- EDIZIONE
- Luigi Pirandello: l’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
SCUOLA E FAMIGLIA NEL DISPOSITIVO DELL’EDUCAZIONE
- Freud, il padre, l’autorità
- Ifigenia, Isacco, Cristo e il mito del figlio
- Edipo e l’itinerario intellettuale
- Atena, Eva, Maria. Le donne e il mito della madre
- Maestro-allievo e il dispositivo dell’educazione
Freud, il padre, l’autorità
Si tratta, oggi, nella società, nella scuola, nella famiglia, nell’impresa, nell’istituzione, quindi in ciascun settore, dell’invenzione di dispositivi, dispositivi intellettuali, per fare, per inventare, per acquisire elementi e aspetti nuovi, che riguardano la pratica in cui ciascuno si trova.
Ciascuno, facendo, si trova a acquisire uno statuto, che non è definitivo, una volta per tutte. Lo stesso statuto dell’insegnante nella pratica incontra una trasformazione, esige una trasformazione, esige nuove acquisizioni; esige di non dare nulla per scontato, in particolare il proprio sapere.
Lo statuto d’insegnante, in modo particolare, esige di non presumere di sapere già come stiano le cose, di non presumere di sapere già chi abbiamo dinanzi, che cosa dobbiamo fare, quale sia il modo migliore per fare. Ciascun caso, con la sua particolarità, esige la disposizione all’ascolto, disposizione alla variazione, all’arte, alla cultura, all’invenzione. L’educazione viene appunto dall’integrazione di questi due aspetti, dell’arte e della cultura, quindi della variazione e dell’invenzione.
Si tratta, quindi dell’esperienza. Non già di un sapere che preesista e che, una volta imparato, vada applicato, ma del modo in cui l’esperienza si scrive, per ciascuno. Tanto per l’insegnante, quanto per l’allievo, quanto per il genitore; per ciascuno che si trovi a svolgere un compito, a svolgere una mansione, che si trovi in uno statuto che abbia a che fare con la parola. E, non ci sono cose fuori dalla parola, non ci sono statuti fuori dalla parola. Si tratta di cogliere come avvenga ciascuna cosa, nella sua particolarità. Questo è ciò su cui insiste la psicanalisi, l’esperienza della parola.
Ciascuna cosa esige che l’esperienza si scriva. Questa è una prima indicazione che ci viene, per esempio, la Leonardo da Vinci, con cui prende avvio questo modo dell’indagine, ossia il modo della scrittura dell’esperienza. Con Leonardo da Vinci, termina la scrittura accademica e incomincia, nel testo occidentale, la scrittura dell’esperienza; incomincia il romanzo moderno. E, Leonardo da Vinci è la condizione, poi, per il romanzo politico che prende avvio da Machiavelli. Per ciascuno, si tratta di trovarsi nella scrittura dell’esperienza, quindi nella posizione di chi non dà per acquisito nulla, e quindi si dispone a intendere. In questo Leonardo situava la forza, la virtù dell’indagine, il modo dell’indagare le cose, fino a portare a scrittura l’indagine, cioè fino alla sua estrema conseguenza, la qualità. A che serve l’indagine se non per approdare alla qualità delle cose, alla loro qualifica? Qui sta l’indicazione estrema che porta all’invenzione, che porta all’altra cosa, a un’altra acquisizione, e che comporta, man mano che l’indagine avviene e prosegue, la trasformazione: trasformazione culturale, artistica, intellettuale: l’educazione stessa.
Per Leonardo, è essenziale l’indagine; e la forza, senza cui l’indagine non avviene, è essenziale anche per Freud, che la qualifica spinta, pulsione. Un modo della forza è la curiosità. Togliete la curiosità, avrete l’inerzia, l’attendismo. La forza non è qualcosa di innato, non è energetistica, non rientra nei principi della termodinamica, è forza intellettuale che Machiavelli chiamerà poi virtù, come già Vico, per altro; quindi, virtù intellettuale, forza intellettuale, spinta intellettuale. Oggi, paradossalmente, sembra che, di questa forza, di questa spinta, di questa virtù, qua e là se ne siano perse le tracce, e c’è invece il riferimento a un modello di uomo, che potrebbe essere privo di forza o potrebbe esaurire le forze. C’è una mitologia della carica e della scarica, che sempre più procede verso la scarica, e l’emblema di questa mitologia è rappresentata da quel luogo comune che, penso ciascuno di voi abbia avuto modo di orecchiare, che è la mitologia dell’esaurimento, in particolare dell’esaurimento nervoso. Mentre, per Aristotele, tutti gli uomini sono accomunati dalla morte, oggi, la lettera di questo enunciato aristotelico è che tutti sono accomunati dall’esaurimento nervoso, o quanto meno dal pericolo di esaurirsi e che, quindi, bisogna stare molto attenti: bisogna fare economia di questo o di quello, dosare le forze, dosare il rischio; c’è una posologia dello sforzo, in prima istanza, per sé, poi, per gli altri. E gli altri chi sono? I figli, gli allievi, per esempio, chi ci sta intorno, cui viene trasferito questo messaggio.
La mitologia dell’esaurimento ha delle conseguenze che sono culturali, intellettuali, o meglio, inculturali e antintellettuali, nel senso che costituiscono una sorta di barriera, una sorta di riserva verso l’intellettualità, verso il compimento di alcune istanze, che sono avvertite, ma verso cui qualcosa viene eretto come impedimento; impedimento fantasmatico, non impedimento reale.
L’educazione esige l’attraversamento di queste mitologie, di queste credenze, di queste fantasie, che comportano delle conseguenze, quanto al destino stesso della vita di ciascuno, se non hanno modo di articolarsi, di venire elaborate, e di trasporsi, nella scrittura dell’esperienza. La credenza nella possibilità di esaurirsi, poggia su una concezione termodinamica delle cose, ma non c’è prova che alcuno di noi sia soggetto a queste leggi della termodinamica. Prima Leonardo, poi Machiavelli, poi Freud e molti altri tra chi ha indagato seguendo la forza, lo sforzo intellettuale, mai si sono imbattuti in questa eventualità di esaurire, di esaurirsi, di affaticarsi nello sforzo; anzi la fatica è proprio ciò che sta agli antipodi dello sforzo intellettuale. Dove lo sforzo intellettuale è impedito, allora sorge la fatica, l’affaticamento, perché la pulsione è impedita, perché la spinta, che è spinta verso la qualità, verso la soddisfazione è impedita. La soddisfazione avviene dove la ricerca, quindi la pulsione, la spinta, incontra la qualità, cioè approda al qualis delle cose, allo specifico. Questa è la qualità di cui si tratta nella ricerca, nella parola: il qualis, ossia lo specifico. Perché ciascuna cosa ha mille e una sfaccettatura, mille e un aspetto. Qual è quello di cui si tratta in questo o in quel caso? Qual è? Ecco, la qualità giunge a dare questa risposta, del tutto particolare.
L’educazione va in questa direzione, è la questione del dispositivo e della ricerca che ciascun caso esige quanto alle risposte, che non possono essere generiche; questione di avviare l’itinerario, il tragitto di ricerca verso la qualità delle cose, e non verso la genericità, verso l’universalità, la standardizzazione.
Per quanto attiene almeno al secolo in corso, è con Freud che prende avvio questa nozione di educazione non più basata sul naturalismo, cioè non più basata sull’idea dell’argilla da plasmare o del vaso da riempire, come vengono di solito pensati i bambini da educare, per cui l’educatore avrebbe la responsabilità di plasmare la materia inerte. Ecco, la questione è di cominciare a considerare che non c’è materia inerte. C’è la materia della parola, ma non c’è la materia inerte.
Non essendoci la materia inerte e non essendoci la materia da plasmare, l’educazione non si risolve in una serie di nozioni o di regole da travasare, cioè l’educazione non si risolve nella sola istruzione o nell’insegnamento, né nella formazione. E’ qualcosa che esige l’integrazione fra i vari aspetti. E, con Freud, la questione dell’educazione non è neppure riducibile a quella pedagogica della guida, di come guidare il bambino o lo studente, o il ragazzo. La metafora della guida, che per esempio Dante utilizza nella Divina commedia, è da leggere e da intendere, cioè la guida non risolve, non sostituisce la ricerca di Dante, non toglie a Dante l’itinerario. È condizione, caso mai, dell’itinerario, è provocazione all’itinerario, quindi in un’accezione di guida molto elaborata, dove è questione di direzione, di orientamento; e la guida non toglie la soddisfazione dell’acquisizione, che sta nell’itinerario. C’è questa radice di dux, nell’educazione. Dux, ducere, guida, più sul versante della gestione, della spinta, dell’agere latino. Ago, spingo, da cui, per esempio, deriva il termine “ambiguo”. L’ambiguità non è una cosa negativa. L’ambiguità è assolutamente costitutiva della parola. Cosa vuole dire “ambiguo”? Vuole dire che qualcosa spinge in due direzioni, qualcosa va in due direzioni. E non sappiamo quali siano queste due direzioni, possono essere anche contraddittorie. “Ambiguità”. Ebbene, se voi togliete l’ambiguità alla parola, togliete la spinta. Questo è ciò che l’indagine clinica ci dice.
Tolta l’ambiguità, cioè tolta la spinta in due direzioni, quindi con un intervento che sia dicotomico, cioè in direzione del¬l’univocità, abbiamo la caduta della spinta; e questo ha delle implicazioni cliniche di grande portata, per esempio per quanto riguarda la cosiddetta depressione. Adesso, non ci addentriamo in questo argomento, ma è per dire che ci sono luoghi comuni che occorre affrontare: se voi interpellate chi vi sta vicino, al 99% dirà che l’ambiguità è una cosa che va assolutamente tolta a favore della chiarezza. Ma, la chiarezza non è antitetica all’ambiguità. Procede dall’ambiguità, senza toglierla. La chiarezza non toglie l’ambiguità, anzi si staglia sull’ambiguità. Dell’ambiguità è stata pubblicizzata una versione psicologica, costituita dalla cosiddetta ambivalenza: il “comportamento ambivalente”.
Ci sarebbe un comportamento ambivalente, cioè un’istanza in direzione di una cosa e, però, anche del suo contrario. Allora, questa ambivalenza, per la psicologia, sarebbe segno di qualcosa di negativo, cioè della mancanza di un orientamento preciso, di una stabilità dell’ equilibrio. No! L’ambivalenza è costitutiva della parola, è un modo dell’ambiguità, è un modo della procedura delle cose. Le cose vengono dall’ambiguità. Chi si prendesse carico di un’istanza di correzione, di purificazione, di abolizione dell’ambiguità a favore di un comportamento corretto, univoco, lineare, farebbe in prima istanza un intervento di natura inquisitoria, di natura moralistica, contro la spinta, contro la curiosità, contro qualcosa che è costitutivo della parola, cioè farebbe qualcosa di antieducativo.
La cosa può apparire forse paradossale, inquietante, perché tutta una serie di informazioni, di nozioni, di orientamenti comunemente accettati, va proprio nella direzione contraria a quanto sto dicendo. E’ anche per questo che la psicanalisi ha sempre incontrato qualche difficoltà, perché ha posto delle precisazioni che non vanno quasi mai in direzione del senso comune, dei luoghi comuni più accreditati, di quello che è, insomma, il discorso della maggioranza. E, comunque, la disposizione a accogliere anche ciò che risulta ambiguo è assolutamente imprescindibile per svolgere una funzione che risulti di effettiva educazione intellettuale, vuoi nel contesto della famiglia, vuoi nel contesto della scuola, vuoi nel contesto della società, dove si ponga la questione.
Facciamo un altro esempio. L’idiosincrasia verso l’ambiguità è sostenuta dalla mitologia del conflitto, mitologia secondo cui la nevrosi sarebbe generata da una serie di conflitti irrisolti, per cui bisogna togliere il conflitto ed ecco che si ristabilisce l’armonia. È una mitologia, una credenza che ha come sua immagine e base Alessandro Magno e il nodo gordiano. Vi ricordate l’aneddoto del nodo gordiano? C’era questo nodo che nessuno riusciva a districare, arriva Alessandro sguaina la spada e scioglie il nodo. E, così, è risolto il conflitto di questo nodo inestricabile. Ecco, voler risolvere il conflitto è la stessa operazione del taglio con la spada, cioè è una decapitazione, una messa a morte. Vuol dire togliere l’ambiguità e la difficoltà da dove stanno, e non possono non esserci. Perché non costituiscono un optional. La difficoltà è costitutiva; la difficoltà è condizione dell’invenzione, è condizione della ricerca. Se tutto fosse facile, non ci sarebbe esigenza di indagare su alcunché. Avremmo la robotica, con gli automi, dove non c’è nessuna difficoltà da affrontare, non c’è nessuna curiosità da soddisfare, dove tutto è piatto. Tutto piatto, senza increspatura. La piattezza! Ecco, la mitologia del conflitto sorge da questa idea di piattezza che dovrebbe caratterizzare le cose: le cose devono essere piatte. Quel che non è piatto confligge. Aboliamolo! Non è così.
Le cose sono difficili, la superficie è piana, ma non piatta, e questo non comporta nessun conflitto, e quindi non comporta nessuna operazione di spianamento. Comporta, invece, quel che già Leonardo aveva individuato: l’esigenza dell’indagine, dello sforzo, dello sforzo intellettuale. C’è solo quello. Con Leonardo, la distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale si dissipa; non c’è più la distinzione manichea tra ciò che è nobile e ciò che è degradato. C’è il lavoro, che è manuale e intellettuale. Manuale, in quanto intellettuale; intellettuale, in quanto manuale. E non che uno sta sopra all’altro, ma adiacente, c’è l’ossimoro, c’è la diade, c’è l’ambiguità. Senza conflitto.
Arrivare a un’educazione in cui l’idea del conflitto non la faccia da padrone, è una scommessa intellettuale che oggi si pone assolutamente come prioritaria. Questa idea del conflitto è molto romantica. Kant stravedeva per il conflitto, per esempio, tra l’autorità dell’educatore e la libertà dell’educando e questo conflitto doveva essere sanato da un’unità di intenti: le buone intenzioni dell’educatore e le buone intenzioni dell’educando. Senza queste buone intenzioni ci sarebbe stato il conflitto che avrebbe reso impossibile il compimento della missione. Bisogna insomma accordarci sui ruoli sociali.
Sarebbe così: siccome alla base c’è il conflitto, bisogna accordarsi sulla relazione sociale. Tangentopoli docet. Questo è il modello con cui si arriva a Tangentopoli. C’è un’idea di fondo negativa, bisogna aggirarla; c’è un ostacolo, c’è una difficoltà, bisogna aggirarla, sormontarla, eluderla, trovare le scappatoie. Eh no! C’è una difficoltà? C’è un ostacolo? Se ci sono, con quelli occorre fare i conti. E trovare il modo. Trovare il modo! Secondo la proprietà di ciascuno, secondo la proprietà del caso, secondo l’occorrenza. Non secondo la furbizia, né l’astuzia, ma secondo l’occorrenza, cioè secondo la necessità del caso e, quindi, secondo la particolarità.
Il conflitto esige un despota o un tiranno buono, che faccia qualcosa per appianare il conflitto, quindi esige l’ultima violenza, l’ultima rapina, l’ultimo furto, l’ultima truffa di un despota, di un tiranno buono che tolga le castagne dal fuoco, per così dire. Questo vuol dire non tenere conto, per esempio, tra le altre cose, del Vangelo, cioè della tradizione cattolica, dove chiaramente non c’è chi possa togliere le castagne dal fuoco, non c’è chi possa togliere il calice: ” Signore, se puoi, allontana da me questo calice! ” Invoca Gesù, ma dio non può. Non può. Sembra paradossale, no? “Se puoi, allontana da me questo calice.” E dio non può, perché non è nelle prerogative di dio, né di chiunque, allontanare il calice, cioè togliere le castagne dal fuoco, tagliare il nodo di Gordio, sostituire la ricerca, la traversata, quindi sostituire l’educazione.
Il Lambruschini, un pedagogo a cavallo tra il ‘700 e l”800, cui anche la moderna pedagogia s’ispira, accetta l’idea del conflitto tra l’educatore e l’educando, e dice che ci dovrebbe quindi essere, da parte dell’educatore che esercita l’autorità, una legge che rispetta la coscienza; da parte dell’educando una coscienza che rispetta la legge; quindi, postulando, alla base, una legge e una coscienza, in quanto tali e tra loro in conflitto.
Il modello è sempre quello, con qualcosa che viene postulato stare sotto e che bisogna o rispettare o togliere di mezzo. E questo è sempre a scapito, quindi, della ricerca, dell’intellettualità, quindi sempre a favore di qualcosa che, poi, supporta la de-lega, la superstizione. C’è qualcosa che sta sotto, già da prima; c’è un postulato. E, in quanto postulato, non c’è niente da fare. Da qui sorge la delega: “Questo è impossibile che io possa farlo. Lo faccia un altro, perché per me è impossibile.” Con una mitologia intorno all’autolimitazione, all’autoimpedimento: la “coscienza dei propri limiti”, il “ri¬spetto dei propri limiti”, come rispetto di una “legge naturale”. Ma qual è questa legge naturale? Il De rerum natura indaga sulla natura delle cose. Non stabilisce quale siano le cose della natura. Per ciascuno si tratta proprio di questo: non di accettare le cose della natura, ma di indagare sulla natura delle cose, sulla natura, cioè sulla loro struttura. Da dove vengono le cose? Da cosa sono fatte? Qual è la natura, la strut¬tura? Non c’è un limite naturale all’indagine intorno a questo.
L’educazione è ciò che risulta dall’itinerario d’indagine intorno alla natura delle cose. Se si presume che non abbiano nessuna natura, cioè che siano tali, quale edu¬cazione? Se si accettano determinate credenze, determinate mitologie, determinate ideologie senza indagarle, senza attraversarle, senza leggerle, s’impedisce l’educazione, anche se paradossalmente ci sembra di trovarci proprio nel posto del cosiddetto educatore.
Faccio un esempio: la pedagogia, antica e moderna, pone il fine dell’educazione, nella “perfezione delle attidudini essenziali dell’uomo, corrispondenti alle esigenze fondamentali della sua natura”. E qual è la natura dell’uomo? Quali sono le esigenze fondamentali della natura dell’uomo? E se ci fossero esigenze che non fanno parte della natura, cosa facciamo? Le accogliamo o le respingiamo? Se ci sono esigenze che a me, educatore, danno fastidio? Cosa faccio? Dico che non fanno parte della natura dell’uomo, che sono contro natura, quindi non vanno considerate, anzi condannate? A chi sta decidere quale sia la natura dell’uomo? Questo è il solco entro cui si muove la pedagogia: ‘il perfezionamento delle attitudini essenziali dell’uomo, corrispondenti alle esigenze fondamentali della sua natura’, che non sappiamo quale sia. E, per preci¬sare quale sia aggiunge: “ragione, immaginazione e sentimento, attività pratica della sintesi unificatrice dell’io daranno luogo all’uomo di valore”. Quindi, c’è bisogno della sintesi unificatrice dell’io. La sintesi unificatrice! Per la quale sintesi unificatrice dev’essere bandita, che cosa? l’ambiguità, per l’appunto, la diade. Perché di queste istanze difformi e varie, occorre avvenga la sintesi unificatrice!
Il pericolo di questa impostazione è molto evidente e si verifica puntualmente ogni giorno: ogniqualvolta veniamo messi di fronte a qualcosa che si discosta dal modello ideale, noi potremmo dire che in quel caso non è avvenuta la sintesi unificatrice dell’io e ci troviamo in presenza di un essere abnorme, che dobbiamo classificare nella sua abnormità, e abbiamo la psicopatologia.
La psicopatologia prende avvio dall’intolleranza verso la differenza, verso l’arte, verso la variazione, verso ciò che si discosta dalla prescritta unificazione, dalla sintesi unificatrice dell’io, che nessuno ha mai incontrato, ma che la pedagogia prescrive. E anche la psicologia. Il discorso occidentale è in direzione di questo modello, di questa sintesi, di questa perfezione da conquistare e che, poi, per fortuna, incontra l’arte, la variazione, la differenza, la poesia, la scrittura, la pittura; e non si realizza mai come tale. Questa sintesi, infatti, è un’ideale gnostico. Diciamo che questa idea di unifica¬zione è una fantasia, che può arrivare fino all’ideologia, ma sempre fantasia resta.
La questione è che la curiosità è sessuale; non c’è altra curiosità che quella sessuale. In che senso? Nel senso che la curiosità riguarda il destino delle cose, la loro destinazione, la conseguenza. Qual è la conseguenza di un atto? Qual è la conseguenza di ciascun atto? Questa è la curiosità sessuale. Perché questa è la domanda che incessantemente ciascuno, bambino, fanciullo, adolescente, adulto, si pone. E’ attorno a questo che c’è curiosità.
Qual è la conseguenza dell’atto? Dove vanno le cose? La curiosità non è curiosità “del sessuale”, di ciò che morbosamente viene definito il sessuale, la sfera sessuale. Intanto, il sessuale non è una sfera, non è isolato dal resto. Il sessuale è il destino delle cose. Perché la curiosità è sessuale? E’ sessuale perché è temporale. La curiosità è sessuale in quanto curiosità temporale, ossia curiosità che non si risolve una volta per tutte, perché ciascun atto ha il suo destino, ciascun atto ha la sua storia; ciascun atto ha la sua conseguenza, la sua destinazione; ciascun atto rinnova la curiosità, che è curiosità sessuale, curiosità temporale. Sesso, sessuale, sessualità sono termini la cui radice indoeuropea è sek. Sek è la stessa radice che troviamo anche nel termine sezione, sectio, secare, rischio, schisi, sesso, è la stessa costellazione di termini.
La sessualità: la politica temporale delle cose. Come le cose accadono avvengono, questa è la sessualità, cioè la sessualità è la politica del fare. Cosa faccio? Che ne è delle cose che faccio? Questa è la domanda sessuale, ossia temporale, che solo per una riduzione anticulturale è stata ridotta alla ‘sfera genitale o della procreazione’, ma la sessualità è qualcosa che investe, senza eccezioni, quel che accade nell’atto. Quindi, ciascun atto è sessuale. Ciascun atto è temporale. Ciascun atto comporta la politica, la strategia, la sua destinazione, il calcolo. Sesso, sek, sezione, taglio. Taglio, temnw, tempo: sono parole che fanno parte della stessa costellazione, che prendono avvio dallo stesso etimo. Quindi, sesso non è una brutta parola, non è una cosa che com¬porta la degradazione, che dev’essere “vietata ai minori”.
Sesso, sessualità. E’ la poli¬tica! Sessualità, ossia ciascuna cosa accade per la prima volta, perché accade secondo il taglio del tempo. Per cui non c’è cosa uguale a un’altra. Ciascuna cosa accade, avviene, diviene perché c’è il tempo, il taglio. Il tempo non è il tempo che scorre, non è il tempo che si misura con l’orologio – quella è la misura del tempo, è lo spazio, è una variante dello spazio -. Il tempo è l’istante, è il taglio, per cui ciascuna cosa differisce: c’è una differenza, una sfumatura per cui è differente da un’altra cosa. C’è una piega, c’è una sfumatura, c’è il taglio. E quindi c’è la saga. La saga, il racconto. Saga, sesso, una variante. La saga indica le cose che si dicono, nel racconto, fino a scriversi, nella saga, appunto.
Politica delle cose che si dicono, la saga. Anche lì si tratta del sesso, del sessuale, della sessualità. Quel che si dice si fa. Sek, sak. Anche sacro. Sacro procede sempre dalla stessa radice. Sacro, sesso. L’educazione è sessuale, non può essere che sessuale. Che non è l’addestramento al coito. Questa è proprio è una fantasia inquisitoriale. L’educazione è sessuale perché è educazione alla politica delle cose, alla strategia; è educazione al progetto, al suo compimento. Educazione al programma, al suo compimento. Questa è la sessualità. In questo ci sarà qualche coito, perché no?, ma come una cosa tra le altre.
Allora: educazione sessuale, educazione alla politica delle cose. Educazione di vita. E’ l’unica educazione, effettivamente. Quale il dispositivo per questa educazione sessuale, perché non vi sia astensione rispetto alla politica, ri¬spetto al destino, rispetto al progetto, rispetto al programma, perché non vi sia chi possa pensare di essere esente rispetto alla sessualità, cioè rispetto alla politica, ri¬spetto alla strategia, rispetto al progetto?
Per il progetto, la conoscenza non c’entra. Rispetto alla questione sessuale, la conoscenza non c’entra nulla. Quel che viene proposto come conoscenza è un antidoto alla sessualità. Come sapere prima ciò che accade, se quel che accade è nella simultaneità di un taglio, per cui differisce, per cui è assolutamente particolare? Come sapere? Come conoscere? Come rimanere vincolati, dunque, a quel presunto imperativo che, dai greci ai giorni nostri, ci è stato ammanito come una condanna, con quel gnothi sé auton che la tradizione greca vuole scolpito sul frontone del tempio di Delfi e che è stato tradotto, appunto, con ‘conosci te stesso’? Nosce te ipsum sarebbe in latino. Conosci te stesso, cioè ‘conosci quel che sei’. E basta! Qual è la politica di questo motto “conosci te stesso”? E come mai, proprio sul tempio di Apollo, l’impertinente, dove la Pizia dava responsi assolutamente poco chiari, con i suoi esametri ironici e oscuri?
Gnothi seauton, conosci te stesso. Pochi hanno fatto caso all’autòs, insito in questo motto. L’autòs. In latino sarebbe nosce te ipse. Te ipse. Come dire: imparalo da te, ricercalo da te. Gnothi seautòs: “Cercalo! Cercalo nelle mie parole. Cercalo e impara”. Autòs: “Da te!” Non “Te stesso”, ma “da te”! Questo autòs introduce allora un’altra scena, che è quella della ricerca, quella dello sforzo. Che non è quello del far da soli, badate! Non “Fattelo da te!, Fattelo da solo”. Non è la spinta all’onanismo intellettuale, ma al da sé. Non da solo, ma da sé. Perché è impossibile fare alcunché da soli, ma è essenziale, assolutamente, in ciascun caso fare da sé. Con altri, accanto ad altri, nel dispositivo, ma da sé.
Non da soli ma da sé. E sta qui la spinta. La spinta, la pulsione. La questione della domanda muove da questo da sé, dall’autorità che questo autòs comporta. Come dall’autòs arriviamo all’autorità? C’è da tenere conto che il seautòn, il te stesso, ha comportato la fede nella magia, per esempio, nella cartomanzia, nella superstizione, la credenza che possa esserci chi possa sapere prima come accadranno le cose e che lo possa anche svelare. Magia, cartomanzia, ipnosi, sciamanesimo, superstizione procedono lungo questa credenza. Perché il “conosci te stesso” toglie l’automatismo, toglie la procedura, toglie l’effetto del tempo; instaura il te stesso come cosa immobile, ontologica, ferma, e toglie invece la spinta alla curiosità. Toglie la domanda.
Il motto “conosci te stesso” ha comportato la credenza nel velo e nello svelamento, quindi nella rivelazione materna, la rivelazione del segreto di mamma, il segreto sessuale. Rivelazione da parte di qualcuno su qualcosa che può venire considerato il segreto di mamma: la sessualità, come segreto di mamma. Qualcosa da svelare, non già da intendere, da percorrere, da ricercare, ma da sapere, da conoscere. “Voglio sapere, dimmi come si fa”. C’è un’assoluta differenza d’impostazione, un’attesa che si rivolge verso l’attendismo, piuttosto che attesa che si rivolge all’intraprendenza. C’è uno spartiacque tra queste due impostazioni. Nel primo caso, se io credo nel velo che possa svelarsi, attendo. “Attendo, aspetto che tu mi dica il segreto e, se non me lo dici, sei pure cattivo, e quindi ti serberò un rancore infinito e eterno.” Questo è il genere di rivendicazioni che incontriamo più che spesso nei casi della clinica. Differente è la pace di chi si rivolge alla ricerca, con l’attesa di trovare qualcosa, ma non aspettando che gli venga fornita; perciò intraprende. La questione dell’impresa è questa: l’intraprendenza. In un caso è abolita, nell’altro caso è assolutamente essenziale. E non c’è da prendere tempo. Non resta che intraprendere, non resta che avviarsi, verso l’indagine, verso la ricerca e le sue conseguenze. Contro l’intraprendenza c’è l’impostazione russeauiana dell’educazione, per cui il bambino nasce bello, buono e sano, poi man mano si corrompe, e quindi va educato in modo che la corruzione sia un processo più lento possibile. Che deve intraprendere? E’ meglio che si fermi e stia tranquillo, altrimenti si corrompe… E’ una mitologia, che trova credito e ha delle implicazioni. Un certo ecologismo nasce da questa idea della rovina delle cose, della corruzione, del male, cui segue l’ecologia, per salvaguardare le cose dal male, dalla corruzione, dalla rovina.
C’è questa mitologia del bambino, sano, bello, buono, che però, poi, diventa brutto e cattivo, debole e mancante, incapace e malato, cioè ha tutti i guai possibili e immaginari. Questa mitologia ha trovato il suo acme nella rivoluzione francese, per esempio, quando decisero di mandare a scuola anche gli adulti, per educarli, ritenendo che il processo di corruzione non s’interrompesse mai e, quindi, anche l’adulto, non solo il bambino, aveva esigenza di un’educazione incessante.
Questo bambino puro, è un po’ ciò che fa da schermo al discorso occidentale, come discorso della morte; è il bambino da salvaguardare; è il modello di riferimento, perché è l’emblema di ciò che non muore, di ciò che resta dopo la morte. Tizio muore, ma resterà qualcosa. Qualcosa prosegue oltre la morte, ed è il bambino. Allora, sul bambino, sorge ogni sorta di fantasia.
Invece di porre l’accento su questo bambino come garante della società, Freud considera la sessualità del bambino e produce uno scalpore immenso, perché nella società dell’epoca il bambino doveva rimanere puro. Parlare della sessualità dell’infanzia voleva dire rompere questa visione dell’infanzia pura. Contrariamente a Jung, Freud non rispetta questo modello di bambino puro o impuro; esplora alcuni casi clinici e trova che la questione sessuale si pone sin dal bambino. La questione del destino delle cose, della temporalità, si pone già nel bambino, già nell’infanzia. Quindi, anziché rispettare i modelli sociali, culturali, di riferimento dell’epoca, Freud pone le basi per l’invenzione di un altro modello, di un’altra cosa: per esempio di un’altra famiglia, i cui componenti non sono più quelli proposti dall’antropologia, o dalla sociologia. Esplorando le istanze psichiche, attenendosi alle istanze di ciò che udiva, attenendosi quindi alla parola e alla sua logica, Freud pone le basi per l’invenzione, di un’altra famiglia, che si avvia con l’esplorazione intorno al padre. Non già intorno alla madre, ma intorno al padre. E’ curioso, sopra tutto in un ebreo. Perché, per l’ebreo, importa la discendenza dalla madre, cioè l’ebreo è ebreo se è di madre ebrea. Il padre può essere anche convertito, importa, nella tradizione, la madre.
Freud non si attiene alle consuetudini, ma, indagando anche nella storia, nei miti, si accorge che c’è qualcosa di essenziale che riguarda il padre nella parola, riguarda il nome, riguarda la funzione di padre, non già il personaggio del padre, non il papà, per capirci, ma il padre. Non la funzione sociale di padre, ma la funzione logica padre. Questo trova che importi. Non il ruolo sociale, ma la funzione logica padre, e sono due cose differenti.
Le basi di questa esplorazione stanno, per esempio, nel saggio Totem e tabù, dove Freud esplora usi e costumi di tribù primitive di vari continenti, e indaga sulla questione del totem, del tabù, della legge, del modo in cui s’instaura la legge nella tribù, come accade che le tribù primitive si diano un ordinamento sociale; su cosa si regge, quindi, l’ordinamento sociale anche attuale. La sua non è una ricerca antropologica, e l’andare a ritroso nel tempo è un pretesto, potremmo dire una fictio narrativa. E, lungo questa fictio narrativa, approda al mito dell’orda primitiva, o, meglio, del padre originario, che voi, invece, trovate tradotto in italiano nelle opere di Freud edite da Boringhieri, come il padre primitivo, come quindi se ce ne fosse poi un altro di evoluto, un padre civilizzato. No! Si tratta del padre originario, mito che procede dall’orda primitiva, cioè dal racconto, da questa allegoria del primitivo. Il primitivo, per Freud, è un artificio retorico per giungere all’originario, per cogliere la questione dell’origine; cioè non per cogliere il punto di partenza dell’origine, ma la questione dell’origine. Non la cronologia dell’origine, ma la logica originaria. E’ importante questa distinzione, perché, c’è una notevole insistenza, in vari settori, attorno alla cronologia del¬l’origine, al sapere da dove parte quella cosa, da dove origina, configurandosi, poi, nell’ideologia gnostica, la circolarità: posta l’origine, si tratta di tornare all’origine, instaurando così la circolarità. Circolarità impossibile, perché, se, come dicevamo prima, esiste il tempo come taglio, il cerchio incontra la spirale e non si chiude mai. Quindi, il cerchio risulta una figura impossibile, una figura mitologica, un animale fantastico. E’ un impossibile. Eppure, – fateci caso! – nei proclami, sia politici o ideologici o economici, sui giornali, sui libri, sui mass-media, ecc., è pesante, rilevante il riferimento al cerchio, alla circolarità, all’origine, all’origine come punto di partenza a cui ritornare. Non si tratta del punto di partenza in quanto tale, ma del modo in cui qualcosa prende avvio, come qualcosa incomincia. Il padre si situa proprio lì. La funzione padre, la fun¬zione logica padre sta lì, dove qualcosa incomincia. Adesso ho corso un pò, diciamo così. Eravamo all’orda primitiva, restiamoci per un pò. Questo mito dell’orda primitiva presumo che sia noto a ciascuno. No?! Presumevo malissimo. Questo è il punto, non bisogna mai presumere. E’ il mito del primo ordinamento sociale.
C’era una volta un’orda primitiva, composta dai fratelli del clan, gestita dal padre che aveva il possesso delle donne. Delle donne, quindi della sessualità. A un certo punto, contro il padre e la sua legge, i fratelli insorgono, lo uccidono e lo mangiano. Qual è la conseguenza di questo atto? Le conseguenze sono due: precisamente, l’insorgere di due tabù. Il primo: nessuno dei fratelli doveva arrogarsi la funzione di capo. Il secondo: il tabù dell’incesto, cioè nessuno dei fratelli doveva appropriarsi delle donne.
Freud fa un’annotazione molto importante e dice che morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo. Eh sì, perché lo fanno fuori e sorgono questi due tabù, che suppliscono a quella che era la funzione del padre in vita. Scrive precisamente: “Allora, divenne più forte, di quanto fosse stato da vivo, secondo un succedersi di eventi che ravvisiamo ancor oggi nel destino degli uomini. Ciò che prima aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono, ora, spontaneamente, nella situazione psichica dell’obbedienza posteriore, cosiddetta, che conosciamo così bene attraverso la psicanalisi. Revocarono il loro atto – cioè una revoca impossibile -, dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, cioè del totem…”. Al posto del padre venne instaurato un totem, un animale che doveva rappresentarlo “… e ne dichiararono proibita l’uccisione.” Come dire che non doveva più ripetersi questa uccisione del padre, “… e rinunciarono ai suoi frutti, i frutti dell’uccisione, interdicendosi le donne, che pure erano diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dal loro filiale senso di colpa, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che, proprio per ciò, dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico.” Diciamo complesso edipico, tra virgolette. Adesso non lo consideriamo. Lo consideremo tra un paio di settimane. “Chi vi contravveniva si rendeva colpevole dei soli due delitti che preoccupavano la società primitiva.”
Quindi, tabù dell’uccisione dell’animale totemico e tabù dell’incesto. Questo è il secondo tabù: chi si fosse appropriato di una donna avrebbe commesso incesto. Dal mito dell’orda primordiale, secondo una lettura di carattere sociologico, prendono avvio due tabù, che sono questi: possiamo dire il tabù dell’amore e il tabù della sessualità; tabù che indicherebbero che, all’orda dominata dal padre, dall’orda primitiva dove il padre dominava, è subentrato il clan dei fratelli, che si è garantito la sopravvivenza mediante il legame di sangue. Quindi, il tabù sarebbe la traccia di questo assassinio, la traccia della legge del padre. E Freud scrive, poco più avanti: “La società poggia da allora in poi sulla correità, nel delitto perpetuato insieme; la religione sul senso di colpa e sul rimorso che esso genera; la moralità, in parte sulle necessità di questa società, in parte sul bisogno di espiazione imposto dal senso di colpa”. Quindi, antropologicamente parlando, si tratterebbe di prendere atto che è avvenuto questo crimine, all’origine, questo crimine costituito dall’uccisione del padre. E da questo crimine prende avvio la legge, come legge che impedisce ogni altra uccisione e legge che im-pedisce la sessualità, cioè legge che sancisce il tabù dell’incesto. Se noi, invece, andiamo oltre l’impianto sociologico, possiamo fare un’altra lettura di questo mito, proprio tenendo conto della notazione preziosa di Freud, “Morto, il padre divenne più forte che da vivo”, e possiamo dunque constatare che il padre, la funzione logica che riguarda l’instaurazione della legge, il padre non muore. Il padre è immortale. Il padre non muore, in quanto funziona. E’ questo che importa! Il funzionamento! Il funzionamento del padre, di ciò che funziona come padre nella parola. Da qui qualcosa incomincia, da qui prende avvio l’istanza della legge, da qui prende avvio quella che Freud aveva chiamato l’istanza del super-io, istanza non già dalla morte del padre, ma della sua immortalità, in quanto incessantemente funziona. Ciò che importa, è la funzione padre, come funzione logica e non come ruolo sociale. Questo nella famiglia risulta essenziale, non già il ruolo sociale papà, ma la funzione logica padre.
Questo è essenziale nel dispositivo famiglia, nel dispositivo dell’educazione, nel dispositivo scuola, il funzionamento del padre. Da cosa constatiamo questo funzionamento? Dall’atto di autorità che paradossalmente avviene proprio a partire da ciò che sembrerebbe sancirne la morte. Morto il padre, cosa avviene? Il primo atto di autorità è l’instaurazione della legge. Questo è il primo atto di autorità del padre. E, quindi, non muore! Esiste nell’atto in cui si instaura la legge. In questo senso è immortale. E’ immortale nella sua funzione. In questo senso, l’uccisione, questa uccisione di cui parla Freud in questo mito, non è la messa a messa a morte. Indica la funzione padre, l’uccisione come funzione del padre. Da questa, dall’uccisione, procede l’atto di autorità. Cosa vuol dire dall’uccisione procede l’atto di autorità? Come dire: in che modo, in questo mito, l’orda constata che il padre esiste? Con l’instaurazione della legge. Un atto di autorità che, straordinariamente, non esige il personaggio che rappresenti l’autorità, che eserciti l’autorità, che incarni l’autorità facendo la voce grossa. E’ straordinario, se pensate. L’autorità del padre, non è rappresentabile.
L’autorità non segue la coscienza morale, non è il rimorso per l’assassinio. No! L’autorità procede dalla rimozione, e non viceversa. L’autorità procede dal nome, non viceversa. L’autorità procede dal padre, non il padre dall’autorità. Il padre funziona, per l’autorità si instaura la legge. Senza coscienza morale! Cioè, l’autore non è l’agente. L’autorità non si riassume nell’autoritarismo, nell’esercizio della rappresentazione del potere o dell’autorità rappresentata in alcune sue forme. Questo è il messaggio straordinario, che è da leggere, da accogliere nelle sue pieghe. Diciamo così: il papà muore e l’autorità del padre, che non è l’autorità del papà, fa sì che s’instauri la legge, e, dunque, il padre, la funzione padre non muore. Il padre non combacia con il genitore, né con il cosiddetto papà. Questo ci dice Freud. E ce lo dice lungo l’esplorazione dei testi di antropologia, ma, soprattutto, dagli elementi clinici che andava indagando, tra cui il caso del piccolo Hans, in cui si accorge che la questione della fobia, della paura verso gli animali non è altro che uno spostamento rispetto alla que-stione padre, cioè è un modo con cui questo aspetto del totemismo funziona in termini economici. C’è chi ha letto il caso clinico del piccolo Hans? Il caso del bambino che aveva paura del cavallo?
Attraverso questo caso, Freud coglie come l’animale divenga un sostituto della funzione paterna, il totem del padre. C’è qualcosa che impedisce al padre di non esistere, di non esserci. E dalla funzione padre procede l’autorità e procede l’istanza della legge.
Cosa vuol dire che il padre è morto e, proprio per questo, è più forte di prima? Vuol dire che il padre, rimosso, funziona come nome. Il padre, in quanto rimosso, in quanto preso nella funzione di rimozione, funziona come nome. Da qui procede l’autorità. Da qui si avvia l’istanza della legge. Parlando, il padre, rimosso, funziona come nome: il significante, rimosso, funziona come nome, adiacente a un altro significante. Come dire: non è dato sapere prima quale sia il nome, ma, nel processo della parola, esiste il padre, il significante rimosso, che funziona come nome. E’ questa la funzione paterna, che importa nella parola, che importa nell’educazione, che importa nel dispositivo, quindi nella famiglia, per esempio, perché senza questo padre rimosso, senza questo autore non c’è legge. L’autore è il nome indicibile. Io non posso nominarlo. Non è nominabile il nome, perché funziona, e non in termini di nominabilità. Funziona e io ne constato gli effetti, dopo. Per esempio, come? Per l’autorità che ne segue. Autorità, quindi aumento, incremento, avvio che ne segue. Che qualcosa incominci, non è un intenzione, non è un proposito. E’ una constatazione! Nell’educazione, che qualcosa si instauri come legge, per esempio, non è un’intenzione. Io la posso constatare una volta che è avvenuto, e quindi posso prendere atto del percorso, per come è avvenuto, non prima. Freud ce ne dà la traccia, ci dice il modo. Come dire che l’autorità dell’insegnante, del genitore non è una prerogativa naturale; è qualcosa che risulta come acquisizione, ma non del personaggio, ché, altrimenti diventerebbe caricaturale; chi volesse assumere l’autorità diventa una caricatura. E’ una funzione, funzione in atto, che comporta come conseguenze l’autorità e la legge. In questo senso, allora, la legge non è mai severa, non è mai punitiva; è un’istanza, che segue all’autorità, procedendo dal nome, cioè procedendo dal padre, il padre come nome che funziona.
Ecco, se ci sono domande intorno a questo o ad altre cose, possiamo dedicare il tempo che rimane a chiarire queste cose.
Paola Marazzato Molti laureati in psicologia dicono che, per entrare in una dimensione diversa da quella che ultimamente ci preme, che è questa didattica come prassi, si entra una dimensione di ricerca. Io, in questo momento, ho delle idee. Devo costruire un attimo il quadro, però certi spunti mi hanno, come spunti, come idea su cui …… pensare, mi hanno stimolato. Devo un attimo rifletterci. Per me è una nuova dimensione, diciamo. Mi e piaciuto il concetto di ricerca, nel discorso dell’educazione, come sintesi di arte e cultura.
R.C. Integrazione, non sintesi, perché la sintesi comporta che manca qualcosa. L’integrazione procede dall’intero, non manca di nulla. Integro, intero. L’integrazione non manca di nulla. La sintesi manca di qualcosa. Allora, giusto per ritornare a quelle notazioni di apertura in cui ci sarebbe il conflitto, ci sarebbe qualcosa che manca, non è casuale l’uso di un termine piuttosto di un altro, nel senso che non è una questione lessicale, ma è una questione di dizionario, cioè di logica, di qualità, di specifico. Sintesi e integrazione non sono sinonimi, anzi, sono opposti.
P.M. E’ una notazione importante, però è vero che, nell’immediatezza di un linguaggio che è proprio poco specifico, si tende ad assimilarli.
R.C. Esatto. La questione della formazione è anche questa, cioè che non è possibile, non lo è mai stato, ma, ora come ora, lo è ancora meno, non è possibile parlare la propria lingua; non è possibile parlare come si mangia. C’è una responsabilità, anche, nel modo con cui si propone il messaggio, perché si volga verso la qualità e la comunicazione. Talvolta, non facciamo caso alle implicazioni della comunicazione. Cosa resta di quel che diciamo? Non è che siamo responsabili di cosa resta, perché, probabilmente, di quello che ho detto stasera resterà, per ciascuno, una versione assoluta-mente differente, di cui non sono responsabile. Certamente, non è senza effetti, senza implicazioni se io dico integrità, o integrazione, o dico sintesi, in modo di cogliere il caso che ci è fornito adesso.
Perché, come costellazione della sintesi, ci sarebbe la riunificazione, la mancanza, la purificazione che dovrebbe avvenire, tutte implicazioni della sintesi. Nell’integrazione il messaggio è un altro. C’è integrazione, cioè c’è intero. C’è intero, le cui componenti concorrono a qualcosa, senza sintesi. Cioè, è la questione cattolica. Cattolica, cosa vuol dire? Katà olòs, per integrazione. Le cose si intendono per integrazione. Se io dico che la questione è cattolica, cosa dico? Le cose non si intendono per sintesi, ma per integrazione, perché non mancano di nulla, non sono deficienti, quindi non hanno da essere purificate.
Maria Carla Zorzi Io volevo intervenire sul senso di pace, che, secondo lei, è di chi si avvale della ricerca e che, secondo me, pace non è; non è nel momento in cui lo può diventare. Può diventare un momento di pace, ma non è un momento di pace nella misura in cui ognuno di noi ha comunque costruito dei paletti, delle barriere, delle sicurezze e inoltrarsi in percorsi dove la fantasia è anche di poterne fare a meno, è veramente uno sconvolgimento, ed è là il senso di non pace, che può cogliere alcuni di noi, che può comunque coglierci all’inizio. Se mai c’è, c’è molto più avanti. Più che pace, direi proprio liberazione, perché si capisce che i paletti di cui prima si aveva bisogno diventano costrizioni, diventano incapacità ad assumere la ricerca proprio come processo.
R.C. Certo. Pace sarebbe come dire appagamento. La pace non è una caratteristica di stabilità è la pace che viene dall’appagamento e, subito, trova un’altra inquietudine, per un altro appagamento. Non è una stasi la pace.
M.C.Z. Si diceva l’idea, il vissuto che ognuno di noi ha della pace è di qualcosa che c’è sempre, che non presuppone…
R.C. Non è il vissuto.
M.C.Z. Il sentire, l’agire, quello che …
R.C. E’ la pubblicità televisiva.
M.C.Z. Va bene. Il nostro vissuto fa parte anche di questo. Io non posso astrarmi e non essere invece il prodotto, anche di tutte le volte che vedo la televisione o che passeggio e incontro persone, o che vedo gli slogan, o che leggo, o che vado al cinema, o che vado a teatro. Io sono anche questo. Ecco, tutto questo ha contribuito a fare di me l’idea di pace come immobilità, come “finalmente un pò di pace”, e guai a chi me la prende.
R.C. Esatto. E’ chiaro! Infatti, sono precisazioni importanti, proprio perché non è una questione di soggetto, ma di particolarità e di precisione. E’ quello che Leonardo chiamava la scrittura dell’esperienza, che procede dalla particolarità …
M.C.Z. Sì, poi interessava anche tutto il discorso del padre, però non è possibile insomma… La prossima volta farò delle domande sul discorso del padre, non adesso perché è troppo tardi.
R. C. Bene, alla prossima volta. Arrivederci.