- EDIZIONE
- Luigi Pirandello: l’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
IL BRAINWORKING
- Il capitale intellettuale
- Come la vita diviene impresa
- Il cervello
- Il lavoro intellettuale, l’invenzione, i mestieri nuovi
- La fede
Il capitale intellettuale
Brainworking è qui in un’accezione specifica che viene dall’esperienza e dalla pratica della cifrematica, della scienza della parola che diviene cifra.
Il luogo comune è facile ad attestarsi, ad affermarsi, difficile è la sua dissipazione, perché molto spesso anche a una cosa nuova viene attribuita un’accezione arcaica per cui anche rispetto al nuovo talvolta accade che si privilegia l’arcaismo e quindi il luogo comune.
Dalla cosiddetta rivoluzione industriale alla rivoluzione dell’informazione, alla rivoluzione informatica, a quella che viene chiamata l’era della comunicazione, è constatabile che le cose non smettono di rivolgersi alla loro qualità.
Noi intendiamo il termine rivoluzione in questa accezione.
C’è in corso nel pianeta e per ciascuno, una rivoluzione incessante, incessante e interminabile, quindi non da intendersi come fatto eccezionale o sporadico e nemmeno occasionale o fatalistico: per ciascuno è in corso una rivoluzione di cui è protagonista, se presta orecchio a questa rivoluzione, se si dispone alla rivoluzione, se non reagisce alla rivoluzione che la parola attua verso la qualità. È appunto la rivoluzione della domanda, la rivoluzione della parola inaugurata dalla domanda e dal suo dispositivo.
Che vi sia domanda è essenziale. Che non vi sia è pressoché impossibile, ma importa che vi sia l’ascolto della domanda, l’intendimento; che alla domanda segua il dispositivo di parola: dispositivo di ascolto, dispositivo clinico, dispositivo di scrittura, dispositivo della qualità; e questo è raro. E sta qui la questione del brainworking, cioè di instaurare un dispositivo in cui la domanda trovi accoglimento e svolgimento.
Che cosa vuol dire domanda? Domanda viene dal latino de manum dare, dare una mano. E come quindi dare una mano? La mano di cui si tratta nella domanda è una mano intellettuale. Non è la mano sulla spalla, non è la mano del facile consiglio o dell’invito alla rassegnazione o all’accettazione del male necessario: è la mano intellettuale, cioè quella mano che comporta la svolta in direzione del compimento della domanda, la svolta in direzione del compimento del progetto che la domanda annuncia. E sta qui la difficoltà. Questo è impegnativo, perché si tratta di cogliere il particolare della domanda e la direzione della domanda verso ciò che comporta il suo compimento, la sua qualità.
Questo è il compito del brainworker, quindi del lavoratore di cervello, ma dove il cervello non è un cervello convenzionale, non è il cervello comune, il cervello del senso comune; è un cervello molto speciale. Questo termine, brainworker, è stato usato per la prima volta in America nel 1988, a Chicago, e stava a indicare il lavoratore di ingegno, l’ingegnere, l’ingegnere come lavoratore di cervello, quasi un’elezione dell’ingegnere rispetto agli altri lavoratori. Invece con brainworking vogliamo indicare uno statuto nuovo, quindi non già un lavoratore particolare tra gli altri, che non userebbero il cervello, quello che invece lo usa. Uno statuto nuovo che si instaura con la scienza della parola, che si instaura quindi in una ricerca, in una formazione particolare lungo un itinerario, lungo un insegnamento, lungo un’impresa. Quindi non intendiamo relegare il termine di brainworker a una categoria, una categoria di lavoratori o a una certa classe o a un certo settore, ma diciamo che il brainworker è il ricercatore nella scienza della parola. E brainworking è il gerundio del lavoro intellettuale. Quindi il lavoro intellettuale che approda alla qualità, facendo, nel suo corso interminabile, nel suo corso incessante, quindi nel suo gerundio, ossia nell’attuale dell’atto in cui si trova. Brainworking indica questo, che il lavoro intellettuale è un lavoro incessante che non è dato una volta per tutte, che richiede umiltà, generosità, indulgenza, non una tantum ma con costanza, con persistenza, ciascuna volta, perché si tratta dell’approdo alla qualità intellettuale. Qualità intellettuale è quasi un pleonasmo, cioè la qualità è qualità intellettuale. Quale altra? Per qualità, non intendiamo ciò che la pubblicistica televisiva indica come graduatoria di qualcosa che sarebbe meglio di un’altra cosa. La qualità è un assoluto. È l’assoluto per cui ciascuna cosa giunge alla sua cifra. La qualità è la cifra delle cose. E quindi, dato che questa qualità è essenziale per ciascuno, la questione è come ciascuno diviene brainworker, diviene lavoratore di cervello, diviene lavoratore che si rivolge alla qualità, che non può farne a meno.
Quindi innanzitutto occorre distinguere il brainworking dalla tecnologia. Non è una questione tecnologica né una questione di applicazione di tecniche o di tecnologia, perché il brainworking non si basa sull’apprendimento di una tecnica: è una questione non di tecnica, ma di logica e di itinerario; itinerario artistico, culturale, scientifico, pragmatico. Quindi brainworking non è sapere tecnologico, non è imparabile o applicabile; è una procedura intellettuale che sfocia nell’invenzione e nell’arte. Ed è questo un aspetto della difficoltà del brainworking, perché non è applicabile alla generalità dei casi, ma occorre individuare per ciascun caso la specificità, la particolarità. Questo sia che si tratti del brainworking della salute o del brainworking dell’azienda o del brainworking della ricerca o del brainworking della medicina o dell’ingegneria. Ciascun settore anche disciplinare si rivolge in realtà al brainworking per la sua qualità, solo che nel discorso occidentale viene confuso con un sapere tecnico da imparare, da gestire e da applicare a quei casi che si assomigliano e che quindi si prestano a una certa tecnica. Questo non è brainworking, è un facile tentativo di esercitare una padronanza sulle cose che accadono. Ma difficilmente questo approda alla qualifica e alla qualità del caso, perché per il brainworking è essenziale, la clinica, la clinica della parola, cioè quella piegatura grazie a cui e solamente per cui quella cosa, quel caso giunge a qualificarsi, quel caso stagliandosi da altri che pur sembrano assomigliarsi, consentendo che si precisi lungo il suo itinerario.
E per questo occorre un dispositivo molto particolare, che è il dispositivo della parola, della parola originaria. E questo dispositivo segue una logica, che noi abbiamo chiamato la logica della nominazione, la logica della parola originaria, che non è la logica che noi siamo abituati a seguire per educazione, per impostazione e cioè la logica aristotelica, la logica del discorso greco, la logica binaria, la logica dell’alternativa, la logica del sì e del no. È un’altra logica; è una logica dove non c’è solo l’alternativa fra il sì e il no, ma c’è anche una terza eventualità, un terzo modo: c’è il sì e il no e altro dal sì e dal no; altro che non contraddice il sì e non contraddice il no, che non toglie il sì e non toglie il no. Questo è molto difficile da capire per chi si è educato o è stato educato al discorso occidentale, diciamo alla tradizione della civiltà greca, di un sapere greco che poi è giunto fino a noi. Già introdurre l’eventualità di questo Altro, di questo terzo nelle possibilità discorsive è sconvolgente, viene raramente accolto. E infatti anche la civiltà cosiddetta contemporanea non ha colto questo Altro, e constatiamo di continuo i modi della reazione all’introduzione dell’Altro, perché è molto più tranquillizzante, è molto più facile poter scegliere tra due casi, tra due eventualità una il contrario dell’altra e quindi se non è zuppa sarà pan bagnato. È molto più rassicurante. Ma se nella casistica della scelta non ci sono solo due eventualità, ma infinite eventualità, infiniti casi, beh … è molto più impegnativo. Per ciascuno, come fare a stabilire cosa va bene e cosa non va bene, cosa va bene e cosa va male, come fare a stabilire cosa è positivo e cosa è negativo?
Ma già la domanda, così è vincolante e mal posta, nel senso che già la domanda introduce in uno strozzamento, in un imbuto che è fuorviante, perché non si tratta di scegliere tra il positivo e il negativo, non si tratta di scegliere tra il bene e il male, non si tratta di scegliere tra il meglio e il peggio. Nessuno può scegliere tra il bene e il male, perché nessuno sa cosa sia bene e cosa sia male quanto al cammino che sta percorrendo. Sarebbe dire di avere un sapere su ciò che avverrà, oppure questo vorrebbe dire aderire a una predestinazione che comporta di sapere già qual è la conseguenza di un atto o di un altro. Non c’è chi possa sapere quale sarà l’effetto o la conseguenza di un gesto, di un atto, di una parola, di un ragionamento, di un pensiero. Questo è il punto importante. Proprio perché ciascuna cosa si situa nell’infinito attuale, la gamma degli effetti, la gamma dei modi con cui questa cosa si rivolge al suo destino è infinita. E non si tratta quindi di puntare a sapere prima cosa avverrà, ma di seguire questo rivolgimento senza paura, senza superstizione, con intelligenza, con intendimento. Brainworking: lavorando di cervello. Ma non con il cervello ispirato dal senso comune. Con quel cervello che costituisce il dispositivo stesso della parola. E quindi occorre non ignorare questo dispositivo. Occorre trovarsi nel dispositivo. Se viene tolto questo dispositivo viene tolta l’occasione e il modo perché ciascuna cosa abbia il suo valore. Il valore delle cose non è già assegnato, non è uguale per tutti.
Come accade che quel che sto facendo incontri il suo valore assoluto? Non certo adeguandosi a qualcosa che riguarda un altro caso, un’altra questione, o qualcun altro. In quello che viene spesso chiamato depressione, di cosa si tratta? Della rassegnazione in cui qualcuno si sente costretto per l’obbligo alla condivisione di determinati valori, di determinati significati, di determinati apparati. E questo viene a costituire la mentalità, ossia quella gabbia che risulta troppo stretta per chi avverte un’esigenza altra, differente, un’esigenza per così dire “anomala”. Ma proprio l’anomalia è costitutiva dell’esigenza di qualità. Se non teniamo conto dell’anomalia per cui una domanda si formula, ebbene, questa domanda si è formulata invano. E questo vale per ciascuno in ciò che sta facendo. Vale per il professionista, vale per l’imprenditore e vale per chi si rivolge al professionista e all’imprenditore come cliente, con la sua esigenza che è esigenza particolare, e che occorre che venga assolta. Ma come portare a compimento questa particolarità se l’anomalia viene considerata qualcosa che deve stare al di fuori del discorso, se la particolarità viene presa per stramberia, se insomma viene attuato un apparato di mantenimento della differenza e ogni cosa dev’essere riportata a un canone comune e condiviso? Questa è la questione che si pone.
Ora, questa questione ha origini antiche. Questa reazione alla particolarità, all’anomalia è sorta moltissimo tempo fa con la filosofia greca, con il dialogo platonico. Il dialogo platonico è l’esempio più eminente di reazione all’anomalia e alla particolarità, reazione che propone un apparato tecnico di padronanza, di controllo, di conformismo, di applicazione della convenzione, del convenzionalismo, della convenzionalità. Se correttamente interrogato lo schiavo correttamente risponde. Questa sarebbe l’idea di Platone. Perché, nell’ambito della scelta obbligata tra il sì e il no, il maestro deve guidare l’allievo con la maestria a fargli dire di sì. Cioè, il dialogo pone le basi per la programmazione che oggi modernamente viene chiamata neo linguistica, quella programmazione che, seguendo lo schema binario, deve arrivare alla risposta che rappresenta il bene di tutti. Quella è la risposta da dare; chi non la dà sbaglia. Ora, questa che modernamente viene chiamata programmazione neo linguistica un tempo si chiamava maieutica, al tempo dell’inquisizione si chiamava plagio. E qual è la base della maieutica? La polemica. Cioè, siccome occorre che non vi sia contraddizione, il dialogo comporta la polemica per espungere la contraddizione, ossia per espungere ciò che nella parola è originario e cioè l’ossimoro.
Nella parola non c’è l’alternativa fra il bene e il male; c’è il bene-male, questo ossimoro che è modo dell’apertura. C’è bene-male. Bene-male inscindibile, che non è possibile scegliere, scindendolo. Ma il dialogo platonico fa proprio questo: introduce la possibilità di scegliere fra il bene e il male. Ma chi stabilisce che cosa è bene e che cosa è male? Chi può esercitare questo taglio per cui bene-male, anziché essere una diade, diventano due cose contrapposte? Questa è l’operazione esercitata dal discorso occidentale, cioè da ogni discorso che voglia esercitare una padronanza e un controllo sulla qualità, perché a questo punto la qualità è tolta. Cioè, se il mio obiettivo diventa scegliere tra bene o male, la cosa finisce qui, in ciò che convenzionalmente è ritenuto bene o male, e quindi si instaura un apparato conformistico per restare nel bene o per evitare il male. Ma della qualità, cioè della qualifica di ciò che importa al mio progetto, non importa più. Del processo di qualificazione non viene tenuto conto. L’importante è condividere. Condividere! Condividere l’idea di bene, condividere l’idea di male, senza contraddizione. E invece la contraddizione è intoglibile, non si può abolire. La contraddizione è originaria. La contraddizione è ciò per cui si instaura la tranquillità. Senza contraddizione abbiamo una serie di contraccolpi, di ripercussioni, perché l’esigenza della pulsione, l’esigenza di ciascuno non è il bene, è la qualità. La pulsione, l’esigenza di ciascuno si rivolge verso la qualità. L’appagamento è dato dalla qualità. E se non c’è appagamento Tizio continua a girare in tondo in una continua ricerca di un qualcosa che possa stabilizzarlo, quando invece non si tratta né di restare stabili né di girare in tondo, ma della rivoluzione, del rivolgimento verso la qualità, dell’itinerario verso la qualità, del compimento del progetto e del programma, che quindi per ciascuno è progetto e programma di vita.
E ciascuno può constatare che se nella sua vita, ciascun giorno, coricandosi, non c’è il programma dell’avvenire, allora sopravviene l’insonnia, sopravviene ciò che con un arcaismo viene chiamato il nervosismo, sopravviene ogni serie di rappresentazioni intorno al male o al bene, male che può capitare o bene che può non capitare: “Ma mi andrà bene o mi andrà male? Domani, questa cosa, la faccio o non la faccio? È una cosa buona o non lo è? Sarò in grado o non sarò in grado?”, tutto tratto nell’alternativa anziché nella decisione di stabilire quale sia il modo per fare quella cosa, quale sia il modo perché quella cosa giunga a compimento, giunga alla sua qualità: Ora tutto ciò è trascurato dalla pubblicistica corrente, a favore di una presunta possibile condivisione: dei valori, condivisione delle attese, condivisione delle speranze, condivisione degli interessi, condivisione delle esperienze.