- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
ARTE E CULTURA DELLA TOLLERANZA
- Insegnare, mestiere impossibile
- La città multietnica e la scuola
- Come pensare. Il cervello artificiale e la formazione
- Come divenire dispositivo intellettuale
Insegnare, mestiere impossibile
Ruggero Chinaglia Questo corso, Arte e cultura della tolleranza, esplora alcune questioni che a mio avviso sono importanti per quel che riguarda la pratica e l’esperienza della scuola e dell’insegnamento. Non si prefigge di formulare prescrizioni o divieti o facili ricette in direzione di una pronta applicazione, ma di fornire alcune indicazioni, alcuni orientamenti, traendo materiale dall’esperienza della psicanalisi, cioè dall’esperienza della parola che diviene cifra, della parola che diviene qualità, quindi dalla scienza della parola. Com’era già emerso anche nei corsi precedenti, più che rivolgersi alla didattica, si rivolge a altri aspetti dell’insegnamento, che sicuramente influenzano anche la didattica quanto al modo, allo stile, all’efficacia. Insisto, in particolare, su quella che io chiamo la funzione dell’insegnante quale interlocutore, cioè la funzione che riguarda lo scambio: lo scambio di parole, lo scambio di idee, lo scambio di pensieri, di fantasie, quindi anche di fiducia. Lo scambio, insomma, in quanto scambio intellettuale. Qui, intellettuale indica non già una restrizione di campo, un’alternativa rispetto a un altro modo che potrebbe essere non intellettuale, non è una formulazione di merito, ma indica propriamente la dimensione materiale della parola che è coinvolta nello scambio: materiale e non sostanziale. È in gioco la dimensione materiale della parola: che cosa vuol dire materiale? Che, nella parola, non c’è la sostanza, che la parola non esiste in quanto tale, che la parola, dunque, è presa e esiste in un funzionamento, in una varietà di combinazioni infinita, in una differenza infinita: se non ammettiamo questo dispositivo della parola, in cui c’è la differenza infinita, è impossibile che si ponga la questione tolleranza.
La dimensione materiale della parola comporta che quel che si dice non è già inserito in un catalogo del senso o del significato, non è già all’interno di un sistema semantico, non è già all’interno di un codice prestabilito, non è già all’interno di una lingua comune e non lo sarà mai. Questo, intanto, per accennare a questa prima difficoltà che riguarda la parola, che riguarda, dunque, quel che si dice: quel che si dice non appartiene a una lingua comune e perché sia in atto la funzione di interlocuzione occorre tenere conto di questo, occorre non fare come se parlassimo la stessa lingua, perché questo toglierebbe immediatamente la comunicazione e l’interlocuzione e produrrebbe l’appiattimento. Già il presupposto di dovere o potere parlare la stessa lingua è un presupposto dell’intolleranza. Questo lo accenno brevemente, ora, poi avremo modo di esplorare come e perché ciò accade. Per ora sottolineo questo accenno alla questione intellettuale: dimensione materiale della parola e pulsione.
Che cosa vuol dire pulsione? Pulsione è il termine che Freud ha inventato, in tedesco Trieb, per qualificare qualcosa che definiva “alla frontiera tra lo psichico e il somatico”, ciò che costituisce la spinta verso la soddisfazione, verso la qualità delle cose, quindi anche verso il compimento delle cose, verso la conclusione; compimento e conclusione di un progetto, di un programma, di un’impresa, di un’idea. Spinta verso il compimento, verso la qualità, verso la qualificazione, perché, dato che le cose non vogliono già dire, occorre che si qualifichino, occorre che ciascuna cosa, ciascuna idea, ciascun pensiero si qualifichi, cioè intraprenda questo viaggio, questo itinerario verso la qualifica, la qualificazione, la precisazione, dunque la qualità, senza cui si resta nel vago, nel generico, al di qua del compimento, al di qua dell’approdo alla qualità. Avere qualificato la spinta è un’invenzione di Freud, quanto al termine pulsione, ma già Leonardo l’aveva individuata: la chiamava forza, Machiavelli, invece ,la chiamava virtù, la virtù delle cose.
“La virtù delle cose è quella di giungere alla lingua diplomatica”: in questo modo Machiavelli indicava la qualificazione delle cose, l’assenza di lingua comune e l’instaurazione della lingua diplomatica. Occorre dire, che non ci sarebbe, senza Machiavelli, il romanzo diplomatico, la lingua diplomatica del romanzo. Con Leonardo s’instaura la lingua del romanzo storico, per la forza che egli trovava indispensabile per qualificare le cose. La ricerca di Leonardo è, appunto, ricerca di qualifica. Egli indagava ciascuna cosa come se non ne sapesse niente, per trovare come si qualificava nella sua esperienza; quindi, con Leonardo prende avvio la scrittura, come scrittura dell’esperienza. Non più scrittura accademica, non più scrittura del sapere, scrittura del saputo, ma scrittura dell’esperienza. E questo è importante per l’attuale. Senza Leonardo, non ci troveremmo, oggi, a ragionare di questo, probabilmente. Leonardo è condizione essenziale anche per la ricerca di Freud, anche per la ricerca psicanalitica, anche per la cifrematica, anche per la ricerca di ciascuno.
Quindi, spinta, pulsione, forza: possiamo qualificare questa cosa anche come domanda. La domanda è la forza con cui le cose si rivolgono alla loro qualità. Con questi termini, pulsione, spinta, direzione, domanda, si indica quanto di più importante c’è per la vita psichica di ciascuno: qualcosa che spesso viene trascurato per via di pregiudizi o ideologie. Perché? Perché il principio comunemente accettato per il funzionamento, cosiddetto, delle cose umane è quello basato sui principi della termodinamica e sulle sue leggi, che si basano sulla nozione non già di forza o di spinta, ma su quella di energia. E, allora, su questo si sostengono le varie fantasie, mitologie, ideologie, per esempio, dell’affaticamento mentale, dell’esaurimento mentale o della fatica in generale. Chi non ha fatto ricorso, o non ha udito altri fare ricorso a questa modalità espressiva, a questa fantasia? Chi non ha avuto un vicino che “ha avuto l’esaurimento”, o che dicesse di averlo avuto, di essere incorso in questa cosa: l’esaurimento nervoso? È la cosa più comune da udire; e non solo in alcuni ambienti. Dappertutto! È una delle mitologie più in voga, uno dei luoghi comuni, delle credenze più accreditate. Chiaramente, questa idea dell’esaurimento, o dell’affaticamento, comporta la messa in atto di rimedi e contromisure, appunto, per cercare di contrastare, di evitare questa eventualità; contromisure rivolte al cosiddetto risparmio energetico.
Il risparmio energetico è stata la cosa più di moda negli anni ‘80. Già nella seconda metà del novecento, il problema dell’umanità, per eccellenza, è stato quello del risparmio delle risorse, soprattutto energetiche; poi, con le crisi petrolifere intorno alla fine degli anni ‘70, inizi anni ‘80, ha rappresentato la punta della preoccupazione planetaria, ha costituito la sfinge, il mostro, lo spauracchio del pianeta, Tutto ciò accreditato da questa concezione energetistica dell’uomo, della psiche, come se l’uomo, la psiche, la parola avessero un fondamento energetico, anziché un fondamento materiale, anziché la forza, questa spinta inesauribile! Ora, è chiaro che ci sono di fronte due concezioni delle cose: una concezione che comporta la fine e un’altra che ammette l’infinito. La mitologia del risparmio energetico contrasta il presunto pericolo della fine delle cose; l’idea dell’affaticamento comporta il risparmio delle energie, in vista di una possibile fine delle energie o delle risorse.
La forza, la spinta inesauribile ammette, invece, l’infinito della forza, l’infinito della spinta, l’infinito delle risorse e quindi non esige contromisure rispetto alla fine. Due concezioni, anche, dell’accadere psichico: una basata sul primato della morte, l’altra basata sull’accoglimento della nozione d’infinito. Tutto ciò è un accenno, ma è essenziale per la questione della tolleranza, perché senza l’infinito non c’è tolleranza, possiamo avere al massimo la cosiddetta tollerabilità, una sorta di bontà d’animo che però ammette un tetto, un tetto che può essere sfondato. Su questa differenza torneremo. Ora, intanto, mettiamo alcuni mattoni, dove poggiare il piede, per riuscire a procedere.
Dicevo dell’importanza di questa funzione d’interlocuzione; funzione importante perché, come abbiamo avuto modo di discutere nel corso precedente, oggi più di qualche anno fa, le occasioni d’interlocuzione, soprattutto per i giovani, ma anche per gli adulti, sono minori. Oggi c’è la televisione, ci sono i computer, c’è la radio, ci sono i walkie-talkie; ci sono tanti modi per trascorrere il tempo, per fare delle cose in assenza di interlocuzione: a casa, nelle occasioni che una volta erano quelle di parola, nel banchetto, nel convivio, nell’occasione del pranzo, della cena, oggi c’è il telegiornale. E se qualcuno si azzarda a dire qualcosa proprio mentre passa la notizia, sia strisciante sia volante, viene subito zittito. Tolte quelle occasioni, quando? È difficile anche per un genitore o per un figlio dare un appuntamento per parlare: “Solo per parlare? Ma cosa vuoi, questo ce lo diremo, lo faremo”. E poi non accade mai. Quindi, la scuola rimane uno dei momenti essenziali, insostituibili perché possa avvenire l’interlocuzione, questo scambio di parola essenziale per l’educazione, per la formazione, per l’instaurazione delle ragioni di vita, dei criteri di vita.
Quali sono i criteri per cui io oriento la mia vita, il mio fare in un certo modo piuttosto che in un altro? In che modo s’instaura il giudizio? Il criterio indica la messa in atto del giudizio. Quindi: in che modo? Quando? Dove? Come? Questo esige che vi sia interlocuzione, che vi sia intervento, direzione, orientamento, scambio proprio riguardo alle cose che accadono, al modo in cui accadono, alle fantasie in cui le cose che accadono sono prese; quindi, è in questa direzione che l’insegnante deve rivolgere, anche, la sua attenzione, la sua professionalità, la sua formazione, la sua ricerca; perché interlocuzione non vuol dire stare a sentire, fare convenevoli, prestare benevolmente orecchio in modo che ci sia un’amabile conversazione salottiera. Interlocuzione vuole dire cogliere quale sia la particolarità che si sta dicendo, in che direzione va e quindi come intervenire, quale orientamento dare; cioè, non è solo il fare quattro chiacchiere. Non è che ci s’improvvisi interlocutori, né, peraltro, l’interlocuzione può essere isolata dal contesto dell’insegnamento; è qualcosa che si integra e man mano avviene; ciascun momento può esigere un intervento che tenga conto del dispositivo che è in atto, di ciò che si sta dicendo, in vario modo, con la sua lingua particolare.
Machiavelli, per esempio, per tornare a lui, distingueva tra la lingua diplomatica e la lingua dei litiganti, la lingua del gergo, la lingua del luogo comune, la lingua presunta di tutti. Lingua dei litiganti e lingua diplomatica: se quel che si dice non si rivolge alla lingua diplomatica, resta la lingua dei litiganti, resta il conflitto, il duello, l’opposizione, il litigio appunto, cioè restano le figure dell’opposizione nei suoi vari modi. E questo non a caso. Poi vedremo perché. Ma, già con questa distinzione Machiavelli poneva la questione del mito della lingua, dei due miti della lingua: la lingua di Babele e la lingua della Pentecoste, come dire che ciascuno parla un’altra lingua e intende nella propria, cioè nella lingua appropriata alla qualità delle cose.
Se ci fosse chi ritenesse di poter parlare la sua lingua, la lingua che padroneggia, la lingua personale, ecco, questa sarebbe la lingua dei litiganti, sarebbe la lingua del luogo comune, del senso comune, del buon senso, ma senza comunicazione, senza qualificazione. Allora, l’interlocutore è lì con queste due lingue, alle prese con queste due lingue che non può padroneggiare, che non sono da dominare, ma che esigono quindi la ricerca quanto alla qualificazione delle cose, quindi anche la clinica della parola: tenere conto della piega, della sfumatura, della varietà, della differenza, dei modi con cui qualcosa si dice.
Se rispetto a un’istanza, rispetto a una domanda, a una richiesta del tutto particolare la risposta è nella lingua dei litiganti, nella lingua comune, beh, questo ha come conseguenza che una curiosità, una spinta verso l’indagine, una ricerca, un itinerario s’interrompe o non si avvia nemmeno, proprio perché rispetto a qualcosa di imprecisato, viene risposto frettolosamente con un inquadramento in una qualche casella, senza tenere conto delle implicazioni che la cosa può avere. Per secoli, l’insegnamento ha rappresentato una sorta di esercizio di padronanza sul sapere e di trasmissione del sapere. L’insegnante doveva trasmettere all’allievo il sapere, per istruirlo.
Da Socrate, per esempio, con la maieutica o da Platone con il dialogo, da Aristotele con le argomentazioni sillogistiche fondate sulla logica predicativa, ossia sulla logica dell’alternativa esclusiva e, via via, lungo le vicende del pensiero occidentale, a parte rare eccezioni, l’insegnamento è stato inteso come il compimento di un rapporto magistrale, di trasmissione del sapere. Fondato su che cosa? Sull’interrogazione che doveva produrre la giusta risposta. E la misura dell’efficacia dell’insegnamento era data appunto dalla giusta risposta alla giusta domanda, modalità che Platone indica nel Menone. Lo schiavo di Menone, correttamente interrogato, correttamente risponderà, in modo che risulti comunque chiaro dove stia lo schiavo e dove stia il padrone, dove stia il maestro e dove stia l’allievo, in modo, cioè, che non vi sia esperienza della parola, ma scienza del discorso, quindi, primato del discorso sulla parola.
Eppure, il termine ‘interrogazione’ è molto interessante, perché è quel che traduce in italiano la parola greca eironeia, ironia, da eiromai interrogo, il cui etimo è prossimo a eiro che anticamente era veiro con una lettera che poi è caduta; da cui deriva anche il termine verbum, parola. Quindi eiro: dico, racconto, verbum, parola. È prossimo anche a eiron: l’errare, l’erranza, non nel senso dell’errore morale, ma nel senso dell’errare delle cose, dell’erranza delle parole, dell’erranza dei nomi.
Ironia, parola che si contraddice senza negarsi, parola che erra; come dire che la parola, la parola originaria, l’interrogazione è ironica, è parola che si contraddice. Come può lo schiavo di Menone non contraddirsi? Come mai Platone aveva così paura della contraddizione, da postulare che occorreva che non vi fosse? Perché il discorso occidentale si è costituito lungo il primato del discorso, sulla scienza come scienza del discorso?
Questa si regge sui principi d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso: tre capisaldi della logica predicativa, tre capisaldi della logica binaria, della logica dell’uno che si divide in due, quindi che propone un’alternativa esclusiva, la logica del sì o del no, senza scampo, o ‘A’ o ‘non-A’, tertium non datur. Ecco, invece, l’ironia come contraddizione non comporta la negazione, non comporta la contrapposizione. È un bel problema per il discorso occidentale, perché se ciò che è ammesso è: o ‘A’ o ‘non-A’, come ammettere ‘A’ e ‘non-A’ senza l’esclusione reciproca?
Ecco perché il discorso occidentale è un discorso intollerante: non per scelta volontaria, ma per un’impostazione logica. Se ‘A’, allora ‘non-A’, non ammette alternative. O ‘A’ o ‘non-A’. È impossibile scegliere entrambi. La tolleranza propone, invece, di accogliere entrambi. Proprio su questo binarismo della logica predicativa del discorso occidentale, la contrapposizione è inevitabile, la tolleranza è impossibile, e sorge, dunque, l’idea del conflitto, perché ‘A’ e ‘non-A’ si contrappongono, dunque sono in conflitto.
La nozione di conflitto, su cui ritorneremo, è importante, assolutamente essenziale: primo, perché nega l’eventualità della tolleranza, poi perché su questa idea di conflitto sorge la psicopatologia, per esempio. L’idea di patologia comincia da lì, dal conflitto, nella fantasmatica del discorso occidentale.
Differente la nozione di disagio, cioè quel che abbiamo qualificato come la spinta che ciascuna cosa ha in due direzioni: disagio, da anfi-agere, anfiballo, qualcosa spinge in due direzioni, qualcosa va in due direzioni. È la traduzione del termine ambiguità. Disagio viene da ambiguità, da ambiguo. Allora, ironia è questo: qualcosa che va in due direzioni. Ironia, disagio, ambiguità costituiscono una costellazione di termini che indicano un modo, il modo diadico.
L’ironia dice di due cose che si contraddicono. Il disagio dice di una spinta in due direzioni. L’ambiguità dice di questa sorta di incertezza, di smarrimento, che viene constatando che qualcosa va in due direzioni, è ambigua, appunto, ma non come connotazione morale; ambigua da ambigere, che va in due direzioni. Ambiguo in questo senso: c’è una spinta in due direzioni.
Questa è la pulsione: una spinta in due direzioni che caratterizza l’ambiguità, il disagio, l’ironia, che caratterizza, dunque, la parola originaria. La parola originaria è la parola con questa caratteristica diadica e non unitaria, in contrasto con quei principi che Aristotele aveva individuato come base della logica del pensiero occidentale.
È chiaro che questo ha avuto e ha delle conseguenze quanto al modo di considerare le cose, quanto al modo di pensare, di giudicare, quindi anche al modo di credere o non credere, di parlare una certa lingua, che, come diceva Machiavelli, è lingua dei litiganti se basata sui principi aristotelici di non contraddizione, di identità e del terzo escluso, su cui poi poggia anche il principio di selezione. Sono, questi, i principi stessi dell’intolleranza, accettati i quali la tolleranza si volge, al massimo, in tollerabilità. Cioè, non è più tolleranza, è un grado minore dell’intolleranza: una diminuzione dell’esercizio della padronanza, orientata da questi principi aristotelici.
Ma non può essere tolleranza infinita, perché c’è una procedura che lo impedisce, che è la seguente: se le cose procedono dall’unità, il due sarebbe il risultato della divisione algebrica dell’uno e, quindi, l’uno che si divide in due cose che cosa genera? Genera una coppia, una coppia di due cose che sono tra loro contrapposte, e queste due cose che altro possono fare se non tendere alla loro riconciliazione, alla loro riunione, di nuovo, nell’unità?
Quindi l’idea di tolleranza del discorso occidentale è quella della riconciliazione dei due estremi nella ricomposizione dell’unità: unità del senso, del sapere, della verità, unità della linea, unità dell’ideologia, qualunque essa sia, comunque ideologia, perché deve riportare queste due cose nell’unità. Questa è la traiettoria di pensiero che il discorso occidentale prescrive a ognuno, che lo voglia o no. Non è una questione di volontarietà, perché, nel momento in cui ognuno entra nella civiltà, questi sono i criteri, questi sono i principi che vengono impartiti, questa è la logica che viene insegnata nelle scuole, la logica del discorso occidentale.
Ecco, allora, che anche maestro-allievo, che è stata considerata fin qui una coppia oppositiva, è qualcosa che procede dalla diade e la possiamo ritrovare nell’ironia, non come coppia oppositiva. Se noi la consideriamo una coppia, come è accaduto sin qui, questa coppia dovrebbe trovare il suo compimento, dove? come? Nel fatto che l’allievo dovrebbe divenire maestro, cioè acquisire le caratteristiche magistrali, accaparrarsi tutto il sapere che gli è stato impartito per divenire come il maestro, se non addirittura superare il maestro. Questo è il destino e la predestinazione dell’allievo: riconciliarsi con il maestro, come dire diventare maestro per ricomporre l’unità dell’elemento fondamentale, mantenendo quella caratteristica oppositiva, di contrapposizione tra il maestro e l’allievo. Sempre quindi in un riferimento al sapere fondante e da trasmettere dal maestro all’allievo.
Tenendo conto, invece, dell’ironia, quindi della logica diadica, del due originario che comporta contraddizione senza contrapposizione, senza alternativa esclusiva, senza esclusione reciproca, esiste un altro modo delle cose: l’ossimoro. Ossimoro: parola greca che indica la contraddizione. Ossimoro vorrebbe dire letteralmente acuto-sciocco, qualcosa che è acuto-sciocco, quindi anche alto-basso, caldo-freddo. Per dare un’idea dell’ossimoro: c’è mica qui del nastro adesivo? Qualcuno ha del nastro adesivo? (Intanto armeggia con carta e forbici.) Adesso ve lo faccio bene, perché l’altra volta è venuto non proprio benissimo, invece adesso lo facciamo meglio. Ossimoro. Anche dentro-fuori è ossimoro. Voi ritenete possibile che qualcosa esista nel modo del dentro-fuori? No? Ecco, allora, il modo del dentro-fuori: noi abbiamo qui una striscia di carta i cui estremi si uniscono a formare un cerchio, non è prestidigitazione. Bene, la striscia di carta è una superficie con due lati, se questo è il lato interno e questo è il lato esterno non c’è comunicazione tra il lato esterno e il lato interno. Percorrendo il lato interno, non c’è modo di incontrare il lato esterno e viceversa: non c’è incontro tra chi percorre il lato esterno e chi percorre il lato interno. Va bene?
Prendiamo invece quest’altra striscia di carta, simile alla precedente, ma alla quale facciamo fare una torsione, prima di collegarne le estremità. Questo è un nastro di Moebius, cosiddetto, da Moebius che l’ha inventato nel 1400. Allora, anche questa è una superficie con due lati, ma nella quale non c’è dentro o fuori, ossia il dentro non esclude il fuori, cioè dentro-fuori è modo dell’ossimoro e non della contrapposizione. Cioè, se ammettiamo che questo sia il fuori e questo il dentro, allora percorrendo ciò che abbiamo definito dentro, ci troviamo fuori e poi percorrendo il fuori ci troviamo dentro; non c’è soluzione di continuità, è dentro-fuori. Potete provare varie volte a casa, ma è così, è dentro-fuori.
Questa è una rappresentazione topologica dell’esistenza di questo modo dell’ossimoro, ossia di una contraddizione che non si contrappone, è dentro-fuori. Non è solo dentro o solo fuori. Potete provare anche con la figura del toro. Prendete una camera d’aria, la ripiegate su se stessa, poi la incollate e provate a percorrere il dentro-fuori del toro. Si chiama toro, è una figura della topologia, come questo che si chiama Nastro di Moebius; ma era solo per dire di questo modo del due che qualifichiamo, in cifrematica, come il modo della relazione. La relazione avviene in questo modo: amico-nemico, bene-male. Non: o amico o nemico; non: o bene o male; non: o dentro o fuori, ma amico-nemico, male-bene, dentro-fuori; una diade che non è possibile risolvere in una delle sue componenti se non in termini sintomatici. Infatti che cosa occorre fare perché il dentro sia dentro e il fuori sia fuori? Devo tagliare, applicare il taglio. Questa è l’operazione che avviene, anche nella parola, se si vuole risolvere la diade nel monismo: occorre dare un taglio. Ma la questione è che la relazione non è temporale, il taglio è ciò che fa intervenire il tempo nelle cose, nella parola, perché il tempo è il taglio; temno, in greco, vuole dire taglio. Tempo deriva da temno; tempus è il taglio. Il discorso occidentale questo fa: taglia la relazione, taglia l’ossimoro, cioè tenta di fare dell’ossimoro una dicotomia, cioè di applicare il taglio alla diade, per ripristinare l’algebra: cioè il modo conosciuto dal discorso occidentale è quello del monismo, dell’uno che si divide in due. Ma ciò non va senza complicazioni, perché un conto è la logica diadica e un conto è la logica binaria: logica dell’alternativa esclusiva: sì o no, dentro o fuori. Ma, quando parliamo, c’imbattiamo costantemente in questo altro dispositivo, che procede da una logica diadica e incontra altre logiche singolari e triali. Poi vedremo meglio. Per intanto è importante tenere conto di questa distinzione.
Il pluralismo è un modo della clonazione; fateci caso, è così! Il plurale è il plurale dell’uno, cioè è la ripetizione dell’identico. Il molteplice è un’altra cosa, ma non ho mai sentito un politico dire che è per la molteplicità; sempre per il pluralismo. E questo dice anche dell’inadeguatezza culturale del politico di oggi, che quando si dice pluralista, chissà cosa crede di definirsi: si riempie la bocca di un termine che è veramente una condanna. Dice che è intollerante! Dice che ammette solo quella cosa e le cose che sono uguali a quella. Nella sua lezione estrema dice questo, anche se le intenzioni sono buone! Sono molto buone! Ma con le intenzioni non si fa cultura, non si approda alla formazione; soprattutto non c’è la civiltà, diciamo pure così, tanto per rimanere nel vago. Ora, però per contenerci un po’, diciamo che la cultura esige un’altra scienza, che non è quella del discorso, che non è quella dell’uno e della sua riproduzione: esige che ci sia la differenza e la varietà, quindi non il pluralismo ma l’infinito, il molteplice.
Il molteplice indica le molte pieghe, le infinite pieghe della parola, è una nozione che allude all’infinito, non a un sistema chiuso. Il molteplice: non sappiamo quante e quali. C’è il molteplice, che non è il plurale. È una distinzione essenziale perché s’instauri la tolleranza. Il pluralismo tollera che vi sia qualcosa di simile, purché sia simile, ma non è tolleranza, è tollerabilità.
La tolleranza non è che si possa insegnare, non è qualcosa di naturale, non è una dote innata, è un’acquisizione, è una virtù artificiale che comporta un’acquisizione dall’esperienza della parola e non già dalla logica del discorso. La tolleranza è un’acquisizione della cifrematica e può divenire un’acquisizione per ciascuno, ma non è già data, non va da sé. Non basta auspicarsela perché sia in atto e, insomma, occorre tenere conto che, sin qui, i vari esempi che noi possiamo considerare nell’ambito del discorso occidentale sono sempre esempi ispirati all’intolleranza, o alla tollerabilità.
La tollerabilità è una forma attutita di intolleranza. La tolleranza, nel suo estremismo, non è ammessa dal discorso occidentale, per le questioni di logica che abbiamo visto poco fa. Allora, dicevamo, maestro e allievo. Maestro e allievo non sono da considerare due personaggi di un teatro dello sviluppo o dell’evoluzione, cioè l’allievo non ha da divenire il maestro, non ha da diventare maestro, non ha da diventare come il maestro, non deve eliminare l’altro personaggio per riconciliarsi con l’unità: invece la figura che ricorre nella mitologia occidentale è sempre questa: il duello, l’affrontamento, l’alternativa esclusiva, l’eliminazione dell’altro che impedirebbe il conseguimento dello scopo.
L’edipismo è questo. Il modello eminente di costituzione del fanciullo divulgato dalla pedagogia moderna è l’edipismo. E l’edipismo non dice forse che il bambino aspira a impadronirsi della mamma e a far fuori il paparino, oppure di impadronirsi del paparino e far fuori la mammina? C’è sempre qualcuno che deve sparire, tertium non datur. Siamo sempre in questa mitologia dell’affrontamento, dell’eliminazione, del duello, della contrapposizione, quindi della negazione, insomma dell’alternativa esclusiva, A esclude B. Figuriamoci C! Se c’è C, è o con A o con B contro uno dei due, c’è sempre questa mitologia triangolare dove due sono contro uno.
Il discorso ebraico attende ancora il figlio che, quindi, non è ammesso; non ammette il figlio e infatti si trova in lotta. C’è una questione di diaspora per il popolo ebraico, che non ammette l’uno, non ammette il figlio e, quindi, non ammette nemmeno il terzo. La questione ha un altro giro con il cristianesimo e il cattolicesimo in particolare, dove infatti ci sono stati degli scismi proprio sull’ammissione del figlio, sull’ammissione del terzo, sull’accoglimento, già a partire dall’accoglimento della stessa natura di Cristo. Questa natura, che indica anche il due originario, ha comportato una inaccettazione: infatti ci sono varie cosiddette eresie, che non ammettono questa natura: ammettono la natura umana o la divina, ma non accettano che esistano simultaneamente. Su questo due inscindibile, molti si sono allontanati, non è stato accolto; e così sulla trialità, sulla trinità, e così poi su altre cose che sempre comunque riguardano delle logiche particolari, la logica diadica e la logica singolare triale, cioè la simultaneità dell’uno e del tre. Ma già ammettere la trialità è impossibile se non viene ammessa la diade, perché se procediamo dall’unità noi approdiamo al massimo al binarismo e, una volta arrivati al binarismo, non c’è scampo: tertium non datur.
Per giungere alla trialità, quindi alla trifunzionalità della parola, è essenziale il due originario, è essenziale la diade, è essenziale l’ossimoro. Ne discutevamo anche ieri sera, in un’equipe, in cui è emersa proprio la questione della constatazione che a partire dai principi aristotelici non si può giungere alla tripartizione del segno o alla trifunzionalità della parola, o alla tridimensionalità.
A partire da questi principi restiamo vincolati all’alternativa esclusiva; non c’è modo di approdare al tre. E questa non è cosa da poco, nel senso che la questione del sogno, per esempio, procede dal tre, il lavoro onirico, come lo qualificava Freud, esige la trialità. Non c’è contraddizione, infatti, nel sogno. Ciascuno che sogna può constatare che l’immagine del sogno non teme la contraddizione: fa rivivere i morti, fa morire i vivi, mette le case sotto il mare, fa respirare sotto terra, e queste cose entrano nel racconto, quindi si dicono, secondo questi modi, non secondo i modi della logica binaria. Cioè non c’è la contraddizione secondo l’impostazione della logica predicativa.
Freud era giunto, in qualche modo a accorgersi di questo, proprio a proposito di qualcosa di molto pratico, per esempio a proposito del sintomo. Questa è la questione importante. È con la psicanalisi che viene accolta e anche formalizzata la struttura della parola. Viene, invece, rigettata dal pensiero occidentale. Infatti, la psicanalisi non è mai stata accolta da nessuna parte apertamente, se non quando è stata ricondotta a una disciplina psicologica, sociologica o di altra natura. Solo quando l’elemento originario è stato tolto è stata accolta, ma nella forma, appunto, della psicoterapia, che non è psicanalisi, è un riaggiustamento della psicanalisi, togliendo tutto ciò che non è conforme alla logica binaria e quindi reintroducibile nel sistema aristotelico. Allora viene accettata. Ma non è più psicanalisi! Infatti è psicoterapia: quella che non più tardi di qualche giorno fa uno psichiatra definiva la forma eminente di rieducazione. Che bello: la rieducazione! La psicoterapia come rieducazione che dice: “Adesso le cose vanno bene perché noi possiamo combinare il presidio psicofarmacologico con la psicoterapia, cioè con la rieducazione”, un gergo da casa penale. Casa di correzione si chiamava una volta. Adesso invece ci sono le case di rieducazione, ma questo è un altro capitolo, lo esploreremo magari più in dettaglio, ma certamente la rieducazione ha a che fare con l’intolleranza. Ho qualificato l’ossimoro come modo della relazione, la diade come logica della relazione. Questo ci consente un passo ulteriore: dato che la relazione ha il suo modo nell’ossimoro, allora non ci sono relazioni umane, interumane o interpersonali. La relazione ha il modo dell’ossimoro e esiste originariamente nella parola. Allora, tra maestro e allievo non c’è nessuna relazione! E questo, forse, è già più difficile da intendere.
Consideriamo, per esempio, il personalismo (certamente nella pratica dell’insegnamento qualcuno lo avrà incontrato): io dico qualcosa e Tizio si offende o Tizio mi dice qualcosa e io mi offendo, come se ciò che viene detto o attribuito all’insegnante riguardasse la sua persona, o ciò che viene detto o attribuito all’allievo riguardasse la sua persona e non, invece, qualcosa che è intervenuto nella scena. La relazione è il modo dell’ossimoro, non è qualcosa di personale che intercorre fra Tizio e Caio. Fra Tizio e Caio non c’è nessuna relazione; può esserci parola, comunicazione, ascolto.
La condizione perché quel che si dice possa venire inteso al di fuori delle attribuzioni personalistiche è tenere conto di questa relazione originaria che non è fra Tizio e Caio, che non lega Tizio e Caio. Rimanendo vincolati alla rappresentazione della relazione come legame, (è questo il modo isterico di pensarla), abbiamo tutti i vari personalismi con ciò che comportano a livello del mancato ascolto, cioè dell’assunzione o dell’attribuzione, in termini di connotazioni morali, di ciò che si dice.
Certamente, non va da sé che qualcosa che odo non me lo attribuisca: questo esige la formazione. Con la formazione s’istituisce il processo di astrazione di ciò che odo, di ciò che ascolto, rispetto a ciò che ritengo di essere o di venire qualificato dalle parole altrui, dato che non si rivolgono a me, ma alla loro qualità. Se io personalizzo, cioè se io assumo su di me ciò che odo, ciò che si dice, certamente lì faccio intervenire uno sbarramento, un’interruzione rispetto all’approdo di queste cose alla loro qualità, cioè alla loro qualificazione; perché, se sono cose che ritengo gradevoli dirò: “Ah, che bello, allora cincischiamo insieme, facciamo salottino”, se sono cose sgradevoli le rigetto, le respingo e, respingendole, respingo anche la persona.
Rispetto a quella che chiamavo l’interlocuzione, occorre questo sforzo, che è sforzo intellettuale, di non attribuire a me come personaggio o all’altro come personaggio ciò che si sta dicendo, ossia di lasciare che le cose funzionino fino alla loro destinazione, fino alla loro meta, fino alla qualità. Questo è ciò, chiaramente, che avviene nel dispositivo analitico, ma non solamente. In ciascuna conversazione, in ciascun contesto comunicativo avviene che una parola che si rivolge alla sua cifra, molto spesso viene intesa personalisticamente, come qualcosa che dovrebbe connotare me o te, chi la dice, chi l’ascolta, e quindi non c’è nessuno scambio, ciascuno parla la propria lingua, la lingua dei litiganti e non c’è nessuna acquisizione.
La generosità sta, invece, nel restituire qualcosa di quel che si dice, in quanto ne avviene una lettura, non un’assunzione sostanziale, in quanto ne viene colta una sezione, un aspetto, una particolarità, che viene restituita. Questa è la comunicazione. E viene restituita non in termini di spiegazione o di traduzione o di pontificazione o di etichetta: viene restituita in un rilancio della conversazione, con la comunicazione. Questa è la lingua diplomatica di cui parla Machiavelli.