicchio e lo uccide. Ebbene, questo è ucciso, andiamo avanti! Ne troviamo un altro, tac, uccidiamo anche quest’altro. I film delle mitologie maschili sono fatti così.
La mitologia femminile, non oso ancora chiamarla mito, la chiamo mitologia, è quella che intanto c’è l’atto, ma non finisce mica lì, perché poi: “Arriverà, non arriverà?”. E comincia a aspettare. Prima ho parlato dell’aspettare un bambino, della gravidanza come “aspettare un bambino”. Ma qui, addirittura, aspettiamo se arriva o se non arriva la gravidanza, aspettiamo il giorno delle mestruazioni. È evidente che parlare di bambini, parlare di mamma, è parlare di elementi temporali.
R.C. Questo per dire che tra un bambino e una bambina non è una questione di sesso fine a se stesso. È questione di tutta un’altra logica quanto al tempo o all’oggetto, quanto all’atto e al tempo. E ciò comporta modalità educative assolutamente rilevanti e differenti, proprio tenendo conto del mito in cui si pone.
S.D.V. E dunque cosa fa la madre? Il padre a un certo punto dice “Tu figlio, benissimo…”. Non è che il padre si preoccupa di che cosa succede al figlio durante la vita. Sì, certo, ha le sue ambizioni, i suoi ideali, però, a un certo punto non lo segue secondo dopo secondo, non si preoccupa. Sappiamo tutti che in qualche modo la custode, per dir così, della vita, in ciascun momento per quanto riguarda il nutrimento, il preparare, è la mamma.
Allora, vediamo che mentre all’uomo interessa la vita nell’atto, l’attività della mamma, per non parlare della madre, è proprio un’attività che mantiene l’esigenza della vita nel tempo.
Queste sono distinzioni che poi possiamo rielaborare in modo più interessante. Sono fantasmagorie, non è la struttura effettiva, però dicono della struttura.
Il mito nell’uomo è il mito della vita in ciascun atto. Il mito nella donna è il mito della vita come procedura, come dispositivo, come qualcosa che non termina, come qualcosa che va verso, che non finisce mai, tant’è che una mamma è una mamma che non finisce mai. Il padre, a un certo punto, se ne frega del figlio, mentre la mamma, col figlio di 40 anni, ancora gli dice “Mettiti la maglietta”. Per dire che lei non cessa mai. È un indice, un mito d’infinito; per questo vi dico che il mito della madre è il mito del tempo. Ecco cos’è la madre! Mentre il mito del padre è il mito della responsabilità, della funzione, del parricidio, qui abbiamo il mito del tempo.
Perché è anche l’indice del tempo? Voi sapete che l’etimo della parola tempo è temno, taglio, per cui dire tempo e dire taglio è dire un po’ la stessa cosa, tant’è che noi siamo abituati a considerare il tempo come taglio. Quando scandiamo il tempo, addirittura facciamo così [e muove la mano come nel movimento del solfeggio], oppure quando in analogia allo scorrere del sole facciamo dell’orologio un cerchio tagliato come una torta, un quarto d’ora, una mezz’ora. C’è un taglio. Questo è un taglio algebrico, mentre il tempo è taglio come divisione.
Anche nell’orologio la giornata è divisa in 24 ore, cioè, potremo dire tagliata in 24 porzioni di un’ora, o tagliata in tot secondi. Per cui il tempo, anche quello cronologico è taglio, ma, soprattutto, il taglio è divisione. Voi vedete che questo si ritrova anche nei miti, perché, guarda caso, io ho detto che una delle funzioni delle Parche era di tagliare.
Pensiamo poi all’atto principe attorno a cui si snoda il tema della madre. Anche lì c’è un taglio, il taglio del cordone ombelicale, un’esperienza di taglio. Un’altra fantasmatica che riguarda il taglio alla nascita può essere il taglio cesareo. La questione tempo, taglio, divisione, emerge nella mitologia rispetto alla madre. E ciò è importante perché, in effetti, vedete che andiamo verso l’odio.
L’odio è divisione, per cui dire tempo e dire odio è dire la stessa cosa. Noi non conosciamo l’etimo della parola odio, però, se c’è un modo con cui ci rappresentiamo l’odio è la divisione. Per quello dicevo che l’odio non è l’aggressività. Noi non ci raffiguriamo l’aggressività come divisione, ma come conflitto, scontro; anzi, come unione! Tant’è che noi capiamo, e certe volte lo vediamo anche fisicamente, che l’aggressione è quasi una forma di amore, di amore cannibalico. C’era un film che rappresentava questo: a un certo punto lo scontro tra due uomini diveniva un rapporto sessuale tra di loro. Oppure pensiamo a quanto partecipa l’amore nel conflitto, anche nel rapporto sessuale, nell’atto sessuale. Per cui l’aggressività è da considerare piuttosto una forma di amore, proprio perché partecipa della logica dell’amore che è quella dell’unione.
R.C. Diciamo dell’incontro.
S.D.V. Beh, sì, dicevo unione nel senso del principio dell’eros, del principio mitologico dell’eros che, dice Platone, è unione, è principio di unione ma, che, giustamente, noi possiamo considerare meglio come principio dell’incontro. Possiamo considerarlo meglio ancora rifacendoci al principio della condensazione, perché non dimentichiamo che la metafora è una condensazione. Il simbolo è una condensazione perché io condenso nella bandiera sia il valore della bandiera in sé, sia il valore della patria in sé, per cui la bandiera ha due valori in uno e per ciò è una condensazione. E l’amore, per dir così, abbiamo visto che è un processo che ruota attorno alla condensazione e a quello che Freud chiamava eros, il principio dell’eros che tende a unire. Noi diciamo a fare incontrare.
L’odio, invece, sembra avere a che vedere con l’altro principio, thanatos, principio di morte, principio della divisione e, guarda caso, parlando di madre, siamo subito incappati nella questione di vita o di morte, nella questione che la madre potrebbe dare la vita ma potrebbe dare anche la morte, per cui il taglio può essere un taglio di vita o un taglio di morte.
Così, il tempo potrebbe essere il tempo delle cose infinite o potrebbe essere il tempo che finisce: ecco, per esempio, l’interruzione della gravidanza. Potrebbe essere la logica dell’aborto, che non è il fatto che una donna, a un certo punto, non riesce più a proseguire una gravidanza. Se fosse tutto qui l’aborto, sarebbe poca cosa. La logica abortistica è una logica immanente nel discorso occidentale, è la logica di chi non prosegue ciascuna cosa che incomincia, la logica di chi pensa che le cose possono finire domani, di chi abbandona i progetti, di chi non scommette su un dispositivo. Per la psicanalisi non è abortista solo chi, a un certo punto, si rivolge al medico piuttosto che alla signora compiacente. La logica abortistica può presiedere che una persona non mandi più il figlio a scuola, perché dice: “È meglio che vada a lavorare, perché sono meglio i soldi subito”.
In Emilia, purtroppo, noto questa cosa, tirano più ai soldi che a fare studiare i figli. Questo, a mio parere, rientra nell’aborto, addirittura è una forma di infanticidio. Lo dico a voi perché siete insegnanti. Spero che voi facciate la battaglia per lo studio perché, veramente, il sostanzialismo imperante spesso fa sì che un genitore, appena la figlia o il figlio finiscono la scuola dell’obbligo – non essendoci in Emilia molti valori trascendenti che forse ci sono ancora in Veneto, più per via della questione cattolica – dica: “L’importante è guadagnare, poi, chi se ne frega!”. Allora, il sostanzialismo è una forma di infanticidio o, per lo meno, comporta un aspetto infanticida.
Invece, occorre che il tempo non sia il tempo delle cose che finiscono, ma il tempo delle cose infinite, come nel conflitto così truce, così severo, che è il conflitto di Ajasè con sua madre, che però è una metafora dell’infinito delle cose, perché alla conclusione nessuno dei due muore e nessuno dei due vince, ma c’è un gioco che si porta avanti per via dell’instaurazione di un dispositivo.
Per ciò occorre considerare il mito della madre come qualcosa che comporta il tempo infinito, un indice del tempo e un indice dell’altro tempo, un indice del fatto che il tempo non finisce, che non c’è un tempo che può essere accettato e un altro che può essere rifiutato, perché uno potrebbe dire: “Beh, questo figlio mi va bene in questo tempo, ma non mi va bene nell’altro tempo”. Allora c’è il tempo di un tipo e il tempo di un altro tipo, il tempo obiettivato. Questo tempo è già avere fatto del tempo un oggetto.
Ma il tempo è importante perché non può essere obiettivato, tant’è che Sant’Agostino diceva: “Voi mi chiedete che cos’è il tempo; se non me lo chiedete io penso di saperlo, se me lo chiedete, io non vi so dire che cos’è”. E questo perché il tempo non è una cosa, il tempo non è un oggetto. Il tempo possiamo solo elaborarlo come taglio, come divisione, come scissura. Il tempo è ciò che ci divide, è ciò che fa sì che noi ci qualifichiamo rispetto a ciò che facciamo e non a ciò che siamo! Il tempo è ciò che ci introduce al divenire, all’avvenire, non all’essere! È l’oggetto che si crede di potere essere o di potere avere.
Il tempo, invece, allude a un divenire, allude a un taglio, a una piega che prendono le cose nella loro trasformazione. Non a caso, il vostro corregionale Severino vuole abolire il tempo, ma abolendo il tempo abolisce il divenire.
R.C. Non è di Brescia?
S.D.V. Sapevo che insegnava a Venezia, per cui credevo. Comunque, è la scuola veneziana che, purtroppo, porta avanti questa tesi a mio parere neognostica alla fine, rispetto a cui il tempo diventa un oggetto, per cui può essere tolto di mezzo pena il divenire. E il tempo diviene facitore dei grandi misfatti.
Certamente il tempo è problematico, porta dei problemi perché il tempo può portare non solo l’idea della vita, ma anche l’idea della morte. Morte che, però, può essere intesa in tutt’altro modo che come indice della fine delle cose, bensì come indice della differenza invalicabile. La morte ci dice che non da tutto si può tornare indietro. La morte ci dice che c’è un qualcosa su cui noi non possiamo decidere, che c’è un qualcosa che uno non può gestire, manipolare. La morte ci dice che c’è un qualcosa di invalicabile, che c’è trasformazione.
E tutto ciò ha a che vedere con il mito della madre, con l’odio. La morte ci dice che non possiamo cincischiare tutta la vita. Ci dice che innanzi alle situazioni si tratta di prendere o lasciare. E è proprio nel prendere o lasciare che c’è il mito dell’odio e c’è il mito della madre. La madre non può dire sono quasi incinta, sono un po’ incinta. Sappiamo bene che l’indecisione, il rimando, tutti i modi con cui gli uomini cercano di evitare il tempo, di addomesticarlo, di gestirlo, con il mito della madre vengono meno.
In questo senso dico odio della madre, non nel senso che la madre odia, che la madre è severa, è vendicativa come, ahimè, è nella mitologia occidentale e come, ahimè, certe volte ci è sembrato o abbiamo pensato della nostra mamma.
Le ragazze, sia le ragazze che avete a scuola, sia voi stesse come ragazze in qualche modo, si trovano spessissimo in un rapporto difficilissimo che è la relazione con la madre che, certamente, è fatta di slanci amorosi, per cui si ascolta: “Io mi confido solo con mia madre, a mia madre tengo tantissimo”, eccetera, che però, è fatta anche di sorde ribellioni, di rivendicazioni, di vendette che nemmeno giungono a dirsi. In fondo, una ragazzina può benissimo dire: “Io con mio padre non parlo, per me è un estraneo”, ma, poi, sotto sotto, c’è un filo sottile che li lega, un amore che è in gioco.
Rispetto alla madre, certe volte sembra ci sia tanto amore, ma quanta tensione invece, rivendicazione, vendetta, mortifericità, non saprei come dire. Quanto di mortifero c’è in questa relazione che passa attraverso il corpo, attraverso il cibo, attraverso il respiro addirittura.
Noi ascoltiamo nella clinica psicanalitica e voi lo potreste vedere rispetto alle ragazzine che avete a scuola, quanto la bulimia o l’anoressia devono a questo “simbolico carnale”, per usare una parola impossibile, ma è chiaro che non c’è il simbolico carnale, o è simbolico o è carnale, che si instaura tra madre e figlia. Quanto dell’erotismo o della negazione della sessualità può avviarsi a partire da malintesi che accadono nella comunicazione tra madre e figlia, al punto che noi diciamo radicalmente che la madre, oltre che indice del tempo, è indice del malinteso, perché, certamente, resta comunque un grandissimo enigma, proprio perché se ci fosse la funzione noi potremo, anche matematicamente o logicamente, capire qual è il contenuto di una funzione, qual è la variabile.
Invece, dicendo che non c’è la funzione materna, siamo qui a interrogarci attorno agli indici della madre. La madre è indice del tempo, di cui non possiamo dire gran che. È l’indice della differenza, che però non possiamo mai rappresentare una volta per tutte, pena fissare il razzismo che è proprio la localizzazione della differenza. Ancora, è indice del malinteso e del malinteso radicale, che è il malinteso attorno alla sessualità, che non è mai decifrato una volta per tutte.
Ciò spiega perché il mito della madre si è prestato nella storia a raffigurare gli enigmi. Non a caso l’enigma era portato dalla sfinge. Certamente, noi non pensiamo che sia un uomo che ti pone un enigma. L’enigma, la figura enigmatica, anche nella sua mortiferità perché dava anche lì la vita o la morte, era appunto la Sfinge. E quanti di noi vivono, fantasticano o credono che la madre sia una sfinge, sfinge che ti guarda come una pietra o ti pietrifica, oscillando tra la Sfinge e Medusa?
Chiaramente, è una questione da elaborare. Sono fantasmatiche di cui voi dovete tenere conto proprio perché le ragazze, i ragazzi, si trovano portatori di queste fantasmatiche, per cui magari vi raccontano che c’è il tal casino in famiglia, o il tal problema con il padre o con la madre.
Spesso, occorre andare al di là di come vengono raccontate le situazioni per capire che cosa si dice rispetto ai casi e alle vicende che i ragazzi si trovano a denunciare rispetto ai genitori. Per non parlare dei casi che i genitori si trovano a denunciare rispetto ai figli, in cui mettono in gioco la severità o la complicità materna, oppure l’assenza di autorità. “Ah, ma come, io in fondo sono stato sempre così buono, così gentile nei confronti dei miei figli”. Magari, però, è mancata proprio la responsabilità, hai temuto, diciamo così, la questione del parricidio, ti sei ritirato rispetto al fatto che tu dovevi riuscire a porre le cose nei termini di un simbolo e di un’identificazione, e non nei termini di dare semplicemente i soldini o di limitarti a nutrirlo e pensare alle esigenze materiali.
Evidentemente, da un padre si richiede, come non mai, un qualche cosa di intellettuale, non di materiale, proprio perché il suo compito è un compito eminentemente intellettuale, dicevamo prima. È un compito di funzione, è un compito di simbolizzazione delle cose. Tant’è che c’è chi ritiene che il passaggio dal diritto naturale materno, al diritto paterno sia stato il passaggio dal mondo della natura al mondo della cultura. Per l’antropologia è così.
Abbiamo visto che i riferimenti naturali portano la madre in un ginepraio di vendetta e di perdono. Il riferimento intellettuale, invece, porta la madre a porsi come indice del fare e del tempo, indice della vita, del divenire e della tolleranza, indice dell’Altro che non finisce, indice che le cose non finiscono mai ma c’è sempre Altro, c’è sempre l’altro tempo per cui la tragedia non riesce mai e l’idea di male si dissipa e, appunto, le cose eminentemente non finiscono.
Questo occorre che la madre sia: indice che le cose non finiscono! Ma, direi, mi fermo qui.
R.C. Così c’è modo per qualche domanda. Mi pare sia stato molto interessante e si raccorda con qualcosa che dicevo la settimana scorsa in relazione al dispositivo, che esige l’appuntamento e l’incontro. Non si tratta della presenza perenne, della continuità, ma l’importanza è su ciò che accade nell’istante, un appuntamento, un incontro; è lì che si scrive qualcosa. È quel che si scrive che conta, non il visibile, la presenza. Questo conta quanto ai modi dell’educazione e ai modi dell’organizzazione, nella famiglia o nella scuola, per far sì che sorga un dispositivo dove queste cose esistano e si pongano per una elaborazione.
Mi sembra essenziale valutare le cose nei termini della logica strutturale con cui esistono, nei termini del loro funzionamento e non già lungo fantasmatiche o mitologie che riguardano credenze inerenti a come si pensa che le cose siano o debbano essere.
Ecco, se ci sono domande o precisazioni, notazioni, è il momento per farle.
Vallì Pilotto Mi chiedevo come fare rientrare la funzione paterna, che garantisce in qualche modo l’amore, con questa minaccia. Mi sembra che l’elaborazione di Freud sia stata successiva.
R.C. Il mito di Cronos viene prima, come mitologia.
V.P. Sì, ma dicevo, rispetto a Totem e tabù, è dopo.
R.C. Certo. Bene. Poi? Altri? Magari ne raccogliamo due o tre.
Barbara Valerio Volevo chiedere se la madre può assumere la funzione di padre, e viceversa.
R.C. Lei dice la madre o la mamma?
B.V. La mamma.
R.C. Esatto. Perché occorre distinguere tra papà e padre, e tra mamma e madre. Ciò che diceva Dalla Val, oggi, non è riferito alla mamma, ma alla madre. Non è riferito al papà, ma al padre, a ciò che si scrive di una funzione o di un indice, a ciò che esiste come funzione e come indice nel mito. Non sono il papà o la mamma come genitori. È qualcosa che travalica il personaggio rappresentato da papà e mamma.
Però, giustamente, lei dice, esistono di fatto un papà e una mamma che sono implicati nella gestione della famiglia e nell’educazione.
B.V. Volevo sapere più precisamente, nel caso in cui il papà venga meno alla sua funzione, se è male che la mamma, avendone la possibilità o la capacità, se la assume.
Federica Bietolini Mi pareva di avere capito che, se il papà non c’è, in qualche modo la funzione di padre va avanti, non so se ho capito bene. Se la madre non c’è, l’indice c’è ugualmente o no? In assenza della madre fisica.
R.C. In assenza della mamma!
F.B. Della mamma, sì. Non volevo dire madre. È stato un lapsus, chissà perché. In assenza della mamma, l’indice in qualche modo s’instaura? L’assenza di una madre è più grave dell’assenza di un papà?
R.C. Esatto. È meglio la borsa o la vita?
F.B. Proprio così. Se tutti e due è peggio!
R.C. Lacan direbbe che è una scelta impossibile.
F.B. Io pensavo al fatto pratico, le mamme ci sono sempre state e il papà no. Adesso, come un tempo, i bambini spesso non hanno il papà e spesso non c’è neanche la mamma
R.C. Le signore diranno che è meglio perdere il papà!
F.B. Lo sa che io, invece, come mamma speravo che la mamma potesse essere sollevata un po’ da questa necessità di una presenza continua.
R.C. Bene. Mi sembra che le domande siano molto interessanti. Vuole cominciare a rispondere?
S.D.V. Ha fatto molto bene la signora Pilotto a sottolineare la questione della minaccia. In effetti, la minaccia è un qualcosa che la pedagogia dice di evitare. Dice di evitare, perché, chiaramente, si tratta di non spaventare, di non fare pensare che il papà sia cattivo, ma, curiosamente, più la pedagogia dice di evitare la minaccia e più sembra che la storia sia quella che racconta Freud, e cioè che a un certo punto la mamma vede il ragazzino che si tocca e dice: “Non toccarti, che altrimenti lo dico a papà e questa sera quando arriva ti picchia”.
R.C. “Te lo taglia”.
S.D.V. Esatto. “Te lo taglia e ti picchia”. Non è mai la mamma che dice “Te lo taglio”. Tende a dire “Te lo taglia papà”. La mamma dice “Io ti ho fatto e io ti disfo”. Invece, sulla castrazione c’è un qualche cosa di una minaccia che chiama in causa il padre. Allora voi direte: “Sì, ma adesso non si fa più, perché abbiamo imparato a lasciare che si tocchino”. Invece, la questione che noi possiamo constatare, oggi non più sul fatto che si tocchino, è che a un certo punto ricorre giustamente il chiamare in causa il padre: “Guarda che arriva il padre”!
E questo è un fatto importante, è un fatto strutturale. Che ci sia la fantasia che dal padre possa venire la castrazione è una fantasia essenziale, perché dice della funzione di zero che il padre può avere, della funzione di autorità che il padre può avere, perché quello che chiamavo atto culturale, cioè di passare dalla natura alla cultura, è proprio che a un certo punto la pianti di toccarti la tua natura, e tieni conto che devi acculturarti. A un certo punto il padre ha la funzione di dire: “Guarda che le mani non servono per toccarti il pisellino, ma per costruire qualcosa di bello”. Come dire: “Occorre che tu metaforizzi la cosa”. Metaforizzo, cioè metaféro, porto su, trasporto, traduco. Prima parlavo di traduzione, ma dire tradurre è lo stesso che dire metaforizzare. Metaforizzare è greco, tradurre è latino.
La minaccia è spesso criminalizzata e penalizzata, eppure anche lo psicanalista può fare una minaccia. Per esempio, Freud lancia la minaccia e dice: “Guardi, o lei fa dei passi nell’analisi oppure io interrompo il trattamento”. Si tratta del famoso Caso dell’uomo dei lupi. Un magistrato cosa avrebbe detto? “Ah, questa è sopraffazione, questa è circonvenzione d’incapace”! Ma bisogna distinguere tra la minaccia e il ricatto, perché la minaccia ha l’importante funzione di instaurare la rimozione, cioè è un modo con cui si può lanciare qualcosa dell’ordine della castrazione come modo della rimozione.
Noi definiamo la castrazione non nel senso della castrazione fisica, anche se, al limite, anche quando pensiamo alla castrazione fisica pensiamo alla rimozione dei genitali, ma come funzione di rimozione nel linguaggio, proprio perché è una rimozione prima di tutto. Per cui importa considerare che Freud, quando parla di castrazione, non intende la castrazione fisica. Infatti, non usa il termine Entmannung, ma adopera il neologismo Kastration, che non esiste in tedesco, e che lui riprende dal latino, quasi per sottolineare che, a proposito di questa minaccia, lui si riferisce a un altro tipo di castrazione. La madre sa benissimo che il padre non glieli taglierà fisicamente, così anche il figlio, ma comunque c’è questo gesto di autorità.
R.C. Minaccia della perdita.
S.D.V. Con la minaccia viene chiamato in causa qualcosa dell’autorità.
R.C. Si tratta della minaccia della perdita, che è la stessa perdita strutturale che ciascuno incontra parlando, dato che il nome è impronunciabile per via della rimozione, della differenza, per cui non c’è il possesso, dicevamo prima, delle parole, delle cose che si dicono. Questa è la castrazione.
Pubblico Forse è necessaria per arrivare al simbolico. È solo l’accesso al simbolico, quindi è necessaria.
R.C. Esatto. Quindi, l’effetto di perdita non è che può esserci o non esserci, ma è qualcosa di strutturale alla parola! Ciò che Freud chiamava senso di colpa, con un’espressione, occorre dire, non molto felice, che ha dato luogo a varie fantasmagorie, altro non era che la questione della sensazione della perdita e della sensazione della mancanza che si incontra parlando, che ciascuno incontra parlando. Questo è il senso di colpa: la sensazione della perdita e della mancanza! Sensazione della perdita strutturale alla rimozione, quindi della castrazione, e sensazione della Versagung, della disdicenza strutturale alla resistenza.
S.D.V. Il problema del discorso occidentale, e qui nasce il discorso della colpa, è che quando c’è una mancanza, una castrazione o una perdita, va subito in cerca del colpevole.
R.C. Esatto. C’è una moralizzazione. Di questi che sono aspetti assolutamente logici e strutturali della parola è stata fatta una moralizzazione, attribuendone una causa a una colpa. Poi, il senso di colpa è stato tradotto come coscienza di colpa, con tutto ciò che la cosa ha generato a livello di luoghi comuni.
S.D.V. Direi che c’è una connessione, effettivamente, con le questioni poste da Valerio e da Bietolini. Valerio chiedeva come fare quando il papà viene meno alla funzione di padre. Spesso le donne pongono questa questione e dicono: “Ah, mio marito non ha nulla del padre, non fa il padre, non si attiene a una funzione di padre”. Il problema è che la chance della funzione di padre, e forse questo l’aveva intravisto Bietolini, è che, diciamo così, meno la fai, più per certi versi riesci. E ciò perché non è richiesta la presenza assillante del padre, anche se apparentemente il figlio può dire: “Ah, io non ho avuto padre, perché il padre non era presente”, e la moglie può dire: “Ah, questo figlio non ha avuto il padre, perché lui se ne è sempre fregato”. Certe volte, il fatto che il padre non sia lì, perché è a lavorare o a fare delle cose, può giovare all’instaurazione della funzione di padre, anche se la persona in questione non è per nulla paterna in senso diretto.
Chiaramente, dobbiamo tenere conto della portata dell’identificazione che pone la questione del padre, per cui è ovvio che sorgono considerazioni rispetto a che un genitore si comporti in un modo o nell’altro. Per esempio, si dice: “Ah, questo qui è un papà autoritario”. Ebbene, diciamo che, spesso, questo non è un male. Ciò che è più problematico oggi è che certi papà abdichino totalmente alla funzione di autorità.
B.V. Ma io mi riferivo a questi secondi.
R.C. Dice: “Io più che un padre sono un amico, un fratello”. Cioè, io più che un padre non sono un padre!
S.D.V. La cosa importante è che, prima di tutto, spetta alla moglie sottolineare che per fare il babbo non si tratta di fare l’amico o il fratello, anche se spesso alle mogli questo va benissimo. Dice: “Già, mio marito per i miei figli è come un fratello, li fa giocare, li porta di qua, li porta di là, va a pescare”. Il che va benissimo, ma sembra quasi che, in certi momenti, il venire meno della funzione di autorità sia avvallata dalle donne. Nei casi felicissimi, come spero sia il suo, questo non avviene. Ma ci sono casi in cui la moglie avverte chiaramente un grosso problema, una sorta di tabù dell’autorità da parte del padre, e è evidente che spetta prima di tutto alla moglie porre la questione al marito, e non, diciamo così, denigrare per ciò il marito rispetto al figlio. Per cui il padre va sempre difeso, anche se apparentemente non è sempre difendibile.
Poi, lei dice: “In che modo può intervenire una donna?”. Poiché la funzione di padre, dicevo prima, non è quella del babbo, ma è qualificata dall’autorità, dalla responsabilità, dall’astrazione, dalla simbolizzazione, certamente una donna, una mamma può fare molto per alludere a questi valori. Per esempio, una mamma intellettuale, una mamma di studio, una mamma che scrive, una mamma che avvia delle iniziative interessanti, può fare molto. Io ho riscontrato in molte situazioni di donne che facevano l’analisi, che poi si sono formate come psicanaliste, una qualità, un miglioramento considerevole nel profitto scolastico delle figlie o dei figli, molto più che se la mamma fosse rimasta in casa a fare la tutrice, la nutrice soltanto.
In un caso, una madre veniva alle riunioni, alle conferenze a Milano, e la figlia lì per lì piangeva: “Ecco, non stai mai in casa, non ti occupi mai di noi”. Allora la madre, questa dottoressa mi diceva: “Vede, io sono una madre degenere”. Le dico: “Non si preoccupi, vedrà che è la cosa migliore”. E, in effetti, a un certo punto questa mamma è andata a parlare con gli insegnanti, e la professoressa diceva: “Sa, sua figlia dice sempre Mia madre si occupa di psicanalisi, organizza conferenze, va ai dibattiti”!
È assolutamente un valore che viene preso come merito, come differenza. Vedete che qui abbiamo l’astrazione, e ecco la seconda parte, abbiamo la madre che si pone prima di tutto come principio di intellettualità e di simbolizzazione, e anche, diciamo così, come elemento di differenza. Ma non perché si differenzia dalle altre, perché è più bella, meno bella o ha un bel vestito, ma perché è un indice della differenza, un indice del divenire. “Mia madre sta divenendo psicanalista, mia mamma sta facendo certe cose, mia mamma sta facendo l’analisi. Mia madre, mentre le altre donne sembrano che attendano la fine del loro tempo”.
“Ah, dottore, oramai ho quarantacinque, cinquant’anni, cosa vuole che faccia?”. Invece, questa donna a quarantacinque anni, intraprende un’avventura assolutamente intellettuale, cioè vive la cosa del divenire, del non accettare che le cose finiscano, ma non perché lo spiega, ma perché lo vive sulla sua pelle. E tra parentesi faccio notare quanto insista la questione pelle tra figlia a madre, fino agli eczemi, fino ai tumori.
Con il venire meno delle capacità fisiologiche femminili, qualche cosa della vita, del divenire, della crescita non viene meno. Anche qui, non importa tanto l’assenza fisica della mamma, ma è assolutamente importante che non ci sia un’assenza rispetto al divenire, al progetto, al dispositivo.
Vedo il titolo della prossima lezione Sessualità, generosità, riuscita. È chiaro che generosità e sessualità sono due valori che il mito della madre deve assolutamente porre in gioco, e che introduce se c’è effettivamente mito e indice.
R.C. Quanto alla questione se la mamma, che in quanto evoca la madre non dovrebbe portare via il lavoro al padre per dir così, possa avere una funzione di autorità, direi che non è una questione di assegnazione di ruoli. Importa come nel discorso stesso della mamma funziona la legge, funziona l’autorità. Cioè, se io, in quanto mamma faccio un intervento improntato a porre una regola, non lo faccio perché in quel momento mi gira così e il momento dopo mi gira in un altro modo. Lo faccio lungo la funzione di una legge che è citata nel discorso, una regola che poi non è che cambierà il momento dopo. Cioè, importa come la questione dell’autorità, della legge, del padre stesso, esiste anche nella madre e non è negata. Non è la madre che s’impone per fare la legge severa, ma può essere la rappresentante di una regola, di una legge, di qualcosa che non è lei a assumere. Come dire che, poiché adesso accorre fare così per questo e questo motivo, adesso si fa così.
Ciò comporta che vi sia un intervento, un intervento non severo, ma che tuttavia occorre fare e non delegare se in quel momento il papà non c’è, o se il papà non c’è del tutto, nel senso che è da un’altra parte. In questo senso non si tratta di ripartirsi i ruoli, ma di cogliere come la funzione non è patrimonio della persona, non è un ruolo. La funzione non è un ruolo che si può esercitare in un certo momento o non esercitare, è qualcosa che passa nella comunicazione!
Allora concludiamo qui l’incontro questa sera. Ringraziamo il dottor Dalla Val perché mi sembra sia stato un incontro di grande interesse. Vi ricordo che il dottor Dalla Val sarà presente anche al corso che incomincia il 15 marzo, dal titolo La scuola e il progetto di vita e quindi, chi volesse avere l’occasione di risentirlo, può iscriversi a questo corso.
Nel darvi appuntamento alla prossima settimana, vi ricordo che il tema di mercoledì è Sessualità, generosità e riuscita.
Qui, sono disponibili all’acquisto le dispense del corso La qualità dell’ascolto nella comunicazione, e il libro di Octave Mannoni, di cui vi consiglio la lettura L’Amore da transfert.
Sessualità, generosità, riuscita
Ruggero Chinaglia Ci sono questioni o domande? Lei?
Pubblico Non al momento.
R.C. Mentre veniva qui non pensava: “Ma cosa avrà voluto dire quella volta?”.
Pubblico Ho masticato un po’ di amaro così di botto l’altra volta, perché ho sentito del maschilismo nei discorsi che sono stati fatti.
R.C. Da parte di chi?
Pubblico Delle teorie che sono state enunciate.
R.C. Non da parte del dottor Dalla Val!
Pubblico No, per carità!
R.C. Da parte del pubblico?
Pubblico Da parte di quello che il dottor Dalla Val ha detto.
R.C. Per esempio?
Pubblico Non voglio dire che il dottore sia maschilista, ma ho riscontrato del maschilismo nelle questioni che sono state trattate. A proposito della funzione di padre, è stato detto che, tutto sommato, anche se non c’è, ha sempre una funzione positiva, comunque sia, che ci sia o che non ci sia, che venga ucciso o che sia vivo o morto. Cioè, il suo ruolo è distinto dalla funzione. Invece, non ho trovato questa differenziazione nel caso della madre. Mi è rimasto questo dubbio.
In relazione a questo, non ho capito come si può collegare, praticamente, la funzione padre e l’indice madre con il ruolo della mamma e del papà. Perché è rimasta un po’ teorica la questione, non ho chiaro il discorso.
R.C. Tra funzione e indice?
Pubblico Il collegamento tra funzione e indice nel caso del padre e della madre, e il ruolo che queste entità svolgono nell’ambito familiare e, nel caso nostro, nell’ambito scolastico.
R.C. Certo.
Pubblico Non mi è chiaro nemmeno il discorso dell’identificazione, che è stato appena accennato dal dottor Dalla Val. Cioè, l’identificazione del bambino con la funzione padre e della bambina con l’indice madre, nonché il rapporto della bambina con la funzione padre e del bambino con l’indice madre. Questi fenomeni come si vengono a concretizzare, a realizzare praticamente nel processo di identificazione, di formazione della personalità?
R.C. È una bella questione, anzi, sono più questioni di grande interesse. Lei ha cominciato a dare qualche risposta, tra sé e sé, mentre rifletteva?
Pubblico Penso sia un po’ difficile, perché siamo immersi nella nostra cultura. Ho letto il libro che ha consigliato sia lei nel corso scorso, sia il dottor Dalla Val l’altra volta Il mito di Ajasè e la famiglia giapponese. Diciamo che la madre avrebbe qualcosa, in quella ideologia e cultura, da insegnare alle madri occidentali, sia come indice del tempo, sia a proposito dell’accettazione, del perdono. Però, in quel libro non è che questo porti a un granché di positivo nella cultura e nella società giapponese. Mi pare che l’autore, se non ricordo male, si chieda come mai il bambino giapponese è così violento anche nei confronti dei familiari, dei genitori. Facevo queste riflessioni tra me e me.
R.C. Soluzioni non ce ne sono mai. La questione della parola, propriamente, è che non c’è soluzione. La questione stessa dell’analisi è che non c’è soluzione. C’è analisi. Il termine analisi indica il teorema: non c’è più soluzione.
L’idea di soluzione, cioè l’idea che esista un problema e ci debba essere la soluzione automatica, è un’idea sostanzialistica, psicofarmacologica. La soluzione che dovrebbe esistere per il problema sarebbe lo psicofarmaco del problema. La modalità psicofarmacologica è questa: a ciascun problema la soluzione, ossia lo psicofarmaco.
La questione intellettuale indica che non si tratta della soluzione, ma del modo che ciascun caso esige per approdare alla cifra del caso stesso, dell’itinerario necessario perché quel caso approdi alla sua conclusione. L’idea di soluzione toglie l’itinerario e vuole immediatamente il risultato, lo scioglimento dell’indovinello senza l’itinerario che occorre per giungere a individuare i termini del problema e dipanare ciò di cui si tratta. Pensare che vi sia soluzione è porre i termini del problema come già chiari.
Ora, la questione che ciascun problema pone, è proprio che i termini non sono già chiari e si tratta, appunto, di chiarirli. E già nell’itinerario in cui i termini si chiariscono, si può porre il modo per affrontare la questione. Insomma, non si tratta di dare nulla per scontato.
La soluzione, invece, dà già tutto per scontato, pensa che tutto sia già chiaro, che il problema indichi la questione, quali siano i vari risvolti o la struttura della cosa che si pone dinanzi, mentre non è così. Si tratta dell’indagine, d’indagare, dell’analisi, ossia di intendere qual è la causa, dunque l’identificazione. Ciascun problema pone in prima istanza la questione dell’identificazione, ossia di causa. Qual è l’oggetto che causa quella cosa, che mi causa in quella direzione, verso quella cosa? Per quale identificazione io mi trovo rivolto a quella cosa?
Non lo so, non so quale sia l’oggetto perché, diciamo così, non avendone fatto l’esperienza, non so nemmeno come funziona l’oggetto, in che modo interviene. Ma lungo l’indagine posso accorgermi di come interviene l’oggetto nella sua funzione di causa, di come funzionano le cose e di quali e quanti sono i termini del problema. Nell’indagine gli elementi si dispongono. Ma se io miro direttamente alla soluzione, non ho modo di allestire il dispositivo dove le cose si dispongono e funzionano.
È lungo il funzionamento che posso imbattermi nella tripartizione della parola, negli effetti della parola e giungere a intendere in che modo, in quella che apparentemente sembra una cosa in sé, una cosa stessa, uno stesso termine, ci sono vari risvolti e varie pieghe. Cioè, lo stesso termine funziona come nome, come significante e come Altro, e produce effetti differenti. E lungo questi effetti procede l’acquisizione, l’itinerario di qualifica nel quale non si tratta della soluzione.
Pensando a una certa cosa e cogliendone una determinata angolazione, io posso ritenere che quella cosa costituisca un problema e che quel problema debba avere una soluzione ma, già indagando, la cosa si sposta! Io stesso non sono più quello di prima, nel senso che la fantasia per cui quella cosa costituiva problema, se io l’attraverso, l’analizzo e colgo la ragione della fantasia, interviene un’altra disposizione degli elementi: la cosa non è più la cosa stessa, è un’altra cosa. Ciò che credevo in un modo diviene Altro, ciò che credevo ostacolo posto per determinati motivi, a un certo punto non è più ostacolo. L’ostacolo non c’è più.
Io ritenevo di non potere fare quella cosa. Perché? Perché non ero all’altezza? Perché ciò avrebbe contraddetto un dettato materno? Perché avrebbe contraddetto a un’immagine ideale? Perché avrebbe comportato qualche critica o un’audacia che non ritenevo di avere? Già chiarendo i vari componenti fantasmatici l’impedimento non c’è più perché, se mi rendo conto che ciò che rende impossibile una certa cosa è una fantasticheria, una fantasmatica che non tiene rispetto alla posta in gioco, rispetto all’importanza del passo da compiere, ebbene, il passo si compie.
Credevo che la difficoltà stesse nel passo. Non era nel passo! Era in ciò che stava attorno al passo, in una credenza che aveva le sue radici in un’idea della famiglia, della società, di me o in un’idea dell’Altro. Cioè, in un’idea, in una credenza, in una rappresentazione fantasmatica, in una sorta di animale fantastico che io mi ero costruito, ritenendo che la combinazione fra me e la cosa avesse quel segno, magari negativo. Esplorando l’animale fantastico scopro che quel segno non c’è e, anzi, nulla osta.
Allora, l’esplorazione cosa comporta? Comporta l’instaurazione di una funzione di autorità dovuta al nome che funziona in quella circostanza, al nome che funziona nella rimozione. L’autorità e la capacità, come funzione del significante e non più attribuite a un soggetto, divengono istanze della parola. Non mie, tue o sue.
C’è un passo del Vangelo secondo san Luca in cui si narra che Cristo era nel tempio e arrivano gli anziani che gli chiedono: “Tu, dove trovi l’autorità, da chi ti viene l’autorità per dire quello che dici?”. Cristo li guarda e risponde: “Voi ritenete che il battesimo di Giovanni venisse dal cielo o dalle cose terrene?”. Gli anziani allora confabulano tra di loro e dicono: “Se diciamo che veniva dal cielo, ci dice Allora perché non gli avete creduto? Se diciamo che veniva dalle cose terrene, ci linciano, perché qui fuori c’è tanta gente che è favorevole a Giovanni”. Per cui rispondono: “Non lo sappiamo”. “Benissimo”, dice Cristo “Allora neanch’io vi dico da dove viene l’autorità per cui parlo”.
L’autorità non viene da qualcuno, l’autorità viene da ciò che si sta dicendo, dal nome che funziona. L’autorità non è un esercizio di padronanza, non viene per investitura. È il modo con cui si scrive il funzionamento del nome. Il nome che funziona, la sua scrittura è l’autorità nella sintassi delle cose che si dicono. L’autorità viene dal nome, viene dal padre, dalla funzione padre in atto.
Cristo spesso dice: “Io sono mandato dal padre mio”. Io sono mandato dal padre mio in quanto figlio. In quanto figlio procede dal padre. Sant’Agostino fa notare che non è figlio del padre, ma è mandato dal padre, ossia procede dal padre in quanto è figlio, ma non “figlio del padre”! È figlio, nello statuto di figlio, cioè del significante che funziona. Non figlio di, quindi inscritto in una genealogia per rappresentare la filiazione, per rappresentare il segno dell’appartenenza. È figlio, funzione di figlio, ciò che non è ammesso dal discorso ebraico, che infatti attende ancora il figlio, che non ammette vi sia il figlio e, infatti, non perdona al nemico.
Non c’è perdono del nemico nel discorso ebraico. L’ha fatto vedere con la guerra dei sei giorni. Quale perdono? C’era una minaccia d’attacco. Sterminio. Non c’è accoglienza di un’altra istanza se non la legge del padre che, invece, nel cattolicesimo e nel cristianesimo c’è. Infatti, c’è la processione del figlio, del padre e dello spirito, che procede dal padre e dal figlio.
Concludo. Il padre non è il padre del figlio, è padre al figlio. Cosa vuole dire che il padre è padre al figlio? Che c’è funzione di padre a prescindere dalla genealogia. Che non è il papà, ma che è il padre, che è padre al figlio.
Nel Vangelo secondo san Marco, e in sant’Agostino nel De Trinitate, c’è un passo in cui si parla del miracolo, dove viene specificato che non si tratta del padre del figlio, ma del padre al figlio, quindi della funzione padre, di qualcosa che funziona come padre. In questo senso si può cogliere che non si tratta del papà, della filiazione, della genealogia, ma di una procedura e di una processione lungo cui le cose si scrivono. Si scrivono come autorità e come legge. E in questo senso la questione non è né del papà né della mamma, non è proprietà personale, ma come la funzione padre si scrive e instaura il figlio. Che non è il figlio di mamma, né il figlio di papà. Lo statuto di figlio non è lo statuto filiale, cioè del suddito.
Il suddito si trova preso fra ricatto e riscatto nell’idea di liberarsi, di potere arrivare a fare quello che vuole come forma della libertà servile. La libertà non è la liberazione, non è fare quel che si vuole, ma è fare quel che il caso esige e trovare il modo di farlo. Questa è la libertà, la libertà pragmatica, non la libertà fantastica.
Cosa esige questo caso, questa circostanza? Come fare? Questa è la libertà, la libertà pragmatica che procede dalla fede, cioè dallo Spirito Santo. Santo in quanto non ha né il segno del negativo né del positivo. È spirito pragmatico. Fede. Fede, cioè spirito pragmatico. Fede, cioè operatore, per cui si tratta di fare quel che bisogna fare. Lo spirito per cui l’annunciazione si compie, giunge a conclusione.
Padre e figlio non sono elementi di una sistematica, di un sistema morfologico dinamico su cui si erigerebbe la società, ma funzioni della parola, ciò che è in atto nel funzionamento come aspetto temporale che funziona.
C’è anche un altro aspetto, che è il tempo come indice. Cioè, qualcosa indica che il tempo c’è, non è finito e non c’è la fine del tempo, ma le cose vanno e vengono infinitamente. Questa è la madre come indice, indice che costituisce la madre come riferimento.
Non si tratta della persona della madre, né della mamma che riveste il ruolo, ma è un indice che sta nel dispositivo. Che sia il discorso del papà o il discorso della mamma che consente l’instaurazione del dispositivo, poco importa. Quello che importa è che vi sia.
Se, invece, né il discorso del papà né quello della mamma consentono che vi sia questo dispositivo, allora non può instaurarsi né l’apertura, né il dispositivo, e c’è solo un quadro fosco delle cose. C’è la paura. Se c’è la madre, non c’è la paura. Questa è la questione. La paura è sempre paura della fine, paura di non farcela. Perché? Perché qualcosa finisce e prevalgono le varie rappresentazioni della morte come fine: le forze finiscono, l’energia finisce, i soldi finiscono, l’intelligenza finisce, le occasioni finiscono.
Di per sé la morte non fa paura, perché pensare alla morte è un modo di pensare al tempo, e è impossibile pensare al tempo. Il tempo è impensabile, c’è solo modo di rappresentarlo, e uno dei modi è la morte. Ma poiché anche la morte è irrapresentabile, come viene rappresentata? Come fine. Anche la madre è irrapresentabile. Come si fa a rappresentarsi la madre, ciò che indica il tempo? È impossibile. Ci può essere una rappresentazione della madre che può combaciare con la mamma o con ciò che è materno.
Ciò che è materno, cos’è? È quello che dovrebbe rassicurare rispetto al male, al negativo, alla fine. Allora, ciò che è materno è proprio antitetico alla madre. Le cure materne, le varie forme di maternaggio, sono una forma di protezione rispetto al pericolo. L’esercizio materno per eccellenza è l’esercizio della protezione. “Guarda quella mamma come è poco materna, non protegge affatto, non ripara affatto”! Il maternaggio è l’antitesi alla madre e favorisce l’insorgenza di fantasie rispetto al pericolo, al male, al negativo, alle malattie: “Copriti, non prendere freddo, stai attento di qua, stai attento di là. Non uscire. Se esci, copriti. Se ti sei coperto, copriti di più. Non bagnarti. Se ti bagni, ti ammali. Se ti ammali, muori. Se fai questo chissà cosa dirà la gente. Se poi la gente dice male, non puoi più fare niente. Se non fai niente, muori”. E via col rosario, con le litanie di tutti i pericoli.
Il più delle volte non sono nemmeno pericoli di chissà quale natura. Affinché il messaggio giunga a destinazione non occorre che configuri chissà quale fosco quadro. No, basta dire “Vai piano, non correre”. E uno pensa “Mi ha detto di non correre. Quindi, se corro, che cosa mi capiterà?”. “Mi raccomando, non correre, sii prudente, fai così, fai cosà, stai attento”. Attento a che? Ai pericoli! Quindi, fuori c’è il pericolo. Che, poi, non è mai quel pericolo o quell’altro. Quanto più vago e indistinto è il pericolo, tanto maggiore sarà la paura, perché il messaggio che passa è che i pericoli possono annidarsi dappertutto. E tanto meno la madre si instaura in questo caso! Ci sarà invece maternaggio, idea del materno, del pericolo, del male, dell’eventualità che da un momento all’altro arriva la scure, la mannaia, la ghigliottina, il colpo di mamma.
Il colpo di mamma! La mamma mette in guardia dal colpo di mamma. Come per altro fa la mafia, quando manda i suoi avvertimenti, cioè devi pagare il pizzo. E perché? Per proteggerti. Da che cosa? Da quelli che ti vogliono male. E chi sono quelli che ti vogliono male? Quelli che ti proteggono! La mafia da chi protegge? Da quelli che vogliono male, da quelli che possono farti male. E chi sono? Gli stessi che ti proteggono. La modalità con cui si instaura la fantasia è la stessa. Chi governa, chi regge tutti questi pericoli se non chi mette in guardia da essi?
Ecco, di questo mi pare abbia parlato Dalla Val la settimana scorsa. Non sono i genitori che con la loro presenza riuscirebbero a orientare, guidare, proteggere, ma sono di volta in volta indicazioni, atti linguistici, atti di parola. È una funzione, è uno statuto in atto, qualcosa per cui, in un certo momento, c’è un intervento che indica con precisione qualcosa. Lo indica, o lo proibisce, o ne indica una sfaccettatura piuttosto che un’altra. Quanti sono i genitori che dicono “Ma io non posso vietare nulla, proibire nulla, intervenire in alcun modo perché creerei dei turbamenti”? Il peggior turbamento è che tutto sia permesso. Se tutto è permesso, come dice Dostoevskij, Dio è morto. Dio è morto se tutto è permesso; o tutto è vietato, che è la stessa cosa. Cioè, non c’è più legge, sintassi, dispositivo, non c’è più nulla. Nulla si staglia rispetto a qualcosa.
Non so se ho risposto alle questioni.
Luigina Corsatto In questo senso, allora, la funzione di autorità, la funzione di tempo come indice del tempo, si instaura indipendentemente dalla mamma e dal papà, cioè è un qualcosa che, dal punto di vista dei ruoli, non ha niente a che fare, è qualcosa di asessuato. È un’istanza, praticamente. È qualcosa che il figlio, in quanto tale, deve assimilare. Che lo assimili dalla mamma o che lo assimili dal papà, dalla scuola, dal professore non cambia. Nel caso della scuola, per esempio, mi pare di capire che queste due istanze vengono a sommarsi nella funzione dell’insegnante.
R.C. Esatto, questo è un punto importantissimo. Non è che nella scuola c’è un insegnante maschio e un’insegnante femmina che si devono dividere il compito, e una volta dice uno e una volta dice l’altro perché devono fare il teatrino. Non è questo. Ma, certamente, dal dispositivo che l’insegnante dirige qualcosa si scrive se c’è lo statuto dell’insegnante in atto.
Questo era proprio il punto che volevo considerare oggi: la posizione, il ruolo e lo statuto dell’insegnante che, certamente, in qualche modo si avvicina e si affianca alla posizione, al ruolo e allo statuto del genitore. Posizione, ruolo e statuto che non sono la stessa cosa.
A un certo punto un bambino, un ragazzo, comincia l’anno scolastico e si trova davanti un insegnante senza averlo scelto, in quanto la scuola gliel’ha posto dinanzi. Che si instauri lo statuto dell’insegnante è un’altra faccenda. Può avvenire e può anche non avvenire. Per quanti anni possa andare avanti la classe, lo studio, la scuola, lo statuto di insegnante può non instaurarsi mai. Perché? Perché la sua instaurazione è la conseguenza, l’effetto del modo con cui si instaura e si attua la direzione del dispositivo, con le sue regole, i suoi modi dell’appuntamento e dell’incontro con quel che avviene e con ciò che occorre fare.
Allora, esistendo il dispositivo, esiste anche lo statuto dell’insegnante. Non è importante la persona dell’insegnante, l’insegnante non è la persona, ma ciò da cui procede l’insegnamento. L’insegnamento è un effetto, un effetto della memoria. L’insegnamento è ciò che della memoria si scrive. L’insegnante, più che chi insegna, è quel che si insegna e ciò di cui si tratta in quel che si insegna. La posizione, il ruolo dell’insegnante è una maschera, è una questione di immagine e anche di teatro. Certamente è indispensabile questa posizione, questo ruolo, questa maschera. Se non ci fosse, non ci sarebbe il pretesto per niente. Quindi è importante che ci sia, ma non basta. Importa lo statuto, che esige il dispositivo, il funzionamento e la direzione.
In quanto direttore del dispositivo che la classe costituisce, ecco che l’insegnante si trova nello “statuto dell’insegnante”, ovvero si instaura quel che insegna. L’allievo può ascoltare, può intendere quel che si dice nel discorso di chi dirige il dispositivo, cioè può cogliere, nel modo con cui viene diretto il dispositivo, le indicazioni della logica del dispositivo stesso, cioè della logica originaria con cui le cose funzionano.
Così avviene l’insegnamento, per un processo di induzione, di abduzione e di deduzione, non di apprendimento! Nulla viene appreso, ma per la funzione di direzione dell’insegnante le cose giungono a udirsi, a intendersi, a scriversi e a cifrarsi per deduzione, induzione, astrazione.
L’insegnante, in quanto direttore del dispositivo, rilascia effetti di insegnamento. E, più precisamente, è la “funzione di direzione” che rilascia effetti di insegnamento. Quindi, l’insegnante non può affidare al caso la strategia e la tattica, per cui in un certo momento interviene in un modo e in un altro momento in tutt’altro. Non può un giorno, perché ha le paturnie, dire una cosa e un altro giorno, perché è preoccupato per i casi suoi, dire il contrario. Eh no! Occorre che sia in atto una strategia, una tattica che risente della clinica, che risente in prima istanza del transfert, cioè dell’itinerario con cui le cose si cifrano, si qualificano. In ciò sta la qualità dell’insegnamento. Che qualcosa si scriva oppure no, dipende se nel dispositivo ciascuno si sente in un itinerario, l’insegnante per primo. E ciò a prescindere che si tratti della scuola dell’obbligo o meno.
Molto spesso, viene portato come alibi, rispetto a una difficoltà con cui può svolgersi l’insegnamento, il fatto che una parte della scuola è dell’obbligo, per cui sarebbe sufficiente andare a scuola per adempiere all’obbligo, accada quel che accada, o anche se non accade niente. Se l’insegnante per primo credesse a questa fantasia, allora la scuola non sarebbe più scuola, ma si tradurrebbe in una scuola dove basterebbe, come si diceva una volta, scaldare il banco. Se, invece si instaura il dispositivo, allora c’è funzione, c’è statuto, c’è appuntamento, incontro, regole, gioco, lavoro. E ciascuno si trova rivolto verso il suo progetto.
Il dispositivo assolve al compito di instaurare per ciascuno il suo progetto come progetto di vita. E quel che accade nel dispositivo è integrato nel progetto. Non è come un peso che non vedo l’ora che finisca perché, tanto, questo è l’obbligo e io poi farò dell’altro. Anche quello che sto facendo adesso si integra con ciò che di altro farò.
Ma questo è un messaggio che deve incontrare i modi della comunicazione e dell’ascolto. Non è sufficiente dire “Adesso te lo dico e tu mi devi credere”. Non basta dire “Guardate che dovete fare i bravi, perché poi tutto ciò che facciamo qui vi verrà utile”. Detto così, entra da una parte, come si diceva una volta, e esce dall’altra. Se così fosse, basterebbe dire le cose e queste, automaticamente, rilascerebbero il loro messaggio.
Non va così. Occorre un paradigma, un esempio, occorre qualcosa di forte per cui ciò diviene, effettivamente, un messaggio rispetto a cui ciascuno si sente convocato a rispondere, a integrarsi perché si inscrive in una direzione. Non può essere bandita l’autorità temendo che possa fare la caricatura dell’autoritarismo né, per altro, può essere applicato l’autoritarismo per dire che ci vuole l’autorità. L’autorità non ha nulla a che vedere con la voce grossa, anzi, dove serve fare la voce grossa, questo indica propriamente che lì l’autorità non c’è. Perché l’autorità è del nome, non della voce grossa.
L.C. In questo contesto, in questo senso, si può dire che la maschera, l’immagine che l’insegnante assume, è un pretesto perché si instauri il dispositivo? La maschera è condizionata dal ruolo, dalla funzione… Anzi, non funzione, perché ha un altro significato in questo contesto, ma dal ruolo che viene a esso assegnato dalla società? E se la società non riconosce questa maschera, allora diventa una caricatura. Allora, tutto ciò, può impedire, al di là della qualità dell’insegnamento, l’instaurarsi di un dispositivo?
Concretamente, all’insegnante, oggi non gli viene assegnato un grande ruolo sociale, non ha una grande rilevanza nell’immaginario collettivo. È stato sostituito da un altro tipo di immagine. Anche nei ragazzi, nessuno desidera diventare insegnante, ma fotomodella, cantante, immagini che sono sempre maschere, ma che hanno un altro valore. Per cui, quanto può influire ciò nella qualità dell’insegnamento?
Perché si rischia di instaurare la scuola come una specie di angolo a parte, ideale, che poco ha a che fare con la concretezza della società. Nella scuola non si dà valore al denaro, alla forma, all’esteriorità. Ma, poi, i messaggi prevalenti sono diversi.
In genere, i messaggi che noi trasmettiamo – trasmettiamo non è la parola giusta, me la perdoni visto che io sono ancora molto inserita nella cultura occidentale – sono più idealistici, si dà importanza alla cultura, alla formazione che, molto spesso, sono in contrasto con i messaggi che vengono da altre fonti.
Quindi, i messaggi che noi trasmettiamo con questa maschera che per il ragazzo, per l’allievo, è una caricatura, come possono instaurare l’insegnamento, la qualità?
R.C. Esatto. Siamo in medias res, cioè nel fuoco del problema. Lei ha centrato una questione importantissima.
L.C. L’ho tirata fuori senza volere.
R.C. Senza volere, diceva? È così che accade, senza volere, perché non è per volontà che accade. Adesso, vediamo di svolgere questa cosa perché, effettivamente, è importantissima. Però, prima c’era una mano alzata di Dalle Fratte.
Gianfranco Dalle Fratte Perché la madre non funziona, cioè come la cifrematica è arrivata a elaborare questo?
R.C. A questo abbiamo già risposto.
Cecilia Maurantonio Nell’intervento precedente si era accennato alla questione dei soldi nella scuola. Effettivamente, è vero che la scuola, di per sé, come istituzione, non ha mai incontrato la questione del denaro. Cioè, vive garantita da qualcos’altro al di fuori di sé.
Sia la cultura, sia il denaro, i soldi sono un qualcosa di cui la scuola sembra quasi depurata, perché sono altrove. È una questione che non è mai stata, non dico assunta perché si presti a una lettura, o si possa trattare in termini qualitativi, ma neanche mai affrontata; è come se non esistesse.
R.C. C’era una domanda che voleva porre o solo fare questa annotazione?
C.M. Era un’annotazione che partiva dall’intervento della professoressa Corsatto rispetto alla maschera. La maschera che sta nella parola non può essere denigrata, il funzionamento non può essere spento. Cioè, le cose che esistono si incontrano nella parola.
R.C. Ci sono altre domande? Tutto ciò che abbiamo detto non ha evocato niente?
Le ha evocato qualcosa?
Maria Loretta Baraldo Non è stato molto chiaro.
R.C. Adesso così è facile! È facilissimo così! Si prende un capro espiatorio.
M.L.B. A proposito del discorso sugli insegnanti, direi che è abbastanza ampio. A volte sono considerati, a volte sono criticati, a volte giudicati o considerati troppo. Ci sono delle aspettative grandissime sugli insegnanti. Io parlo per gli insegnanti delle scuole elementari, soprattutto.
R.C. Lei insegna nelle scuole elementari.
M.L.B. Però a volte queste aspettative, alla fine dei cinque anni, non si realizzano e molte volte gli insegnanti vengono giudicati e criticati. Non è facile il ruolo che stiamo svolgendo e penso che lo stesso sia per le superiori, forse ancora di più.
R.C. Lei dice che l’insegnante è giudicato.
M.L.B. Moltissime volte, certo.
R.C. E giudicato da chi?
M.L.B. Nel nostro caso dai genitori.
R.C. Perché i genitori?
M.L.B. Si aspettano grandi cose.
R.C. Tipo?
M.L.B. Che i bambini sappiano moltissimo al termine della quinta, che siano preparati, autosufficienti, indipendenti, responsabili e autonomi. Questo ci richiedono, e immagino che alle superiori o alle medie sia ancora di più.
R.C. E voi giudicate i genitori?
M.L.B. A volte, fra di noi, certo! Molte volte, però, cerchi di vedere il bambino, come persona, che viene prima.
R.C. Cerchi di vedere?
M.L.B. Il bambino come persona più importante.
R.C. E come lei cerca di vedere questo bambino?
M.L.B. Nel suo insieme, prima di tutto. Cerchi di vederlo conoscendo i genitori, l’ambiente dove vive, chi frequenta e cerchi di farti una figura del bambino, di aiutarlo, a volte anche andando contro a quello che i genitori dicono, forse.
R.C. Di aiutarlo in che modo, rispetto a che?
M.L.B. Rispetto ai problemi che ha. A volte ci sono dei genitori troppo esigenti e il bambino non risponde con quelle che sono le sue capacità, per cui i genitori non hanno i risultati che si aspettano. E a scuola tu devi cercare di completare questa parte del bambino, dicendo “Ma guarda che sei bravo lo stesso”. Perché le aspettative dei genitori sono più alte. In questo ne va di mezzo l’insegnante. Quando il bambino non arriva a certi livelli, non tutti i genitori riescono a riconoscere i limiti. Ecco che allora la figura dell’insegnante è tirata in ballo. Almeno questa è la realtà che viviamo noi alla scuola elementare. C’è una realtà molto pratica, semplice, senza grandi parole, però è la vita di tutti i giorni.
R.C. Esatto. È vita di tutti i giorni. O meglio, è vita di ciascun giorno. Perché, se lei dice che è vita di tutti i giorni, già si nega che possa accadere il miracolo, mentre se lo dice nel secondo modo, allora non se lo nega più.
Non è solo una questione formale, di vocabolario, poiché le cose si dicono secondo una logica. Se noi diciamo che tutti i giorni accadono certe cose, già ci prefiguriamo che non accadrà nulla di differente e, forse, nemmeno facciamo alcunché perché qualcosa di differente accada.
Certamente, nella questione del dispositivo è in gioco la generosità intellettuale, la cui prima indicazione è che non ci si può stancare, non c’è stanchezza. Non ci si può stancare dal proporre, dal promuovere, dal provocare in direzione del miracolo, dell’accadere, della qualità. Non ci si può stancare nemmeno pensando “Tanto è inutile perché Tizio non ci arriverà mai, non ce la farà mai, tanto questi non sono in grado di capire niente. Sono stato sfortunato quest’anno, ho una classe terribile! Non capiscono niente, non mi ascoltano, non studiano”.
La generosità impone di non cessare di considerare l’Altro senza le rappresentazioni del positivo e del negativo. Nella generosità si tratta di non ritenere l’Altro un soggetto. Il soggetto, per definizione, è il soggetto debole, malato, incapace o che, se anche adesso non lo è, può diventare debole, malato e incapace. Il soggetto è un animale fantastico che può essere tutto positivo o tutto negativo, e non c’è verso, da lì non si muoverà mai. Se l’insegnante ha dei suoi allievi questa rappresentazione, è praticamente impossibile che si instauri un dispositivo nella classe e che si instauri l’insegnamento. Si instaureranno relazioni umane, soggette alle fantasie che quella persona, quell’insegnante ha dei suoi simili.
M.L.B. Ma sono negative o positive queste relazioni umane, se si instaurano?
R.C. Già il fatto che possono essere considerate o positive o negative, le dice della portata che hanno le relazioni umane: sono sempre nell’ambito di una fantasmatica in cui l’Altro è soggetto!
L’Altro, qui, non è l’Altro irrappresentabile, insignificabile, è un altro soggetto, cioè è un altro mio simile, è il mio alter ego. È il rappresentante di tutto il bene che io non ho, o di tutto il male che io non ho. È il mio simile. E questa è una trappola mortale per l’insegnante e per l’allievo, perché li ingabbiano in una coppia in cui, ovviamente, per questioni psichiche che sfuggono all’insegnante stesso, verranno di volta in volta accentuati gli aspetti che di questa rappresentazione ha l’insegnante, in particolare quelli negativi, per soddisfare una sorta di relazione umana che l’insegnante imposta, con le attese o le disattese, con i limiti che imporrà: “Questo non importa che lo faccia, poverino, so che ti sei sforzato, so che non ce la puoi fare”. Morto! Kaputt!
M.L.B. E quando le attese dei genitori sono troppe?
R.C. Per prima cosa occorre tenere conto che c’è un dispositivo nella classe.
M.L.B. Ma di cui fanno parte anche i genitori, però.
R.C. L’insegnante è direttore del suo dispositivo e occorre che tenga conto dell’identificazione e del funzionamento che c’è in quel dispositivo, senza favorire una sorta di alternanza che può costituire un alibi, e cioè, dato che a casa accade in un modo, allora a scuola deve accadere nell’altro modo o nello stesso modo. Perché, l’origine di una cosa sta dall’altra parte? No!
C’è qualcosa che sorge, si avvia e che occorre si articoli a scuola, dove l’insegnante è ciò che provoca, è ciò che dirige, è ciò che ha una funzione e uno statuto in atto. Per cui, che possa sorgere una rivalità, una problematica di interferenza tra l’insegnante e i genitori può essere una fantasia, ma è solo una fantasia che si tratta di affrontare e elaborare, magari convocando i genitori, avendo un colloquio, certamente, però tenendo conto che si tratta di una fantasia.
In realtà questa fantasia non esiste. Occorre che l’insegnante, invece, tenga conto di ciò che avviene lì, nel suo dispositivo, e ne tenga conto soprattutto in relazione non al bambino ideale, al bambino come attante sociale, che è il ruolo che la società, l’ambiente, la famiglia attribuiscono al bambino. Se l’insegnante ritiene di avere dinanzi un bambino ideale, e non quel bambino, non si stabilirà mai una comunicazione, perché l’insegnante presumerà di avere dinanzi a sé una formazione fantastica e tratterà il bambino “da bambino”, da bambino ideale.
Diciamo che uno dei problemi della scuola è proprio di trattare i bambini da bambini e i ragazzi da ragazzi, cioè secondo la modellistica che le convenzioni, i trattati, i manuali suggeriscono rispetto ai bambini, ai ragazzi, agli adolescenti senza, cioè, tenere conto dell’istanza effettiva che sorge da ciascuno, di cui ciascuno è autore.
Si tratta di considerare l’autentico che c’è in ciascun bambino, non il bambino in quanto tale. Trattare i bambini da bambini vuole dire non ascoltare nella quasi totalità dei casi. Cioè, vuole dire fare la mamma anziché l’insegnante, e i bambini non hanno bisogno della mamma a scuola. Hanno bisogno dell’insegnante! Se l’insegnante fa la mamma, non c’è più scuola. C’è una rappresentazione del maternage e il bambino si distrae, si assenta, non ne può più. Il bambino non vuole un’altra mamma, non vuole un alter ego rispetto alla mamma, non vuole il sosia della mamma, o la mamma più buona o più cattiva nell’insegnante. Nell’insegnante non vuole niente, ma occorre trovi l’insegnante, cioè la condizione per l’insegnamento. Se trova la mamma o qualcosa di materno, allora sorgono i problemi perché non è quello il dispositivo per la mamma.
Non è in quanto figlio di che ciascun bambino va a scuola, ma come allievo! E allora occorre trovi le condizioni per l’insegnamento, dell’insegnamento, le condizioni per divenire allievo, per fare quel che l’allievo deve fare, quel che lui, in quanto allievo, deve fare. Cioè, occorre che trovi il dispositivo. Maestro e allievo come dispositivo. Non come coppia, come coppia materna, non come coppia parentale. Come dispositivo per fare.
Per cui occorre inventare “cosa fare” perché avvenga il miracolo, cioè perché il bambino faccia il suo itinerario che la scuola propone, oppure l’itinerario che, in quanto allievo, l’insegnante ritiene che debba fare con la sua direzione, quindi non solamente il programma ministeriale, ma molto di più. Molto di più!
Le implicazioni sono nettamente maggiori, la posta in gioco è ben più alta. Il programma ministeriale si può leggere sul libro mal che vada, ma c’è un insegnamento che non viene dal programma ministeriale, un insegnamento che spetta all’insegnante e che avviene se si instaura il dispositivo e non il maternaggio, non il gemellaggio, non l’animale fantastico, non il soggetto.
Per questo importa la formazione clinica dell’insegnante e non, come dicevo, la formazione psicologica. La formazione clinica per non trattare i bambini da bambini, che è la mortificazione peggiore! È un insulto all’intelligenza!
Federica Bietolini Questa è la formazione che hanno avuto tutti gli insegnanti, ci hanno formato così, e sembrava un’innovazione rispetto a prima quando non erano formati affatto e c’erano solamente i contenuti.
R.C. Sono le innovazioni della gnosi.
M.L.B. Non so se scendo troppo nel particolare. Quando a scuola vengono fatte le verifiche… È quel tipo di bambino che lei diceva che non va bene. Li mettiamo tutti sullo stesso piano perché li valutiamo, ma con degli standard praticamente, non tenendo conto del particolare, li valutiamo con degli standard molto precisi, per cui i bambini vengono uniformati tutti.
R.C. E da quanti anni è in voga questa modalità?
M.L.B. Alle elementari ci hanno praticamente dato delle buone batoste. Le verifiche sono due o tre anni che sono entrate in maniera spietata.
R.C. Sì, ma già da prima.
M.L.B. Sì, però erano più leggere, ti lasciavano più libertà.
R.C. E adesso?
M.L.B. Adesso non più. Molto fiscali, quasi come le superiori, oppure ogni mese o ogni due.
R.C. Ma non si può dire che ciò abbia comportato un miglioramento nella scuola, né nella scuola né nell’insegnamento. Anzi! È constatabile che, man mano che trascorrono gli anni, all’università arrivano persone la cui formazione intellettuale è sempre più scadente. Oggi gli studenti universitari hanno una formazione più scadente dei ragazzi del liceo di vent’anni fa.
M.L.B. Ma noi insegnanti delle elementari siamo le prime a ammetterlo.
R.C. Certo. E qui arriviamo alla questione scuola e società. È la scuola che viene dalla società o è la società che viene dalla scuola? Sono gli insegnanti che vengono dalla scuola o gli insegnanti vengono dalla società? Scuola e società sono uno dentro e l’altro fuori? Com’è la faccenda? È la scuola che ha una responsabilità verso la società o è la società che ha una responsabilità verso la scuola? Come accade? Da cosa dipende la qualità della scuola, la qualità dell’insegnamento? Da chi bisogna aspettarsela? Da quali fonti?
F.B. Ci sono delle richieste da parte della società, è giusto questo. Non si può certo tagliare fuori l’esterno.
Quando si è in classe bisogna far funzionare quello che si ha tra le mani con quel poco che si ha, e al meglio di quello che si può. Non so come posso chiamarlo, dovere? Forse c’è una parola diversa nella cifrematica. A me viene così. Questo, però, non vuole dire che la società non abbia responsabilità nei confronti della scuola, che sono ben precise come diceva prima la collega, di immagine, di organizzazione. Sono varie.
R.C. Bene. Quindi adesso stiamo raccogliendo alcune ipotesi.
F.B. Però, che non sia un alibi per l’insegnante.
Nadia Vidale Due cose. Non ho mai incontrato in quindici anni uno studente di scuola media superiore che dicesse di volere fare l’insegnante, mentre ho sentito i bambini delle scuole elementari, soprattutto le bambine, dire: “Voglio fare la maestra”. [C’è un po’ di subbuglio in sala].
R.C. È una testimonianza. Chi non è d’accordo ne darà la sua.
N.V. Però, io non ho mai associato questo a una questione di ruolo sociale, a una questione di soldi o di poveri cani. Ho pensato che, forse, a quell’età, per quell’età, c’è qualcosa d’impossibile, per cui non si può desiderare di fare l’insegnante anche se non so quale sia il motivo; ma in qualche modo accolgo che a quindici, sedici, diciott’anni le aspettative sono diverse. Ciononostante, può darsi che poi qualcuno di costoro si trovi a fare l’insegnante, ma c’è qualcosa nel mestiere che resiste a ritenerlo possibile o desiderabile in un certo momento della vita.
Un’altra cosa. Dalla parte degli insegnanti, ho ascoltato purtroppo moltissimi di loro fare un discorso di una modestia assoluta, che non può che rendere difficile fare l’insegnante e inqualificabile quello che poi, di fatto, succede.
Se il giorno della festa delle matricole io riesco a avere, unica, in un istituto di cinquecento alunni, sedici ragazzi presenti, che tra l’altro devo andare a recuperare in aula video perché, siccome sono in pochi, sono stati mandati a vedersi un film, e i miei colleghi si lasciano andare a espressioni di compatimento nei miei confronti perché quel giorno devo fare lezione, e qualcuno dice cose del tipo: “Beh, speriamo di non avere in classe le solite tre cretine”, è chiaro che per queste persone quello stipendio è fin troppo.
Se io penso che sono cretine quelle che vengono a scuola a seguire la mia lezione, cosa penso di quello che faccio? Cioè, come vado a qualificare la mia attività il giorno della festa delle matricole, la settimana precedente che è il giorno della finta festa delle matricole, tre mesi dopo quando ci sarà un’altra festa delle matricole, l’8 marzo che è la festa della donna, e io ho saputo che non ci sarà nessuno a scuola?
In occasione dell’ultima festa delle matricole, io sono tornata a casa amareggiata, perché all’una, a scuola eravamo in due, e il preside, constatato che non c’era nessuno, a un certo punto ha detto: “Andate tutti a casa”. Ora, che i ragazzi vogliano fare la festa delle matricole, va bene, che le famiglie giustifichino, va bene, ma che gli insegnanti si congratulino della festa delle matricole a me sembra scandaloso, e credo che questa cosa non sia senza influenza su quello che poi avviene giorno per giorno, per cui, quando il genitore rappresentante di classe mi dice: “Perché, insomma, voi poveri cristi, come vi trattano!”, io rispondo: “Senta, povero cristo a me non lo dice!”. Perché può darsi che mi paghino poco ma, tuttavia, il passaggio a povero cristo lo respingo. E credo che gli insegnanti non facciano molto, al di là dello stipendio, e al di qua dello stipendio, per respingere questa immagine.
Pubblico Ma siamo solo noi a respingerlo.
N.V. Io mi sono chiesta che fare, mi sono chiesta se insistere.
Pubblico Il problema è proprio la scuola e la società. E la società non lo respinge affatto il povero cristo, anzi, continua a chiamarti povero cristo anche se tu non ti senti tale. E il ragazzo è influenzato da questo povero cristo.
R.C. Bene. Anche questa è una questione.
V.P. Bietolini sosteneva che la qualità della scuola dipende molto, se non soltanto, dall’insegnante. A me veniva da dire che una società è più o meno evoluta a seconda dell’importanza che dà alla scuola. Quindi, secondo me, c’è da parte della società la necessità di considerare la scuola, di progettarla, di valorizzarla, in effetti.
F.B. Però, io avevo detto che è importante l’insegnante, ma questo non esclude affatto la società. Dicevo che a scuola c’è l’insegnante, e per le diciotto ore in cui c’è, è lui che è importante.
R.C. Occorre dire, dato che stiamo parlando di dispositivo, che anche la società è un dispositivo. Se noi chiamiamo società il dispositivo dove le cose si fanno, dove accadono le questioni economiche, finanziarie, scientifiche, culturali, che ne è dell’insegnante in questo dispositivo? Dov’è l’insegnante? La scuola è un elemento di questo dispositivo. Non è in un altro dispositivo, cioè la scuola è nel dispositivo sociale, è un elemento costituente di questo dispositivo. Allora, dov’è l’insegnante nella società? Dov’è? Cosa fa?
Pubblico Io non capisco la domanda.
R.C. Non la capisce? Allora la rifaccio. È una questione che si pone.
G.D.F. Cioè, l’insegnante è latitante?
R.C. Adesso io non so. Può darsi. È latitante? Adesso vediamo.
Pubblico Latitante? È marginale in una società con questi miti, è costretto in un angolo. Il nostro mondo non principia con la società, quello che giustamente noi trasmettiamo – errore! Sì, va bene, dico trasmettiamo, lei me lo passi – ai ragazzi…
R.C. No, dica, non è una questione di gergo. Non c’è una questione di gergo, non dobbiamo parlare un gergo.
Pubblico Quello che noi passiamo ai ragazzi non ha niente a che vedere con i miti della società di oggi. Siamo in un angolo, siamo emarginati, una classe di rimbambiti, non lo so. Certo è che siamo emarginati. Non siamo nel tessuto della società. La società è completamente diversa. Però, la realtà è questa, io riscontro questo.
F.B. A me pare, invece, che le famiglie dopo la salute, che è il primo valore, mettano la scuola, per cui è una cosa importantissima.
Pubblico Ma la scuola è fatta anche di insegnanti e gli insegnanti sono marginali rispetto alla società. Noi trasmettiamo dei valori che non rispecchiano quelli prevalenti nella società, perché a casa i ragazzi vengono catapultati nel loro futuro con un alimento totalmente diverso da quello che noi forniamo loro. O non è così? Io riscontro questo.
R.C. A me viene da fare una prima considerazione. In alcuni interventi viene accolta, o quanto meno proposta, l’esistenza di una categoria, la classe sociale degli insegnanti. Ritengo che non possa essere accettabile l’inquadramento in una categoria, in una classe, in un insieme “noi siamo gli insegnanti”! È l’inizio di una degradazione. E ciò è l’effetto di un’impostazione sociale, in questo caso effetto della sindacalizzazione in un certo qual modo. Allora, rispetto alle rivendicazioni salariali e di altro tipo, è chiaro che ha fatto gioco considerarsi una categoria omogenea come in ciascun caso delle categorie dei lavoratori. E c’è da riflettere se ciò non sia stato il modo con cui questa “categoria” ha accettato una certa decadenza, una sorta di degrado, di omogeneizzazione, ha accettato di figurare, come lei dice, al di fuori del tessuto sociale, cosa che non è, assolutamente non è, perché il fatto stesso di svolgere una funzione indica che nel tessuto c’è. Però, ciò è ancora più drammatico, se vogliamo, essere nel tessuto e pensare di non esserci.
Pubblico Non è che io non mi senta nel tessuto della società, però ho coscienza di questo distacco.
R.C. Esatto. Distacco che in effetti c’è e che trova indizi anche nella retribuzione degli insegnanti, che è assolutamente criticabile. Ma è chiaro che serpeggia la fantasia che l’insegnante non conta nulla, non vale nulla, non ha potere, non ha valore. L’unico insegnante con qualche aura di importanza è quello universitario. Chissà perché. E, comunque, oggi neanche più quello, nel senso che, anche presso le università, le sedi dove spicca il ricercatore o lo scienziato effettivo sono sempre meno.
È una questione che chiama ciascuno a interrogarsi sulla logica attorno a cui la faccenda ruota. È come se l’insegnante avesse accettato di iscriversi come quintessenza del lavoratore dipendente, in assenza di impresa. Ha abdicato, rinunciato all’impresa. Oggi, il timbratore del cartellino per eccellenza, non è più l’operaio, è l’insegnante. E non lo dico io, emerge dalle considerazioni che andiamo facendo.
Se l’insegnante accetta di non avere una funzione preminente nel dispositivo sociale, di non avere una funzione di proposta eminente nel dispositivo sociale, di non essere chi dirige il dispositivo sociale, ma ci sta passivamente e anche passandosela male, vuole dire che si considera così, che la categoria si considera come il proletariato attuale.
Oggi, il proletariato è dato dagli insegnanti. E ciò indica che fra dieci anni ci sarà una rivoluzione della scuola, violenta, per esplosione, per avere il potere. La rivoluzione del proletariato che doveva avvenire, avverrà dagli insegnanti, che oggi si situano in assenza di potere, di strumento, di intelligenza, di cultura, allo sbando. Apparentemente!
D’altronde, è una fantasmatica che c’è, che è in vigore e che ascolto da più parti, non solo qui oggi, e che voi stessi sicuramente sentirete dai vostri colleghi nelle riunioni, ma non può essere accettata così, altrimenti è chiaro qual è il destino del dispositivo sociale, perché, se la fonte della cultura, dell’insegnamento, della scrittura, della lettura, se la fonte della ricerca – la scuola questo dovrebbe essere, la fonte della ricerca – ha abdicato, dove reperirla? Da dove può venire la proposta, la provocazione alla ricerca?
È chiaro che non si può aspettare che venga da altrove. Occorre che ciascuno si attrezzi. Chi ne avverte l’istanza cominci a seguirla, a intendere, a disporsi lungo questa istanza, a istituire dispositivi per coinvolgere altri lungo questa istanza.
Ecco la questione, oggi: istituire dispositivi artificiali, non previsti dalla normativa, dalla legislazione e dai programmi ministeriali. Non si può aspettare che altri provveda a ciò che è urgente fare, ciò che assolutamente occorre fare per la soddisfazione della vita di ciascun giorno. Non si può aspettare che giunga l’input dal ministero. Occorre che ciascuno si istituisca come dispositivo, come promotore, come provocatore in questa direzione, non per il bene della scuola, ma per una questione di esigenza sociale.
Sociale, cosa vuole dire? Di ciascuno. Perché la società non è una cosa astratta. La società è dove ciascuno fa. Quella è la società. Non è dove altri fanno, altri che non esistono. È dove io, tu, lui, noi, noi che siamo qui, facciamo. Il primo indizio della società è dove ciascuno è. Allora, lì, ciascuno è chiamato a fare la sua parte. Qual è la sua parte? È quella che riguarda l’esigenza che in prima istanza avverte come urgente. Quindi, non per il bene del bambino o per il bene del prossimo, ma per una esigenza vitale che innanzitutto è propria e che poi si riverbera.
Però, mi pare che effettivamente il problema esista, e c’è come una sorta di delega, perché la scuola stessa esiste come un corpo a se stante, un nucleo a se stante, una cisti, non in una integrazione o in uno scambio, ma come qualcosa che si regge da sé quasi. Mentre, certamente non è così. La scuola stessa è parte del dispositivo della società. Quale sarebbe la società che dovrebbe istituire una scuola diversa? Da dove dovrebbe venire? Chi è la società? Siamo noi o sono sempre loro? Perché, qui, si tratta della clinica.
Quale discorso accusa l’Altro o accusa lui, tu, di essere incapace, di essere severo, di essere tiranno, di essere o di non essere in grado di? Siamo nelle rappresentazioni del discorso isterico, del discorso ossessivo, del discorso paranoico, dove è sempre l’attesa che tu, lui, l’Altro facciano e dove, invece, occorre che si instauri il ciascuno che faccia da sé, anche se non da solo.
Non da solo ma da sé, senza aspettare che venga l’ordine da chissà dove e da chissà chi per fare. Ciascuno si trova nelle condizioni per fare. Certo, non da solo. Nel deserto e nella foresta non accade nulla, talvolta neanche nella comunità, dove bisogna aspettare l’ordine dall’alto. Nell’istituzione divina è sempre dall’alto che deve arrivare l’ordine, dall’amministrazione, dal presidente, dal capo. L’istituzione divina è sempre in attesa degli ordini del potere invisibile. Dice: “Ma questo lo posso fare?”, “Tu, dove trovi l’autorità per dire, per fare?”, “Chi ti ha dato l’autorità per dire e per fare questa cosa? Sei stato autorizzato?”. “No”. “E allora non fare niente”! Questa è l’istituzione divina e la burocrazia è la massima espressione dell’istituzione ritenuta divina, dove solo per volere di Dio può accadere qualcosa, in nome del potere invisibile. Occorre che la scuola non si situi in questa fantasmatica.
Scuola non vuole dire niente perché si tratta del ciascuno. Ciascuno ha da affrontare la questione e, affrontando il problema, la riuscita è sicura. È solo se non la si affronta che la riuscita è incerta o addirittura negata. Ma se ciascuna questione è affrontata con decisione, con costanza, la riuscita è sicura. Perché è il dispositivo stesso il garante della riuscita. Ma se il dispositivo non si instaura, non ci sarà nemmeno la riuscita.
L’analisi dell’istituzione, della fantasmatica istituzionale, anche della scuola, è essenziale. Negli anni Settanta ci sono state varie analisi dell’istituzione ospedaliera, per esempio, cogliendo lo spunto dalla questione della trasformazione del manicomio, dell’ospedale psichiatrico, in seguito alla legge 180. C’è stata un’interessante e protratta analisi della questione istituzionale, dell’istituzione divina del manicomio, o anche del territorio che talvolta ne ha preso il posto, solo apparentemente trasformando la questione. Ma, comunque, diciamo che in Italia, in Francia, in Spagna, in vari paesi, in Inghilterra, quindi a livello internazionale, c’è stata un’analisi con produzioni di saggi, di libri, di esperienze, di testimonianze varie.
Per la scuola questo non è avvenuto, se non per qualche frammento, per qualche pulviscolo sporadico, e questo sia in Italia sia in altri paesi. Non mi risulta che ci sia stata una grande produzione di saggi, scritti, libri, analisi in questa direzione. Potrebbe essere giunto il momento.
L.C. Ho l’impressione che all’analisi si sia sostituita la ricerca di riforme su riforme.
R.C. Può darsi. Talvolta, l’idea del cambiamento, l’idea di cambiare si sostituisce all’analisi “Devo cambiare per trasformare”. E cosa accade? Che viene riprodotta la stessa cosa in una proposta uguale precisa, pensando di cambiare. Prima occorre indagare, occorre che vi sia, quanto meno, una simultaneità di dispositivi che consentano di fare e di analizzare ciò che sta avvenendo, situandosi nella clinica del fare.
Anche la riforma introdotta con la legge 180 è avvenuta, per così dire, prima in Italia, però lungo esperienze che erano in corso, come l’esperienza di Basaglia, del movimento, in varie città. Era un movimento con varie esperienze e testimonianze, varie cose in corso, e che poi è sfociato nella riforma, avanzatissima come concezione, che però non ha avuto, nella sua attuazione, il conforto di una effettiva trasformazione, dovuta alla logica, nel senso che la formazione degli operatori è rimasta la stessa, per cui, che non ci sia più manicomio è uguale, nel senso che vengono applicati gli stessi concetti che avevano guidato la costituzione dell’ospedale psichiatrico. Non c’è stata una formazione clinica che abbia comportato un’altra formazione degli infermieri, degli psichiatri o di altro personale.
C.M. Il compartimento si è frantumato in tanti centri di riabilitazione.
R.C. Anche le varie istituzioni intermedie, che erano previste dalla riforma, non hanno poi trovato attuazione per carenze di fondi ma, soprattutto, per carenze di attuazione, perché non c’era chi sapesse come fare, in quanto le cose non vanno da sé.
C.M. Perché non c’è stata, dicono, la riforma.
R.C. La riforma c’è stata, eccome, cioè il testo della legge c’è e l’applicazione pure. Come testo di legge è uno dei più interessanti delle varie legislazioni vigenti in Europa. Però, e questo vale oggi evidentemente anche per la scuola, è chiaro che non basta, non è sufficiente sperare che giunga una riforma che metta a posto le cose, perché poi si tratta di ciascun insegnante, di ciò che ciascun insegnante fa e come lo fa, del modo con cui ciascun insegnante fa quel che occorre fare. Se non ha idee intorno a quello che occorre fare, che cosa fa? Con quali dispositivi? Questa è la questione. Che è il tema del prossimo incontro I dispositivi sessuali nella famiglia e nella scuola. Sessuali, quindi politici, intellettuali.
Allora, ci diamo appuntamento a mercoledì prossimo. Ciascuno può già avanzare proposte intorno alla questione sul tappeto. Perché, per ciascuno, si tratta dello statuto di insegnante, ma anche di genitore.
Pubblico Di mamme insegnanti.
R.C. Ecco, non di mamme insegnanti! Questo è proprio ciò di cui si tratta in particolare.
I dispositivi sessuali nella famiglia e nella scuola
Ruggero Chinaglia Intanto vi informo che la mostra I tesori della Russia, che è in corso alla Villa San Carlo Borromeo di Senago, è stata prorogata oltre il 28 febbraio 1997, data che compare sul pieghevole, e resterà aperta fino al 10 aprile. È una mostra molto bella. Sono oltre 500 dipinti di maestri russi del 1800 e del 1900, opere mai uscite prima dalla Russia e che per la prima volta si possono ammirare.
Può essere l’occasione per una gita culturale di una classe o di una scolaresca intera, perché oltre alla mostra si può visitare la villa e il parco. È la villa seicentesca dove il cardinale Borromeo, durante la peste di Milano, andò a trascorrere un periodo per sfuggire alla peste. È un’occasione artistica, culturale, storica. Il parco è pure molto bello, con piante antiche e rare. È un’occasione che non capita tutti i giorni. Già numerose scolaresche sono andate in visita da varie città, da Ferrara, da Bologna, da Milano, da Monza e dai paesi vicini, e quindi può essere tenuta in considerazione.
Questo è l’appuntamento conclusivo del corso, quindi ritengo ci siano molte domande, notazioni intorno a quanto si è andato svolgendo fin qui, e vorrei sentire quali sono le questioni che ciascuno ha rilevato, elementi che sono stati colti, riflessioni o chiarimenti che possono porsi per alcune cose che sono risultate poco chiare.
Vedo che i vostri appunti vi occupano molto in questo momento. Sguardi bassi! È il momento di guardare gli appunti, di vedere se vengono in soccorso. Abbiamo parlato molto di dispositivo, per instaurarlo, e anche questo è un dispositivo che consente di affrontare alcune questioni.
Tutto chiarissimo? Nessuna incertezza? Tutti d’accordo su tutto? Lei ha altre annotazioni dopo quelle della scorsa settimana?
Federica Bietolini Non so se sono d’accordo e forse non ho neanche domande. Però, se lei mi dice a che cosa ho pensato in settimana, posso dirle che ho pensato molto all’ultima parte del dibattito, quando si parlava della scuola, di qual è la posizione della scuola nei confronti della società, se è marginale o meno. Mi aveva molto stimolato una cosa che aveva detto lei.
E allora, cosa si fa per uscire dalla marginalità? Perché, in un impulso molto ottimista, mi sono detta: “Io non mi sento marginale nel modo più assoluto”, ma non so se era più una posizione di orgoglio o vera.
Ripensandoci, effettivamente il settore della scuola è critico, non è marginale, ma passa un momento di crisi profonda. Volere drammatizzare la questione o sentirsi marginali è altrettanto sbagliato, ma qualcosa bisogna fare.
Allora lei diceva: bisogna darsi da fare, non da soli, nel senso che, anche se mi sento a posto, devo vedermi e sentirmi con gli altri, non da soli, ma da sé, e questo mi pareva importante, nel senso che non dobbiamo aspettare che siano le istituzioni a fare qualcosa al nostro posto.
Vorrei chiedere agli altri presenti qui, che cosa si può fare per uscire dalla marginalità, senza aspettare i miracoli dalle istituzioni, dalla società, perché nella scuola ci siamo noi.
R.C. Riflettendo su questo, quale idea le era venuta?
F.B. Riflettendo su questo, la via più semplice è quella della scuola in cui uno lavora, ovviamente. Adesso, per esempio, abbiamo la grossa novità dell’autonomia, di una riforma che non si sa se ci sarà oppure no, né come sarà. Certo è, che nelle scuole bisogna cominciare a parlarne, ma parlarne in modo serio e non farsela arrivare addosso senza muovere un dito, senza esprimere la nostra opinione.
Guardavo la commissione delle persone che stanno preparando la riforma: non c’è un solo insegnante! C’è addirittura un attore. Ci sono insegnanti universitari, ma che non sanno assolutamente niente della scuola media, elementare e superiore. Allora, effettivamente, c’è una marginalità rispetto al potere, però dovremo cercare noi di riconquistarci gli spazi, non so come.
Io, a scuola, parlo con i colleghi, ma non penso di avere un potere effettivo, di arrivare a dire “sono incisiva”, o “quello che penso avrà un risultato”. Ecco, questo mi riesce solo nel piano individuale, facendo bene il mio lavoro. Poi, per il resto, mi muovo alla cieca, a istinto. L’occasione che c’è qui di parlarne è già qualcosa.
R.C. Quali dispositivi inventare?
F.B. Diciamo che mentre siamo abituati a inventare dispositivi all’interno delle nostre classi, perché è un po’ il nostro lavoro, non siamo assolutamente abituati a inventare dispositivi che ci facciano da tramite nei confronti dell’istituzione. Abbiamo solo i sindacati, quindi dispositivi creati da altri.
E perché non ho domande? Perché non ho neanche le risposte. Secondo me, uno ha delle domande quando ha già un po’ la risposta, almeno per me è così; so fare una domanda quando già vedo un po’ la soluzione.
R.C. Tra l’altro, è da esplorare se il sindacato costituisca un dispositivo.
F.B. Infatti, io direi che molti di noi non lo considerano più un dispositivo. Basta andare alle assemblee sindacali per vedere che clima c’è, quanta poca gente c’è. Direi che il dispositivo di contatto con l’esterno è da creare.
R.C. La questione è posta. Ci sono in merito pensieri, idee, opinioni?
Giuliana Truffa Su questo punto, anch’io ho fatto delle riflessioni in settimana, anche se in altri termini, cioè, non mi sono chiesta cosa fare in senso pratico, pragmatico. La mia riflessione era un po’ più teorica, però mi sembrava importante ricordare alcune cose, perché il perderle di vista rischia di introdurre la banalità nel quotidiano della scuola.
Le riflessioni partivano dalla considerazione di un intervento che era stato fatto in merito alla marginalità della scuola e alla distanza tra scuola e società. L’intervento diceva che i valori che io promuovo nella scuola, o che cerco di promuovere e di trasmettere, sono valori che non sono riconosciuti nella società, quando addirittura non sono in contraddizione. Lei, poi, lungo il discorso, diceva “Ma la scuola è nel dispositivo sociale, nella società”. E allora, partendo da lì, mi dicevo che ciò è vero, chiaramente, però è anche vero che la scuola è un dispositivo in sé stessa, e in quanto dispositivo ha una sua autonomia rispetto alla società, un’autonomia data dalle finalità formative e educative che le sono proprie, che la caratterizzano come istituzione, come realtà.
Questo fa sì che la scuola operi, non so se è azzardato dirlo, con il transfert, nel senso che la scuola è nella società, è nel dispositivo della società; però, nello stesso tempo, si proietta oltre la società, nel senso che guarda il reale, quello che c’è, ma non deve fermarsi lì, deve andare oltre. Quindi, deve lavorare per quello che potrà essere o per quello che potrebbe esserci in futuro. Non necessariamente la scuola deve creare la certezza o infondere la certezza di un futuro migliore ma, sicuramente, di un futuro possibile questo sì.
E allora, lungo queste riflessioni che forse sono un po’ teoriche, forse un po’ irrealistiche, non lo so, vedevo una ragione della distanza inevitabile tra la scuola e la società, legata al concetto stesso di scuola. La vedo inevitabile da un certo punto di vista e, dall’altra parte, si tratta di andare a individuare i modi giusti per creare il collegamento con la società.
Tutto ciò mi portava a fare alcune considerazioni in merito ai contenuti che entrano nella scuola. Come dire, che se la scuola opera con il transfert e si proietta oltre, più verso il verosimile che verso il reale, è pur anche vero che è in questa società, e non di meno ha bisogno di contenuti che sono fondamentali, sono importantissimi secondo me, talmente importanti che non possono essere definiti una volta per tutte in maniera assoluta, ma vanno di volta in volta ridefiniti. Sono storici, e devono tenere conto del contesto storico.
Quindi, mentre la prima parte della riflessione era più in termini problematici, i contenuti mi sembrano una cosa importante da definire. E questo mi ha portato a considerare come, nella scuola, ci sono i contenuti dati dai programmi, ma che poi sono elaborati, interpretati e attuati in modi diversi dall’insegnante attraverso la programmazione. E poi entrano nella scuola anche i problemi della società. Allora, mi chiedevo se sono contenuti della scuola i problemi della società. Spetta alla scuola risolvere i problemi della società?
E qui mi sono data la risposta: proprio no, non spetta alla scuola risolvere i problemi della società, perché allora la scuola si appiattisce, si banalizza. Perde la premessa, che avevo fatto prima, di proiezione.
Sono domande o pensieri che facevo, per le quali non è che abbia una risposta. Facevo queste riflessioni perché pensavo ai problemi che entrano nella scuola e che portano, a volte, a una settorializzazione dei contenuti. C’è l’educazione stradale, per esempio, che vuole dire imparare a andare sul tram, in macchina, a attraversare la strada, ma è scuola questa, mi chiedo? E poi c’è l’educazione sessuale, alimentare e così via.
Credo si tratti di trovare un equilibrio rispetto ai contenuti che sono legati alla storicità del momento, in modo che possano entrare nella scuola, ma senza farli entrare come problemi sociali, in quanto non spetta alla scuola risolverli. Se la scuola se ne fa carico si espone a essere criticata e a fare il capro espiatorio di tutti i mali della società. Ma non per togliersi dal problema, ma perché il compito della scuola è fare cultura, formare. Se si opera per il futuro, si investe sul ragazzo.
Pure i contenuti sono importanti, ma quello che la scuola deve dare ai ragazzi sono gli strumenti per ragionare, è insegnare a pensare, a essere critici. La scuola deve dare le strategie mentali, mentali nell’accezione positiva, in modo che gli studenti li utilizzino un domani quando saranno altrove. Se, invece, io mi lego e mi confino all’interno del problema sociale del momento, che cosa do? Io, come scuola, cosa formo? Chi formo?
E poi c’è l’aspetto di come organizzarsi, il problema che la scuola non si sindacalizzi o non pensi di trovare nel sindacato supporto e aiuto. Perché a volte, a proposito dei problemi della scuola, mi sembra di sentire parlare in termini esclusivamente sindacali, anche se il sindacato, ormai, non esiste più. Cosa fa il sindacato? Mi sembra che i tempi siano ben diversi rispetto al passato.
F.B. Ma che va sostituito da qualche altra cosa, perché altrimenti la scuola rimane scollata rispetto a chi prende le decisioni per lei. Direi che a livello organizzativo c’è qualcuno che organizza per noi, che decide i contenuti, i tempi e i modi per noi, per cui crea un dispositivo per noi.
Se io che lo devo mettere in atto, non ho collegamento con chi mi indirizza, non so poi cosa metto in atto. Metto in atto la scuola di chi? Perché, secondo me, anche questo bisogna chiedersi, di chi è la scuola? È la scuola dei ragazzi o dello stato? È la scuola dove ognuno la pensa a modo proprio? Io non credo, e ritengo che il confronto tra insegnanti sia impellente, perché occorre pensare a quale scuola si fa e scuola di che.
Vincenzina Carbone Più che una riflessione, io volevo proporre una testimonianza a proposito di società, scuola e insegnamento, perché sono tre anni che ci rifletto sopra.
A proposito dell’essere insegnanti nella società e delle richieste che vengono fatte dalla società alla scuola, mi è capitato di partecipare a un convegno di una grossa ditta nel 1993, al quale era stato dato il titolo: I giovani e la cultura industriale, un po’ raccapricciante secondo me, ma è una mia opinione.
Avendo insegnato quasi esclusivamente materie così dette professionalizzanti in istituti tecnici commerciali, mi trovo spesso a dovere fronteggiare richieste di indirizzare lo studio verso i casi così detti pratici, e questo da parte sia di genitori, alunni e colleghi, sia di esterni e esponenti della società.
Purtroppo, io sono legata ai famosi contenuti, avendo materie molto tecniche, e non ho molto di scegliere, però, a proposito del titolo I giovani e la cultura industriale, che fu criticato anche all’epoca, mi chiedo, perché cultura industriale? Per quale motivo bisogna imporre aggettivi alla parola cultura? Cioè, se la scuola si deve identificare come messaggera di cultura, come tramite verso la cultura, perché mettere a fianco l’aggettivo industriale? Per quale motivo? È giusto?
Perché c’è, ripeto, da parte di molti, la pretesa di indirizzare i contenuti verso una certa direzione, cioè verso il famoso collegamento con il mondo esterno. Io dovrei essere l’ultima a sostenere una teoria del genere e invece la sostengo: non si può pretendere questo indirizzamento, ne verrebbe a soffrire l’impianto della scuola stessa. La scuola, come diceva giustamente la collega, deve proiettarsi ben oltre questo collegamento. Non è giusto che si limiti a essere solo un’anticamera per l’inserimento dei ragazzi nel famosissimo mondo del lavoro. Perché questo sarebbe necessario? Perché si dovrebbe pretendere una cosa del genere? Ma non si dovrebbe fare la cosa opposta? La società che si protende verso la cultura, finalmente! Forse, così ci sarebbe modo di identificare meglio i valori dei due dispositivi, se così si può dire, società e scuola. È una mia riflessione, che mette in crisi i miei stessi valori certe volte, in quanto insegnando ragioneria mi trovo di fronte a…
R.C. Quindi, lei dice che la scuola, quand’anche si tratti dell’istituto per la formazione in ragioneria, non deve formare ragionieri ma deve formare individui. Poi, se questi individui vorranno fare i ragionieri è affare loro.
V.C. In un certo senso sì, è affare loro. Cioè, non vorrei che mi si fraintendesse. Non nel senso di “Arrangiatevi!”. No, però, non si può pretendere di affiancare…
R.C. Era per intendere con precisione la portata del suo intervento.
V.C. Dicevo, di affiancare il famoso aggettivo industriale vicino al termine cultura, perché poi è questa la spina nel fianco, cioè che la scuola deve essere messa al servizio del mondo del lavoro, di un certo mondo del lavoro. In fin dei conti è questo il messaggio che trapela dietro certi convegni. È drammatica come faccenda.
R.C. Certo. Scuola al servizio del mondo del lavoro. Diventerebbe questa la funzione.
V.C. Facciamo il contrario caso mai.
Pubblico E come facciamo?
R.C. Anche il contrario non sarebbe granché.
V.C. No, non è giusta nessuna delle due.
R.C. Nel senso che, se lei trova ragioni per criticare questa impostazione, l’impostazione contraria mantiene la stessa logica. Se lei rivolge una critica alla logica che muove questa impostazione, ovviamente, anche il suo contrario si presta alla stessa critica o, quanto meno, alla stessa analisi.
Gianfranco Dalle Fratte Lei diceva, l’altra volta, che le cose si dicono secondo una logica.
R.C. Secondo la logica.
G.D.F. La logica. Avevo sbagliato a trascrivere. Appunto, mi ha colpito questa frase, perché poi ho trovato questa cosa che ha detto lei, nel libro di Frua De Angeli “Le cose si dicono secondo la logica”. Cosa vuole dire? Qui dice: “Come incominciare a parlare. Idioma, logica particolare. Nessun idioma comune. Ciascuno trova, dicendo, facendo, scrivendo, il proprio idioma. C’è il parlare che è l’idioma, la logica particolare a ciascuno, e c’è il parlando che è l’itinerario”. Se lei può chiarire questa cosa.
R.C. Va bene. Perfetto.
Luigina Corsatto Mia mamma era insegnante cinquant’anni fa, e viveva tranquilla e serena perché la funzione della scuola era chiara, era quella di dare una cultura, di insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, era di avere una base culturale e poi gli individui si disponevano a fare quello che dovevano fare. C’era chi continuava a studiare e chi si fermava.
Il ruolo alla scuola era riconosciuto e chiaro e, secondo me, c’era corrispondenza tra la funzione della scuola e quella dell’insegnante. Gli insegnanti erano gli attori della scuola che aveva questa funzione. Non entro nel merito se era giusto o sbagliato, fatto sta, però, che nel momento in cui la scuola non è più stata l’unica agenzia educativa, l’unica fornitrice di cultura, questo tipo di sistema è entrato in crisi.
Prima la scuola ha sentito la necessità di aggiornare i suoi contenuti, per cui, accanto alle materie tradizionali, più o meno improntate all’avvio al lavoro o agli studi classici, ha affiancato ai contenuti tradizionali nuovi tipi di educazione, come quella stradale, sessuale o alla salute, più vicini alle problematiche della società, cercando di dare risposte sociali.
D’altra parte, gli insegnanti sono entrati in crisi perché privati del loro potere di trasmettitori di cultura, perché era quello il loro potere fondamentale. E il fulcro del discorso è che la scuola deve essere attenta alle problematiche della società, cioè non può dire “Io non sono al servizio della società”, ma deve essere attenta, perché è inserita in questo dispositivo e, come tale, deve recepirlo. Non c’è scampo, altrimenti è una scuola fuori dal tempo. Recepirlo non vuole dire divenirne schiavi, ma diventare attori, protagonisti di itinerari, di cambiamenti, di modificazioni, di critiche, di scelte. Sulla funzione dell’insegnante, mi pare che si debba un po’ recuperare la funzione di padre, che è andata perdendosi per la strada.
R.C. Cioè, come?
L.C. Nel senso che l’insegnante deve assumersi la responsabilità di quello che fa a scuola e, come tale, essere autorevole in quello che fa. Può essere contingente, storicamente superato l’anno dopo, però autorevole in quel momento in quello che fa.
Deve credere, essere convinto di essere protagonista, di recuperare una funzione di padre che, per una serie di motivi, sindacali, di decreti delegati interpretati più o meno bene, democraticamente o per accontentare, è andata perdendosi, recuperare la consapevolezza di avere un ruolo e una funzione.
R.C. È andata persa la consapevolezza o il ruolo?
L.C. È andata persa la consapevolezza di avere un ruolo.
R.C. Quindi il ruolo è stato mantenuto, per forza.
L.C. Il ruolo è stato mantenuto per forza perché non ci lasciano andare in pensione presto! Finché non ci licenziano, è mantenuto.
R.C. Intendevo un altro ruolo.
L.C. Sono tante le storie, ma basta, penso di avere abusato anche troppo. Riguardo a quello che si diceva in giro, volevo riprendere la frase con cui lei ha cominciato il corso: “La cultura comune a tutti è la barbarie”.
R.C. Non è mia.
L.C. Al momento dico, cosa c’entra con il corso, cosa vuole dire, perché? Penso che, adesso, alla fine, sia da riprendere. Cultura comune uguale barbarie.
F.B. Barbarie intesa come mancanza di cultura o come cultura diversa dalla cultura vostra? Ci sarebbe da discutere.
R.C. La questione è da leggere.
F.B. Pensavo, mentre diceva “barbarie”, alla cultura di massa.
L.C. Di massa è già qualcosa che sottintende qualche ideologia. Mi piace di più comune, perché “di massa” è già ideologicamente caratterizzante, mentre comune è comune.
R.C. Chiaro.
L.C. Comune può essere che al bambino Pierino e al bambino Luigino io dico nello stesso modo e pretendo nello stesso modo, senza che sia cultura di massa. Comune mi piace di più.
F.B. Ma, per il significato di barbarie? Ho visto da poco – la parola barbarie me lo ha ricordato – la Medea di Euripide. Era ben contrapposta alle donne greche, non barbare ma acculturate. In realtà, le barbare intese in senso negativo erano loro. Lei era la donna vera, che assumeva in sé i due aspetti maschile e femminile, positivo e negativo. Cosa intendiamo per barbarie? Qualcosa di diverso dalla nostra cultura occidentale, quindi in negativo, oppure la mancanza di cultura?
R.C. Lei cosa propone?
F.B. Di pensarci.
R.C. Se la piglia comoda!
F.B. Beh, qui io credo che sia usata nell’accezione comune di mancanza di cultura. Però, dovremmo usare il termine barbaro per dire dell’assenza di incontro.
Se posso aggiungere una cosa. Aveva parlato di farsi carico dei problemi della società. Non credo che la scuola debba farsi carico e risolvere i problemi della società, però non può ignorarli, perché se negli obiettivi della scuola, oltre ai cognitivi ci sono gli educativi, non si può educare un ragazzo fuori dalla società in cui vive. Quando parliamo di trasmissione dei valori, come si può parlare di valori se non abituiamo i ragazzi a riconoscere lo stereotipo, e come lo stereotipo viene inculcato da una società che comunica attraverso mezzi potentissimi, come la televisione o l’immagine dei giornali? Va portata consapevolezza a tutto ciò. Quindi, non so come si possa educare senza abituarli a ragionare sulla società e sui problemi della società in cui vivono. Questo non certo a scapito del cognitivo, delle materie, della specificità, ma a fianco.
R.C. Certo.
G.T. Pensare è già cognitività.
F.B. Insomma! Nella grande accezione sì, ma se per cognitivo si intende il passaggio dei contenuti, e io insegno inglese, solo inglese e non una parola in più, allora non educo. Insegno l’inglese, punto al cognitivo. Invece, secondo me, l’insegnante è educatore innanzitutto, oppure contemporaneamente.
Barbara Valerio Oltre a farci carico dei problemi della società, dei ragazzi e di altri interventi educativi, forse bisognerebbe, prima di tutto, farci carico dei problemi nostri di insegnanti e riconoscere che ci sono periodi e giorni in cui entriamo in classe come andiamo alla guerra, sperando di uscirne il più integri possibili.
Tra noi, il più delle volte, ci guardiamo con sfiducia, con mancanza di collaborazione, non siamo portati a condividere il nostro lavoro. Ogni scuola ha le sue faide, i suoi gruppetti, le sue chiacchiere, i suoi pettegolezzi. Prima di tutto è questa la cosa da rivedere, perché credo che il lavoro più semplice è quello che facciamo su noi stessi, quello che abbiamo è il potere di cambiamento su di noi, purtroppo.
Poi un’altra cosa. Ho girato molte scuole, ma ho visto poca comunicazione di gioia tra gli insegnanti e i ragazzi. È un senso di pesantezza che l’insegnante ha, e lo trasmette spesso all’alunno, in modo che l’alunno lo sente verso il sapere, come se il sapere fosse una cosa gravosa, faticosa e che non ci sia nessun premio alla fine. È come se noi o parte di noi – adesso magari i presenti sono tutti delle eccezioni, ma sicuramente avranno riconosciuto le persone che sto descrivendo – volessimo far rifare a loro la scuola che abbiamo fatto noi, che non è stata sicuramente una scuola di apertura.
Poi, volevo aggiungere che secondo me esiste uno spirito di gruppo, poniamo che esista, e di cui l’individuo è poco consapevole. Lo spirito che abbiamo come gruppo insegnante è di vendetta nei confronti della società, di vendetta che, purtroppo, a volte passa attraverso i ragazzi.
Volevo fare un’altra osservazione riguardo ai contenuti o ai valori. Non prenderei la scuola tutta in blocco dai sei ai diciott’anni, perché ci sono delle età diverse. C’è un’età in cui il contenuto è strumento dell’educazione, e c’è un’altra età in cui il contenuto deve incominciare a diventare un valore di per sé, senza tralasciare gli aspetti formativi.
G.T. Penso ai bambini piccoli di scuola materna dove il contenuto… Ho detto prima che i contenuti sono sempre importanti, importantissimi. Sto pensando che un bambino di scuola materna ha bisogno di molta concretezza, e quindi di educazione e di insegnamento, perché anche la materna ha una parte di insegnamento, ma ha più bisogno di contenuti e di cose concrete.
Poi, man mano che il ragazzo cresce, acquista maggiori capacità di astrazione, di pensiero simbolico e di ragionamento. Come dire, il contenuto è importante, ma diventa un pretesto, può diventare un’occasione, ma quello che conta sempre di più è il pensiero, è la capacità di esercitare il pensiero su quei contenuti, non il contenuto in se stesso.
In questo senso, ma devo chiarirlo anche a me stessa per la verità, i contenuti sono importanti, ma confondere i contenuti con i problemi della società… Non spetta alla scuola risolvere i problemi, perché un conto è riflettere sui problemi della società e un’altra cosa è farsene carico. Farsi carico non è la stessa cosa che ragionare, pensare, riflettere e teorizzare intorno a qualcosa.
F.B. Tanto la scuola non potrebbe risolvere i problemi della società.
G.T. Ma il non potere risolverli, molte volte fa dire “Tu, scuola, la colpa è tua”.
R.C. Dobbiamo evitare il dibattito serrato, perché nella trascrizione, poi, vengono attribuite all’uno le risposte dell’altro, se non viene annunciato il nome di chi interviene. Comunque, è chiaro che si pongono anche questi aspetti.
Truffa, lei aveva terminato? Stanno emergendo notazioni interessantissime, testimonianze precise. Mi sembra il caso di proseguire, sicuramente anche altri hanno qualcosa da dire, da porre a testimonianza.
Nadia Vidale Faccio fatica a riconoscermi e a inserirmi in un discorso che va tra la scuola e la società. Faccio questo mestiere perché, e non lo sapevo, si è costituito per me come un dispositivo per alcune letture e come un’occasione di scambio rispetto a quello che incontravo, come pretesto per leggere alcune cose, per pensarci, per scriverne. Quindi, non mi sento in un ruolo, mi sento in gioco e mi piace molto, come premessa.
I contenuti non sono solo quelli del programma. Ciascuno di noi si ricorda probabilmente pochissimo dei contenuti del suo itinerario scolastico. Quello che è rimasto sono altre cose. Si trasmette, probabilmente, lo stile, il rigore, l’entusiasmo che passa per quei contenuti, ma poi i contenuti si lasciano, se ne incontrano altri. Questa cosa mi sembra importante.
Più volte ho pensato che insegno latino, ma in fondo potrei insegnare matematica, non sarebbe la stessa cosa, ma la posta in gioco sarebbe la stessa.
Una cosa volevo dire, visto che la signora Truffa ha posto la questione a proposito dei contenuti. Ci sono contenuti che vanno oltre i programmi e anche oltre l’insegnamento. Per esempio, nella mia esperienza, non di insegnante questa volta, ma di madre con una figlia che frequenta la scuola materna, di tante cose belle che sono state fatte a scuola, di tante cose di cui mia figlia parla e rispetto alle quali vedo che si aprono per lei delle occasioni nuove, io credo che a me rimarrà una cosa un po’ così, non molto interessante.
A un certo punto ho ricevuto un questionario, una cosa che in fondo passa sopra la testa dei bambini, un questionario nel quale si chiedeva, separatamente, al papà e alla mamma di rispondere a domande tipo “Dire quante volte, da uno a sei, il bambino attraversa la porta”, e via così. E io sono rimasta… Cioè, abolizione completa del dialogo col bambino. Io, che conosco mia figlia da quando è nata, sento la scuola che mi propone di compilare un questionario in cui descrivo le azioni che compie, conto quante volte le fa, da zero a sei, fare la crocetta, perché poi la professoressa universitaria, che i bambini non li ha mai visti, mi darà il profilo psicologico! Io faccio i conti con una scuola che dice che io ho bisogno di un profilo di mia figlia, e fatto da una psicologa sulla base dei dati che ho rilevato dai suoi gesti!
Ci sono anche questi contenuti che, fortunatamente in questo caso, non varranno nulla, perché conta molto di più quello che mia figlia, effettivamente, fa e impara a fare a scuola ciascun giorno.
Però, pensare che, se nella mia scuola fanno un corso di grafologia e io faccio questa cosa, allora “sono così”, questo è un problema della società che diventa contenuto della scuola! E è la scuola che me lo passa! Io che ricevo il questionario, dico, ma questi, gli ha dato di volta il cervello? Ma ci sono genitori che compilano le crocette e pensano così di sapere da qualcuno com’è suo figlio! E questo qualcuno, magari, glielo dice anche! E gli fa il profilo!
G.T. Rispetto alla questione, è importante fare alcune precisazioni.
R.C. C’è modo di riprendere. Qui, quante insegnanti ci sono delle scuole materne? Due. E delle elementari? Tre. Delle medie? E delle superiori? Non ho visto da questa parte le medie. Chi c’è delle medie? E delle superiori, lei.
Pubblico Materna.
R.C. E la signora vicino a lei?
Pubblico Nido.
R.C. E davanti a lei?
Pubblico Io e la mia collega lavoriamo in un convitto con ragazzi adolescenti. Apparteniamo all’area docente, però nella funzione educativa, se lei può distinguere tra le due cose.
R.C. Chiaro. Quindi abbiamo rappresentato tutto il dispositivo della scuola, dal nido alle superiori. Lei? Medie. Che cosa ci dice?
Pubblico Sto ascoltando. Non posso dire che non ho niente da dire, però sto ascoltando e non riesco a mettere insieme più cose in questo momento.
R.C. Lei, invece? Elementari. Ci sono altri interventi? Che cosa ci dicono dalle scuole materne?
Pubblico Per i discorsi che sono stati fatti, pensando alla mia esperienza alla materna, non mi ci ritrovo tantissimo, nel senso che sono discorsi un po’ più… Però è vero, come ha detto la signora, che i bambini alla materna hanno bisogno di vedere. Tante volte puoi fargli un discorso, però tante esperienze che fanno alla scuola materna se le porteranno avanti per tutta la vita, non è da escludere.
Tante volte non si dà molta importanza a questa scuola e si sente dire “Ah, alla materna chissà cosa fate”. Alla scuola materna ci sono determinati programmi ministeriali da svolgere. È molto messa in disparte, da un certo punto di vista, la scuola materna. I genitori si interessano soprattutto all’ultimo anno, perché sanno che, poi, devono andare alle elementari.
R.C. Quindi lei dice che sono un po’ trascurate dai genitori, quanto all’importanza che possono avere, educativamente parlando. Invece, esatto, non sono affatto da trascurare. Certo, lì si pongono altri modi che non è quello didattico propriamente detto. C’è il gioco, c’è l’esempio, chiaro, ma non ha minore importanza.
Quindi, si tratta sempre di dispositivi e si tratta, soprattutto per l’insegnante e come negli altri dispositivi, di non partecipare a credenze, fantasmagorie, luoghi comuni, intorno all’animale fantastico chiamato bambino.
Forse, soprattutto la scuola materna, in quanto materna, pone delle difficoltà ulteriori proprio perché è chiamata così.
N.V. La scuola dell’infanzia non è la scuola materna.
R.C. Chi è che la chiama scuola dell’infanzia?
G.T. Ma c’è chi lo chiama ancora asilo!
R.C. Nella fantasmagoria è l’asilo o la scuola materna, effettivamente. Già chiamarla scuola dell’infanzia comporta quanto meno una elaborazione del termine infanzia, e non l’applicazione del maternaggio al bambino, per cui chiaramente è importante.
Ma non è che una questione terminologica mette a posto le cose, non basta sostituire un termine con un altro perché la faccenda sia sistemata. Certo, questo concorre perché, se invece di chiamarla in un modo viene chiamata in un altro, ci sono motivi e ragioni, per cui linguisticamente interviene quest’altro modo, però di certo non basta.
E questo mette l’accento sulla questione linguistica dell’insegnante. Qual è la lingua dell’insegnante? Che alcune cose siano enunciate in un modo o in un altro, non è la stessa cosa, perché ciò comporta che siano udite in un modo o in un altro. Nel modo di dire, infatti, c’è la logica! Il modo di dire, anche il modo con cui l’insegnante parla, non è una semplice questione gergale, perché le cose si dicono secondo la logica.
Questo non è nei programmi ministeriali, non è prescritto o in qualche modo diretto dai programmi ministeriali, però è essenziale che l’insegnante non parli la lingua comune, ma parli la lingua diplomatica, cioè la lingua dove ciascun termine ha incontrato la qualifica non a caso, ma per un itinerario.
Non si tratta tanto e solo della cura lessicale, della proprietà terminologica, ma della lingua dove il malinteso è estremo, per dir così, cioè dove la precisione è estrema, come lingua diplomatica.
Adesso vediamo di chiarire ulteriormente questo aspetto, perché le questioni sono molte, però non sono esaurite. Ecco, ce n’è già un’altra che fa capolino.
Cecilia Maurantonio A proposito della scuola materna, del mondo dell’infanzia, mi interrogavo a proposito dell’enunciato “È un’esperienza che si porta avanti tutta la vita”. Per questo sarebbe più importante e rappresentativa la scuola materna, in quanto potrebbe esserci l’idea della prima volta.
Io la intendo così, come la scuola, dove occorrerebbe l’elaborazione e lo svolgimento di cos’è la prima volta, è nei termini di ciò che non lascia il segno. Questa è la questione.
R.C. Niente lascia il segno.
C.M. Sì, perché si ritiene che ci siano esperienze che poi uno si porta avanti per tutta la vita. Perché alla materna e non dopo? Perché è il primo, perché è la prima volta come, d’altronde, anche più in là, il primo bacio, il primo amore, sono cose per cui si dice “È importante come avviene”.
Io troverei interessante un’elaborazione intorno a questo, proprio per ciò che di specifico concerne la scuola materna, in modo che non diventi un peso, un carico.
R.C. Altri?
Luisella Vanzan La riflessione che facevo mentre ascoltavo, era quanto può essere più determinante un percorso formativo in una scuola a così detto indirizzo umanistico, rispetto a una scuola o a un istituto indirizzato alla formazione professionale dell’alunno. Quindi, io vedrei una distinzione fra un insegnante che ha un approccio in una scuola che definisco umanistica, rispetto a un altro approccio in un altro tipo di scuola.
Un’altra cosa pensavo durante la discussione di oggi e dell’altra volta. Qui ho sentito insegnanti che desiderano educare, formare i ragazzi. Posso portare la mia esperienza come ex studentessa o come persona che cerca di formarsi ancora. Allora, io dico, avessi trovato insegnanti che mi avessero formato di più, cioè preparata anche dal punto di vista della vita, o per affrontare più creativamente le cose della vita e non solo a risolvere problemi matematici con un mero percorso nozionistico e culturale. Della mia scuola ricordo un percorso di acquisizione di nozioni, più che un percorso formativo. Non so se ciò è avvenuto per la tipologia della scuola che ho fatto o per gli insegnanti che ho trovato.
Effettivamente, nella nostra realtà e società, alla scuola viene più che altro demandata una funzione di baby sitter fino alla scuola dell’obbligo, in attesa che il ragazzo definisca quale tipo di animale fantastico voglia diventare, cioè che prospettiva di lavoro e di persona voglia diventare.
Tante volte ho la sensazione che la scuola, più che formare e educare alla vita, sia un parcheggio, e che ben poche volte l’insegnante possa contribuire alla formazione, all’educazione del ragazzo.
Però, questa considerazione che faccio potrebbe essere per la mia esperienza di studentessa che ha seguito un percorso tecnico professionale, ragioneria in maniera particolare. Persone che mi hanno aiutato nella formazione sono state il parroco, purtroppo da noi è un’altra figura che ha contribuito alla formazione, era un altro punto di riferimento, poi i libri e gli amici. Se posso muovere una critica o fare delle considerazioni, è che ho sentito i miei ex insegnanti non come formatori, ma semplicemente come trasmettitori di nozioni, punto e basta.
Poi, non so se la cultura trasmessa mi abbia aiutata. Non essendo insegnante e non avendo certe basi, o per lo meno certe nozioni, non so interpretare se trasmettendo cultura questo ponga le basi per poi formarmi da me. Sono un’insieme di considerazioni, accettatele per come sono state esposte.
R.C. Certo. Lei si chiama?
L.V. Vanzan Luisella.
R.C. Sempre Vanzan Luisella o Luisella Vanzan?
L.V. Luisella Vanzan. Anche se Luisella deriva sempre da Vanzan, perché mi porto appresso il bagaglio dei genitori.
R.C. Però lei è Luisella! Oppure si tratta di divenire Luisella.
L.V. Ha colto nel segno.
R.C. Perfetto. È questa la questione. Ci sono altre notazioni?
Maria Graziella Guarnera Mi ha fatto piacere sentire Luisella, perché mi ha rassicurato sui dubbi che coglie l’insegnante nella sua carriera, quando si trova a fare una scelta tra l’informazione culturale e la formazione del ragazzo.
Sentire questa esigenza espressa da un’alunna, da una ex alunna, questo rimpianto di non avere avuto degli insegnanti che badassero di più alla formazione che non all’informazione, può essere rassicurante nei momenti in cui noi ci veniamo a scontrare con rendiconti, programmi, programmazioni, registri.
Comunque, io ho sempre fatto la scelta formativa e questo mi ha dato molta soddisfazione, molta rassicurazione, tanto che avrei potuto consegnare una domanda di pensionamento in questi giorni, cosa che non ho fatto perché ho pensato che, se la consegnavo, finivo di crescere, in quanto l’insegnamento è una crescita continua, è una crescita quotidiana, diversa di giorno in giorno e di classe in classe.
R.C. Certo. Indubbiamente.
Lei, Truffa, voleva aggiungere qualcosa?
G.T. Ero stata sollecitata in qualche modo dall’intervento della signora Vidale.
È un po’ delicata per me la cosa, per cui non vorrei entrare troppo nel merito. È il motivo per cui mi sono fermata prima. Intanto mi sono posta due questioni. La prima è la partecipazione del genitore alla scuola. Anche il genitore fa parte del dispositivo della scuola, o no? Dovrebbe, potrebbe. Allora, a fronte di una provocazione così forte che avverte un genitore che riceve a casa un questionario che non condivide, in merito al quale ha delle cose da dire, perché il genitore non si fa sentire? Si può partecipare rispondendo al questionario, aderendo alla cosa, oppure dando un altro tipo di contributo e dicendo “Questa cosa la leggo così e non la condivido”, e muovendo la critica che giustamente uno ritiene fare e che, magari, oltre che critica, diventa anche un contributo.
L’altra considerazione era relativa al racconto fatto dalla signora sul questionario del temperamento dei bambini dispensato ai genitori, e usato in un certo senso come escamotage per attirare i genitori, perché i genitori non sono presenti e non partecipano alla vita della scuola, alle riunioni, agli incontri, almeno per la nostra esperienza, però in molti modi si fanno sentire dicendo “Dovreste, dovete, dateci”.
Nel momento in cui si dà un qualcosa nelle diverse forme, mettete che questa possa essere la forma più sbagliata, ma non sono tutte così sbagliate, però il genitore non c’è mai. Allora, premesso che questo poteva essere un escamotage e tenendo conto del fatto che fosse legato a una certa impostazione, a una certa ricerca che la docente in questione aveva, poi gli incontri che sono avvenuti con la presenza dei genitori sono stati, invece, molto validi, interessanti, se non altro perché i genitori hanno avuto un’occasione di parola e di ascolto.
In quali termini l’ascolto? Non proprio così terribile, così negativo come nella premessa, nel racconto che ne è stato fatto, dicendo “Mettiamo i numerini, incrociamo i vari numeri e le varie cose, e questo è tuo figlio”! Assolutamente! Siccome sono presente agli incontri, pur non condividendo molte cose, questo assolutamente non è avvenuto, non è stato fatto questo utilizzo, ma si è andati oltre e, anzi, sono diventate occasioni di una certa importanza.
Nello stesso tempo, il racconto che lei ha fatto della cosa, che è corretto, ha però suscitato in sala molte ilarità, come per dire “Beh, è scontato. Dove c’è psicologia c’è danno!”. Questo è come io ho sentito, ascoltato e interpretato il piccolo movimento, subbuglio, che c’è stato in sala. Questo mi pone un problema, nel senso che è un problema che io vivo, e mi sembra che più si vive a contatto con bambini piccoli di prima e seconda infanzia, più questo benedetto rapporto con la psicologia dell’età evolutiva e con il contributo che la psicologia può dare rispetto all’educazione, alla conoscenza dei processi di crescita, si avverte, te la ritrovi dappertutto, inevitabilmente, e pone mille questioni. In qualche modo va a toccare un problema che per me è una questione.
Quindi, mi piacerebbe capire meglio – rispetto alle cose che lei ha detto e rispetto alle notazioni che lei può avere fatto nei confronti dell’apporto psicologico, o della psicologia nella scuola, o del ricorso alla psicologia – cosa lei intende per ascolto o per atteggiamento educativo, così come proposto dalla cifrematica. E anche le cose e l’apporto che la psicologia dà nell’approccio educativo, nella conoscenza dello sviluppo del bambino. Poi, di psicologie ce ne sono tante, c’è la psicologia comportamentista, cognitivista a taglio psicanalitico, non è che sia tutto uguale.
R.C. A taglio psicanalitico?
G.T. Orientamento psicanalitico.
R.C. Orientamento!
G.T. Qualcosa dovrò pur dire, insomma! Psicanalisi.
R.C. Sarebbe come se i pompieri usassero la benzina per spegnere l’incendio. La psicologia a orientamento psicanalitico è la stessa cosa del pompiere che va con la tanica di benzina. Ma questo è un inciso.
G.T. Non è corretto, è sbagliato; comunque, questo è ciò che si trova quando si studia, quanto ai vari orientamenti, nelle varie impostazioni.
Allora, io stessa ho fatto esperienze negative rispetto all’apporto della psicologia, ma molte altre volte ho trovato delle cose assolutamente valide, dei contributi, non dico da condividere, ma contributi veri e propri.
Sono confusa nel porre la cosa, perché c’è confusione, nel senso che è una questione che per me è importante e un po’ intrigante, però è anche un problema, è una cosa che si incontra. Io sto al di là del questionario.
R.C. È una cosa che si può affrontare nella ricerca e nell’esperienza in corso.
N.V. Mi è concessa una battuta? Una mia allieva, l’anno scorso, durante una lezione ci racconta che quando faceva la scuola media, siccome c’era un problema di cui non ci ha detto, i genitori la portarono dallo psicologo.
La testimonianza è che lo psicologo, al di là di quello che lei raccontava, andava alla radice del problema, e la ragazza disse esattamente: “Allo psicologo quello che dicevo io non interessava”. E la cosa, quando io ho fatto eco ripetendola, ha fatto immediatamente ridere tutti. Probabilmente, c’è molta psicologia già fatta, cioè ci sono i pacchetti psicologici.
G.T. Ma non è sempre così, è ben questo che volevo dire. Non è vero!
N.V. Capisco che può essere forte la tentazione.
R.C. Sono testimonianze!
G.T. Ma questo è un parlare civile. Sto dicendo che non è sempre così, mi viene spontaneo dirlo. Anche perché mi dà l’occasione di precisare quello che volevo dire prima: non è sempre a pacchetto.
N.V. Volevo dire che nel momento in cui c’è una ragazza che ha un certo tipo di problema con lo studio e si sente dire: “Le ho detto di andare a parlare con la psicologa del C.I.C.”, ciò significa che c’è a disposizione della scuola il pacchetto. Pacchetto nel senso che, per un certo tipo di cose, andiamo lì.
G.T. Pacchetto o opportunità? Si tratta di vedere come si pone. Perché, se lo vogliamo considerare per forza pacchetto, allora è pacchetto, ideologizziamo.
N.V. Io non so se chi dice “L’ho mandata dalla psicologa”, conosce la psicologa. Ma credo di no, perché fa riferimento al C.I.C. Un conto è che io dica “Vada a parlare con Tizio”, e un conto è “Questa roba qua è una cosa da psicologo”.
G.T. Sì, certo, se questa è la via istituzionale, vai là perché questa è l’organizzazione.
N.V. Siccome esiste a Padova una facoltà di psicologia, probabilmente c’è una forte disponibilità in questo senso, mentre, se lei procede da cosa fare in ciascun caso, non passare per la psicologia sicuramente comporta un lavoro molto maggiore.
R.C. Adesso non è che la questione sia psicologia sì o psicologia no, nel senso che noi non vietiamo a nessuno di fare uso di ciò che esiste, ciascuno è in grado di valutare. Certamente, si tratta di informarsi e di cogliere la stramberia di una allocuzione come “psicologia a orientamento psicanalitico”, che è una forma di ossimoro, per dir così.
Se c’è l’orientamento psicanalitico c’è la dissipazione della psicologia, nel senso che la psicanalisi, in quanto esperienza della parola originaria e esperienza della parola che diviene qualità, cioè qualis, che diviene caso unico, come può inscriversi in una presunta scienza del caso generale? Questo è il punto. Sono due cose che si contraddicono. Non entriamo nel merito di chi deve prevalere sull’altro, però, certamente è un’altra cosa, è proprio un’altra cosa.
G.T. Allora preciso: quando parlano o si fa psicologia a orientamento psicanalitico.
R.C. Sì, ma è noto che c’è questa allocuzione.
G.T. Ma voglio dire questo, quale valore dare agli studi che sono stati fatti, alle ricerche e alle teorizzazioni, per esempio in merito allo sviluppo del bambino da un punto di vista affettivo, emotivo, per cui ci sono le varie teorie di Melanie Klein, di Piaget e altri? Quella è connotata e descritta come psicologia a indirizzo psicanalitico.
R.C. Vuole una risposta da me? È materiale clinico, è materiale clinico per lo psicanalista. Quello, per lo psicanalista, cioè per l’intellettuale, per il lettore, è materiale clinico.
Cosa vuole dire materiale clinico? È materiale che comporta di divenire qualità, come un sogno è materiale clinico. La teoria di Melanie Klein sui bambini è materiale clinico. La teoria di Piaget è materiale clinico. Sono elaborazioni fantastiche intorno a un animale fantastico. Questo sono, né più né meno.
G.T. Posso andare avanti? Perché devo cercare di chiarirmi, magari non so se riesco una volta per tutte, sarebbe bello. Si parla della famosa angoscia dell’ottavo mese, l’angoscia di separazione, parliamo della famosa fase anale e della fase orale presentate come tappe, come fasi.
R.C. È materiale clinico!
G.T. Però è un’esperienza nella quale il bambino incorre nella sua crescita, comunque avviene nella relazione con il genitore, con l’adulto che di lui si occupa. Quindi, dire materiale clinico vuole dire che tutto ciò non esiste se non come fantasia, o c’è un momento in cui l’educazione sfinterica del bambino incomincia a acquisire un’importanza e una risonanza anche dal punto di vista emotivo, affettivo, cioè investe la persona al di là di un discorso di controllo del muscolo? Cosa avviene?
Dico questo per portare un esempio pratico. Non è che mi faccia molto ridere visto che l’educazione sfinterica fa impazzire tutte le madri e chi non riesce a gestire bene la relazione con il figlio. Io non ho avuto il problema, però viene posto. E tante altre cose, così come la famosa angoscia di separazione del bambino, all’ottavo o al nono mese.
R.C. Esatto. Il discorso occidentale si pone sempre una questione di praticità. Apparentemente, molte cose le giustifica con la praticità, per dire che i bambini sono tanti e anche le mamme, per cui se ogni mamma di fronte a un problema va a chiedere consigli, chi avrebbe il tempo di ascoltare tutte le mamme che vanno a chiedere lumi su cose che sono di normale amministrazione?
Allora, per praticità, c’è un’iscrizione di alcuni modi nella così detta normalità, nello sviluppo “normale”, lasciando solo alle cose che ne stanno al di fuori il tempo di preoccuparsene, altrimenti non ci sarebbe modo e tempo di occuparsi di tutti i casi.
La psicologia sorge così, per inquadrare e potere togliere dal numero dei casi, quelli che sono riconosciuti come “normali” da quelli che sono non normali e che possono richiedere una normalizzazione!
G.T. Ma forse questo sarà l’uso che ne viene fatto, forse è l’utilizzo.
R.C. Ciò per cui sorge.
G.T. Tutti hanno avuto le stesse fantasie.
R.C. Adesso non sappiamo se tutti hanno avuto le stesse fantasie.
G.T. Poi, nella teoria, sui libri quello c’è.
R.C. Leggendo le elaborazioni a cosa si giunge? Qual è la questione posta? Qual è la cifra delle elaborazioni attorno allo sviluppo del bambino? Lei cosa coglie come cifra di queste elaborazioni?
G.T. Per me esistono i singoli bambini, non il bambino secondo Spitz o Melanie Klein.
R.C. Però, lei dice, l’orientamento di Spitz, o quelli che sono i segni caratteristici di uno sviluppo normale, entrano nell’uso, cioè se io mamma vedo che il mio bambino fa così, innanzitutto vado dal pediatra, il quale dice “Sono presenti questi segni”. Poi, in realtà, cosa accade? Che non c’è un bambino che segua le prescrizioni dello sviluppo. Non ce n’è uno. E queste indicazioni allo sviluppo danno modo all’intervento di cogliere qual è il modo di fare?
G.T. Forse possono dare indicazione al momento su cosa pretendere o non pretendere, su come orientarsi, ma non è che mi risolvano la questione, nel senso che c’è la relazione che si gioca tra l’adulto e l’educatore.
R.C. Certo, ma non solo. Il problema è nell’impostazione stessa.
G.T. Cosa chiedere o non chiedere al bambino.
R.C. Già l’impostazione “se consentire di risolvere o no determinate questioni”, è qualcosa che occorre esplorare. Qui non è in questione l’efficacia dello strumento, ma si tratta di rilevare che è strumento in quanto è compatibile con il modello di riferimento, e viceversa. Cioè, lo strumento è adeguato al modello e il modello si adegua allo strumento. Solo in questo senso le due cose funzionano o non funzionano. Solo in quanto la presunta relazione col bambino è relazione sociale – cioè improntata a determinate modalità di un dispositivo sociale presunto tale, e conforme a determinati dettami del discorso – può essere misurata la compatibilità tra lo strumento e la sua efficacia, in quanto viene dato come tale lo strumento e come tale il modello di riferimento e d’uso.
La questione è che se c’è un’anomalia, l’anomalia non è anomalia rispetto al modello, è anomalia e basta. Se io considero che qualcosa è anomalia rispetto a un modello, io già mi sono precluso una vasta gamma delle combinazioni possibili rispetto a cui cogliere di cosa è fatta l’anomalia.
G.T. In base a che cosa si dice che qualcosa è anomalo? Si andranno a indagare le ragioni sulla base delle quali, in quel caso, c’è l’anomalia. Se un bambino di quattro anni non parla, dico che è anomalo? Un bambino di quattro anni che non parla, che non supera la parola-frase, in base a che cosa dico che è anomalo? Perché ho un modello di riferimento di bambino che, nella sua evoluzione, intorno ai quattro anni, dovrebbe quanto meno avere raggiunto questa abilità.
R.C. Esatto. Dovrebbe!
G.T. Ma questo modello, in qualche modo mi serve. Poi, c’è tutto il lavoro. Non è che individuato questo, ho risolto la cosa, poi da lì parte il lavoro.
R.C. Ci sono bambini che a quattro anni non parlavano e che a cinque erano incontenibili nel loro parlare.
G.T. Ma d’accordo, però non posso dire, di fronte a tre bambini che a quattro anni non parlano, siccome ce n’era uno che a cinque parlava, aspettiamo, non si sa mai. Può darsi che tra questi tre ci sia quello che a cinque parla e gli altri due che, effettivamente, hanno un problema. Io, quanto meno, devo indagare, vedere, o no?
R.C. Sì, solo che il modo non è già stabilito. Allora diciamo che secondo alcune modalità ciò è già stabilito, nel senso che ho dei parametri da verificare e se sono rispettati vuole dire una cosa, mentre se non sono rispettati, vuole dire un’altra cosa. Cioè, c’è una possibilità diagnostica o si considerano altri schemi e altri modelli, oppure, nessun modello e si tratta di cogliere altri modi con cui le cose avvengono!
G.T. Ma certo, non lo escludo. Per conto mio è questo il fatto, e ciò non lo esclude, anzi, è necessario e indispensabile. Però, perché io possa trovare il modo per lavorare, per l’ascolto, nel senso in cui dice lei, ci deve essere prima la possibilità, in alcune situazioni e in alcune circostanze, di potere cogliere ciò che non va, e colgo ciò che non va rispetto a uno standard, c’è poco da fare!
R.C. Il problema è questo: l’idea di standard!
G.T. Uno standard evolutivo.
R.C. A quale funzione assolve lo standard e per chi? Basta rispondere a questo per trovare che cosa indica, qual è la funzione dello standard. Lo standard chi deve rassicurare, chi deve tranquillizzare, rispetto a che cosa?
G.T. Per me lo standard non esclude la possibilità che esistano delle differenze e di accettare le differenze, assolutamente. Non è che se c’è la differenza non c’è lo standard e viceversa.
R.C. Sì, questo può darsi per lei, ma non è solo il suo caso in questione.
G.T. Dico per me, nel senso che mi sembra che così le cose funzionino. Funzionano anche come dice lei, ma non necessariamente e non così estesamente. Anche se, dove funzionano così, la cosa è grave, pesante, però non mi sento di dire che sia necessariamente sempre così. Ne ho esempi.
R.C. Sì, non necessariamente, non sempre. Ma, appunto, entrando nel caso in questione, noi non facciamo più psicologia. Se noi entriamo nel caso in questione, siamo già fuori dalla psicologia.
Se lei dice che viene considerato il caso in questione, è chiaro che lei lo considera entrando nel merito, e ciò vuole già dire che siamo fuori dalla psicologia. Questo è il punto, fermo restando quello che dicevo prima.
Ciascuna teoria che tende a assimilare, a fare di più casi un genere, è materiale clinico, fantasmatico, che riguarda un animale fantastico. Di questo si tratta nella psicologia, nelle varie scuole, anche autore per autore. Si possono leggere questi manuali come opere teatrali, come opere cinematografiche, come romanzi dove il racconto dello sviluppo naturale, dello sviluppo normale è un romanzo. È la storia dell’autore, magari, trasposta in manuali.
G.T. Quale importanza dare alla ricerca o all’osservazione che può essere stata fatta? Non è detto che quel modello debba esaurire, che non possa cambiare, non è mica scolpito sulla pietra. Magari sarà anche fantasia, ma anche frutto di ricerca, di osservazione.
R.C. Sì, ma perché no. Né toglie né aggiunge. Io posso fare una ricerca su un milione di persone ma, rispetto alle centinaia di miliardi che sono vissuti e vivranno, che cos’è? È un campione irrilevante, resterà comunque un campione irrilevante, quindi il rappresentante di un animale fantastico, per giunta estinto, o in via di estinzione, o che avverrà.
Io oggi faccio uno studio su 10.000 bambini e nel momento in cui lo pubblico, è lo studio rispetto a un dinosauro, cioè rispetto a un animale fantastico già estinto, che io però posso usare come modello per un animale futuro, una specie futura che sorgerà e che dico che sarà la stessa. Benissimo, io sono libero di usarlo, ma si tratta di questo, di un repertorio da museo, di un genere già estinto che risponde al nome di animale fantastico x o y. Già estinto però! E che io posso considerare ancora vivo.
G.T. Posso considerarlo anche estinto, ma sapendo che magari è appena estinto.
R.C. Sì, ma questo non toglie che siamo dinanzi a un materiale clinico, di natura zoologica, fantastica, di una specie estinta.
G.T. Ma allora tutti dovrebbero fare l’esperienza psicanalitica.
R.C. Perché tutti?
G.T. La qualità è una cosa che riguarda tutti.
R.C. No! La cultura comune a tutti è la barbarie! Cioè, se lei dice che tutti facciamo, cosa facciamo tutti?
G.T. Io sto pensando a singole persone ma che sono tante. Singole persone, bambini, adulti, genitori.
R.C. Ciò non è necessario per tutti. Può essere necessario per alcuni che avvertono questa istanza imprescindibile, questo sì.
G.T. La dove ci sono problemi, dove si nota l’anomalia.
R.C. Esatto. La questione è proprio questa. La codifica è sempre fatta in nome del bene, o della bonifica, o della salvezza, o della guarigione.
G.T. Dell’aiuto.
R.C. In nome dell’aiuto per togliere mali, malattie, per guarire. In nome di questo sono sorte anche Auschwitz e via discorrendo, il lavoro nobilita. In nome della salvezza sorgono le guerre, in nome del bene dell’Altro ci sono le stragi, in nome della salvezza comune ci sono le guerre di religione. La ghigliottina è sorta per purgare più in fretta perché occorreva una società migliore. Anche la ghigliottina aveva un intento umanitario: doveva alleviare le sofferenze del condannato a morte, di quello che doveva morire. Mica perché non dovesse morire! Doveva morire, ma più in fretta, senza soffrire troppo, cioè per istinto umanitario. L’istinto umanitario è sempre verso chi deve morire perché possa morire più in fretta, comunque morire. Allora, anche qui si tratta di curare meglio.
Avete notato l’argomento del giorno qual è? L’elettroshock! La grande novità del ministro della sanità, giunto all’apice della sua ricerca, è di emettere una circolare ministeriale in cui viene elogiato l’elettroshock, l’elettroterapia che tante sofferenze avrebbe alleviato, tanti casi avrebbe risolto e a cui andrebbe riconosciuto il suo merito. Dall’altra parte si scatenano quelli contrari “Ma non è vero, perché in realtà è una macchina infernale, è questo, è quello”. E altri dicono “Sì, ma è l’abuso che è condannabile, non lo strumento. Lo strumento, in realtà è buono, però un uso scriteriato lo fa diventare uno strumento cattivo. Bisogna usarlo bene”.
E chi sa usarlo bene? Allora dice “Ci vuole l’operatore coscienzioso”, un animale fantastico anche quello, che si tratta di educare e istruire all’uso saggio, giusto, dello strumento infernale perché, in fin dei conti, pacifica! Poi, una volta data la scossetta, gli effetti sono positivi. La persona è calma, calmissima; anzi ha giovato addirittura alle mamme in gravidanza, quindi è buono.
Questo è stato l’argomento addotto, che in gravidanza, proprio nel caso in cui la mamma avesse un po’ di agitazione e non potesse essere usato nessun farmaco perché nuocerebbe al bambino, animale fantastico sacro, la scossetta andrebbe bene, perché farebbe bene alla mamma e non nuocerebbe al bambino. È come il confetto Falqui, che uno fa bene al bambino, due alla mamma! Si tratta di dare la posologia, la buona dose. Ce n’è per tutti, basta usare la dose giusta.
E siamo nell’apologia della sostanza. Si tratta di trovare la sostanza che, somministrata in una certa dose, fa bene, mentre in una dose eccessiva fa male. Quindi, siamo sempre nell’anfibologia fantastica, cioè nella dicotomia del bene e del male, dove si tratta di trovare la misura, la giusta misura che è data dal taglio. E il taglio dicotomico stabilisce qual è.
Si dice anche della dose che deve essere tagliata in un certo modo. Anche nella droga c’è questo gergo a proposito di come è tagliata la sostanza, tagliata bene, tagliata male, cioè c’è la rappresentazione, la sostantificazione del taglio, del tempo trasposto in sostanza che deve tagliare un’altra sostanza, quindi il taglio del taglio.
Ecco la mitologia della droga: rappresentare il taglio e attuare il taglio del taglio. La sospensione del tempo è il taglio del taglio. Ma è impossibile tagliare il taglio. Se il taglio è già taglio, come possiamo tagliare il taglio se non abolendo il taglio? Questa è l’operazione della sostantificazione. Ecco, si tratta di accorgersi di dove, come e quando l’opera di abolizione del tempo viene attuata, quand’anche vengano citate le migliori intenzioni. Le intenzioni sono sempre buone! Chi è che ammette di fare qualcosa per cattiva intenzione? Le intenzioni sono sempre buone. Le migliori intenzioni sono sempre quelle di aiutare l’Altro. Ma, come? Secondo quale schema? Secondo quale logica? Questo è il punto. E questa è la questione dell’educazione.
È curioso che a partire dalla questione educazione, scuola e società, siamo giunti a considerazioni intorno al dispositivo sociale, dove potrebbe sembrare che, ampliando l’ambito, la questione della logica potesse sfumare a favore dei risultati. Ma i risultati seguono la logica. I risultati sono sempre conseguenze del modo, del che cosa e di come. Del modo della logica e del modo dell’itinerario.
Non è che possa avvenire che qualcosa è applicato al di fuori della logica e dell’itinerario. Per questo non può esservi intervento se non tenendo conto di cosa si tratta in quel caso, qual è la logica. Come può esservi intervento se noi aboliamo la logica, il modo e il come di qualcosa che sta avvenendo, quindi il caso stesso?
Lei dice che è impossibile questo perché, quando si tratta di stabilire l’intervento, è di ciò che occorre tenere conto. È questa la questione che si pone, ciascun intervento esige questo.
C’era la questione che veniva posta prima, di come farsi carico di qualcosa, di come affrontare e di come risolvere. Già l’idea di potere risolvere qualcosa è un’idea sostanzialista, che comporta una possibile sospensione della logica, la logica come logica particolare, la logica della parola, la logica che c’è in ciascun atto.
Quando viene enunciato un problema non viene mica chiesto che venga risolto! Questo è il fraintendimento. Quando accade che da parte di x sia enunciato un problema, non viene chiesto che venga risolto, ma viene chiesto qualcosa che ha a che fare con la chiarezza. I termini del problema non sono chiari. Dire risolviamo, passa prima per: “Quali sono i termini del problema? Chiariamo!”.
Non c’è risoluzione del problema, ma c’è la sua indagine. L’indagine comporta l’instaurazione di un dispositivo per affrontare la difficoltà, che non vuole dire risolvere il problema, vuole dire affrontare la difficoltà.
G.T. Per arrivare alla chiarezza.
R.C. Esatto. A quel punto si dissipa il problema. Non in quanto, per così dire, risolto, ma in quanto affrontato, in quanto affrontata la difficoltà che pareva insormontabile, inaffrontabile. Perché, per lo più, è qualcosa che si fissa lungo la fantasia di essere incapaci, o di non essere all’altezza, o che quella cosa sia troppo difficile, troppo alta, troppo bassa, troppo. C’è un troppo! Un troppo che si combina con l’idea di limitazione, cioè con una rappresentazione del tempo che comporta un’impossibilità.
Allora, quando si formula una domanda di aiuto, ciò che viene richiesto non è che al posto dell’Altro io debba risolvere il problema. La questione dell’aiuto è di trovare i modi per cui l’itinerario prosegua. Qualcosa si è incagliato, non si tratta neanche di disincagliarlo, ma si disincaglia da sé nel momento in cui i termini si chiariscono, nel momento in cui la fantasmatica si precisa e allora la cosa prosegue. Quindi, quello che prima veniva posto come questione del finalismo, se la scuola deve essere funzionale a un certo tipo di lavoro o di professione, riguarda proprio questo problema.
Talvolta viene creduto di dovere dare una risposta sostanziale a qualcosa che invece riguarda l’itinerario, cioè il modo, il come, il quando della ricerca. È soprattutto questo che per ciascuno importa: trovare che cosa fare, come fare e quando fare, cioè reperire i termini e i modi di un dispositivo in cui esistere, in cui vivere.
La scuola, quanto a questo, ha una funzione essenziale, straordinaria, sia la scuola dell’infanzia, sia l’istituto superiore, perché ciascuna età esige un suo dispositivo. Che sia il gioco, lo studio o il lavoro, esige sempre un dispositivo. È una questione che riguarda l’orario, che riguarda come, con chi e quando fare ciò che occorre, in modo che non prevalga il soggettivismo, cioè l’idea che la cosa la posso fare quando voglio io, quando ne avrò tempo, quando diventerà facile, modalità che indicano che non c’è più dispositivo.
Nel momento in cui si enuncia una simile posizione, non c’è più dispositivo, c’è il soggetto: “Questa cosa la faccio se mi sento libero di farla, perché se non mi sento libero, non posso farla”, perché vorrebbe dire che io faccio una cosa che mi è imposta da un altro.
Ecco l’Altro come rappresentazione del persecutore, del tiranno, del vampiro, del padrone, della legge severa. Ma, allora, quando io vorrò fare questa cosa? Mai! Perché mai? Perché, nel momento in cui questa fantasia si afferma e si fissa, vale, e vale per sempre, per cui il rimando che la fantasia comporta troverà sempre un appiglio per affermarsi.
La questione è quella di un progetto e di un programma sia nel bambino sia nell’adolescente. In ciascun momento, per ciascuno, è imprescindibile il progetto e il programma. Anche il progetto del gioco.
Machiavelli diceva che il dispositivo di battaglia è la giornata, perché le guerre si vincono o si perdono nella giornata. Non è che uno perde la guerra nel corso di un anno. No, nella giornata vince o perde la guerra, vince o perde la battaglia. Rispetto a ciò che occorre fare, è l’istante che conta, la giornata come l’istante. Quindi, il dispositivo della giornata, il dispositivo della battaglia, il dispositivo per fare quel che occorre fare.
Occorre fare in che senso? Perché? Chi lo dice? “Chi l’ha detto che adesso io devo andare a letto?”, “Chi l’ha detto che adesso io devo studiare?”, “Chi l’ha detto che adesso io devo fare i compiti?”, “Chi lo dice che devo smettere di giocare?”, “Da dove ti viene l’autorità per dirmi quello che devo fare?”.
Tutto ciò è il materiale con cui l’insegnante, l’educatore, il genitore, s’imbatte e deve fare i conti per le sue indicazioni, per le sue proposte, per le regole, le norme e i motivi con cui si instaura un dispositivo efficace. I programmi sono pretesti per il dispositivo, costituiscono norme, regole e motivi non da abolire, ma di cui avvalersi, perché con questi si attua la partita. Come? Il come è vario, il come è differente e vario. E non è da abolire nulla, ma occorre avvalersi di tante cose.
Ciò richiede certamente uno sforzo, richiede la politica, la strategia e la questione della sessualità anche nell’infanzia, indubbiamente. Non è da scartare perché nell’infanzia il bambino deve seguire un itinerario già stabilito, perché anche lì tante cose avvengono in vario modo.
Mi pare non casuale che il dibattito si sia orientato in questa direzione a partire dalla questione educazione e scuola, nel senso che la scuola, e quindi ciascun insegnante, non è che ha da demandare a altri la formazione del cittadino dell’avvenire: è nel suo mansionario!
La questione dell’avvenire, non tanto del futuro, ma dell’avvenire, cioè del modo con cui le cose avvengono, è assolutamente questione essenziale nella scuola.
In questo senso, qual è il tempo della scuola? Il tempo della scuola è l’attuale, cioè occorre che la scuola si situi in ciò che sta accadendo, nell’atto, in un dispositivo attuale. In questo senso occorre la formazione clinica dell’insegnante, per intendere ciò che è in atto! Non si tratta né di vagheggiare una società migliore, fantastica, nel futuro, né di rimpiangere la mitica età dell’oro ormai irrimediabilmente trascorsa, ma di fare, lì, nell’atto, di cogliere cos’è in atto, cosa sta avvenendo. Come sta avvenendo ciò che sta avvenendo? Come non aderire alle mitologie sostanzialiste, drogologiche, del rimedio, della salvezza, della guarigione dell’Altro?
Questa è la scommessa come scommessa intellettuale, ciò che per l’insegnante mi pare imprescindibile: come fare, come intervenire, come giocare giorno per giorno la partita, perché l’anomalia da cui ciascuno parte, con cui ciascuno esiste, con cui ciascuno parla, si scriva fino alla qualità, perché l’anomalia di ciascuno approdi alla qualità! Non come fare perché l’anomalia sia corretta, guarita, curata, normalizzata in modo che approdi a un comportamento normale, ma come l’anomalia di ciascuno possa trovare il modo per giungere alla qualità!
Questo è il compito dell’insegnante, come compito intellettuale: non correggere, non rimproverare, non punire, non curare, ma indicare come l’anomalia possa trovare la qualità!
G.T. Come ciascuno possa dare e raggiungere il suo massimo anche nell’anomalia, e non ricondurre l’anomalia alla normalità.
R.C. Non dando all’anomalia un significato negativo.
G.T. Le differenze, dove nelle differenze può esserci l’anomalia, cioè la diversità forte.
R.C. Adesso lei introduce un’altra cosa. Non si tratta dell’anomalia rispetto a qualcosa che non è anomalo, ma dell’anomalia assoluta. Si tratta d’intendere che ciò che si enuncia in ciascun caso è l’anomalia, cioè la caratteristica.