- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA PAROLA, IL SILENZIO, LA COMUNICAZIONE. L’ASCOLTO E LA CLINICA
- Chi parla a chi
- La parola, i segni, il pensiero
- Il racconto, la narrazione, il romanzo
- L’afasia e il silenzio
- Il vuoto e la dimenticanza
- Come si instaura la comunicazione
- Figure della comunicazione
- Cosa resta della comunicazione. Casi clinici
Chi parla a chi?
Ruggero Chinaglia Cominciamo questo corso con la questione, tanto importante quanto trascurata, della parola e del dispositivo di parola.
Ciò che i bambini, i ragazzi, gli adolescenti, i giovani esigono per la loro formazione, per la loro educazione, per la loro istruzione, direi per la loro crescita e per la loro ricerca, è l’attuazione di dispositivi non conformisti dove possa avvenire di parlare. È forse il caso di precisare che, senza la ricerca, non avviene nemmeno la crescita, nel senso effettivo del termine, cioè non tanto la crescita fisica, quanto quella intellettuale, che riguarda il pensiero, la qualifica delle cose e il dispositivo entro cui le cose si qualificano.
Tutto ciò sembra ovvio, evidente, scontato, quasi naturale. Ma ciò avviene? Questo è il primo interrogativo.
Il secondo è: che cosa vuol dire “dispositivi non conformisti dove possa accadere di parlare”? Si tratta, apparentemente, di qualcosa che sembra tanto banale, quanto naturale, ma che, forse, non va proprio da sé.
Cominciamo con il precisare e qualificare, in particolare, questo termine che sembra così semplice e scontato, cioè parlare.
In questa epoca, forse più che in altre, è constatabile che l’educazione e quanto vi sta attorno, come insegnamento etico o morale, come informazione e, soprattutto, come ciò che possiamo rilevare di indottrinamento in ogni sua varietà, è improntato alla volontà di bene. C’è chi possa dire il contrario? No!
É constatabile che la morale civile e sessuale attuale è improntata a questa volontà di bene: volontà del bene proprio e volontà del bene altrui. Non è praticamente ammesso che l’uomo possa non avere la volontà di bene.
Ci siamo occupati la settimana scorsa, in un dibattito, del clamore giornalistico suscitato dal processo a Stevanin, in corso a Verona. Per alcuni è il caso Stevanin, ma per i più, nei giornali e alla televisione, si tratta del mostro di Verona. Perché mostro? C’è stato il mostro di Foligno, il mostro di Firenze, il mostro di Los Angeles, vari mostri, e adesso c’è il mostro di Verona. Tutti questi mostri perché sono mostri? Perché non è chiaro se contraddicano o no a questa volontà di bene.
Attualmente sono in corso perizie sul caso Stevanin per valutare giudiziariamente se è capace d’intendere e di volere. Perché questo suscita tanto clamore sui giornali, mediaticamente, ossia moralmente?
Casi in cui si tratta di stabilire giudiziariamente se c’è la capacità d’intendere e di volere ce ne sono a migliaia. E dunque, perché tanto clamore sui giornali per questo caso? Non già per stabilire la verità giudiziaria, ma per rassicurare il popolo che anche questo caso non contraddice la volontà di bene.
Quand’anche omicida, quand’anche pluriomicida, quand’anche seviziatore, quando anche eccetera, eccetera, tuttavia non contraddice la volontà di bene, perché? Perché ha i buchi nel cervello e, quindi, è giustificato, la volontà di bene è inalterata. Se compie i ‘mali’ perché ha i buchi nel cervello, il popolo può stare tranquillo! Questo importa mediaticamente, questo è il messaggio mediologico, la rassicurazione televisiva e della stampa.
La volontà di bene è la prova della discendenza da Dio, cioè dal padre buono, quindi è la prova della corretta genealogia. Prova che non è venuta meno la corretta scelta e che non verrà meno. La corretta scelta, cioè la scelta lungo la corretta retta, la retta della genealogia, della discendenza genealogica.
Voi direte che tutte queste cose sono un po’ specialistiche, rientrano proprio nel caso eclatante e vi chiederete in che modo questa questione possa riguardare ciascuno. Proviamo allora a considerare la cosa da un altro aspetto. Oggi lo slogan più in voga che cosa dice? Che ognuno ha diritto alla qualità della vita, e qual è la prova del conseguimento della qualità della vita? Il benessere: secondo questo slogan ciascuno aspira al benessere, come prova e modo del conseguimento della qualità della vita.
Che cos’è il benessere, oggi? È il modo con cui si afferma la volontà di bene. E il benessere è da acquisire subito, immediatamente, qui e ora. Ciascuno ha diritto ad aspirare al benessere, questo è il messaggio del welfare state, della società del benessere. Politici, opinionisti, giornalisti, politologi, sociologi, psicologi, insomma varie categorie di informatori ci dicono che c’è una società fondata sul benessere e che questo è un diritto, cioè ci dicono che c’è una società fondata sulla volontà di bene. Questo bene è da raggiungere subito, presto, con ogni mezzo.
E qual è questo bene supremo, essenziale per ciascuno? É la morte. Questo non ve lo aspettavate. Questo bene su cui si fonda la società del benessere, prova della volontà di bene, è la morte nelle sue varianti: dalla morte bianca, alla morte intellettuale, dalla morte rossa (la morte cruenta), alla morte nera: insomma la morte in quanto tale.
Il bene come bene immaginabile, bene raggiungibile, bene raffigurabile nella sostanza, nei beni o comunque possa essere pensato, esige che le cose finiscano, che il tempo finisca. Il benessere che cos’è? É la rappresentazione di uno stato di cose finalmente stabile. E quando è raggiungibile? Una volta finito il tempo. Fino a che c’è il tempo con il suo ritmo, il benessere è irraggiungibile, l’instaurazione dell’essere è impossibile. La scena del benessere, dove finalmente c’è il bene, è una scena immobile: è la scena della morte. Il tanto agognato benessere è questo, e per affermarsi esige che le cose finiscano. E non è forse questo ciò che viene pubblicizzato come il postmoderno?
Noi, oggi; siamo nel postmoderno, nel pensiero postmoderno, nell’arte postmoderna, nella cultura postmoderna, nella letteratura postmoderna, nella pittura postmoderna, nel pensiero postmoderno, nell’ideologia postmoderna, cioè nell’idea post: post moderno, cioè post tempus, dove le cose possono avvenire, possono farsi, possono svolgersi, possono esistere post, postume, dopo la fine del tempo.
Questa fine del tempo può immaginarsi in tanti modi, può pensarsi in tanti modi, può pubblicizzarsi in tanti modi.
Quante volte è accaduto, accade e accadrà di sentire: “Prima il dovere, poi il piacere”, oppure: “Prima termina gli studi, poi fai quello che vuoi”. “Prima compi i 18 anni e poi sarai indipendente”. “Prima ti sacrificherai, lavorerai, poi potrai vivere di rendita”. In conclusione, bisogna prima che il tempo finisca e poi potrai avere il piacere, il godimento, il sapere. Poi.
Ci sono varie fantasmatiche, varie ipotesi, ciascuna delle quali prevede di abolire o il male o gli inconvenienti o le vicissitudini o le malattie o la miseria. Ciascuno ci mette la sua rappresentazione del male e del tempo, e poi? Poi finalmente potrai!
Questo messaggio di un poi, che viene impartito a vario modo e a vario titolo sulla scena civile, doppia quello religioso di un godimento, di un piacere, di una visione divina nell’aldilà. Prima la vita terrena, la sofferenza e poi, nell’aldilà, se meritata, la visione divina, il godimento del paradiso. Poi. Sempre poi.
E, sulla scena civile, anche qui c’è una promessa, giorno per giorno ribadita: prima l’abolizione del deficit pubblico e poi…; prima l’ingresso in Europa e poi…; prima la conquista del potere e poi le masse potranno, i cittadini potranno, ciascuno potrà.
C’è sempre un poi, sulla cui rappresentazione viene promesso qualcosa che adesso sembra non conseguibile e su cui dovrebbe fondarsi il sacrificio di ogni giorno, sempre con questa idea che qualcosa dovrà finire. Ma a furia di attendere che questa cosa finisca, finisce proprio. Rimanendo sempre in vista di, in attesa di, finisce la vita.
Questo attendismo ha delle implicazioni per quel che riguarda la formazione individuale, la formazione alla lotta, la formazione al saper affrontare ciascuna difficoltà. Se la difficoltà attuale viene intesa come un male, un inghippo, uno scherzo del destino, e si ritiene di dover attendere il momento in cui non ci sarà più, ebbene, poiché non è data cosa senza difficoltà, quando la difficoltà non ci sarà più, allora saremo morti.
La difficoltà sta nella struttura della parola: ipotizzare qualcosa senza difficoltà vuol dire ipotizzare qualcosa senza parola. Dire ‘senza parola’ vuol dire senza cultura, senza arte, senza intendimento, senza intelletto, come dire la morte intellettuale, cioè la morte, la morte in quanto tale.
Questo godimento, questa soddisfazione che la religione del benessere propone in questi termini, prevede sempre che il mondo finisca e che questo conseguimento si avrà dopo la fine del mondo; che avvenga dopo 500 anni, che avvenga dopo 1000 anni, che avvenga ogni qual volta una fantasmatica prevede che un ciclo debba finire, sempre di questo si tratta: di una fine minacciata o promessa che serve a mantenere la promessa della soddisfazione, del domani migliore, del piacere, del godimento.
La religione del benessere si fonda proprio sul differimento del piacere: sembra un paradosso, ma è proprio così. Non sul conseguimento, ma sul differimento, ossia il benessere è sempre promesso, mai raggiunto, perché prima deve avvenire la fine del mondo, l’ingresso in Europa, il risanamento delle finanze, il risanamento dell’IRI, il risanamento delle zone terremotate, il risanamento dell’Europa dell’Est, il risanamento dell’Africa. C’è sempre quel qualcosa che non va, tolto il quale, allora, le cose sarebbero perfette, cioè finite.
Quindi il piacere è sicuro, garantito, la soddisfazione è certa, però è differita. A quando non è precisato. Quel che è sicuro è che c’è.
Ma non si tratta qui, in questa certezza del piacere, in questa promessa della soddisfazione, non si tratta proprio della quintessenza della predestinazione? Ciascuno è predestinato al piacere, alla soddisfazione, al bene, basta aspettare la fine del mondo.
Questa cosa in che modo riguarda la questione che dà il titolo al corso? In fin dei conti, si potrebbe dire: “Beh, che attinenza ha questo con la comunicazione, con la parola?” É semplice: dove c’è questa credenza nella predestinazione, non può esserci parola, né parola, né comunicazione. Se c’è credenza nella predestinazione, non c’è parola, non c’è comunicazione, non c’è ascolto, è impossibile, perché questa credenza nella predestinazione fa da sbarramento alla parola; fa da sbarramento alla logica della parola, alla struttura della parola, al dispositivo di parola. Quindi si tratta di andare oltre la credenza nella predestinazione, di articolare, di analizzare, di elaborare questa credenza, di analizzare la logica della predestinazione per intendere in che modo si insinui, nelle sue molteplici varianti, anche lì dove sembra assolutamente non esserci.
La cosa è molto più comune e diffusa di quanto possa sembrare. Provate a pensare a quante volte vi sarà capitato di sentire qualcuno dire: “Sono preoccupato perché domani ho un esame: potrebbe andare bene, potrebbe andare male”. Oppure: “Ho un incontro di lavoro: se mi va male, cosa faccio?” Soprattutto questo: “Se mi va male, cosa faccio?” E quindi il programma, in vista dell’incontro e soprattutto del dopo incontro, si incentra sull’ipotesi negativa, anzi al 90% è già determinato dall’eventualità negativa. Praticamente è già deciso che andrà male, anche se chi afferma questo, dice: “Beh , ma lo dico per scaramanzia”. Per scaramanzia, cioè per superstizione, per fatalismo, accettando una presunta volontà di bene che dovrà orientare l’incontro. Per cui l’incontro va male: “Eh, mi ha chiesto proprio quella cosa che non sapevo. Ah, mi ha interpellato proprio su quel dettaglio un po’ scabroso e non ho saputo rispondere. Ah, c’è mancato un pelo, stava per andare bene, ma è andata male, d’altronde era destino”.
Pensando che le cose possano andare bene o possano andare male è il fatalismo a decidere, è la superstizione a decidere. Già in questa idea c’è la superstizione. Nell’idea che le cose possano andare o bene o male, la superstizione è già al potere, perché il bene e il male non stanno dinanzi a noi, non stanno nell’esperienza. Credere che il bene e il male stiano nell’esperienza, quindi nelle cose che si fanno, questa è la superstizione, questo è il fatalismo, perché è credere che bene e male siano l’eventualità del tempo, delle cose che si fanno, stiano quindi nel funzionamento delle cose. Ma non è così. Bene male non è un’alternativa: o bene o male.
Leonardo parlava di chiaroscuro, né tutto chiaro né tutto scuro, ma chiaroscuro. É la questione dell’ombra, cioè è la questione della diade, che non può mai volgersi in dicotomia. Cioè, la diade, la logica duale non può mai diventare due cose: è due, ma non due cose. É una cosa impensabile. Allora bene male è questo impensabile che ci sta alle spalle. Quindi le cose procedono dal bene male e vanno verso la qualità, verso la loro qualifica, verso il loro compimento. Pensare che possano andare bene o che possano andare male vuol dire inserire le cose in una predestinazione, che può essere predestinazione negativa o predestinazione positiva, anche se Lutero e Calvino ci dicono che la predestinazione nel 99% dei casi è negativa, cioè sempre conforme al peccato, al male, alla malattia, al negativo. Questa è la questione nodale di un modo di pensare le cose che segue la superstizione e il fatalismo, anziché la logica della parola, la logica dell’infinito attuale, la logica delle cose che si fanno.
Non è la stessa cosa vivere secondo la logica dell’apertura e dell’infinito, oppure vivere secondo la logica della predestinazione. Nel primo caso c’è un progetto, un programma, una tensione verso il compimento e quindi la lotta che ciascuna difficoltà esige; nell’altro caso c’è l’attendismo, l’arrendevolezza, il lassismo, la malattia, la giustificazione di malattia o la giustificazione d’impotenza, o la giustificazione d’incapacità, o la giustificazione di criminalità, cioè tutte le rappresentazioni del negativo applicate a sé o all’altro.
Di questo si tratta anche in quella che viene definita psicopatologia, cioè delle rappresentazioni del negativo che ciascuno applica a sé o all’altro secondo una concezione fatalistica delle cose, delle cose proprie o delle cose altrui. É molto più rapido intervenire secondo una classificazione di questo fatalismo in quadri psicopatologici che non dover intendere caso per caso di cosa si tratta e istituire un dispositivo opportuno.
La questione è proprio questa: ciascuno, lungo il suo itinerario, lungo lo svolgimento del suo progetto, esige un dispositivo opportuno a quel caso. Come instaurarlo? Come allestirlo? Con quali mezzi, con quali strumenti, secondo quali modi, quali logiche? Di questo dovrebbe occuparsi l’educazione. Ma se ne occupa effettivamente? Giunge a questo? Nel caso, per esempio, dei ragazzi viene usata spesso, almeno mi viene riferito, questa classificazione: “Si tratta di un ragazzo conformista, di un ragazzo anticonformista”, come se si trattasse di due modi differenti. Sono due facce della stessa medaglia, cioè della predestinazione, verso cui pensando che questa appartenenza sia marchiante c’è una ribellione o, pensando che questa appartenenza sia fondante, cioè necessaria, c’è una condiscendenza. Ma è sempre la stessa credenza considerata dicotomicamente: da una parte sarebbe bene, dall’altra sarebbe male; da una parte c’è ribellione, dall’altra accettazione. Ma, sia ribellione, sia accettazione, sono sempre due modi di procedere dalla stessa idea data come fondante: l’idea di male, come alternativa al bene, e l’idea di morte come alternativa alla vita.
Ma questa alternativa non c’è. É giusto una credenza, attorno a cui, però, ruota la società, per non dire la quasi totalità del pianeta. E allora come si fa? Diciamo: “In giro è tutto marcio e bisogna cambiare tutto. É tutto da rifare”, oppure: “Niente da rifare, non si può fare niente”? Qual è la questione, dunque, in particolare nell’ambito della scuola, cioè per quel che riguarda in particolare i ragazzi, i giovani? É quella di trovare l’interlocutore grazie a cui possa instaurarsi il dispositivo opportuno per fare quel che il caso esige, non il caso fortuito, ma il caso in questione, quel caso.
Interlocutore che cosa vuol dire? Vuol dire trovare la parola, la logica della parola; trovare chi non partecipi della fantasia di predestinazione, della fantasia di fatalismo, della fantasia del negativo o del positivo come eventualità che si possono incontrare. Trovare un interlocutore vuol dire trovare chi restituisca in termini di rilancio di qualità, quindi di istanza, di ricerca, di qualifica delle cose, di indagine, la propria esperienza, perché risulti come proposta per la ricerca, per la curiosità, non per l’attesa della fine del mondo, per l’attesa di un domani migliore, per l’attesa che le difficoltà spariscano. E questo è qualcosa che lo statuto di insegnante esige. Ero tentato di dire ‘dovrebbe esigere’. Ma no! Esige! Questa è la questione radicale. Lo statuto di insegnante esige questa posizione di interlocutore. L’insegnante che non sia interlocutore che cosa diventa? Una brutta cosa, cioè diventa un propalatore di superstizione, nella migliore della ipotesi.
Dal pubblico Complice.
R. Chinaglia Sì, certo, complice della credenza nella superstizione, quindi complice nella credenza nel male, nella morte, nella predestinazione, nella volontà di bene. Non assolve alla questione per cui è lì, che è quella in particolare dell’educazione, di cui l’insegnamento è un corollario, non viceversa. Questo mi sembra, soprattutto, essenziale. Ci può essere un ragazzo che non ha studiato bene la storia, la geografia, l’italiano, la filosofia, il greco, il latino o quant’altro, ma che, se ha incontrato l’interlocutore, riuscirà, perché vivrà nella forza, con la forza, secondo la forza. Ci può essere quello bravissimo che ha studiato tutto, ma che non ha trovato l’interlocutore, che non ha incontrato nessuna educazione alla vita, in questo caso non è affatto sicuro che riuscirà. Per quanto bravissimo, alla prima difficoltà, può darsi che si fermi lì, e questo risulterà inspiegabile. “Era così bravo, davvero un bravissimo ragazzo, riusciva in tutto, aveva bellissimi voti, ha trovato un lavoro, boom! È finito anche in manicomio”, si diceva una volta. Adesso non si dice più, perché tutta la società è un manicomio, cioè tutta la società è disposta ad accettare questi casi di non riuscita come assolutamente normali, facendosene quindi carico; è una delle eventualità, può riuscire e può anche non riuscire. In questo caso non è riuscito. Fatalismo della società che doppia il fatalismo del singolo, e viceversa. “Era tanto bravo, ha fatto una strage. Era bravissimo, era buonissimo. Era destino”. La cosa, poi, viene sempre accettata secondo il fatalismo, secondo una predestinazione. Oppure: “Ma guarda che caso curioso, quello lì era una zucca in tutto, ma guarda te, adesso è un manager. Inspiegabile”. Per nulla inspiegabile, invece. Evidentemente, ha trovato interlocuzione, ha trovato un dispositivo per la sua riuscita. Nulla di magico, né di predestinato, né di fatalistico. É un’occorrenza, non è un destino.
Certamente dipende da tante cose, però la famiglia e la scuola sono le due basi essenziali perché ciascuno possa avere un orientamento in un modo o nell’altro, non per predestinazione, ma proprio per quello che avviene nella famiglia e nella scuola, per quello che si dice, per quello che si fa, per come si dice, per come si fa, per il messaggio che viene trasmesso, ammesso, comunicato. Qui sì, allora, è questione di comunicazione, ma siamo ancora lontani dal cogliere come avviene. Però questa è sicuramente una base, perché se c’è alla base l’accettazione della predestinazione, è difficilissimo che sorga un dispositivo, almeno lì dove questa idea è accettata, condivisa, convissuta.
Allora, per l’insegnante, c’è anche una questione di responsabilità quanto a ciò che dice, a ciò che fa, a ciò che pensa, per come lo pensa, per come lo dice, per come lo fa.
Il punto è, anche, che nel 99% dei casi l’insegnante non sa di condividere l’idea di predestinazione. Non lo sa perché la sua formazione non si è imbattuta in questa questione. Chi mai gli ha detto che c’è questa eventualità e che la volontà di bene è qualcosa da indagare e non da accettare come se fosse una bella cosa? Perché la volontà di bene, insomma, ha l’altra sua faccia, che è la volontà di male. Se è ammessa la volontà di bene, dovrebbe essere ammessa anche la volontà di male. Ma la volontà di male non è accettata, perché sarebbe il segno del negativo, della discendenza diabolica. E questo non è ammesso. Allora i periti si accaniscono per verificare se giudiziariamente il soggetto è capace di intendere e di volere, e i giornalisti si danno da fare per comunicare al popolo se il soggetto era nella volontà di bene o no, se questa volontà di bene è sospesa, se questa sospensione può ricadere sul popolo. “No. State tranquilli, il popolo non corre questo pericolo; lo corre solo quel soggetto, perché ha i buchi nel cervello”. (In un altro caso, invece dei buchi sarà un’altra cosa). E quindi c’è una questione di formazione per l’insegnante che, più che formazione all’insegnamento, è formazione a questo statuto di interlocutore, cioè di orientamento alla qualità.
La questione dell’interlocutore è che non ha da formare allievi modello o da indottrinare soggetti modello, per renderli conformi alla volontà di bene e quindi al modello che la volontà di bene dovrebbe realizzare, ma ha da orientare alla qualità. Questa è la questione, di straordinaria difficoltà, perché vuol dire ritenere di non dover far sì che l’altro sia conforme a noi, diverso da noi, perché in un caso o nell’altro lo si condanna a qualcosa: alla volontà di bene o, con la volontà di male, al male. Lo si condanna a essere simile o a essere diverso. In ogni caso a un’alternativa. L’interlocutore, innanzitutto, ha come questione di non dover prescrivere a ciascuno come essere o cosa fare, o come farlo; né di prescriverlo, né di vietarlo, questi sono due modi della predestinazione: predestinazione positiva da prescrivere e predestinazione negativa da vietare. “Stai attento a questo, perché è male. Fai così, ché è bene”. Ma bene per chi? Per me e allora anche per te? Già questa è un’omologia. Bene per chi? Per chi è bene il bene? Già qui siamo nella predestinazione, perché, se una circostanza è bene e un’altra circostanza è male, per chi incappa nella circostanza supposta negativa non c’è più niente da fare. Il punto è che una circostanza, anche se apparentemente negativa, può volgersi in qualcosa che non impedisce la qualità, purché sia affrontata come occorre. Ma se quella circostanza è connotata come negativa, non c’è più niente da fare, resta così. Se togliamo la lotta, non c’è più niente da fare.
Perché vi sia lotta, occorre pure che vi sia, per quanto remoto, per quanto minimo, un varco verso la luce. Se noi togliamo questa luce, prescriviamo il tunnel senza fine. C’è una mitologia di moda oggi che è quella del tunnel, il tunnel della depressione, per esempio. Quante volte si sente: “Ha imboccato il tunnel della depressione”. Tunnel che dovrebbe portare dove? Alla morte. Il tunnel della depressione porta alla morte. Perché? Perché il tunnel della depressione è il tunnel dell’assenza di lotta, è il tunnel di chi ha imboccato la circostanza negativa e crede a questo fermamente, perché tutta una mitologia, un’ideologia, un’impostazione ha spinto a questo. É il tunnel della predestinazione negativa. Eppure anche il tunnel, se è tunnel, ha un’uscita, ma talvolta questa uscita viene negata, già nelle premesse, dal fatto che una circostanza è data come negativa, quindi è prescritta come negativa. Come affrontare una cosa che è solo negativa? Francamente è impossibile.
La forza viene dalla diade, dal positivo negativo che non è scisso; se il positivo negativo è scisso, diventando o positivo o negativo, come fare a lottare contro qualcosa che è sicuramente negativo. Non c’è la forza. Non è che uno voglia o non voglia. Logicamente non ce n’è la forza, non può esserci, perché la forza viene dalla diade. Questo lo indicava già Leonardo, lo indicava Machiavelli, parlando della virtù delle cose, virtù che non è virtù positiva o virtù negativa, è la virtù che procede dal due, dalla diade, dall’alto basso, cioè dall’ossimoro.
Ossimoro, parola greca che vuol dire, appunto, alto basso, acuto sciocco, aperto chiuso, dove questo alto basso non può essere scisso nell’alto o nel basso, nel magro o nel grasso. É grasso magro. Eppure pensate a tutta la questione delle diete, a tutto il parlare che si fa di anoressia e di bulimia, sempre come cose contrapposte, o grasso o magro, pensate all’aumento esponenziale dei casi di anoressia degli ultimi anni. Come mai? Sorgono centri per l’educazione a come mangiare, a come non mangiare, a come bere e a come non bere, seguendo l’alternativa della prescrizione o del divieto: “Devi mangiare di più o devi mangiare di meno. Devi smettere di mangiare. Devi smettere di smettere di mangiare”. Sempre in un’alternativa, quando proprio l’anoressia indica che questa alternativa è impossibile. Non è questione di scelta. Non c’è scelta tra grasso e magro, perché si tratta del grasso magro, dell’alto basso, del male bene, si tratta cioè della relazione. Invece, si sente dire, per esempio: “Ha una buona relazione. Ha una cattiva relazione con la madre”. Cioè, tutto è scisso, tutto è sdoppiato, tutto è dicotomizzato, tutto è alternativo: questo è buono, questo non è buono; questo è negativo, questo è positivo. Come se positivo è negativo fossero nell’esperienza, cioè si potessero incontrare in ciò che si dice e si fa.
Attorno a questo ognuno si costruisce la sua fantasia, la sua predestinazione positiva o la sua predestinazione negativa: poi i casi della vita possono portare a trovare l’interlocutore e, quindi, un dispositivo opportuno o a non trovarlo e allora lì non c’è niente da fare. Però c’è molto che la famiglia e la scuola possono fare come indicazione e orientamento alla qualità, cioè allo specifico, al qualis, che non è la qualità dei tutti, ma è lo specifico di ciascun caso.
La qualità non è la qualità per tutti, ma è la qualità dell’unicum. La qualità riguarda l’unicum, l’unicità, non la generalità. Non c’è la qualità della vita per tutti, ergo il benessere, cioè la morte collettiva. No! La qualità è quella qualità in quel caso, non la qualità del grande magazzino che dice: “Noi abbiamo i prodotti di qualità per tutti. Tutti al magazzino”. È un altro il messaggio. È un altro lo scambio intellettuale che occorre dare, almeno nella scuola, dove l’insegnante non può dire: “Beh, io ho umili origini e non ho potuto istruirmi, non ho potuto accorgermi di certe cose, faccio quello che posso”.
Ho incontrato l’altro giorno Silvio Ceccato che mi diceva: “Io sono stato molto fortunato. Devo considerarmi una persona fortunata. Sono nato in una casa dove c’era una grande biblioteca. Mio padre aveva più di tremila libri e io bastava che andassi lì, trovavo, leggevo, fantasticavo. Io questa la considero una grande fortuna”. Quanti a quell’epoca, cresciuti in un piccolo paese, in una casa di campagna, anche se tutto sommato in una famiglia non proprio contadina, potevano dire, come lui mi ha detto: “Ho avuto questa fortuna: una grande libreria”, quindi letture, eccetera. È chiaro, quella è una traccia, però non basta. Non basta avere una grande libreria. Ogni città ha una grande libreria. Bisogna anche andare lì a pizzicare i libri, a toglierli, a sfogliarli, leggerli, avere una proposta in questo senso, un’interlocuzione. Non basta avere le cose lì, sarebbe troppo facile.
Quindi, che cosa è necessario che avvenga? Che la parola entri nella scuola. Dice: “Beh, non facciamo altro che parlare a scuola”. Tuttavia occorre che ciascuno si chieda se nella sua scuola, nella sua classe, nel suo insegnamento, nel suo dispositivo è entrata la parola con la sua scienza e con la sua logica o se, invece, non si tratti di un dispositivo improntato alla scienza del discorso, cioè a quella logica predicativa che, con la maieutica socratica, con il dialogo di Platone, con il sillogismo aristotelico, ha consentito e consente l’instaurazione e il mantenimento della predestinazione e della sua credenza, del fatalismo e della sua credenza, dell’alternativa esclusiva e della sua credenza, e della sua accettazione e conformazione.
La scienza del discorso è sorta, infatti, come reazione alla parola. Voi sapete che cos’è la scienza del discorso? É la scienza su cui si fondano le discipline attuali ed è sorta e si è mantenuta e perfezionata fino ad oggi come reazione alla parola. Come si è compiuta questa reazione alla parola? Con la creazione di una creatura fantastica che, pur fantastica, è fondamento del discorso. Qual è questa creatura? É il soggetto, di cui però oggi non parliamo, non diciamo niente, perché mi sembrate già abbastanza provati.
Dal pubblico Non è occorsa parola, perché lei lo capisse.
R. Chinaglia No. É occorsa parola.
Dal pubblico Voglio dire che noi non lo abbiamo detto.
R. Chinaglia Molto di più di quanto possa sembrare, magari. Certo, molto di più. E quindi non voglio togliervi così tutta in un colpo anche questa base d’appoggio costituita dal soggetto. Avremo modo di riprendere la cosa. Per il momento mi interessava porre, intanto, questa notazione alla vostra attenzione, cioè che questa cosa tanto reclamizzata, pubblicizzata, che è il soggetto, che entra dappertutto, che dovrebbe consentire il dominio sulle cose, è una reazione alla parola, è la base della cosiddetta scienza del discorso che è sorta come reazione alla scienza della parola, quindi come reazione alla constatazione che la parola esiste in un dispositivo con la sua logica e la sua struttura, e che non dipende dalla volontà di bene. Questa è la mazzata. Ora, qualcuno potrebbe obiettare: “Beh, questo lo dice lei, quindi è la sua parola contro la nostra”. Giusto? Ma non è vero che lo dico solo io. Lo dice anche uno dei maggiori esperti di linguistica, uno degli autori di best-seller acclamatissimi, vendutissimi in tutto il mondo, ma soprattutto in Italia.
Dal pubblico Chomsky?
R. Chinaglia No, non Chomsky.
Dal pubblico. De Saussure?
R. Chinaglia De Saussure, fuochino! fuochino!
Dal pubblico Lacan.
R. Chinaglia Lacan, fuocherello! Insomma, uno degli autori più pubblicizzati alla televisione!
Dal pubblico Eco.
R. Chinaglia Eco? No. Eco certo è uno dei più pubblicizzati. Ho sentito l’altro giorno che siccome hanno inaugurato la Biblioteca Ambrosiana a Milano, dopo che era stata chiusa per oltre dieci anni per restauri, e dato che c’era di mezzo Sant’Ambrogio e tutta la cultura dell’epoca, allora hanno invitato Eco, e lui ha detto: “Troppo luminosa questa biblioteca. Io qui non potrei farci nessun romanzo. Non potrei ambientarci nessun romanzo. Troppa luce”. Lui aveva notato questo, che nella biblioteca c’era troppa luce.
No, non è Eco. Il fosforescente Eco. Non è neanche Dario Fo. Uno degli autori che il ministero della pubblica istruzione consiglia di leggere a ciascun insegnante.
Dal pubblico Berlinguer?
R. Chinaglia Non è neanche Berlinguer.
Dal pubblico Ci dia un indizio.
R. Chinaglia Sant’Agostino. Questo è un vero indizio.
Dal pubblico Lo definisce linguista?
R. Chinaglia Assolutamente, uno dei pochi. D’altronde, per accorgersene, bisogna leggerlo. Leggendo Sant’Agostino, noi possiamo accorgerci che effettivamente è teologo e linguista. C’è una teologia, una ricerca, un’indagine logica attorno alla fantasmatica di Dio che procede dalla ricerca linguistica, quindi procede dalla parola. Questo è l’interesse del testo di Sant’Agostino, interesse che in altri testi non è dato trovare.
Per esempio, se noi cerchiamo in uno dei dizionari della lingua italiana considerati più completi, cioè lo Zanichelli il termine ‘parlare’, troviamo: Parlare è pronunciare parole. Pronunciare parole, (per esempio: libro, casa, chiesa, finestra, aula, luce) sarebbe parlare. Poi corregge un po’ il tiro: Esprimere con parole pensieri e sentimenti.
Come seconda accezione ci dà: Sostenere una conversazione, ragionare, discutere, dialogare.
Quindi, come prima cosa dice: Pronunciare parole, dopo: Ragionare, discutere, esprimere pensieri.
Cosa vuol dire pronunciare parole? Andiamo a vedere ‘parola’. Alla voce ‘parola’, sempre lo stesso dizionario, dice: Complesso di suoni articolati o anche un solo suono.
E prosegue: Complesso di suoni articolati che esprime un significato. Relativa rappresentazione grafica. Prima dice: Ci vuole un suono. Poi: Relativa rappresentazione grafica. Quindi, anche senza suono.
Come seconda accezione: L’atto del parlare: l’esprimersi, il comunicare usando uno o più vocaboli.
Quindi parlare, esprimersi e comunicare sarebbero sempre la stessa cosa secondo questo dizionario, tutte cose uguali. Complesso di suoni, rappresentazione grafica, l’atto del parlare, l’esprimersi, il comunicare usando uno o più vocaboli, contenuto di un discorso, ammaestramento. (Al circo ci sono gli animali ammaestrati: ammaestramento è un termine proprio all’animale).
B.V. Anche del campo della scuola, viene da maestro.
R. Chinaglia Viene da maestro, ma l’ammaestramento è da indagare, e adesso lo indaghiamo, anche con il contributo di questo libro di Sant’Agostino: De magistro, Il maestro.
Poi, alla quarta accezione, dice: Facoltà naturale di parlare. Allora uno dice: facoltà naturale di parlare cosa vuol dire? Se c’è la facoltà naturale, allora c’è anche una facoltà artificiale di parlare? In che modo ‘parlare’ sarebbe una facoltà e per di più naturale?
Fa questo esempio: Gli manca solo la parola. Si dice di animale molto intelligente o di ritratto molto somigliante e espressivo. Sarebbe questa la facoltà naturale di parlare? Immaginiamo che un bambino legga il dizionario: alla voce ‘parola’ trova che parlare è una facoltà naturale e l’esempio più calzante è riferito all’animale molto intelligente. Quanto meno, gli viene qualche confusione. Dice: “Ma allora chi è che parla? Chi parla? L’animale molto intelligente a cui manca solo la parola?” Perché l’esempio dice: Gli manca solo la parola. Si dice di animale molto intelligente o di ritratto molto espressivo. Esempio di parola, parola che manca.
Le prime tre definizioni sono assolutamente insoddisfacenti per cui è impossibile non arrivare alla quarta. Si pensa: “Speriamo che almeno questa dica qualcosa di più”. Invece questa è ancora peggio, nel senso che arreca una confusione notevole. A partire da queste definizioni la parola e il parlare sembrerebbero cose naturalistiche o proprie dell’animale, animalesche, automaticistiche, facoltà naturali. Non importa cosa si dice, il parlare sarebbe una facoltà naturale. Il parlare, insomma, sarebbe qualcosa di molto scontato. Ma talmente scontato che l’esempio più calzante è riferito all’animale, molto intelligente, per altro. Un bell’animale!
Vediamo ora questo opuscoletto. É chiaro che questo è il breviario dell’insegnante, non c’è insegnante che alla mattina non arrivi a scuola con il De Magistro. É noto! Soprattutto nella scuola italiana avviene così.
Questo Agostino che è diventato santo, Sant’Agostino, aveva un figlio. Eh sì, aveva un figlio, figlio bravissimo, figlio intelligente, intelligentissimo.
F.B. A cui non mancava la parola.
R. Chinaglia A cui, esatto, non mancava nemmeno la parola, pur non essendo un animale.
Questo figlio, che lui aveva avuto dalla moglie Monica, perché aveva avuto anche una moglie, come l’aveva chiamato? Adeodato. A Deo dato, dato da Dio. Figlio intelligente che lo aiutava nelle sue indagini. Allora, Agostino si rivolge ad Adeodato e dice: “Secondo te, quando parliamo, che cosa intendiamo fare?”
Adeodato ci pensa un po’ e dice: “Per quanto mi viene in mente ora, intendiamo insegnare o imparare”.
“Bah – dice Agostino – non è proprio così. Comprendi che, se noi parliamo, è solo per insegnare; perché, se facciamo domande a qualcuno, è tutto sommato per verificare cosa ti dice e per dargli la nostra proposta”.
Allora discutono un po’ se sia così o cosà, se sia proprio dell’insegnamento o del ricordo che si tratta; insomma, gira un po’ in largo, non è che vada subito al punto: è uno che non accetta la prima risposta. Poi aggiunge: “Ci risulta, dunque, che le parole sono segni”. Segni.
E proseguendo nella conversazione con il bravo figlio Adeodato, dice: “Che fare, dunque? Diciamo allora che questa parola significa non ciò che non esiste”. Cita il caso di un verso composto da otto parole e dice al figlio: “Queste otto parole sono otto segni? Ogni parola è segno? É facile stabilirlo per una parola che significhi qualcosa, dato che significa, ma se non significa qualcosa, come nel caso di un avverbio o di una preposizione, anche quella è segno? Una parola del tipo se, ma, infatti, è segno anche quella, anche se non significa niente, cioè non c’è il significato di quel segno?”
Risponde Adeodato: “Sì, perché noi possiamo dire: ex urbe, de urbe; quindi ex o de sono sinonimi e dal senso possiamo risalire alla significazione e quindi anche quello è un segno”.
“Ah – dice Agostino – ma tu già mi tratti l’ex come un de”. Cioè, il da dove che in latino può essere reso con due modi, ex o de. “Non mi va mica bene anche se per te il senso è uguale”. E prosegue: “Io ricerco nella parola, invece, proprio quel qualcosa di identico, che non so cosa sia, significato da questi due segni. Per cui, due segni, per quanto possano sembrare uguali, non sono uguali. Ciascuno dei due segni ha qualcosa di singolare, di proprio, che non è omologabile. E io ricerco proprio quel qualcosa di identico, che non so cosa sia e che è significato da ciascun segno”.
Come dire che: ciò che qualifica la parola è proprio il paragone. La parola procede dal paragone – paragone, parabolè, parabola, parola, palabra in spagnolo – quel paragone per cui ciascuna parola ha qualcosa di identico, che non so cosa sia e che non è assimilabile all’altra parola. E, andando avanti, dice ancora: “Mi sembra, quindi, che parlando indichiamo con parole le parole stesse, oppure altri segni, oppure altre cose che non sono segni. Del secondo caso sono esempi i termini ‘gesto’ o ‘lettera’, dato che le cose significate da queste due parole sono pure segni. Del terzo caso è un esempio il termine ‘pietra’. Questa parola, infatti, è un segno; indica qualcosa, ma ciò che è significato non è necessariamente un segno”. E dunque, dice: “Esiste la parola come segno, come nome e come qualcosa che non è né segno e né nome”.
Lei dice che non è un testo di linguistica? É assolutamente un testo di linguistica.
“Quando diciamo ‘nome’ indichiamo qualcosa. Ma che cosa?” Risponde Adeodato: “Ciò con cui ogni cosa viene chiamata: ad esempio ‘Romolo’, ‘Roma’, ‘virtù’, ‘fiume’ e innumerevoli altri”.
“Se sei d’accordo – dice Agostino ad Adeodato – per poterne discutere più agevolmente, chiamiamo ‘significabili’ le cose che possono essere significate da segni, e non sono segni, come chiamiamo ‘visibili’ le cose che si possono vedere”.
‘Parola’ è segno di ‘nome’, ‘nome’ è segno di ‘fiume’ e ‘fiume’ è segno ormai di una cosa che si può vedere.
Cioè, ci sono le cose che si possono indicare, le cose che si possono vedere, le cose che si possono significare.
Per arrivare a una cosa che ha immediatamente la significabilità, come può essere ‘virtù’, c’è bisogno del nome. Quindi “Ciò che è significato da ‘nome’ è significato anche da ‘parola’: ‘nome’ e ‘fiume’ sono, infatti, entrambi ‘parole’, tuttavia, non tutto ciò che è significato da ‘parola’ è significato anche da ‘nome’. Infatti si possono trovare molte parole che non sono nomi”.
“Quindi, dal momento che tutti i nomi sono parole e, tuttavia, non tutte le parole sono nomi, credo sia chiaro quale differenza esista fra ‘parola’ e ‘nome’, ossia fra il segno del suo segno, che non significa altri segni, e il segno del segno che significa altri segni”.
Sembra complicatissimo, ma è semplice. Cavallo è un animale. Ogni cavallo è un animale; non ogni animale è un cavallo. Cavallo è il segno – signum signi eius significatur – quindi ‘cavallo’ è il segno significato dal suo segno, è la parola che è significata da cavallo, nella sua singolarità di cavallo. Animale ha una molteplicità di significati. Cavallo, no. Allora, fra nome e parola si trova la stessa differenza che c’è tra cavallo e animale. Parola è molteplice; nome è specifico per quella cosa.
Qui si addentra in casi che sembrano complicati, non avendo voi il testo sotto mano, ma tutto ciò per dire che le parole non sono altro che segni e che segno è ciò che significa qualcosa.
“Sebbene nome e parola abbiano la stessa ampiezza di significato, non hanno tuttavia un valore identico”.
E poi arriva a un punto importante: “Tu, piuttosto, dimmi, in che senso hai compreso la mia domanda?”
Formula una domanda ad Adeodato, dopo tutta una elaborazione attorno alla parola uomo, se la parola uomo significhi qualcosa, o se, per il fatto di essere divisa in due sillabe, uo-mo, ciascuna delle due sillabe non abbia un valore particolare. Allora, dice: “Tu, hai compreso la mia domanda? In che senso? Infatti, se è ambigua, avresti dovuto stare attento e non rispondermi prima di essere sicuro del senso in cui l’avevo formulata. Ora, dicendo ‘se l’uomo è uomo’, ho pronunciato tre parole: se l’uomo è uomo, si homo homo est, riprendendone una due volte, e tu hai interpretato la prima e la terza (homo), non secondo i segni, ma secondo i significati”.
“Si trattava di due segni homo, – dice – però tu hai risposto come se fossero due significati. É chiaro che solo per questa ragione, hai pensato di rispondere subito, sicuro e con fiducia alla mia domanda”.
Cioè, dice, “Tu hai sentito la mia domanda:- L’uomo è uomo? E hai risposto: – Sì l’uomo è uomo. Come? Senza sapere che cosa vuol dire uomo e uomo, cioè attribuendo a due segni il valore di significato. Quindi, tu hai colto questa domanda non per ciò che la domanda intendeva, ma per ciò che intendevi tu. Hai risposto secondo il tuo pensiero. Non hai risposto alla domanda”.
Siamo circa nel 300 dopo Cristo. Praticamente, dissipa ogni attuale teoria della comunicazione fondata sul soggetto, sui codici, codice di comunicazione, codice linguistico, codice comune. Qui dice: “Tu, hai risposto alla domanda, attribuendo il valore di significato a qualcosa che era segno. Non tenendo conto di questa differenza, non hai risposto alla domanda, hai risposto a un’altra cosa, a una tua idea”.
“Hai ragione – dice Adeodato – ora interpreto l’intera frase, e sono d’accordo con te che non potremmo assolutamente conversare se la mente, dopo aver ascoltato le parole, non si riferisse a ciò di cui sono segni. Per questo, mostrami ora in che modo sono stato ingannato da questo ragionamento, per mezzo del quale si conclude che non sono un uomo”.
E dunque Sant’Agostino allude qui a una partizione della parola, alla partizione della parola come segno, in nome, significato e un’altra cosa ancora, cioè la parola non corrisponde al suo significato. C’è la parola come segno e il segno non è il significato. Tra il significato e il segno c’è una differenza. Non ogni significato è significato dal segno; non ogni segno significa quel significato.
Dal pubblico C’è un’accezione diversa di ogni cosa.
R. Chinaglia Non è solo questione di accezioni. É più articolata la cosa.
“Considera perciò più attentamente se la sillaba uo non sia altro che uo, e mo non sia altro che mo.”
“Qui non vedo proprio altro” dice Adeodato”.
“Bene – dice Agostino – considera se queste due sillabe unite formino uomo”.
“Non potrei ammetterlo in alcun modo – dice a questo punto Adeodato – Non è più dato che uo + mo faccia uomo, in maniera univoca. Sembrava così, ma non è solo così”.
(È preferibile, fra l’altro, leggere il testo in latino, perché la traduzione è molto annacquata, nel senso che, per esempio, traduce omne con “tutti”. Il termini latino omnis non vuol dire tutti, vuol dire ciascuno, vuol dire quel singolo. Omnis natantis non vuol dire ‘tutti che nuotano’ ma ‘quello che nuota’, ‘ciascuno che’. Qui, lo traduce con ‘tutti’, quindi annacqua il testo di Sant’Agostino).
Dunque, in ciascuna parola c’è nome, significante e altro dal nome e dal significante.
Dal pubblico Di per sé. Non è una convenzione umana?
R. Chinaglia Non è una convenzione umana. Esatto. Cioè, dice che un uomo è sia nome, sia animale, cioè sia cosa. Introduce un’altra distinzione, quella di parola e cosa. Quindi c’è la parola, c’è la cosa significata e c’è il nome che non è né la parola, né la cosa. C’è la parola come segno della cosa, e c’è il nome che non è né la parola, né la cosa significata. Introduce, quindi, questa differenza strutturale della parola rispetto a se stessa. In quello che diciamo c’è, per usare la terminologia agostiniana, c’è parola, c’è cosa e c’è nome. Se io dico ‘leone’ c’è la parola leone; non c’è la cosa leone, perché non mi esce dalla bocca la cosa, però c’è il nome, e la cosa è allusa. Nel processo di comunicazione, comunque, la cosa c’è, perché, se io non ho la rappresentazione della cosa, come faccio a capire leone? Però, non basta, perché c’è comunque questa tripartizione.
B.V. Non ho capito la terza parte. Il nome, cos’è? Non riesco a capire. C’è la parola, capisco la cosa, cioè l’immagine che desta la parola.
R. Chinaglia L’immagine è un’altra cosa ancora.
B.V. Ma, non capisco cos’è il nome.
R. Chinaglia Che cos’è il nome?
B.V. Quell’altra cosa, che è il nome, che cos’è?
R. Chinaglia Nome sarebbe il significato della parola. Parola, nome, cosa. È come: nome, significante e altro.
B.V. Sì. È l’altro che mi sfugge.
R. Chinaglia E certo che le sfugge, se no che altro è.
B.V. Volevo essere sicura di aver capito giusto, cioè, questa terza cosa è inesprimibile. O no?
R. Chinaglia No. Adesso ci arriviamo, perché la questione è questa: tutto ciò non è indagabile nella logica binaria. Nella logica predicativa, nella logica del logos abbiamo l’alternativa esclusiva: o è parola, o è cosa. Io dico foglio: o è la parola foglio, o è la cosa foglio.
“Anche i gesti – dice – sono segni”. Anche i gesti sono segni, cioè parole. Non c’è quella alternativa che la prossemica, per esempio, vorrebbe instaurare tra il gesto e la parola, tra il verbale e il non verbale. Le varie teorie psicologiche, sociologiche, linguistiche della comunicazione vengono dopo questo testo, come reazione a questo testo, ma anche al Vangelo e ad altri testi; sono reazioni a questo testo, cioè tentativi di contenere la parola e imbrigliarla nel discorso comune. Qui, c’è un’allusione alla scienza della parola, che poi ha incontrato reazioni, cioè imbrigliamenti, confutazioni. Perché? Perché la parola che emerge da questo testo è incontenibile, è impadroneggiabile, comporta l’inconscio, cioè la logica particolare che invece la scienza del discorso vorrebbe espungere, dire che non c’è, a favore del discorso comune. Qui, c’è una parola come dispositivo, una parola che non prevede il soggetto che la domini. Prevede che ci sia la necessità dell’ascolto. A un certo punto, dice: “Risulta allora che uomo è sia nome sia animale: è nome se lo si considera secondo il suo essere segno, animale se lo si considera ciò che significa”.
Quindi c’è segno e significato. Come dire: nome e significante.
Dice Adeodato: “D’accordo, però, quando avremo concesso che la parola uomo è nome, in che modo eviteremo quella conclusione così oltraggiosa con la quale si arriva a stabilire che non siamo uomini?”
Agostino: “Basta mostrare che il senso, secondo cui è stata tratta, è diverso da quello secondo cui noi avevamo risposto alla domanda che ci è stata rivolta. Se invece si dicesse che il senso è il medesimo, non se ne deve aver paura. Perché temere infatti di riconoscere che non sono uomo, cioè, queste due sillabe?”
Agostino gioca continuamente sui piani differenti della lingua; gioca, cioè, tra la parola ‘uomo’ come segno, il nome ‘uomo’ come ciò che la parola significa, ossia l’essere umano, e la parola ‘uomo’ come risultante di due sillabe uo e mo. Nessuna di queste tre componenti è uguale all’altra o alle altre due, perché ciascuna di queste tre individua una cosa differente. Ebbene, nella parola ci sono tutte e tre, è questo che dà alla parola ambiguità, è questo che impedisce l’uniformità del senso, è questo che impedisce la corrispondenza biunivoca tra segno e signatum, tra segno e significato; è questo che fa sì che una domanda ci risulti ambigua. Questo dice Agostino. Perché i livelli di senso, di significato, di significazione è impossibile che siano gli stessi.
B.V. Ma non cambiano la realtà.
R. Chinaglia Eh no! Cambiano anche la realtà.
B.V. Ma il figlio di Agostino resta uomo, comunque.
R. Chinaglia Eh no!
B.V. Mi spieghi perché, a un certo punto, con un gioco di parole di Agostino, suo figlio non sarebbe più uomo. No. Lui continua a essere uomo, anche se esiste una un’ambiguità nella parola che può portare a negare quella che resta la realtà. Sbaglio?
R. Chinaglia Sì.
B.V. Se, con la parola, lui riuscisse a dimostrare che Adeodato non è uomo, Adeodato non sarebbe più uomo?
R. Chinaglia Infatti. Così Adeodato giunge a dire che lui non è più uomo.
B.V. Ma io non riesco a mettermi nella stessa posizione.
R. Chinaglia Questo è un altro paio di maniche, perché Lei non è Adeodato e non ha fatto il tragitto che Adeodato ha compiuto insieme ad Agostino in questa ricerca.
B.V. Se io ho capito bene quello che Lei vuole dire, è che la parola ha una sua ambiguità e anche un potere sulla realtà. Allora io vorrei che Lei me lo dimostrasse, perché, invece, secondo la mia lettura, Agostino e Adeodato giocano sull’ambiguità della parola, ma mai potranno cambiare il fatto che Adeodato è un uomo.
R. Chinaglia La questione che Agostino pone radicalmente è quella della conoscenza. Quando Lei dice che Adeodato resta comunque un uomo, questa è una conclusione gnostica, nel senso che presume di sapere già che cosa è uomo e comunque quello è il dato di riferimento. Agostino dice, appunto, che invece, stante questa struttura della parola, la conoscenza in quanto tale non c’è più e, quindi, ciascuna volta si tratta di ascoltare il segno, il significante e l’Altro, che ci sono, nella parola che ci viene formulata. Se applichiamo invece la teoria della conoscenza, sappiamo già.
Il punto focale su cui Agostino mette l’accento è l’impostazione gnostica, cioè la base di conoscenza che noi diamo per scontata, come fondamentum, e attorno a cui facciamo svolgere le cose.
Se questa base di conoscenza, anziché darla per acquisita, è messa in discussione, la realtà cambia. Non è vero che la realtà resta. É un’altra realtà, è un’altra comunicazione, è un altro parlare.
B.V. Questa è una provocazione, perché, in realtà, se io mi sono iscritta per la seconda o terza volta ai suoi corsi è perché, invece, ci sarà un margine di ombra, però c’è anche un nucleo in cui le parole che lei dice, io, in qualche modo, le sento e le capisco.
É una provocazione questa, di dire che su ogni parola bisogna indagare, che comunque non è mai data. Giusto, mi dica lei, sbaglio? È provocatorio o è un assoluto?
R. Chinaglia É un assoluto provocatorio.
B.V. Sì, è quello che volevo sapere. Ha paura di essersi sbilanciato troppo, visto che ho detto che capisco?
R. Chinaglia No. É qualcosa che provoca, non come provocazione volontaria. Lei coglie in questo che c’è una provocazione rispetto all’intelligenza.
B.V. Rispetto a un metodo d’indagine.
R. Chinaglia Esatto. A un metodo d’indagine e anche rispetto a un certo modo delle cose.
Ma il più bello viene adesso, perché è adesso che Agostino trae le conclusioni, però abbiamo fatto le sette e mezza, vi vedo molto stanchi, provatissimi. Tra l’altro, mi dispiace, perché di solito dedichiamo una parte della lezione al dibattito, allo scambio, e questa sera invece pochissimo o quasi niente. Però alcune cose bisognava che in qualche modo venissero poste. Nulla vieta che però le possiamo riprendere la prossima volta.