- EDIZIONE
- Luigi Pirandello L’amore e l’odio
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. La famiglia, l’amore, la sessualità
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA LAMPADA DI ALADINO.
LA FAMIGLIA, L’AMORE, LA SESSUALITÀ
- La famiglia di Aladino
- La lampada dell’erotismo
- La poesia dell’acqua
- L’amore
- I giovani e la conoscenza
- Aladino, il cibo, il fumo
- Come il fantasma di morte fonda la nosologia e si dilegua all’orlo della vita
- Come la salute procede dalla questione di vita o di morte
- Di una lampada che non illumina. Ovvero come l’ingenuità e la sessualità procedono dall’ignoranza
- Cristo, Aladino e l’annunciazione
- Aladino, la principessa e la sessualità
- Mamma la paura: il matricidio, l’aborto, l’infanticidio
- L’incredibile potere dell’uovo di Ruck
- Patrimonio e matrimonio
- Il caso clinico della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa
La famiglia di Aladino
Ruggero Chinaglia Un fantasma si aggira per il pianeta, il fantasma dell’Islam. L’Islam oggi è ritenuto essere un elemento di disturbo in grado di sovvertire il sistema istituito dal discorso occidentale, il suo ordine e il suo canone. Così pensando, si trascura che esso è un corollario del di¬scorso occidentale. Il fantasma che attra¬versa il pianeta e lo agita e lo scuote è il fantasma di padronanza, con la paura, in¬sita in esso, di perderla. Il fantasma di padronanza è l’idea di potere avere il do¬minio sulle cose, sui pensieri propri e altrui, sui desideri, sulla parola, sugli ac¬cadimenti, in modo che nulla possa sfug¬gire al controllo, che nulla possa sorprendere, meravigliare, inquie¬tare, interrogare, che nulla possa sfuggire alla volontà. Volere è potere è il motto che consenti¬rebbe di non essere costretti a interro¬garsi su ciò che accade, sul perché accade, su come accade. Io voglio, e così sia!
Una certa mitologia tecnologica impone non già di rispondere agli interrogativi intorno al perché delle cose, ma di soddi¬sfare le esigenze rapidamente, senza in¬dugi, senza sbavature, in modo che le cose siano rispondenti all’idea che ognuno ne ha, per un realismo dell’immaginazione, per un’immaginazione, quindi, senza imma¬gine, ossia senza la semovenza dell’immagine, senza scarto fra l’immagine che si produce nella sem¬bianza e l’immagine pensata, prevista, presunta.
L’idea di padronanza è l’idea di una possibile applicazione alle cose della via rapida, della via breve, spiccia, della via facile. È l’idea di potere andare per le spicce, di tagliare corto, di potere seguire una via rettilinea, senza pieghe, senza in¬crespature, di potere fare e stare senza la parola. Il fantasma di padro¬nanza privilegia ora la magia, ora l’ipnosi. La magia realizza le cose come sono pensate, cioè rende le cose come devono essere per soddisfare il desiderio senza sforzo, senza che ciò debba ri¬chiedere sforzo alcuno, dunque senza pulsione, senza ricerca, senza lavoro in¬tellettuale: “Così dev’essere, così sia”; senza domanda, senza dispositivo, senza l’itinerario che va dalla causa alla cifra, dalla causa alla qualità, dalla causa al valore come valore assoluto, quindi come valore non quantificabile, imprevedibile, incalcolabile, valore estremo, la cifra. Non il valore condiviso, ma il valore assoluto, il valore di cui non c’è nemmeno l’idea, quindi un valore sorprendente, a cui dovrebbe porre riparo la magia, che toglie le cose dall’itinerario intellet¬tuale.
Ciascuna cosa, nella magia, è im¬mobile, senza particolarità, senza sessualità. La magia toglie le cose dal parricidio e dalla sessualità, le renderebbe immobili, inerti e padro¬neggiabili; toglierebbe dalle cose la ma¬teria intellettuale, la materia sessuale. La magia consentirebbe che al disegno, al progetto, all’idea di qualcosa possa seguire il programma, la politica, la strategia, ma senza ingegno, senza dovere ingegnarsi per istituire il dispositivo perché questo avvenga, per¬ché il disegno, il progetto e il pro-gramma si compiano e si concludano.
La magia si legittima attestandosi nell’obiettività delle formule del senso comune, la più in voga delle quali, sulla quale c’è quasi unanimità, recita che tutti devono morire. A questo punto è forse più chiaro che il fantasma di padronanza è un fantasma di morte che converte il tempo in durata, dopo avere convertito la particolarità in generalità e obiettività. La conversione del tempo in durata ri¬sponde all’idea che il tempo possa finire o addirittura debba finire; importa, al¬lora, non già il tempo, ma la sua fine. Per rendere l’idea, un famoso motto zen narra che, se voi indicate qualcosa a un cane, il cane guarderà il vostro dito, non già la cosa indicata. Lo stesso vale per la nozione di durata, dove conta la fine, non già il tempo. Quindi l’idea di durata, la nozione di durata è la negazione stessa del tempo, che non ha nessuna durata perché è istantaneo. Il tempo non dura, è istante. Ma per chi si bea dell’idea di du¬rata, la questione diventa allora “Quanto mi resta?”.
Quanto mi resta? Quanto mi resta da vivere? Chi può dire quanto gli resta? È certo che, una volta accettata questa idea del tempo o, meglio, della sua nega¬zione, la paura sovrasta ogni cosa fino all’erotismo della paura, che culmina nella rassegnazione o nell’euforia di¬struttrice. In attesa della fine ogni mor¬tificazione va bene, e è accettata sia la mortificazione di sé, sia la mortificazione dell’Altro. E cosa è più mortificante della negazione del valore e del processo di valorizzazione con cui procede la vita stessa? Che cosa sarebbe la vita senza il processo di valorizzazione, senza il va¬lore delle cose, il valore che non è già insito nelle cose in sé, ma è il valore che se¬gue al processo di valorizzazione, cioè alla qualifica? La vita senza il processo di valorizzazione sarebbe la vita animalesca, la vita bestiale, la vita senza pulsione, la vita come attesa della fine. Ma questa non è vita, perché la vita è viaggio, ma non in dire¬zione della fine, bensì in direzione della con¬quista, del compimento, della conclu¬sione del disegno, del progetto, dell’acquisizione perenne e incessante del valore che segue alla scrittura delle cose.
Nulla di automatico quindi, nulla di già assegnato, nulla di già prescritto. È un viaggio che esige dispositivi, esige la domanda, esige l’itinerario, sopra tutto la direzione, perché un viaggio senza dire¬zione è un andare in tondo. Allora, es¬senziale è la direzione, e non c’è chi già la sappia, non è una questione di innatismo. La vita come viaggio ha la sua condizione nella solitudine, nella singolarità, nella particolarità. Il fantasma di padronanza contrasta la condizione del viaggio, contrasta la solitudine e, appunto per questo, tenta di instaurare l’obiettività e, per un altro verso, la generalità con cui ognuno ritiene di appartenere a un genere, a un insieme, a una classe, a un ordine sociale, familiare. Pertanto, a partire da questo, ognuno si confronta con il suo presunto simile, si misura, si paragona, si giudica. Tolto l’assoluto, tolta la condizione del viaggio, restano i simili con cui confrontarsi, con cui misurarsi, con cui accapigliarsi o con cui stabilire i vari compromessi per negare il viaggio e per sancire, invece, che ciò che accomuna non è il viaggio, ma la sua fine. Ognuno sarebbe accomunato dalla fine del viaggio.
Per questa via, dunque, ognuno si risparmia, o si euforizza, o si rassegna, o si condanna, o si loda. Ma, tolto l’assoluto, tolta la condizione, ognuno resta invischiato nelle pastoie del senso comune, del buon senso, del consenso. E noi abbiamo dinanzi agli occhi e alle orecchie, proprio in questi giorni, lo spettacolo del buon senso con i suoi motti: “Le riforme si devono ispirare al buon senso, gli accordi si devono ispirare al buon senso”. Quasi a dire che basta che ognuno si rivolga al buon senso per imboccare la giusta direzione. E quale sarebbe la direzione del buon senso, del senso comune, del consenso? È la direzione che risulta dalla condivisione dell’idea più diffusa, l’idea di padronanza, ossia l’idea di morte.
La paura della morte, intesa come fine del tempo, instaura l’idolatria, la superstizione idolatra che è drogologica e sostanzialista; superstizione ora algebrica, ora geometrica che si fonda sulla credenza dell’alternativa fra il positivo e il negativo, con le sue figure, e dell’alternativa fra il sopra e il sotto o fra il dentro e il fuori, con le loro figure. Chi può avere il potere di allontanare il male, di allontanare la fine, di allontanare la cacciata, di allontanare l’abbandono? Ebbene, ognuno elegge un idolo presunto in grado di esercitare questo potere, e a quest’idolo rivolge ciò che ritiene essere il suo amore per avere un segno che questo amore sia ricambiato. Ma sarebbe questo l’amore? È ciò che vedremo di considerare e analizzare. Per ora, diciamo che a partire da questa idea di amore, a partire da questa erotizzazione idolatra, è stato creato dio. Dio! Ogni dio, ogni divinità è creata a scopo. Sarebbe il dio con il potere di creare, con il potere di fare. Ma dio non ha il potere di fare, non c’è dio che possa fare, non è nelle prerogative di dio fare. Non c’è il dio agente. Il dio agente è l’idolo, cioè la versione idolatra dell’operatore.
Dio è operatore, opera perché le cose si facciano, è operatore logico, ma non è agente. L’idea del dio agente è un’idea magica. Ognuno, pur nella sua idea di padronanza, pur auspicando la magia, avverte la complessità delle cose, delle sensazioni, delle emozioni, dei pensieri, la complessità delle istanze, delle esigenze, delle spinte in varie direzioni. E cosa fa? Per lo più ci pensa. Ci pensa, come alla morte. Alla morte ognuno pensa. Ma a cosa pensa? Non c’è chi possa dire di conoscere la morte. E dunque a cosa pensa quando dice che ci pensa? Pensa a qualcosa che gli sfugge, di cui non ha nessuna idea, eppure ognuno dice che ci pensa, oppure dice che ci pensa ma che farebbe meglio a non pensarci.
Per non pensarci più, per paura di pensarci, per paura di pensare non si sa bene a cosa, per paura di pensare a qualcosa che non si può né controllare né padroneggiare è sorta l’ipnosi. Con l’ipnosi non c’è più problema, non ci si pensa più, non c’è più da pensarci. Con l’ipnosi ognuno può farsi un concetto di sé, può farsi un concetto dell’Altro, può farsi un concetto delle cose; non già un’idea o un pensiero, no, un concetto, un concetto condiviso e standard, un concetto comune con cui le cose sono condivisibili, comprensibili, accomunabili, pensabili da ognuno, senza questione di particolarità. E senza particolarità, c’è la soggettività.
Con l’ipnosi le cose sono soggettive, cioè non stanno più nella parola, non stanno più nel loro viaggio, dalla condizione alla qualità, ma stanno nel concetto, nel discorso, nel canone. Stanno. Non vanno e vengono secondo la pulsione; stanno, sono tali, ipnotizzate e ognuno può farsene carico. Con l’ipnosi, anche le sensazioni vengono sottoposte a un’idea di padronanza, ritenendo di potere gestirle. E come? Convertendole in sentimenti. Non ci sono più sensazioni, ma sentimenti. Ogni sensazione diventa sentimento e, come tale, codificabile, per cui entra nel canone del sentimentale.
È sorta così, con questo scopo, la psicologia dei sentimenti, ossia lo sciocchezzaio generale soggettivo. Come sentire? Come devono essere i sentimenti? Il sentimentale è la sensazione che diviene mentale, mentalistica, che diviene mentalità. Mentalità delle sensazioni il sentimento. Ma può la sensazione iscriversi nella mentalità? Forse che ciascuno, con il suo sentire, può iscriversi in una mentalità, in un genere, in uno standard? Questo è il progetto dell’ipnosi, pedissequamente seguito dall’impostazione psicoterapica, che altro non è se non il tentativo di applicare a ognuno il fantasma di padronanza. Dunque, il controllo sulla particolarità e sulla singolarità sfocia nella creazione della magia, e l’idea di controllo sulla combinazione, sull’accadere, sulla ricerca sfocia nell’ipnosi.
Chi si rivolge all’ipnosi già denota un’impostazione economica della ricerca, un’impostazione economica sullo sforzo intellettuale. La verità dev’essere svelata da un altro, il ricercatore dev’essere un altro, non già ciascuno come ricercatore, ma ognuno sarebbe massa inerte su cui un altro deve svolgere la ricerca. Il soggetto dell’ipnosi è inerte, è materia inerte da cui dev’essere estratto il male. Dunque, c’è un’assoluta identità tra il soggetto dell’ipnosi e il soggetto socratico che si rivolge alla levatrice, al maieuta perché faccia il suo lavoro di estrazione a cui egli è del tutto indifferente. Levatrice, psicopompo, maieuta, psicoterapeuta, tutto ciò fa parte della costellazione magico ipnotica.
Ciò per introdurre e accennare qualcosa intorno alla Lampada di Aladino, titolo di questa serie d’incontri che affrontano varie questioni, varie figure dell’impostazione sostanzialista dilagante nell’epoca attuale. Dilagante perché accettata e perché poggia sull’idea più diffusa, che è quella di padronanza. E per indagare ciò, qualche spunto ci viene dalla lettura della fiaba Storia di Aladino e della lampada meravigliosa.
La storia. Qual è la storia di Aladino? Qual è la storia del viaggio? Qual è la storia di ciascuno, nel viaggio? Perché, se c’è viaggio, la storia è la storia del viaggio, è la storia che si scrive viaggiando; non è la storia del soggetto, non è l’anamnesi, non è la cartella clinica del soggetto, cioè non è la storia genealogica, ma è la storia del viaggio, è la storia intellettuale. È la storia. Ma cosa indica il termine storia? La ricerca. La storia è la ricerca che si scrive; non è l’ontologia, non è l’essere del soggetto, l’essere di qualcuno, ma è la ricerca che si scrive, che si racconta e si scrive; questo importa della storia.
Storia vera? Storia inventata? Quale storia? Quale storia non sarebbe vera? Storia menzognera? Chi racconta, mente o dice la verità? E quel che si effettua raccontando è vero, è verità? Le sensazioni, gli effetti di senso, di sapere, di verità sono veri, sono fasulli? Come sono? E da cosa dipendono? Chi può dire, senza analizzare, le combinazioni linguistiche che si producono raccontando? Chi può dire che ciò che si sta dicendo è o non è vero? Il paradosso del mentitore si volge nel paradosso della menzogna, ossia nel paradosso dell’impossibilità di stabilire prima quel che sia vero e quel che sia falso, che certo non si può stabilire sulla base del ricordo o della padronanza sulle cose che si crede di potere dire, perché il dire sovverte la padronanza e promuove la ricerca.
Dicevamo della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa, storia per lo più nota. Aladino è un fanciullo, e il racconto incomincia con il padre che muore, poverissimo, lasciando la famiglia in condizioni tribolate. Perché muore? Muore per i dispiaceri arrecatigli dal figlio, come si usa dire, di crepacuore. La madre di Aladino a mala pena riesce a procurare il cibo giorno per giorno. Aladino cresce apparentemente senza educazione e senza mostrare interesse per alcunché. Un giorno, mentre sta giocando per le strade, come suole ciascun giorno, viene avvicinato da un mago, il Mago Africano, potentissimo, che si spaccia per lo zio, e con alcuni stratagemmi si accaparra la fiducia sua e di sua madre. Lo porta in una caverna e gli fa trovare la lampada meravigliosa. Prima di farlo uscire dalla caverna, gli chiede di consegnargli la lampada, ma Aladino non gliela consegna. Anche se nella caverna, accanto alla lampada, aveva trovato un giardino meraviglioso con alberi da cui pendevano frutti straordinari, gemme, pietre preziose, monili di cui aveva fatto incetta, si rifiuta di consegnare la lampada. Esaurita la pazienza, il mago lo lascia nella caverna, abbandonandolo nelle viscere della terra. Dopo tre giorni senza luce e senza cibo, Aladino, sfiorando l’anello magico che gli aveva consegnato il mago, improvvisamente si trova dinanzi il genio e gli dice: “Fammi uscire”. Il genio lo fa uscire. “Dammi da mangiare, ho fame”, e il genio gli dà da mangiare. Sembra quasi di trovarsi nel Vangelo, con un’inversione e un rovesciamento tra la resurrezione di Cristo e le tentazioni da parte di Satana. Dopo tre giorni, Aladino torna all’aperto e il genio, novello Satana, ne soddisfa le richieste sostanzialiste.
Aladino, tornato a casa con la lampada e con tutti i frutti, vede la principessa figlia del sultano e si accorge che non tutte le donne sono come sua madre. Se ne innamora e manda la madre dal sultano per chiederla in sposa. Sempre con l’aiuto del genio, ma questa volta della lampada – perché c’è tutta una gerarchia anche dei geni: geni dell’anello, geni della lampada – manda al sultano doni ricchissimi, per cui egli comincia a prendere in considerazione Aladino. Aladino chiede in sposa la principessa e il sultano dice che ci deve pensare. Intanto, però, la dà in moglie al figlio del gran visir.
Aladino, che pensava di essere lui il promesso, informato che si stanno per celebrare le nozze tra la principessa e il figlio del visir manda il genio a rapirli, una prima e una seconda volta. Questi si spaventano, e il figlio del visir si spaventa ancora di più e rinuncia alla principessa. Aladino si rifà vivo presso il sultano con altri doni e ottiene finalmente la principessa in sposa. Immagina un palazzo meraviglioso e chiede al genio di costruirlo, e quando lo vede è proprio come l’aveva pensato. Sposa finalmente la ragazza. Ma ecco che, sul più bello, ritorna il mago che, mentre Aladino è in giro a divertirsi, con uno stratagemma si prende la lampada e rapisce la principessa. Aladino ritorna e non trova più la casa, né la principessa, né il palazzo, né la lampada, né gli schiavi; non trova più niente. Grazie però al genio dell’anello viene a sapere dov’è stato portato il suo palazzo. Arriva lì, uccide il mago e riporta a casa il tutto. Si fa una grande festa, ma ecco che arriva un altro mago, il fratello del Mago Africano che ne combina di cotte e di crude. Alla fine, anche lui viene ucciso da Aladino il quale, uccisi i due maghi, sposata la principessa, alla morte del sultano diventa egli stesso sultano. E qui termina la fiaba di Aladino e della lampada meravigliosa.
Ma tutti questi personaggi, chi sono? Da dove vengono? Chi è Aladino? Chi è Aladino che, figlio del sarto poverissimo, diventa sultano? E chi è la madre, equivalente generale di tutte le donne meno una? Sembra il rovesciamento del mito di Mirra. Mirra ambiva a tutti meno uno, qui, invece, tutte le donne sono come la madre, meno una. Chi sono questi due maghi e chi sono questi geni della lampada e dell’anello? Da dove vengono? Da dove viene questa lampada? Chi vuole azzardare qualche risposta a questi interrogativi per cominciare a capire qualcosa della famiglia di Aladino e qual è l’itinerario che Aladino compie?
Pubblico Il genio, jinn, in arabo significa spirito.
R.C. Spirito, sì. Infatti, è tradotto così, ma genio in italiano ha un’altra accezione. Qui è mantenuta linguisticamente l’adiacenza con la parola araba; sarebbe lo spirito della lampada.
Pubblico Il daimon.
R.C. Daimon ha un’altra accezione. La fiaba propone una genealogia, e dal fantasma di genealogia quale famiglia, quale traccia si lascia cogliere? Perché noi distinguiamo tra la genealogia e la famiglia come traccia, cioè la famiglia linguisticamente intesa, la famiglia come traccia linguistica, come traccia dell’interdizione, come traccia di ciò che si dice; non la famiglia come origine, ma la famiglia come traccia. Se si crede nella famiglia come origine, abbiamo l’invischiamento nel fantasma di origine, quindi nel fantasma di genealogia, che è l’altra faccia del fantasma di morte. Allora, mai Aladino potrebbe, figlio del sarto, diventare sultano, meno che mai in una fiaba della tradizione islamica. Come accade, quindi, che Aladino, figlio del sarto poverissimo, diviene sultano? Chi azzarda un’ipotesi?
Pubblico Io mi collegherei a quello che diceva lei all’inizio, volere è potere, al fatto che, non a caso, il genio esce fuori da un involucro. Io credo che il genio sia la consapevolezza, il prendere consapevolezza, una voce interiore onnipotente, la quale è chiusa all’interno di un involucro e viene attivata quando esce fuori dall’involucro. Quindi, secondo me, il genio è come una sorta di voce interiore che può tutto, purché ovviamente il soggetto lo desideri. Mi viene in mente una massima di Mao Tse-tung che diceva: “La volontà del villano spacca le montagne”.
R.C. Sì, anche Mao Tse-tung si appellava alla volontà che esige la presa di coscienza. La presa di coscienza come la presa della Bastiglia: occorre prendere la Bastiglia in modo che la rivoluzione possa avere il suo corso. La rivoluzione circolare, la rivoluzione per cui chi stava sopra poi starà sotto e chi stava sotto starà sopra. Occorre prendere la Bastiglia, occorre prendere coscienza, prendere consapevolezza della Bastiglia, in modo che la rivoluzione circolare abbia il suo corso. È una volontà di ispirazione rivoluzionaria. Ma di quale rivoluzione? Della rivoluzione circolare. La coscienza come indice di ciò che sta nel cerchio, quindi di ciò che è conoscibile, conosciuto, noto, condiviso, prevedibile, previsto.
Cecilia Maurantonio Si può dire che la materia è inerte? Ciò che lei prima chiamava inerte. Inerte, l’assenza di materia. La sostanza, la materia inerte.
R.C. Sì. La coscienza è la coscienza sostanziale. La presa di coscienza è la presa sulle cose, la presa sostanziale, è la presa che sarebbe possibile esercitare senza intellettualità, per volontà, per presa di coscienza. La mitologia della presa di coscienza bisogna esplorarla, attraversarla più che condividerla. Non c’è da prendere coscienza di niente, perché non c’è scienza comune, non c’è conoscenza comune; c’è il viaggio, con la sua condizione. È questo che importa, la condizione del viaggio, la sua direzione, gli accadimenti, la scrittura del viaggio. Tutto ciò è senza coscienza. Nel momento in cui avvenisse la presa di coscienza del viaggio, il viaggio finirebbe, perché quello intellettuale è un viaggio in assenza di coscienza. La condizione non è una condizione di coscienza, non procede dalla coscienza. È qualcosa, questo, che il discorso occidentale non gradisce molto, quasi non accetta, perché l’assenza di coscienza toglie fondamento al canone occidentale, alle prescrizioni.
C.M. Ho l’impressione che Aladino, in questo racconto, non sia poi così sprovveduto come può apparire, nel senso che, apparentemente, per esempio, decide di divenire responsabile in seguito alla morte del padre, per curarsi della mamma; però poi dimentica.
R.C. Di divenire responsabile?
C.M. Nella fiaba si racconta che lui non è responsabile, che è disobbediente, uno scapestrato; dovrebbe intraprendere la così detta buona via. Lui dice “Sì, sì”, però poi continua tranquillamente a fare ciò che ha sempre fatto, cioè nulla, a giocare.
R.C. Giocare non è che sia nulla.
C.M. Sì, a giocare, nulla di quanto gli era stato prescritto. Invece, tutto questo fascinamento nei confronti del pre¬sunto zio, il mago, mi sembra più un pretesto, una figura pretestuale, quasi un alibi. È una mia impressione.
R.C. Sì, siamo proprio nell’impressionismo.
C.M. Perché, quando il mago gli chiede la lampada, lui gliene inventa una sul momento: “Se tu mi tiri fuori, io ti do la lampada”.
R.C. Lei è rimasta colpita dagli aspetti domestici!
C.M. Sono rimasta colpita dal fatto che lui non si è neanche spaventato ri¬spetto all’ipotesi di potere rimanere lì, quindi mi pare che lui non sapesse già, come diceva lei prima, quale fosse cia¬scun passo del suo viaggio, lungo il viaggio.
R.C. Beh, in effetti, non c’è la paura della morte, in Aladino.
C.M. Non c’è questa paura. E poi vo¬levo chiedere qualcosa rispetto a un passo della lettura che riguarda il palazzo che Aladino fa costruire, con mille meraviglie che poi il sultano, il papà della principessa, va a ammirare. Aladino lascia una finestra non conclusa, non completa. Mi ha un po’ colpita questa finestra.
R.C. Come nella fiaba I dodici cigni, lei è rimasta colpita dal fatto che uno rimaneva con un braccino monco. Si ricorda?
C.M. Sì, mi ricordo. Però è bella la questione della finestra.
R.C. Bene. Altri? Domande, notazioni? Sì, prego. Lei è un nuovo nostro amico.
Pubblico Io in mente avevo qualcosa d’altro, però adesso la notazione sui dodici cigni, di cui uno è monco, mi ha fatto venire in mente i dodici apostoli, di cui uno è monco e poi tradirà. Così, anche il fatto che lei facesse il parallelo fra il genio e Satana, ha detto “novello Satana”, che aiuta Aladino a risolvere le cose sostanziali. Io, tempo addietro, ho letto un libro di carattere new age, credo Il cammino di Santiago in cui c’è un esercizio per richiamare la figura di Satana proprio per risolvere le cose di questo mondo.
R.C. Ecco. Beh, certo.
Pubblico Se ho ben capito, lei vede la storia di Aladino come paradigma di una volontà mortifera, perché, come per la presa della Bastiglia, chi stava sotto va sopra e viceversa. C’è un qualcosa che toglie l’incanto del mondo. Se ho ben capito, qualcosa che fa morire il viaggio, fa morire l’incoscienza del viaggio, cioè Aladino è la coscienza. Però, se è così, il viaggio è l’incoscienza di non sentirsi parte di un qualcosa che poi è un qualcosa che festosamente va alla morte. Penso al messaggio di Cristo, che è libertà pura, almeno secondo quello che io sento in giro. Libertà pura di un viaggio che è anche un incanto. C’è un bellissimo libro di un teologo, Parole da mangiare, a cui ho pensato quando lei, prima, si chiedeva se quando si racconta una storia, non siano le parole, diciamo, a creare quella storia, indipendentemente dal fatto che la storia sia vera o no. In questo libro si narra di un paese morto, di un paese dove gli abitanti sono morti, sono degli zombi, e un giorno arriva un cadavere. Le donne s’interrogano sul cadavere, e da lì nascono le storie su quello che poteva essere un vissuto, una vita precedente del cadavere. E da allora, sul nulla, praticamente su parole, rinasce quel paese, rinasce da una sorta d’incanto, non da qualcosa di reale, non dalla presa della Bastiglia. Aladino, se ho capito il suo pensiero, è paradigma di una volontà, di una presa della Bastiglia che però è un cerchio, è una circolarità che non porta a nulla di nuovo. E questo già da duemila anni se non prima; ma noi abbiamo Cristo come figura d’incanto. Ho letto che “Cristo è forse una via verso un sogno”, il sogno di ogni essere umano che è necessario per vivere, altrimenti gli aladini diventano sultani e poi si ricomincia tutto da capo.
Riccardo Banzato C’è una differenza. Mentre Aladino accetta praticamente i vessilli del mago, accetta di realizzare i suoi desideri, Cristo non accetta i desideri che Satana vorrebbe che Cristo esprimesse, e infatti lo caccia. È questa la differenza sostanziale.
R.C. L’incanto. Lei dà qui un’accezione d’incanto senza incantesimo. L’incanto in cui le cose accadono, l’incanto per cui le cose accadono. Il canto, l’incanto, la canzone. Incanto senza incantesimo. Invece, in Aladino, si tratta dell’incantesimo. Ogni cosa sarebbe incantata, ma l’incanto è senza incantamento.
Pubblico Aladino, in arabo significa “prescelto”. Io credo che il mago l’abbia prescelto fin da quando Aladino era scapestrato. Il Mago Africano lo vedo come istinto, ciò che dà una spinta e che sovverte, come la lampada. La lampada è sinonimo di luce, per cui, secondo me, non a caso è una lampada e non qualcos’altro. Non è un caso il fatto che il mago sia africano e non è un caso che Aladino abbia questo nome.
R.C. Certo. Il prescelto, come dire il predestinato. Questa è una notazione interessante perché si tratta, come dicevamo, della fiaba. Noi leggiamo la fiaba, cioè leggiamo la fantasia di cui la fiaba narra. Allora, chi è Aladino, chi è il protagonista della fiaba, chi sono i personaggi della fiaba? Essi, in quanto personaggi della fiaba, non sono reali, ma sono personaggi fantasmatici. Noi cogliamo che muore il padre di Aladino, e a quel punto, Aladino ha, per dir così, due padri. Il padre si sdoppia e c’è il padre che dice sempre di no e il padre che dice sempre di sì, il padre come mago e il padre come genio, il padre buono e il padre malvagio. Quindi, il padre muore e, morendo, entra in una anfibologia, in uno sdoppiamento. Ma, muore il padre? Il padre muore?
Nella parola, il padre non muore. Nella genealogia forse sì ma, nella parola, non muore. Adesso noi siamo qui per ragionare, per riflettere, non per trarre subito tutte le conclusioni, perché abbiamo molto cammino da fare, molta strada da percorrere. Occorre tenere conto che la fiaba si trova a un certo punto delle Mille e una notte, così come che l’origine della fiaba non è nota e sembra sia stata aggiunta in un secondo momento rispetto al corpus originario delle Mille e una notte. Tuttavia, si trova in questo viaggio, nell’aritmetica delle Mille e una notte, che è un altro elemento che ci consente di leggerla in un certo modo, cioè analizzandola come qualcosa che sta nel fantasma di genealogia, che, come dicevo, ha come sua altra faccia il fantasma di origine. E il fantasma rispetto all’origine è complesso.
Ognuno, rispetto all’origine ci pensa, e ci pensa come vendetta dell’origine, come colpa dell’origine, come pena dell’origine. Pensandoci e credendoci per lo più ci s’impedisce il viaggio con questo criterio: per un’idea di vendetta quanto all’origine, per un’idea di colpa quanto all’origine, per un’idea di pena quanto all’origine. E, così, ognuno si rappresenta la vita come vendetta, come colpa o come pena dell’origine. Senza l’attraversamento del fantasma di origine, cioè del fantasma di padronanza, abbiamo il mondo come rappresentazione di questa credenza. È chiaro che, a partire dalla credenza nell’origine, ognuno si predispone alla fine che si merita e, quindi come vendetta, come colpa e come pena. C’è chi si limita o si trattiene per evitare la morte con la sua economia, o aspetta che il destino si compia, dato che la sentenza è già data e nulla si può fare. Si considera virtualmente morto, già morto, oppure auspica la fine quanto prima di tutte le cose perché possa finalmente cominciare il mondo ideale. Tutto deve finire perché qualcosa possa finalmente cominciare nella purezza. Oppure c’è chi pratica la vendetta negando ogni appartenenza e, con questo, ogni avvenire. Qual è il caso di Aladino fra questi o altri? Qual è l’idea che Aladino ha dell’origine, della fine, della genealogia, della famiglia? Sono questioni essenziali per intendere la storia di Aladino, direbbe qualcuno “La vera storia di Aladino e della sua lampada”.
Adesso abbiamo posto alcuni interrogativi e abbiamo dinanzi a noi alcuni giorni per esplorarli. Proseguiamo, perché è una storia complessa e non è che si possa risolvere così, in una serata. Lei, come si chiama, nostro nuovo amico?
Andrea Andrea.
R.C. Andrea. Studia?
A. No.
R.C. Lavora?
A. Nemmeno. È un momento di stasi.
R.C. È un momento di stasi. Ha studiato.
A. Sì.
R.C. Ha lavorato.
A. Anche.
R.C. E legge.
A. Leggevo anni fa.
R.C. E adesso non legge più. Né in maniera disordinata né ordinata.
A. Sì.
R.C. E che cosa le impedisce di leggere?
A. Mah, un’irrequietezza personale. Un tempo ero letto da quello che leggevo; adesso non trovo più quello che mi possa leggere.
R.C. Va bene. Quindi c’è qualche nodo da affrontare.
Pubblico Non ho capito chi è il Mago Africano, perché il viaggio e quando ha inizio, il momento in cui Aladino incontra la novità. Volevo capire chi è il Mago Africano e quando inizia il viaggio.
R.C. Adesso lei fa una domanda veramente impegnativa proprio all’ultimo minuto, che esigerebbe tutta una conferenza per rispondere, sopra tutto per quanto attiene alla parte che riguarda il viaggio. Intanto, in parte abbiamo risposto che il Mago Africano è lo sdoppiamento del padre, è l’idea che Aladino ha del padre in quanto morto. Il Mago Africano irrompe nella scena “a babbo morto”, per dir così. Morto il padre, arrivano due padri: il Mago Africano e il genio della lampada, il padre buono, il genio, e il padre malvagio, il Mago Africano. Quindi il mago nella fiaba è l’idea del padre come padre malvagio.
La lampada dell’erotismo
Ruggero Chinaglia C’è qualche sugge¬rimento, riflessione o l’esigenza di qualche chiarimento?
Andrea È possibile avere una breve sintesi degli argomenti affrontati nello scorso dibattito?
R.C. Lei c’era la settimana scorsa? Ah, ecco, non c’era. Impossibile recuperare, perché noi facciamo l’analisi. Come si può fare la sintesi? La breve sintesi è im¬possibile. La brevità è una proprietà dell’itinerario, ma non può mai giungere alla sintesi. Perché, si chiederà lei, non può giungere alla sintesi? Perché non c’è sintesi possibile. Il processo di qualifica¬zione avviene per divisione, e la divi¬sione è senza rimedio. Sintesi indica la ricomposizione che sarebbe togliere la divisione per attuare una ri-composizione. Ma questo sarebbe un proce¬dimento “contro natura”, contro la natura delle cose, in quanto la natura delle cose ri¬sente della divisione. Non è nei nostri mezzi attuare una sintesi, attuare una ri¬composizione che è solo ideale, perché il processo per divisione è struttu¬rale. Non è che lo vogliamo noi, ma è che, non volendolo, avverrebbe in un altro modo. Invece no, la divisione è un processo irreparabile, senza rimedio!
A. Comunque, c’è anche un modo più semplice per avere la sintesi di quel che è stato detto la settimana scorsa. Ci sono delle cassette che vengono regi¬strate, quindi, se uno volesse, può fare a casa una sintesi se sono disponibili le cassette. Poi, penso che sarebbe molto divertente potere risen¬tire con calma quello che viene esposto qui e pensare su quanto detto, con calma.
R.C. Sì, ma non sarebbe comunque una sintesi.
A. Ma, infatti, perché cercare la sintesi quando abbiamo la tecnologia?
R.C. Già, perché?
A. Chi lo stabilisce? È più sem¬plice!
R.C. Ah, ecco, una questione di como¬dità!
A. Di economia.
R.C. Di economia. Lei è capitato questa sera nel posto giusto al momento giusto.
A. Lo so.
R.C. E per di più lo sa. È per quello che è venuto?
A. Sì, perché m’interessava molto il titolo di stasera.
R.C. E conta di trovare quello che cerca?
A. Di ascoltare un interessante punto di vista.
R.C. Un punto di vista, il mero punto di vista. Ah, ho capito.
A. Stimolante.
R.C. Pure! Uno stimolante punto di vi¬sta. È per questi stessi motivi che la settimana scorsa non c’era?
A. No.
R.C. Per altri motivi?
A. Mah, non so se erano altri op¬pure no, erano motivi miei.
R.C. Se erano suoi, non veniamo nean¬che a sindacare. Ma lei ha letto la fiaba di Aladino e della lampada meravigliosa?
A. Me l’hanno letta da piccolo.
R.C. Da piccolo. Sempre per co¬modo ha ritenuto di non andare a rileg¬gerla?
A. Diciamo che comunque uno fa una selezione di quello che può leggere, giusto?
R.C. In base a cosa fa una selezione?
A. In base alle indicazioni che trova.
R.C. Quindi, a bella posta lei non l’ha letta?
A. No, perché?
R.C. Applicando questo principio di selezione.
A. No! Il fatto è che, secondo me, uno può avere buona volontà nelle cose, in tutto quello che fa, però si scontra con dei limiti che, piaccia o no, per quanto mi riguarda sono oggettivi.
R.C. Esatto.
A. Poi possiamo discutere.
R.C. Per quanto la riguarda, lei ha ra¬gione.
A. Per quanto mi riguarda, sì.
R.C. Ma solo per quanto la riguarda! Effettivamente, la buona volontà non ba¬sta, non basta a nulla. La buona volontà sarebbe ispirata al principio di causa suf¬ficiente.
Pubblico Io volevo portare un esempio, fare una domanda: si parla della lampada…
R.C. Ne stiamo parlando.
Pubblico Secondo lei, se lei domani decide di fare una gara come Ben John¬son, per esempio, basta la buona volontà?
R.C. Non erano male quei risultati. Per cominciare andrebbero anche bene! Eb¬bene?
Pubblico Lei, che pensiero fa?
R.C. Ah, questa è la sua curiosità? Proprio Ben Johnson. Lei ha scelto pro¬prio uno a caso.
Pubblico Mi sembra che sia chiara la mia domanda. Se lei vuole rispondere, bene.
R.C. La sua domanda è chiara, e adesso vediamo di rispondere. Ma lei ha chiamato in causa la buona volontà per giustificare che cosa? Accennava a dei limiti personali.
Pubblico I limiti non sono personali, esi¬stono. Giusto?
R.C. E quindi?
Pubblico Quindi, la domanda… Se no la cosa si trasforma in una seduta di psicanalisi.
R.C. Addirittura!
Pubblico C’è scritto Ruggero Chinaglia, ci¬frante e psicanalista.
R.C. Dove?
Pubblico Sul manifesto appeso alla porta.
R.C. Io non leggo nel manifesto le cose che lei dice.
Pubblico È vero, non c’è scritto psicoanali¬sta, ma cifrante, però nel primo ciclo di conferenze a cui ho assistito c’era scritto anche psicoanalista. Giusto?
R.C. E questo farebbe problema?
Pubblico No, non ci sono problemi. C’è una domanda, non c’è una risposta e c’è una scena che sta accadendo.
R.C. Però io ho preso nota. Adesso ve¬diamo se nel corso dell’incontro riu¬sciamo a rispondere. Altre domande? Lei aveva terminato? Perché è stata un po’ interrotta la nostra conversazione dall’irruenza del nostro amico.
A. Forse volevo cambiare sintesi in ripetizione. È possibile?
R.C. Lei ha letto questa fiaba?
A. Grosso modo, si può dire, anni che furono.
R.C. Cioè se l’è fatta raccontare. Però è differente leggerla. Può essere anche istruttivo. Ma nel corso di queste “sedute”, come dice il nostro amico, noi faremo la lettura della fiaba, anzi la stiamo già facendo. La settimana scorsa avevamo terminato chiedendoci chi fosse Aladino, in particolare chiedendoci se fosse il figlio del sarto, come dice la fiaba, o, per caso, il figlio del sultano, dato che questo sembra essere il suo de¬stino, e ci chiedevamo anche perché ha bisogno della lampada. Che cosa indica la lampada dato che nella fiaba ciascuna cosa procede dalla lam¬pada? Questo ci incuriosisce assai, per¬ché non bisogna nemmeno trascurare, nella lettura di questa fiaba, che a rac¬contarla è Shahrazàd, la figlia del visir che la racconta al sultano. Perché gliela rac¬conta? Questo è noto, ap¬parentemente la racconta per impedire al sultano di ucciderla. Apparentemente. Poi, saranno da individuare motivi ulte¬riori. Ma la fiaba di Aladino è rac¬contata da Shahrazàd, e questo è un ele¬mento di cui tenere conto. Adesso ve¬diamo perché non è elemento trascura¬bile.
Dunque, Aladino ritiene di essere predestinato a diventare il sultano più ricco del mondo, ha questa predestina¬zione il cui segno, possiamo dire anche l’origine di questa predestinazione, sta proprio nella lampada che gli è affidata dal mago. Il Mago Africano è il personaggio che ir¬rompe nella fiaba dopo che il padre di Aladino è morto. Dicevamo che il mago è lo sdoppiamento del padre morto; il padre morto si sdoppia nel padre buono e nel padre malvagio, e il Mago Africano è il padre malvagio, mentre il padre buono è il genio della lampada.
La lampada assi¬curerebbe la predestinazione e la genealogia di Aladino; quindi, in questa genealogia, Aladino non è più il figlio del sarto, ma sarebbe il figlio del sultano. Ma questo è un capitolo che per il momento lasciamo in sospeso. È però un dettaglio importante il mago, in quanto è il mago a dire a Aladino che è destinato, anzi, predesti¬nato a diventare il sultano più ricco del mondo. Dunque, c’è questa scena in cui al figlio del sarto poverissimo tutto sarebbe precluso e l’avvenire negato. Miseria e povertà le caratteristiche di questo avve¬nire, mentre al figlio del sultano sareb¬bero concessi tutti i beni e tutte le ric¬chezze. Per Aladino, una volta entrato in possesso della lampada, s’instaura un in¬cantesimo per il quale ogni cosa che serve viene dalla lampada in quanto tale. Lui ordina al genio della lampada e la cosa si realizza, però nei termini in cui è stata ordinata. È questo l’incantesimo: la lampada fornisce a Aladino ogni cosa senza differenza e senza variazione ri¬spetto a come Aladino comanda.
In que¬sto incantesimo, in questo incantamento genealogico, la differenza e la variazione sarebbero considerati un maleficio. Ogni differenza rispetto a come le cose devono essere, a come sono volute, a come sono ordinate da Aladino sarebbe il se¬gno del maleficio, del male, della corruzione, il segno dell’incesto. In questa genealo¬gia, in questa discendenza diretta dall’origine, dalla lampada, le cose non avvengono, non accadono, non diven¬gono, ma “sono”, sono in quanto tali. È questo l’incantesimo! Aladino ordina alla lam¬pada, ma è senza pa¬rola. La vita di Aladino è senza parola e vive nell’oscillazione tra il beneficio e il maleficio.
La predestinazione di Aladino, più che la sua vita, come dicevamo all’inizio, è la sintesi della sua origine, è la sintesi della lampada, è la breve sintesi del suo de¬stino; come dire che a Aladino è tolta la vita. Si chiarirà meglio nel corso della se¬rata questo dettaglio. Alla vita di Ala¬dino, in modo particolare, è tolto il go¬dimento, il desiderio, il piacere. Ciò che dà il suo statuto alla vita è la domanda con le sue vicende, il suo svolgimento, la sua ricerca, la sua riuscita, con i disposi¬tivi che la riuscita esige. Tutto ciò per Aladino è tolto. C’è la lampada, ci sono le cose, e basta ordinare alla lampada e le cose “sono”. Quindi, la lampada toglie a Aladino l’itinerario. Aladino, nella sua predestinazione, ritiene che per diventare sultano, per essere sultano, deve avere le cose, deve possederle. Avere per essere. È in questa mitologia che si trova Aladino. Per diventare sul¬tano deve avere gli schiavi, le schiave, le ricchezze, il palazzo, i beni, deve avere tutte queste cose, e la lampada gliele fornisce, perché senza queste cose non sarebbe mai il sultano. Senza le cose, Aladino è il povero Aladino, miserrimo, figlio di un sarto, senza nemmeno l’indispensabile per sopravvivere. Senza le cose, senza avere le cose, non è. E la lampada sarebbe la condizione di questo avere e di questo essere.
Nes¬suno sforzo per Aladino se non quello di ordinare alla lampada di procurare le cose, di avere le cose. Questo è il suo destino: per essere, deve avere! Se non ha, non è! Questo è il suo destino, questa è la sua condanna. Se non ha, muore. Se non è, muore. Per avere deve uccidere. In questa predesti¬nazione sono previsti la morte e l’assassinio. Il pericolo è quello di non avere e di non essere. Corollari della condanna a questo destino sono la ven¬detta, la colpa, la pena, con le rispettive rappresentazioni, corollari che indicano propriamente l’assenza della parola, l’assenza della parola originaria e la fan¬tasmatica sostanzialista.
Pubblico Che termine diceva? Fantasma¬tica?
R.C. Sì. Nella fantasmatica dell’idea sostanzialista non c’è il processo di qualificazione, ma le cose sono tali.
Pubblico Che cosa vuole dire “tali”?
R.C. Sostanziali, sono tali. Non en¬trano nella parola, ma sono in quanto tali, per cui non esigono nessuna ricerca, nessuno sforzo, nessuna do¬manda, nessun percorso, nessun cam¬mino, nessuna vicenda, nessun racconto, nessuna descrizione, nessuna ingegneria, ma “sono”, sono così e arrivano così dalla lam¬pada. Si tratta, dunque, di essere sulla scia della lampada, sulla linea della lampada. Si tratta di potere usufruire dei benefici della lampada, di avere la lam¬pada, di conoscere la lampada, di trattare la lampada, di sapere come usare la lam¬pada. Non serve altro, basta la lampada.
La formula giuridica dell’assoluzione va dal non avere commesso il fatto alla con¬statazione che il fatto non sussiste. Que-sta è una formula interessante: “Il fatto non sussiste”! Formula che, se considerata nel suo estremismo, dovrebbe portare all’abolizione del reato di falsa testimo¬nianza, perché, se il fatto non sussiste, come potrebbe essere testimoniato in modo univoco? Ciascuna cosa non è tale, ma entra nel racconto e in un processo di qualificazione, per cui diffe¬risce e varia ciascuna volta, non da per¬sona a persona, ma persino di volta in volta. Se io racconto qualcosa adesso, non è lo stesso racconto che posso fare domani o prima o dopo, perché il fatto non sussiste.
Le cose non vengono dalla lampada in quanto tali. Da dove ven-gono? E dove vanno? E come ci vanno? Vanno per via di racconto. Senza rac¬conto non vanno da nessuna parte. Quindi, vanno per via di parola, per via di ricerca, per via di analisi, cioè per via di assoluzione. Cioè, la constatazione che il fatto non sussiste, che il fatto non c’è più, è il teorema dell’analisi. Da quando la parola è originaria non c’è più il fatto in quanto tale. Il fatto non sussi¬ste. Dunque, il fatto non c’è più perché non c’è mai stato nella parola. Nella pa¬rola originaria, il fatto non sussiste, non c’è mai stato. Allora, com’è che si è in¬staurata “l’idea del fatto”, che possa esserci “il fatto”, che possano esserci le cose in quanto tali, senza differenza, senza varia¬zione, senza sfumatura, senza racconto, senza funzionamento linguistico, quindi senza metafora, senza spostamento, senza catacresi? L’obiettività!
Pubblico Cos’è la catacresi?
R.C. L’abuso, l’abuso linguistico. Katà to kreon, secondo l’occorrenza. Cata¬cresi, abuso linguistico.
Pubblico Sarà la voce del verbo crino.
R.C. Crino, clino, clinein, crinein cli¬nica, giudizio, piega, piegatura; è la que¬stione dell’occorrenza linguistica.
Pubblico Cancellare.
R.C. No, giudicare. Clino piegare. La piega. Sono momenti differenti del pro¬cesso, della procedura di qualificazione per cui le cose si dicono, e dicendosi si dividono, e dividendosi si piegano, e pie¬gandosi vanno in direzione della cifra. Non sono mai tali. La clinica è in direzione della qualificazione. La cli¬nica è ciò che consente di cogliere qual¬cosa nello specifico. La clinica, così come il giudizio. Non è il giudizio mo¬rale, è il giudizio dell’Altro, il giudizio che procede dalla molteplicità, giudizio temporale.
La complessità linguistica è intoglibile, complessità che è propria della parola e mai può essere espunta a favore del gergo, a favore di una lingua unica, comune, che sarebbe la lingua con cui Aladino si rivolge alla lampada, nell’incantamento, nell’incantesimo. Ma ciò che entra nella struttura del racconto ha la sua condizione nell’assoluto e la sua prerogativa nell’assoluzione.
Assolu¬zione, analysis è lo scioglimento da qualunque origine, da qualunque signifi¬cato dato, da qualunque detto predeter¬minato perché la lingua si avvale della metafora, della metonimia, della cata¬cresi, essenziali nel processo di qualifica¬zione, imprevedibili, non certamente atti volontari o predeterminabili o predeter¬minati. Possiamo dire che sono assoluta¬mente senza coscienza. Il modo con cui metafora, metonimia, catacresi interven¬gono parlando, è totalmente estraneo alla volontà e alla coscienza, e l’esperienza della parola originaria è innanzi tutto esperienza di questa assoluzione. E come corollario possiamo dire che non c’è più lingua comune.
Nessuno parla la stessa lingua, addirittura nessuno parla la sua lingua e nessuno dice ciò che vuole dire. L’analisi indica l’assoluzione dal volere dire, dal potere dire, dal dovere dire, dalle modalità predeterminate del dire. Cioè, il funzionamento della parola, parlando, comporta l’impadroneggiabilità della parola, l’assoluta assenza di padronanza e di controllo sulla parola, su ciò che si dice. E l’impadroneggiabilità, questa as¬senza di controllo senza rimedio, ha come indici qualcosa che ha scatenato la reazione contro la pa¬rola originaria, indici che sono la castrazione, la mancanza e il limite.
Castrazione, mancanza, limite: tre ter¬mini, tre significanti aborriti. Castra¬zione? Per carità, non ne parliamo nean¬che! Mancanza? “Non manco di nulla io! Sono tutto d’un pezzo”. Limiti? “Io non ho limiti”. Oppure il contrario: “E sì, purtroppo sono stato totalmente castrato, sono mancante di ogni cosa”! In un caso o nell’altro questi termini vengono rappresentati soggettivamente come attributi dell’essere o dell’avere, attributi soggettivi, per cui la castrazione è intesa come castrazione soggettiva, la mancanza come mancanza soggettiva, mancanza di qualcosa, e il limite come limite personale, come impedimento ri-spetto a qualcosa. È il modo di ragionare di Aladino. Aladino ragiona così! Per¬tanto, deve ricorrere alla lampada come rimedio alla castrazione, alla mancanza e al limite.
Ma di cosa si tratta, nella pa¬rola, quanto alla castrazione, alla man¬canza e al limite? La castrazione è ciò per cui c’è il godimento, e il godimento non è mai completo, non è mai finito, non raggiunge mai il colmo, cioè la castra¬zione avviene in un dispendio senza conteni¬mento, la castrazione è il dispendio pulsionale, è il di¬spendio della parola sul versante della rimozione, è il dispendio costituito dallo sforzo di parlare, dallo sforzo intellet¬tuale, dallo sforzo di dire ciò che si vuole dire senza mai potere farlo. Questa è la castrazione, perché dicendosi le cose non sono ma divengono; avvengono e divengono, entrano in un processo tem¬porale per cui si dividono, dividendosi si piegano, piegandosi si odono.
Tutto ciò producendo una traduzione, un fun¬zionamento che produce una traduzione. Non è la stessa parola, non è la stessa cosa. Quel che si racconta è differente e vario. In questo sta la castra¬zione, in un dispendio inesauribile il cui effetto è per un verso il senso, per l’altro il godimento. Allora, la castrazione è la sensazione dell’inesauribilità del di¬spendio. L’inesauribilità del dispendio è la castrazione. Quindi, castrazione di qual¬cuno? No! Castrazione personale? No, affatto! Castrazione nel processo di qua¬lificazione della parola, castrazione nel dire. Castrazione che si ha nel gerun¬dio, dicendo.
Dicendo, dicendosi, le cose si espongono alla castrazione, esigono la castrazione. Nulla di negativo, nulla di male, anzi, è qualcosa di strutturale, è qualcosa senza cui il godimento non si effettua, ma è anche qualcosa di non pa¬droneggiabile, su cui non può essere esercitato il controllo, da cui la reazione con la sua prescrizione alla padronanza.
La volontà: se vuoi, puoi! Vuoi chi, puoi che cosa? Tu chi? Chi sarebbe questo soggetto volente? Chi sarebbe? È il sog¬getto che si esaurisce, il soggetto dell’esaurimento, soggetto esauribile. È il soggetto oggi alla moda, ossia il soggetto depresso. La depressione altro non è se non il modo con cui viene chiamata la reazione alla castrazione, l’evitamento della castrazione, il rimedio alla castra-zione. Come? Abolendo la parola, abo¬lendo i dispositivi di parola e assumendo la sostanza, assumendo la prescrizione genealogica, assumendo la lampada di Aladino, la lampada che fornisce le cose così come devono essere, come dovreb¬bero essere. Infatti, il godimento, in quanto effetto dell’atto di parola, è inassegnabile, non può essere assegnato, pre¬visto, quantificato, predeterminato, pre¬scritto, e quindi la castrazione è il corol¬lario di questa non assegnabilità del go¬dimento.
Contrariamente a quanto viene pubblicizzato, propagandato da ogni soggettivista, da ogni soggetto, la castrazione è ciò che lascia godere nel varco tra un equivoco e un altro equi¬voco. Nel varco, non nel continuum né nella sintesi. Nel varco. Cioè, il godi¬mento non è riproducibile. È proprio qui la questione. È contro la non ripro¬ducibilità del godimento che sorge la rea¬zione alla castrazione, tentando di isti¬tuire una precettistica del godimento, una riproducibilità del godimento, cercando di localizzare dove, come, quando stia, sia, avvenga il godimento, in che misura e in che quantità. E non è l’ideologia della droga, questa? Non è la stessa ideologia della droga quella che propone una ri¬producibilità scientifica del godimento con la sua posologia? “Mi faccio una dose di godimento”. “Quando?”. “Adesso, dopo, più tardi, quando ne ho voglia”. Mitologia che insegue la fantasia, l’idea di una sostanza che possa fornire il godimento in misura nota e ri-producibile.
Questa riproducibilità delle cose oggi è pubblicizzata come scientifi¬cità. La scientificità di un metodo sta nella sua possibile riproduzione, riproducibilità. Ciò che è riproducibile è scientifico per¬ché così non c’è castrazione, non c’è mancanza; abbiamo le cose che vogliamo e quindi siamo. Cosa siamo? Cosa? Quindi, questa mitologia sostanzialista che mira a espungere la castrazione sotto l’egida della padronanza, risponde a una certa idea di pienezza di sé, senza cui il soggetto sarebbe mancante o perdente o privo, privato di qualcosa. E dato che sarebbe mancante o privo o limitato, deve sopperire con la droga perché non ha ciò che gli consentirebbe di essere. Perché non ce l’ha? Perché gli sarebbe stato tolto o perché ne sarebbe stato pri¬vato o perché ne sarebbe mancante.
E questo è il caso emblematico dell’epoca attorno a cui si è radunata l’Italia in que¬sti giorni, il caso solenne di Pantani, il caso dell’eroe sfortunato che è stato pri¬vato dell’aura, del titolo e che, dunque, è caduto nell’abisso della droga. Occorre analizzare allora questo caso che trova l’Italia commossa, con una commozione cerebrale di dimensione nazionale; tutti cervelli commossi. Una volta questo caso di commozione cerebrale sarebbe stato definito “buttare i cervelli all’ammasso”. Adesso no, è semplicemente un caso di commozione cerebrale nazionale che, tuttavia, fa riflettere sull’entità, la qualità di questi cervelli che, se pur commossi, dovrebbero pure essere cervelli. Ma la commozione è senza cervello, questo è il punto.
Questo è il caso di un soggetto della pienezza, della vittoria, della ricchezza, della potenza, il soggetto a cui, improvvisamente, viene tolta proprio la vittoria, la ric¬chezza, il titolo e viene dichia-rato impostore. Che cosa accade a questo soggetto? Questo soggetto, che dunque non ha più un posto nella genea¬logia, questo soggetto muore. Chiara¬mente, muore. Ma non c’è ombra di dub¬bio che sarebbe morto. Lo constatai que¬sta estate dopo che comparve sui giornali la notizia che era stato ricoverato nel non plus ultra, nel luogo della resurrezione, dove veniva sottoposto a test psicodia¬gnostici e a terapie motivazionali. Proprio la tecnologia per il ripristino della soggettività. Peccato non avere qui il quotidiano di ieri che celebrava i fasti di questa tecnica.
Ebbene Pantani muore perché non poteva andare differente-mente. Essendo soggetto della genealo¬gia, essendo soggetto della vitto¬ria, essendo soggetto sostanziale, senza parola, soggetto della lampada, muore, e al colmo, al massimo della celebrazione, la commozione na¬zionale lo dichiara malato di mente. Per quello è morto: era malato, malato di mente! La nazione è salva, è morto sem¬plicemente un malato di mente. Nessuno c’entra. Qualche cattiva compagnia, è chiaro, ma il sistema è salvo, il sistema è sano, è lui che era malato, era depresso, un caso di malattia. E, perbacco, ci com¬muoviamo, ma prendiamone atto: era malato!
Quindi, da una parte resta la mitologia sostanzialista del campione, campione innocente, dall’altra viene sal¬vato l’uomo. È morto perché era malato, ma l’uomo è sano. Era un brav’uomo. L’umanità è salva. Purtroppo, alcuni si ammalano, pazienza, ma il genere è salvo, il discorso che lo sostiene è valido. Non è nemmeno il caso di indagare sulla questione, va tutto bene, è morto un ma¬lato. Commuoviamoci perché dispiace sempre, un così bravo ragazzo, ma per il resto tutto bene. Nulla gli è imputabile: le scelte sbagliate, l’uso della droga, l’eventuale doping; era malato, senza re¬sponsabilità. Il soggetto ammalato è il soggetto senza responsabilità.
Dunque, è salva la trimurti del discorso occidentale per cui il soggetto è soggetto debole, incapace, malato, tri¬murti su cui si regge, diciamo così, tutta la schiera dei professionisti della morte, della morte bianca. D’altronde, forse si sarebbe potuto salvare, ma avrebbe do¬vuto rimanere nel luogo indicato dai pro¬fessionisti della morte. Allora sì, forse. Ma è stato rapito dal gorgo da cui non c’è ritorno, il gorgo della depres¬sione. Avete provato a leggere i giornali?
Pubblico Dicono depressione biologica.
R.C. Biologica, certo!
Pubblico Non reattiva.
R.C. Non reattiva, biologica, cioè proprio predestinata. Era predestinato a mo¬rire, biologicamente predestinato! Una depressione biologica. Chiaro!
Ora, è un caso emblematico per vari mo¬tivi. Effettivamente c’è stata una perse¬cuzione. Quanti processi con imputazioni senza base giuridica! Non c’è una legge per la quale potere essere imputato, ciono¬nostante gli hanno istruito una serie di processi. Il giorno prima della conclu¬sione di un Giro d’Italia, dicono che non è a posto e lo squalificano. Ma non è questo ciò per cui è morto. È morto per¬ché si è fatto vittima. Si è fatto soggetto della persecuzione e si è lasciato andare.
È questa la questione della de¬pressione, cioè del lasciarsi andare alla soggettività, perché è chiaro che a un certo punto è venuta meno la spinta, è venuta meno l’istanza di vita essendosi costituito come soggetto della sconfitta, come vittima. Chi si fa vittima, muore. Questa è la questione. L’abbiamo verifi¬cato in tante circostanze. Mani pulite; quante persone si sono fatte vittima e sono morte, ma non per suicidio, in modo vario: chi ha avuto l’infarto, chi ha avuto il cancro, chi ha avuto l’ictus, chi ha avuto altre rappresentazioni del male. Farsi vittima è come dire cedere all’idea di fine. È un modo per applicare la condanna, applicare la colpa e applicare la pena.
Ognuno ha la sua idea della vendetta, della colpa e della pena e c’è anche chi si somministra, con posologia differente, ora la vendetta, ora la pena. La castra¬zione, dicevamo prima, è inconscia, è originaria, è inassegnabile e inattribui¬bile, così come il godimento. Ma istituire la coscienza della castrazione, cioè loca-lizzare la castrazione in qualcosa, in qualcosa che viene tolto, in qualcosa che viene strappato, in qualcosa di cui venire privati, questo istituisce la castrazione come malattia, il vittimismo come malat¬tia, e di rappresentare il segno di questa ferita, il segno di ciò che è stato tolto, fino alla morte.
Ora, è il caso appena di constatare, per concludere la questione, che Pantani si è inflitto la pena, si è inflitto da sé la massima pena, evidentemente per una coscienza di colpa, credendo alla colpa che nessun tri¬bunale gli aveva tuttavia riconosciuto. Nessun tribunale l’aveva condannato, ma si è inflitto la massima pena. Questo, sia che si sia suicidato il giorno in cui è stato trovato morto, sia che non si sia suicidato “volontariamente”. Si è comunque in¬flitto la pena di morte.
Ci sarebbe anche da esplorare, da analizzare la mitologia del numero uno. Il numero uno. Chi è il nu¬mero uno? È essere il numero uno, il soggetto della pienezza, fuori serie o il soggetto senza la castra¬zione, senza mancanza. Cioè, sono tutte mitologie che non sono affrontate intellettualmente e che vengono proposte anche dal così detto mondo dello sport come qualità, come proprietà esemplari. No! Sono invece i luoghi comuni della soggetti¬vità, i luoghi comuni sostanzialisti, i luoghi comuni che rientrano nella mitologia soggettivistica in ciò che costituisce la base del discorso occidentale, cioè della reazione alla parola originaria. Vari appa¬rati, oggi, mirano a rendere accettabili, come segno di normalità, questi luoghi comuni, queste mitologie e a diffonderle.
Siccome vedo una certa commozione serpeggiante per la sala, che au¬spico non giunga alla commozione cere¬brale, mi fermo qui. Se ci sono domande, notazioni. Non so se ho risposto alle que-stioni, forse un po’ di traverso, tangen¬zialmente. Ci riflettiamo magari, valu¬tiamo.
Cecilia Maurantonio Prima lei di¬ceva, a proposito di Aladino, avere, pos¬sedere per essere sultano?
R.C. Sì. Avere le cose per essere sul¬tano.
C.M. Però, non come il sultano.
R.C. Qui c’è tutto un capitolo, che chiaramente è da elaborare, su questa questione.
C.M. La domanda che mi è sorta è questa: non è esattamente come il sul¬tano, perché…
R.C. Chi ha detto “come” il sultano?
C.M. Nessuno, ma per essere sultano.
R.C. Per essere il sultano. Lei intro¬duce il “come”, per essere “come il sultano”. Benissimo!
C.M. Ma invece è proprio ciò che non c’è, in quanto tutto ciò che Aladino chiede alla lampada è sempre di più di ciò che ha il sultano, dalle pietre pre¬ziose alle ricchezze come il sultano non aveva mai posseduto, non aveva mai vi¬sto, così il palazzo, il numero degli schiavi, delle schiave.
R.C. Perché Aladino vuole diventare il numero uno. Il sultano dei sultani. Vuole essere il sultano.
C.M. Io non lo so, perché un conto è dire che voleva essere il sultano, ma c’è evidentemente una sua osservazione di una scena che ha quantificato quali sono i beni.
R.C. Esatto. C’è una notazione di Freud molto interessante a proposito del “come”, quando dice: “Come il padre devi essere, come il padre non puoi es¬sere”.
C.M. E poi una domanda attorno all’elaborazione di questa sera del ter¬mine erotismo.
R.C. Non lo abbiamo nominato.
C.M. Ma è stato svolto.
R.C. Non l’abbiamo nominato, ma ab¬biamo indicato. Lei vuole che lo nomi¬niamo? Dev’essere nominato? Che cos’è? Questo fa parte del compito per casa. Il compito per casa per ciascuno è qualificare l’erotismo. Stante il percorso di questa sera, di cosa si tratta nell’erotismo. La prossima volta valuteremo i compiti svolti a casa, perché il mio l’abbiamo letto, l’abbiamo di¬scusso. Adesso, a ciascuno il suo com¬pito. Ci sono altre domande?
Pubblico Io non ho mai letto la lampada di Aladino e non mi dispiace affatto, perché non mi ha mai incantato. Adesso potrei anche dire, forse in maniera un po’ gros¬solana, non provocatoria, quasi goliar¬dica, che può essere vista come un cenno iniziale di truffa.
R.C. Dove lei individuerebbe la truffa? Può illustrare meglio?
Pubblico Lei ha fatto un cenno, prima, al fi¬glio del sarto ipotetico, al figlio del sul¬tano ipotetico, a questo mago che si fa vedere. Sono figure in una scenografia nella quale ci può stare dentro anche un riferimento, anche involontario, casuale, a quello che ho detto prima, cioè alla truffa o a un qualcosa di artifi¬cioso che serve per raggiungere determi¬nati risultati in maniera veloce.
R.C. Bene. Grazie. È interes¬sante questo rilievo, ho preso nota, per¬ché non è del tutto esente da quanto si svolge attorno a questa fantasma¬tica. L’idea della truffa e l’idea dell’artificio.
Pubblico Presi un po’ come lezione, come moralità da tenere presente.
R.C. Certo, infatti la fiaba si conclude con una morale che viene illustrata. In ef¬fetti, per Platone, chi non si attiene alla genealogia sarebbe o un truffatore o un impostore. Platone assegna a ognuno il suo posto su base genealogica, e chi si volesse togliere da quel posto o tentare di occuparne un altro, sarebbe passibile di pena, perché sarebbe un disturbatore dell’armonia sociale.
Pubblico Dove per curiosità?
R.C. Nella Repubblica.
Pubblico Precisamente dove?
R.C. Vuole il versetto?
Pubblico Il versetto non c’è, ma c’è nella Bibbia. Però, visto che ne parla, si pre¬sume che la conosca.
R.C. Adesso, proprio i riferimenti. Beh, porteremo i riferimenti.
Pubblico Non ho mai letto, né in traduzione né in originale, riferimenti di Platone alla genealogia. Parto dalla Repubblica che è uno dei dialoghi più conosciuti di Pla¬tone. Però, potremo discutere di due codici. Probabilmente lei ha visto un co¬dice diverso da un altro.
R.C. Potremo provare a rileggerlo. Va bene.
La poesia dell’acqua
Ruggero Chinaglia Questa sera è con noi l’ingegnere Guido Zanovello, che abbiamo incontrato e avuto modo di ascoltare una prima volta in occasione dell’incontro tenuto a Vicenza, in presentazione del libro di Aurelio Misiti Il viaggio dell’avvenire. Già allora gli elementi della sua testimonianza sono stati di grande interesse e mi avevano incuriosito e sollecitato a verificare l’eventualità di un’altra occasione, per esporre in maniera più ampia e esauriente alcune delle sue notazioni e testimonianze che vengono dalla sua esperienza. Mi sono parsi una sede appropriata e opportuna questi nostri incontri intorno alla Lampada di Aladino, in cui si tratta della questione intellettuale, dell’intersettorialità, cioè della combinazione fra scienza, arte, tecnica, finanza, industria, che consente di avvalerci degli apporti di chi si trova a affrontare varie questioni in altri settori.
Abbiamo avuto l’esposizione, nel mese di dicembre, di Mario Quaranta su Giovanni Vailati, e recentemente il senatore Giampiero Cantoni sulla questione dell’economia e della finanza, e questa sera l’acqua, in particolare la poesia dell’acqua.
L’acqua è notoriamente un elemento essenziale per la vita, e proprio per questa sua essenzialità è qualcosa attorno a cui si annodano varie fantasmatiche, varie mitologie, prima fra tutte la fantasia dell’esaurimento. L’esaurimento dell’acqua, dell’acqua da bere, utilizzabile, comporta di trovare vari modi per procurarsela. Oppure, la fantasmatica della siccità, con l’estate sempre più secca, senz’acqua. Ma poi, improvvisamente, un acquazzone causa l’alluvione: dalla siccità, dalla carenza, ecco l’abbondanza.
Queste oscillazioni dell’acqua, questa ricerca e ingegneria dell’acqua è ciò che ha consentito, sin da millenni prima di Cristo, il fiorire della ricerca con la sua ingegneria, connessa alle macchine per procurare l’acqua, per avvalersi dell’acqua, per usufruire della forza dell’acqua. Fin dall’epoca dell’Egitto c’è stato tutto un fiorire di una ingegneria attorno all’acqua, per poi passare alla Grecia, al periodo ellenistico, a Roma, a Leonardo.
Leonardo svolge una vastissima ricerca e produzione intorno all’acqua, che combina con l’immagine, con la variazione e l’inganno dell’immagine, e noi la possiamo combinare con tutto ciò che è connesso con l’automazione. Curiosamente, Leonardo nota anche che è illocalizzabile: l’acqua non ha luogo. Non è possibile dare un luogo all’acqua. Se noi proviamo a prenderla, l’acqua ci sfugge dalle mani, non è localizzabile, non è quindi riducibile a sostanza. Anche nei precetti di alcune religioni troviamo l’acqua come indice dell’insostanziale. Per quanto attiene all’eucarestia e al teorema dell’insostanzialità per eccellenza, la transustanziazione, ossia non c’è più sostanza, ebbene, l’acqua, dice un precetto, non rompe il digiuno. Non è sostanza e non può fornire l’eventualità di rompere la transustanziazione. Così, pur non avendo sostanza né consistenza, era noto ai latini che la costanza dell’acqua è in grado non solo di spostare le montagne, ma anche di bucarle, infatti dicevano gutta cavat lapidem.
C’è un fiorire di metafore, di questioni, di ricerche, di notazioni attorno all’acqua, che la rende una questione veramente interessante, qualcosa che riguarda propriamente l’indice della parola, l’indice temporale della parola. Quindi, ci sono varie angolature, sfaccettature, aspetti.
Per affrontarne alcuni, per avere chiarimenti e chiarificazioni attorno a alcune mitologie e luoghi comuni, a alcune disinformazioni su vari aspetti, questa sera abbiamo convocato l’ingegnere Guido Zanovello, che si occupa in particolare di progetti a livello anche internazionale, di gestione delle risorse idriche del territorio e quindi del pianeta, in quanto il nostro territorio è il pianeta, con tutto ciò che vi è connesso a livello di ricerca, di progettazione e di considerazioni varie. Gli cedo volentieri la parola per il suo intervento.
Guido Zanovello Io sono un ingegnere e quindi, per definizione, sono noioso. Cercherò perciò di intervallare argomenti tecnici e argomenti meno tecnici e, se qualcuno vuole intervenire, magari rendiamo l’esposizione un po’ più vivace. Quando mi è stato proposto questo tema, la prima cosa che ho fatto è stata andarmi a rileggere nel dizionario la definizione di acqua; letteralmente: composto inorganico di idrogeno e ossigeno; liquido incolore, insapore e inodore. È una definizione che è tutto tranne che poetica, almeno nel significato di suggestione e fantasia che generalmente diamo a questo termine. Però, se risaliamo all’origine di poiesis, da cui viene poesia – poiesis viene dal verbo greco poiéo che vuole dire fare, ma sopra tutto creare – allora probabilmente l’acqua rispetta in pieno il titolo di questa chiacchierata, perché in realtà l’acqua è un organismo, un organismo vivo e inquieto, è un organismo sensibile ma che diventa anche violento. Cioè, ha davvero la vocazione del fare, e terra e uomo non possono fare a meno della sua opera.
Allora cercherò di fare un’introduzione un po’ poetica e un po’ tecnica, sulla natura dell’acqua, anche per sfatare questo non luogo o non materia che è stata citata prima, e cercherò d’indagare sul perché l’acqua ha la vocazione del fare e poi magari introdurrò qualche riflessione sul passato, presente e futuro, in particolare il futuro che ci aspetta. Cominciamo con la parte poetica, che in realtà ho preso a prestito da un libro scritto da Pier Francesco Ghetti, un idrobiologo che insegna a Venezia, che s’intitola Manuale per la protezione dei fiumi. Nel descrivere il fiume, lui dice: “Il fiume è un organismo che cresce poco a poco dopo ogni confluenza dell’acqua che sgorga dalla sorgente che tracima da una pozza o che scende da un altro rio; sgroppa verso il basso in un letto prima scomodo e incassato e via via più ampio, dove la stessa acqua divaga separandosi e tornando a intrecciarsi, infilandosi sotto un materasso di ciottoli, ritornando alla luce più sotto, sempre danzando allo scroscio sui sassi. Arrivata al piano, l’acqua si raduna maestosa in alvei più tranquilli, scivola su letti di sabbia morbidamente ricurvi, sotto baldacchini costruiti con le fronde degli alberi cresciuti sulle rive. Sembra percepire che il suo destino sta volgendo al temine e cerca di rallentare incupita la corsa prima di mescolarsi con il mare. Lungo il percorso, una parte dell’acqua prova a sottrarsi al proprio destino filtrando nelle tenebre del sottosuolo, ma dopo uno o mille anni viene riportata alla luce attraverso le fessure di una roccia. Altra acqua trova solo un temporaneo riposo nell’ansa di un fiume o nel catino di un lago”.
Questa è una visione romantica, che richiama un destino di morte cui l’acqua cerca di sottrarsi, che non è però esattamente quello che fa l’acqua. A questo punto, vorrei introdurre un concetto che ha un significato positivo, anche se ha un brutto nome, si chiama neghentropia. È un termine che significa letteralmente entropia negativa. Sappiamo che entropia, come dice il secondo principio della termodinamica, vuole dire che ogni trasformazione di energia porta a una forma di energia meno nobile, per cui tutto quello che è alto si livella verso il basso, le differenze di temperatura tendono a annullarsi e si va da un ordine al disordine. L’entropia è la misura del disordine, mentre la Neghentropia è la misura della ricostruzione dell’ordine; è un po’ come il ciclo della vita. La vita, ogni volta, rinasce da due individui che stanno degradandosi. Dall’incontro di due individui nasce la vita e, ogni volta, rinasce più forte di prima. Così l’acqua. L’acqua si rigenera continuamente.
Ci sono alcune definizioni che si trovano in letteratura che a me piacciono: “La vita è come un meccanismo capace di estrarre localmente ordine dalla tendenza generale al disordine”. Questo l’ha scritto Erwin Schrödinger nel 1945, ovvero la vita è un’isola di neghentropia nell’oceano entropico. Neghentropia significa potenziale di cambiamento. In medicina è alla base dell’evoluzione degli organismi, ovvero della crescita dell’embrione. Gli esseri viventi, per vivere, devono necessariamente sviluppare neghentropia. In fisica rappresenta la visione filosofica positiva sull’evoluzione dell’universo. Cosa voglio dire con questo? Che l’acqua, in effetti, è il grande costruttore del paesaggio e delle risorse terrestri che rigenera continuamente. Quando diciamo che l’acqua è vita, ricordiamo che occupa il 70% della terra, che costituisce fino al 98% del peso degli organismi e che è il fattore principale di costruzione della geomorfologia, cioè della modellazione della terra, del paesaggio della terra, e è il regolatore fondamentale del clima del pianeta, poi vedremo perché.
Anche il ciclo dell’acqua è un’isola di neghentropia nella fisica, grazie all’energia che le viene trasferita dal sole. Infatti, riprendendo il fiume di prima che scende inesorabilmente verso il mare, è vero che l’acqua tende sempre a scendere in giù, e a ricomporsi in un paesaggio piatto, però, ciclicamente, in forma di vapore, viene estratta dal mare. Nell’evaporazione, in pratica, si spoglia di tutti i minerali, dei sali disciolti, anche delle molecole estranee di cui si era caricata lungo il percorso, in un processo di rigenerazione. Risale quindi dal mare, entra nelle nuvole e poi ridiscende sulla terra, sulle montagne, e ricomincia la sua corsa verso il basso, e genera quell’energia potenziale che poi è la forma principe di energia rinnovabile, cioè l’energia idroelettrica. Quindi, l’acqua rigenera continuamente, invertendo la tendenza alla crescita dell’entropia, le diversità e le differenze che stanno alla base dell’evoluzione della vita sulla terra.
Ora, abbandoniamo i concetti in qualche modo filosofici e veniamo a alcune considerazioni tecniche sulle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua, che ci servono per comprendere il perché di questo suo funzionamento. L’acqua è formata da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, collegati con legami chimici fatti in modo tale che la molecola, di fatto, si comporta come un dipolo elettrico. Ciò vuole dire che non è elettricamente neutra, ma che le sue estremità tendono a legarsi vicendevolmente l’una con l’altra, avendo segni opposti. Questo legame però è molto debole, in chimica e in fisica si chiama legame idrogeno, e genera tre caratteristiche importanti dell’acqua.
La prima è quella che richiamava il dottor Chinaglia: l’acqua non ha luogo. Che cosa vuole dire? Che è talmente dinoccolata nelle sue molecole che non sa come comporsi. Tende a adattarsi a tutte le forme con cui viene a contatto, si muove dappertutto, obbedisce solo alla legge di gravità. La seconda caratteristica fisica è che al contatto tra la superficie dell’acqua e l’ambiente esterno, per effetto di questi dipoli elettrici, si forma una sorta di pellicola elastica che si chiama tensione superficiale, una forza molto elevata che è all’origine non solo della formazione delle gocce, che tendono a avere una forma sferica proprio per la natura di questa pellicola, ma anche della capillarità, cioè della capacità dell’acqua di risalire, attraverso tubicini molto piccoli, come sono le fibre degli alberi, anche di molti metri d’altezza, e quindi di fornire alimento dal sottosuolo fino alle ultime foglie degli alberi. La terza caratteristica, forse la più importante, è che questi legami deboli fra le molecole tendono a permettere all’acqua di sposarsi con tutto quello che trova in giro, cioè, essa tende a dissolvere altri elementi minerali. Gutta cavat lapidem significa che, goccia su goccia, molecola su molecola, l’acqua si porta via gli ioni di calcio e magnesio e alla fine produce il buco, o la dolina, o la cavità carsica e gallerie lunghe anche decine di chilometri.
Questa sua capacità di dissolvere e trasportare elementi chimici è fondamentale per tutta la vita sulla terra perché, fra questi elementi, ci sono anche i così detti biofili, cioè gli ioni di potassio, sodio, azoto e dei vari microelementi della tavola di Mendeleev, che sono essenziali per l’alimentazione di tutte le forme di vita. Si tratta di quantità consistenti se pensiamo che l’acqua di mare, mediamente, contiene 35 grammi per litro di questi sali che si sono disciolti durante la sua storia, mentre un’acqua minerale ne contiene tra mezzo e uno.
Un altro aspetto importante degli effetti del legame idrogeno è l’energia legata ai cambiamenti di stato dell’acqua che avvengono in condizioni ambientali normali. Cambiamento di stato vuole dire passaggio da liquido a vapore, oppure da liquido a ghiaccio. L’acqua, che ha una grande inerzia termica, al momento del passaggio di stato cede o assorbe una grande quantità di calore. Per aumentare di un grado un chilo d’acqua occorre una chilocaloria, per il passaggio da liquido a vapore ce ne vogliono oltre 500. Questo permette all’acqua di essere un grande serbatoio di calore, e gli oceani non sono soltanto una grande riserva d’acqua, ma anche una grande riserva di calore. Il processo di evaporazione, che sottrae per ogni chilo di acqua evaporata 500 calorie al mare, in realtà funziona come una pompa, che prende queste 500 calorie e le porta sotto forma di vapore nelle nuvole. Invece, nel momento in cui condensa, cede all’ambiente le stesse 500 calorie. È così che si forma il clima. Un clima vivibile c’è soltanto dove c’è movimento di acqua in forma aeriforme; nel deserto del Sahara, dove si muove solo vento, non c’è vita.
Adesso, farei un po’ di riflessioni su passato, presente e futuro, cominciando con qualche curiosità. L’acqua o, meglio, l’idrografia, nei tempi antichi è sempre stata lasciata alla naturalità. I fiumi modellavano il terreno, le alluvioni portavano i materiali in giro per la pianura, non si arginavano i fiumi. Le grandi opere idrauliche erano essenzialmente grandi acquedotti per portare l’acqua anche in zone lontane, dove mancava. Cronache molto interessanti dei secoli passati raccontano come i fiumi, divagando, hanno costruito il paesaggio. Paolo Diacono racconta una sorta di diluvio universale, accaduto nel 589 d.C. a cui si deve la configurazione dei fiumi che abbiamo ancora oggi: il Piave, il Brenta, il Bacchiglione, l’Adige.
Nel tardo Medioevo, quando si cominciano a coltivare le campagne in modo sistematico, questa divagazione dei fiumi non è più tollerata, perché distrugge completamente il terreno agrario. Allora si cominciano a costruire le arginature. Un esempio interessante e abbastanza recente di 500-600 anni fa, è l’Agno-Guà, un po’ a ovest di Vicenza. È una valle alpina che, fino al 1500, all’uscita in pianura, all’altezza di Montebello, divagava nella pianura e formava ora depositi di sabbia, ora depositi di ghiaia, ora depositi di limo. A partire dal 1500, i contadini hanno cominciato a costruire degli argini e l’acqua così usciva dall’altra parte; i contadini dell’altra parte, a loro volta, alzavano argini. Alla fine, il fiume è stato praticamente ingabbiato in un canale molto profondo, con argini alti anche molti metri. Questo trattamento è stato preso a esempio per l’arginatura di tutti i fiumi che vediamo e ciò ha reso il territorio molto più fragile rispetto al passato, perché i canali, dimensionati per portate ordinarie, ogni volta che succedeva un’alluvione un po’ più intensa del solito, tracimavano e facevano più danni di prima. Un altro aspetto curioso, di cui risente ancora oggi l’idrografia del padovano, è stata la così detta guerra dell’acqua tra Vicentini e Padovani.
Nel 1143, i Vicentini, volendo irrigare la pianura che sta tra i colli Berici e gli Euganei, fecero un taglio sulla sponda destra del Bacchiglione, all’altezza di Longare. Scavando un canale che si chiama Bisatto, deviarono buona parte dell’acqua del Bacchiglione in questo canale che poi scendeva nella pianura. Tuttora passa per Este e arriva a Monselice. Ma i Padovani avevano appena aperto un canale navigabile tra il Bacchiglione, in città, e il Brenta, il canale Piovego, che esiste ancor’oggi, per permettere la navigazione verso Venezia, ma avendo i Vicentini portato via l’acqua del Bacchiglione si trovarono all’asciutto. Allora, aprirono un taglio sul Brenta, a Limena, e deviarono il Brenta verso Voltabrusegana, creando l’attuale canale Brentella, che tuttora alimenta il Bacchiglione a monte di Padova. Questa storia, abbastanza tormentata, è andata avanti per un paio di secoli, sempre a colpi di nuove derivazioni. A un certo punto furono anche posti dei presidi armati, perché di notte gli avversari andavano a ripristinare lo stato precedente, fino a che, nel 1500, la Repubblica veneziana con l’istituzione del Magistrato alle acque impose una sorta di polizia idraulica, stabilizzando la situazione.
I legami tra l’acqua e l’economia sono ovviamente molto intensi. Tutte le città sono nate lungo i fiumi per problemi non solo di trasporto, ma anche di approvvigionamento idrico. Una caratteristica delle epoche passate è che l’acqua era considerata una risorsa illimitata, per cui se c’era da usarla per l’industria, per esempio per diluire gli scarichi industriali, non si badava al risparmio. Buona parte dell’industria tessile, che è tipica delle Prealpi venete e lombarde, è nata con questo presupposto: disponibilità di molta acqua per la produzione di energia elettrica a basso costo e per i processi industriali di produzione di tessuti e pelli. Tutto ciò per il futuro non è più ripetibile, perché abbiamo davanti, nel presente e nel prossimo futuro, problemi di quantità e problemi di qualità.
Problemi di qualità. L’acqua si lega a tutti gli elementi che incontra, che possono essere biofili, quindi positivi, ma molto spesso sono inquinanti, tossici per tutte le forme di vita. Ci sono quattro grandi categorie di elementi inquinanti o indesiderati. Ci sono i così detti macroinquinanti, elementi naturali pericolosi solo quando si trovano nelle acque in quantità eccessive, come i nitrati. Se il tenore di nitrati indicato nell’etichetta di un’acqua minerale supera i 15 milligrammi per litro, può esserci qualche problema per la salute. Però si tratta di macroinquinanti che è facile depurare, auto degradare e sono perciò controllabili. C’è, poi, tutta una serie di microinquinanti di origine chimica e organica, industriale, che sono quasi sempre negativi per l’ambiente e che hanno quasi sempre la grave caratteristica di bioaccumularsi negli organismi, per cui sono dannosi per la natura anche in milligrammi o in microgrammi litro. Un altro tipo particolare di microinquinanti sono i così detti farmaci xenobiotici e gli ormoni ambientali, creati per curare malattie che però, quando vengono rilasciati dall’organismo e entrano nell’ambiente acquatico, possono dare sorprese non insignificanti. In particolare, mi riferisco a certi ormoni ambientali chiamati endocrine disrupting compounds. Sono essenzialmente quelli che vengono dalle pillole anticoncezionali, che non sono biodegradabili in tempi ragionevoli, che si bioaccumulano. Ricerche compiute in Giappone hanno evidenziato mutazioni genetiche che hanno ridotto praticamente a zero la fertilità di certe specie di pesci. Sono microinquinanti che si misurano a nanogrammi, cioè parti per miliardo nell’acqua. Poi c’è tutta una serie di microorganismi che comprendono anche protozoi, parassiti e spore, che sono piccolissimi, per cui non vengono trattenuti dalle normali filtrazioni e proliferano proprio per la presenza di macroinquinanti nutrienti nelle acque.
Problemi di quantità. È vero che l’acqua è la risorsa rinnovabile per eccellenza e facile da immagazzinare, però l’uso eccessivo che se ne sta facendo e sopra tutto le modifiche climatiche hanno prodotto, anche in regioni ricche d’acqua come il Veneto, degli squilibri fra domanda e offerta. Questo causa una concorrenza esasperata tra i vari usi, per cui è difficile avviare un nuovo utilizzo d’acqua a partire da un fiume o da un pozzo senza generare tutta una serie di opposizioni e richieste di indennizzo per le varie utilizzazioni che stanno a valle. Peraltro, tutto questo ha anche un aspetto positivo, perché ha generato la consapevolezza che l’acqua è un bene limitato. Da risorsa illimitata, com’era considerata fino a dieci, vent’anni fa, oggi, penso non ci sia nessuno che la considera bene illimitato, anzi, qualcuno la chiama “patrimonio”, neanche “bene”.
Che cosa sta succedendo dunque sul fronte dell’offerta di acqua? Il regime delle piogge è cambiato, tendendo a un regime di piogge estreme, di tipo monsonico, in buona parte dovuto all’aumento della temperatura terrestre che attribuisce all’atmosfera più energia per i fenomeni meteorologici. Quindi, quando piove, piove con più intensità. Se vogliamo, possiamo dire che l’effetto serra, cioè l’incremento della temperatura terrestre, è una manifestazione di neghentropia, cioè di entropia negativa, perché aumentano le differenze tra l’alto e il basso. La grande conseguenza negativa di questa estremizzazione degli eventi di pioggia, è che è sempre più difficile ripristinare le riserve.
Le riserve sono non solo i laghi alpini, ma anche le falde pedemontane, cioè quelle grandi spugne di ghiaia, sassi e sabbia che si trovano dove i fiumi sboccano in pianura, che vengono ricaricate dalla pioggia che cade direttamente sulla pianura, ma anche dai fiumi che scendono dalle montagne e che si stanno riducendo in modo consistente. Senza andare tanto lontano, le falde del vicentino, che sono quelle che alimentano oggi per il 90% l’acquedotto di Padova, sono scese anche di dieci metri di altezza, il che vuole dire centinaia di milioni di metri cubi di riserva in meno rispetto al passato. Ma anche le riserve nei ghiacciai sono in grande riduzione. Fino a pochi anni fa, anche se d’estate non pioveva, lo scioglimento di nevi e ghiacci del ghiacciaio della Marmolada, per esempio, o dei ghiacciai dell’alto bacino dell’Adige, permettevano ai fiumi di avere una portata consistente per tutta l’estate. Oggi, per effetto di quei 0,8 °C di aumento di temperatura che è stato misurato negli ultimi decenni, il fronte dei ghiacciai si è alzato di circa 500 metri, perché, in condizioni normali, la temperatura in altitudine scende di un grado ogni 600 metri, quindi 0,8° C vuole dire 500 metri. Sono 500 metri di altezza di ghiacciai che non ci sono più. Sono andato l’estate scorsa sulla Marmolada e mi sono accorto che praticamente il ghiacciaio non esiste più. Secondo me, questo è uno dei problemi più gravi, anche se viene poco citato, proprio perché fa mancare, per tutto il periodo estivo, quella che prima era la riserva principale di acqua.
Un altro argomento preoccupante è quello delle acque alte. Acque alte vuole dire risalita del livello del mare che è dovuta a tre componenti: c’è la risalita così detta per eustatismo, cioè il livello del mare sale perché diminuiscono i ghiacci, e quindi c’è più acqua negli oceani. Le previsioni di eustatismo per i prossimi cento anni vanno dai 50 centimetri, la più ottimistica, al metro. Se a questo si aggiunge la variazione di livello dell’acqua di mare per effetto della marea astronomica, che normalmente è dell’ordine di mezzo metro, ma può arrivare anche a un metro e mezzo, e dell’azione del vento – particolarmente grave in Adriatico, che è un budello molto stretto: quando il vento soffia da sud può far risalire un’onda lunga di acqua in modo molto consistente – vediamo che non c’è soltanto Venezia che è messa a rischio dalle acque alte, è un po’ tutta la costa da Trieste al Po, per rimanere nel Triveneto, che potrebbe essere allagata com’era una volta, prima che venissero bonificate le pianure e i terreni agricoli.
Dietro questo problema ce n’è uno ancora più grave, perché il fronte del mare, volendo, si può difendere facendo delle grandi dighe, delle difese costiere e degli impianti di pompaggio, ma l’incremento del livello dell’acqua di mare porta con sé un incremento anche del livello di falda delle pianure, falda che diventa sempre più salina. Ricerche recenti fatte dal C.N.R. indicano che, anche a venti chilometri dalla costa, tra Monselice e Chioggia, la falda salina, ormai, affiora a pochi centimetri dal terreno. E noi continuiamo a bonificare e quindi a farla salire sempre di più, dimostrando poca previdenza. Come poca previdenza dimostrano certi stati africani che, in mancanza di acqua rinnovabile che arriva dal cielo, hanno pensato di utilizzare le riserve geologiche di acqua fossile, cioè quell’acqua che è rimasta imprigionata in grandi cavità sotterranee, come il petrolio, in epoche geologiche remote, che è un’acqua dolce, ma che ha il difetto di non essere rinnovabile; una volta estratta, non c’è più. La Libia, per esempio, sta costruendo un grande acquedotto che parte dal deserto, prendendo l’acqua fossile con dei tubi che hanno un diametro anche di tre metri, e la sta portando verso le città del mare, sapendo bene che quest’acqua può durare appena dai venti ai trent’anni anni. La stessa cosa sta facendo l’Egitto in un’area limitrofa alla Libia.
Ora, riflessioni sul futuro. La prima considerazione che faccio è che i problemi climatici, in realtà, non sono governabili dall’uomo, perché sono legati a movimenti di grandi masse d’acqua negli oceani, a trasformazioni che derivano anche da piccolissime variazioni di temperatura. Se pensiamo al Niño o alla Niña, cioè alle grandi serie di catastrofi naturali che sono state generate nel Pacifico da piccole variazioni della temperatura delle correnti oceaniche, vediamo che è difficile pensare di potere rimediare con azioni dedicate. Anche senza andare nell’Oceano Pacifico, nel Mediterraneo sta succedendo un fenomeno curioso e preoccupante insieme. Globalmente, tutto il Mediterraneo si sta riscaldando, ma si raffredda all’altezza delle coste dell’Algeria, per effetto delle correnti che arrivano dall’Atlantico, mentre si sta scaldando in modo molto consistente tutto il mare Egeo, che sta diventando una sacca di acqua calda. Questo sta modificando il clima non solo nell’Egeo, ma in tutte le regioni a nord.
Un aneddoto può dare una misura di come questi fenomeni siano ingovernabili: quando sono nati i grandi computer, con capacità di calcolo per numeri di centinaia di decimali e con potenza di calcolo che permetteva di simulare grandi e complessi fenomeni, un ricercatore simulò il funzionamento meteorologico di tutto il continente americano, dall’America del Nord all’America del Sud, con un modello climatologico. Poi, dopo averlo tarato, simulò per due volte l’effetto del battito d’ala di una farfalla in Amazzonia, togliendo semplicemente un decimale nell’approssimazione del calcolo tra un caso e l’altro. A non mi ricordo quante centinaia di decimali, dal modello scaturì che l’effetto del battito d’ala di una farfalla in Amazzonia provocava una pioggia delicata all’altezza del Texas. Aumentando di un decimale, l’effetto della simulazione era che arrivava un uragano di grandi dimensioni in Florida. Questo dava la dimensione di come tutti questi fenomeni sono sì, deterministici, ma in realtà, per il nostro modo di capirli, sono del tutto casuali. Allora, le domande che ci facciamo sono se i problemi di quantità siano in realtà affrontabili, se i problemi di qualità siano in qualche modo risolvibili e, poi, quello che ci si chiede sempre, se è bene che sia il settore pubblico a occuparsene o se debba essere il privato a rimediare ai guasti del passato. Una considerazione che faccio è che questi problemi non vanno affrontati con la tecnologia. La tecnologia è un mezzo, ma lo strumento con cui vanno affrontati è quello dell’etica, dove per etica intendiamo il valore morale del comportamento umano. Le scelte tecniche e l’etica ambientale devono ormai, anche per gli ingegneri, andare in parallelo, e questo significa che ogni iniziativa di modificazione del nostro ambiente deve rispettare almeno tre considerazioni.
La prima è la così detta ottimizzazione. Ottimizzazione vuole dire ricercare il massimo rapporto fra benefici e costi, mettendo nel conto dei costi non solo quelli monetari, ma la somma dei costi diretti e indiretti, introducendo dei compromessi in molti criteri. La seconda considerazione è che ogni cosa che facciamo dev’essere valutata in termini di sostenibilità non soltanto economica, ma anche ambientale. La terza, fondamentale, è che dovendo lavorare con l’etica, tutto quello che facciamo dev’essere concertato, cioè quello che si progetta o si fa deve essere preceduto da una ricerca di consenso consapevole; il moderno pensiero così detto filosofico ambientale va in questa direzione.
Fino a pochi anni fa dominava il così detto antropocentrismo, atteggiamento verso la natura di eredità ancora medievale, dell’epoca cioè in cui l’uomo doveva cercare di piegare alle sue necessità la natura considerata nemica e piena di insidie. Tale atteggiamento ha avuto il suo apice con la rivoluzione industriale del 1900. Dall’antropocentrismo si è passati all’opposto con il così detto biocentrismo, in cui la rispettabilità morale, pur con molte sfaccettature, viene allargata a tutti gli animali. Dal biocentrismo individualista, per cui ogni singolo animale è rispettabile e deve essere mantenuto, a quello olista, che invece attribuisce questa rispettabilità alla specie in sé, non necessariamente all’individuo. Credo sia superato anche il così detto ecocentrismo utopico, che considera l’uomo come una parte armonica della natura in cui animali e vegetali hanno gli stessi diritti di autorealizzazione. A questo proposito, mi è piaciuta una definizione o, meglio, un esempio di Pier Giacomo Pagano, biologo dell’Enea, che per dimostrare la differenza tra antropocentrismo moderato e ecocentrismo, si espresse con questa frase: “L’antropocentrista moderato dice: ‘Lasciate stare il fiore affinché altri ne possano godere’. L’ecocentrista dice: ‘Lasciate stare il fiore affinché lui stesso possa godere della sua vita’”.
Credo che l’antropocentrismo moderato ormai sia entrato nella coscienza di quasi tutti, è basato sui concetti di conservazione e sostenibilità, considera l’uomo al centro della natura, predilige l’uso delle risorse rinnovabili, ma sopra tutto si pone il problema delle generazioni future. Tutto questo è per introdurre alcune considerazioni sul nostro comportamento quotidiano, sugli effetti che una sua modifica in senso etico potrebbe ottenere anche nei riguardi della domanda d’acqua. Lo slogan di questo comportamento potrebbe essere dal consumismo dell’acqua all’etica del consumo.
Parto dalla considerazione che oggi, in Italia, più del 50% dell’acqua potabile in realtà è sprecato, nel senso che viene usata acqua a standard potabile per usi che non lo richiedono. Infatti, se guardiamo il consumo medio di una persona, anche qui nel padovano, su 250 litri per persona che vengono immessi nell’acquedotto, 90 vanno a finire in perdite di rete, quindi non sono utilizzati affatto, 50 vengono buttati nello sciacquone del water, 60 vanno nelle lavatrici per lavare la biancheria, e solo 50 su 250 richiedono effettivamente lo standard potabile, perché sono bevuti o usati in cucina. Questo ha una ragione, che è il basso costo dell’acqua in questo momento. Oggi, tenendo conto anche del costo della depurazione, non paghiamo l’acqua più di un euro a m3 che è un costo veramente irrisorio. In altri paesi, dove l’acqua costa da 4 a 6 euro al m3, il consumo, in effetti, dai 250 litri nostri, scende a 120-150. Ora, questo risparmio di acqua che può arrivare anche a dividere per tre l’attuale spreco, secondo me si ottiene essenzialmente con un comportamento individuale improntato all’etica. È vero che si possono fare delle grandi azioni a larga scala per incrementare l’offerta d’acqua e sicuramente, nel prossimo futuro, alcune di queste saranno realizzate.
La prima che viene in mente è cercare di ripristinare quelle grandi riserve che stiamo perdendo per effetto delle modifiche climatiche. Ciò vuole dire non solo fare laghi artificiali o dighe, opere sulle quali è difficile ottenere il consenso, ma cercare di aumentare la ricarica delle falde sotterranee, cioè sfruttare in pieno quella grande spugna che abbiamo sotto i piedi, rendendola più permeabile quando arrivano i grossi flussi di acque di piena. Altrove, in America in particolare, questa politica di ripristino delle riserve viene fatta sfruttando le così dette Wetlands, cioè le grandi paludi o lagune di cui il paese è ricco. Gli Stati Uniti, recentemente, hanno fatto addirittura una legge la Wetland Act per la conservazione e l’incremento di paludi o lagune. L’altra grande azione, che è la grande sfida per gli ingegneri, è quella di passare dalla depurazione delle acque usate, com’è comunemente intesa, alla loro rigenerazione. Rigenerazione vuole dire depurarle sì, ma poi anche reimmetterle in un circuito per usi potabili. Ci sono esempi, non in Italia, sempre per colpa del basso costo dell’acqua potabile, ma negli Stati Uniti, in Australia e in Africa anche, di connubio tra tecnologie complesse di trattamento e tecniche naturalistiche di finissaggio in grandi aree, tipo le Wetlands citate prima, che hanno come stadio finale l’infiltrazione in materassi di sabbia, per la filtrazione finale, e poi l’attingimento per l’immissione in acquedotto.
Alcuni studiosi, almeno per l’Australia, ipotizzano la realizzazione di un vero e proprio ciclo chiuso di utilizzazione dell’acqua, nel senso che sempre la stessa acqua viene reimmessa in circolo, ogni volta depurata, e dall’esterno si prende soltanto quel rabbocco che serve per tenere carico il circuito. C’è un aspetto rilevante, però, che ostacola queste grandi azioni, che è la discrasia che c’è tra la politica dell’acqua, intendendo per politica gli indirizzi tecnici e legislativi che si danno, e la giungla delle competenze. Di fatto, quando si pensa a una grande iniziativa, questa si scontra con i vari livelli di competenza e autorizzazione che ci sono in questo settore e che continuano a moltiplicarsi.
Pubblico I consorzi?
G.Z. Per esempio i consorzi. Io ho contato dieci livelli l’altro giorno, a partire dal Magistrato alle acque, che una volta aveva il monopolio della polizia dell’acqua e quello che decideva il Presidente del Magistrato alle acque era legge per tutti. Oggi abbiamo le autorità di bacino nazionali, interregionali, regionali, gli uffici del Genio Civile regionale, provinciale, i distretti idrografici, le autorità d’ambito, gli enti di gestione del ciclo dell’acqua e i consorzi di bonifica! È una babele che fa sì che ogni iniziativa, che nasce con intenti virtuosi, alla fine si areni perché non riesce a superare lo sbarramento delle varie commissioni tecniche di tutti questi enti. Il mio parere è che bisogna in realtà puntare a una serie di piccole azioni diffuse, cioè tornare a quell’etica ambientale che dicevo prima. Ci sono alcune cose che possono essere fatte anche da ciascuno di noi, senza bisogno che ci sia una legge che ci obblighi a farlo, e possono essere utili e economiche. La prima è una cosa molto diffusa all’estero, da noi non ancora. Proprio perché è diffusa all’estero, ha un nome inglese rain harvesting, che significa letteralmente “mietitura dell’acqua”. Si tratta di raccogliere l’acqua che scende sui tetti, che normalmente non è inquinata, salvo proprio il primo millimetro, che lava caso mai quello che ha lasciato un piccione, in serbatoi ai piedi della grondaia e poi riciclarla all’interno della casa o del condominio per tutti gli usi non potabili che, di fatto, sono più della metà del consumo domestico.
Per fare un esempio, per un tetto di 100 m2 basta un serbatoio da 6 m3 che in Germania si compera ordinandolo via Internet. Un’altra cosa un po’ più complessa, ma che viene fatta comunemente almeno in Giappone, è la raccolta differenziata e il riciclo locale della così detta acqua grigia, cioè l’acqua che proviene dalle docce o dai lavaggi e, quindi, ha un inquinamento abbastanza modesto. Questa viene mandata a un piccolo depuratore e la stessa acqua viene riciclata all’interno dell’edificio, per esempio per alimentare gli sciacquoni. In Giappone è obbligatoria per legge negli edifici più grandi, nei quali, in effetti, ha comportato una riduzione del 30% dei consumi di acquedotto. La terza cosa è quello che gli inglesi chiamano sewer mining.
La fognatura passa in ogni strada di ogni città come una sorta di miniera di acqua. Ogni volta che ci sia un’utilizzazione non potabile nei pressi, si prende l’acqua dalla fognatura, si tratta in un impianto molto semplice e poi si manda a irrigare un giardino o a alimentare un impianto di lavaggio auto oppure a rifornire gli sciacquoni, magari negli edifici pubblici dove costituiscono l’uso prevalente dell’acqua. Diciamo che l’evoluzione tecnologica degli ultimi anni, nella depurazione, porta prepotentemente verso queste soluzioni, che, credo, nell’arco di 5-10 anni saranno consuete anche da noi.
Vorrei ora parlare di due grossi progetti in fase di realizzazione. Uno è il modello strutturale degli acquedotti del Veneto, un sistema di collegamento tra le grandi fonti di acqua del Veneto centrale: le falde da cui attinge Padova nell’Alto Vicentino, altre falde nel medio Brenta all’altezza di Fontaniva e il fiume Sile, che è un fiume di risorgiva all’altezza di Mestre. Tutte queste risorse sono collegate per mezzo di tubi del diametro di oltre un metro, permettendo di utilizzarle nel modo più coerente con il regime idrologico di ricarica. Quando non piove si utilizza l’acqua del Sile, che è un’acqua fluente, e si lasciano ricaricare le falde pedemontane; quando invece piove o le falde sono al livello massimo, si inverte il flusso. Questo sistema permette di massimizzare l’effetto delle riserve a lungo termine. È prevista anche l’utilizzazione di una grande cava, a Monselice, per ricavare un serbatoio d’acqua da 150.000 m3 che regolerà stagionalmente tutta la pianura a sud di Padova. L’altro grande progetto è il così detto progetto integrato Fusina, all’interno dell’area industriale di Marghera, per il trattamento a un livello molto elevato, combinando processi a alta tecnologia con quelli naturalistici, delle acque civili di fognatura prodotte da Mestre e dai comuni limitrofi. Si ottiene un’acqua a standard industriale, che viene immessa in un acquedotto destinato a rifornire le industrie di Porto Marghera, i cui scarichi vanno poi a un secondo impianto di trattamento, dopo il quale il residuo viene scaricato in mare. L’effetto è che lo scarico finale in mare corrisponde a circa 1/3 delle acque complessivamente usate, per cui si riduce di 2/3 il prelievo di acque dall’ambiente e l’impatto dello scarico residuo nell’ambiente.
Un impianto un po’ più piccolo di questo è in fase di progettazione a Cittadella, dove 1/3 dell’impianto della città produce acqua che viene riciclata attraverso un acquedotto duale per la zona industriale e un quartiere commerciale direzionale di prossima costruzione. Operazioni di questo genere hanno anche un effetto economico virtuoso, nel senso che alla fine, chi usa l’acqua, paga di meno.
R.C. Sembra che ci siano moltissimi elementi e notizie che, quanto meno, contrastano con luoghi comuni diffusi. Per esempio, uno fra i molti, che l’acqua costa molto. Fa scalpore talvolta il fatto che viene deciso un aumento del costo dell’acqua nella bolletta. Sindacati, giornali, politici, non politici gridano allo scandalo. Poi, veniamo a sapere che l’incidenza effettiva dell’aumento è irrisoria, in effetti.
G.Z. Comunque il basso costo non è incentivante.
R.C. E già! Costando così poco l’acqua, s’incentiva in realtà lo spreco dell’acqua, senza tenere conto che l’uso di alcuni dispositivi andrebbe in direzione di un’altra politica, di un’altra idea delle cose, di un altro modo di fare, e anche di considerare la vita e la combinazione dei vari elementi. Un’altra notizia straordinaria è che, a fronte di una sorta di destino comune che sarebbe stato prescritto, ossia che tutte le cose tendono all’aumento dell’entropia, e quindi andrebbero in direzione di un destino di morte – noi abbiamo esplorato la questione dell’entropia anche in relazione alla mitologia dello stress e abbiamo visto come il discorso medico, proprio a partire da questa impostazione della scienza, della fisica, ha assunto l’idea che il destino è la morte, per cui un risultato apprezzabile non è considerare la questione della vita, ma diminuire l’eventuale incidenza della morte, vivendo quindi sempre in una ideologia della morte, in una posologia della morte, in cui sarebbe già un grosso risultato diminuire la dose quotidiana di morte, cioè l’ideologia del male minore – ebbene, a contrastare questa ideologia, l’acqua non andrebbe in direzione di questo destino comune, ma sovverte questa ideologia mortifera. Questa è già, mi pare, una notizia assolutamente straordinaria. Poi, una questione che mi muove curiosità, è quando lei dice “L’acqua obbedisce alla legge di gravità”. Però, Leonardo dice invece di no, che va anche all’insù.
G.Z. Sempre gravità è.
R.C. Però, si tratterebbe della levità, non più della gravità ma della levità, quindi una questione di leggerezza.
G.Z. Va in su quando è vapore.
R.C. Certo.
G.Z. Cioè quando pesa meno dell’aria.
R.C. Esatto. Ma questo per dire di un altro modo d’intendere…
G.Z. Ma è sempre gravità.
R.C. Il peso e il gravis come modo del peso. Certo, è una questione che riguarda l’ossimoro, l’alto-basso. Non c’è solo la direzione univoca, ma anche la così detta gravità va in direzione dell’ossimoro alto-basso. Non c’è solo l’alto o solo il basso.
G.Z. Diciamo che è sempre legge gravitazionale.
R.C. Sì, però comporta l’alto-basso e non solo un moto unidirezionale. Ci sono, mi pare, tante questioni. Una mi viene evocata a partire dalla considerazione che il clima e i problemi climatici non sono governabili dall’uomo, e questa è veramente una notizia, perché allora il protocollo di Kyoto…
G.Z. Possono essere influenzati, ma possono essere influenzati in senso negativo.
R.C. Sì, certo. Poi, la questione dell’acqua come fonte di energia, lei diceva che è una cosa immensa, straordinaria. Questo invita a riflettere sui tentativi di piccoli controlli, piccole padronanze che vengono talvolta evocati come tentativi di aggiustamento. Questo meriterebbe forse qualche precisazione ulteriore, perché diventa molto interessante capire da dove vengono queste variazioni, in che direzione vanno, in che modo questo ha a che vedere con alcune attività industriali, non industriali, eccetera. Forse, può meritare qualche ulteriore precisazione da parte sua.
G.Z. Sì. Andiamo in un campo un po’ minato e in parte fuori dalla mia competenza. Quello che posso dire è che il clima è regolato da grandi cicli, e dentro i grandi cicli ci sono i medi e i piccoli. Questi cicli, nessuno sa dire esattamente da cosa dipendono.
R.C. Esatto.
G.Z. Alcuni dicono che dipendono dalle macchie solari, che è una giustificazione ragionevole. Di fatto, il clima della terra è cambiato in modo radicale molte volte, anche quando l’uomo non poteva farci niente. Il fatto è che l’80% della terra è coperta da oceani e gli oceani sono una grande massa di acqua, e l’acqua ha la capacità di sciogliere al suo interno anche gas, capacità che dipende dalla temperatura, ma sono in gioco tante variabili. È difficile dire che i ghiacciai si sciolgono solo perché bruciamo carbone nelle centrali elettriche, ma una parte può anche essere attribuita a questo.
R.C. Certo. Ma questo determinismo che certe volte viene evocato…
G.Z. Sicuramente è bene ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
R.C. Chiaro.
G.Z. Però non possiamo attribuire l’effetto serra essenzialmente a quello che ha fatto o che sta facendo l’uomo.
R.C. Già questa mi sembra una notizia sensazionale.
G.Z. Basti pensare che se la temperatura dell’oceano cambia di 0,1°C, la quantità di anidride carbonica che può immagazzinare in più o in meno, come gas disciolto, corrisponde a non so quante centinaia di anni di produzione delle centrali. Basta che un vulcano si metta a eruttare, come è successo con il Pinatubo anni fa, e cambia drasticamente la situazione, oppure basta una macchia solare in più. Io credo che sia molto più grave quello che prima chiamavo micro inquinamento, cioè la contaminazione ambientale derivante da sostanze che sono pericolose anche quando sono in parti per milione o parti per miliardo, in particolare quelle che hanno un effetto mutageno. Qui, la ricerca chimica e la medicina non sono indenni da critiche.
Pubblico È solo leggenda il fatto che le famose boschette, cioè quei boschi di piante spontanee che una volta insistevano, ora molto meno, sui terreni agricoli, erano fonte di attrazione delle piogge, e rendevano il terreno adiacente più umido degli altri così da essere sempre attorniati da prati, che producevano erba e foraggio? Questi sono venuti attualmente a mancare in quasi tutte le zone a coltivazione agricola per motivi di interesse economico, non consentendo più questi provvidenziali momenti di umidità e anche di freschezza e quindi di minor siccità.
G.Z. Io non metterei le variazioni climatiche in relazione solo a questo. È anche questa una componente, indubbiamente, che contribuisce a mantenere una temperatura della superficie terrestre più ragionevole rispetto, per esempio, a una superficie pavimentata. La superficie pavimentata, sopra tutto un tetto, magari scuro di colore, d’estate attira tanto calore, e genera correnti ascensionali talmente elevate che produce un piccolo sconvolgimento climatico. Allora, quando non c’erano queste grandi superfici pavimentate e era prevalente il verde o il bosco, le correnti ascensionali non c’erano e le piogge erano meno concentrate in determinate posizioni. Oggi, perché le grandi alluvioni avvengono a Schio, Bassano e comunque in comuni pedemontani? Perché, per effetto di queste forti correnti ascensionali dovute alle superfici pavimentate, alle strade, ai capannoni, le correnti che portano la pioggia si scontrano più violentemente con le correnti fredde in corrispondenza della pedemontana, cioè ai primi rilievi. A Bassano piove, per esempio, il doppio rispetto a quanto pioveva cinquant’anni fa. Ma se piove il doppio a Bassano, piove di meno a Cittadella, perché alla fine l’acqua che scende sulla terra è la stessa. È un complesso di modificazioni che hanno portato a questo regime, non è solo il fatto che non c’è più il bosco in una certa zona, perché esso, da solo, non può avere un effetto rilevante sulle modifiche climatiche.
Pubblico Quella zona a cui lei ha accennato, tra poco sarà addirittura intaccata da acqua salata?
G.Z. Diventa il paradiso dei volovelisti, come succede adesso.
R.C. Per via delle correnti ascensionali.
G.Z. L’aeroporto di Thiene, per esempio, che è vicino alle montagne, è ideale per prendere quota e arrivare a altezze tali da riuscire a andare in Austria e tornare indietro solo per effetto delle correnti ascensionali delle aree pavimentate.
Fernanda Novaretti Parlava prima degli sprechi dell’acqua. Volevo conoscere la situazione degli acquedotti a Padova e nei comuni circostanti, visto che lo spreco d’acqua molto spesso si verifica nel corso della distribuzione nel territorio.
G.Z. Sì. Mediamente, dicevo, su 250 litri che vengono immessi nell’acquedotto per ogni abitante, 90 litri vanno in perdite. Questo non è vero dappertutto nella stessa misura. La città di Padova ha una percentuale di perdite abbastanza modesta, dell’ordine del 15%, quindi meno di quei 90 litri. Per contro, ci sono aree, sopra tutto nella Bassa Padovana, dove l’acqua dispersa è più della metà di quella che viene immessa in rete, perché ci sono più condotte e i tubi, a parità di abitanti serviti dall’acquedotto, sono più lunghi, per cui l’incidenza diventa maggiore. Economicamente non conviene eliminare queste perdite, perché il costo di eliminazione è superiore al vantaggio che si avrebbe dal risparmio d’acqua. Per questo dicevo che 1 euro al m3 è un costo troppo irrisorio per permettere un ciclo virtuoso di risparmi.
R.C. Cioè, si risparmierebbe troppo poco in acqua per giustificare il grosso investimento in opere.
Mario Quaranta L’ONU, che interviene in tanti campi della vita civile, economica, politica, ha fatto convenzioni o ha preso posizione su questo specifico problema?
G.Z. Sì. Nei paesi così detti in via di sviluppo, indubbiamente ci sono molte attività svolte, non tanto dall’ONU, quanto da organismi internazionali, in particolare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ci sono anche organismi che si occupano d’idrologia e che esportano in questi paesi conoscenze riguardanti lo sviluppo di sistemi di serbatoi per immagazzinare l’acqua, anche per cicli pluriennali. Ci sono finanziamenti anche a fondo perduto per molti di questi paesi. Sono tutte cose, però, che sono dei palliativi rispetto al problema generale. Si trovano situazioni come quelle della Cina, in cui si producono sconvolgimenti climatici per effetto della costruzione di grandi impianti, come la famosa diga delle Tre Gole, che i cinesi costruiscono perché serve in questo momento al loro sviluppo industriale, senza considerare quello che succederà anche nella stessa tettonica della crosta terrestre, perché fare dei grandi laghi che pesano sulla crosta terrestre – la crosta terrestre, poi, galleggia sul magma – può produrre terremoti o abbassamenti di terreni, anche a grande distanza da dove sono stati realizzati. Forse questa visione planetaria del problema manca anche all’ONU. Si vede il problema dell’emergenza locale del singolo stato, ma non si vede l’effetto a grande scala. Ci sono mille esempi del genere in tutto il mondo. La Siberia stessa sta modificando drasticamente il clima con la costruzione di dighe e laghi sui grandi fiumi che sfociano nell’Artico, che modificheranno non solo il peso sulla crosta terrestre, ma anche la massa termica di tutta la fascia, con conseguenze non valutabili con semplici modelli, perché agiscono sulla circolazione di correnti aeriformi su tutta la terra. È come se si formasse una grande nuvola in corrispondenza della Siberia, e là dove prima c’era una grande depressione fredda, adesso c’è una nuvola di vapore. Che conseguenze avrà? Ho fatto apposta l’esempio del modello matematico del battito d’ala di farfalla, proprio per fare vedere come i problemi climatologici sono talmente complessi che non sono risolvibili con gli strumenti nostri. Magari un giorno, oggi no.
Cecilia Maurantonio Lei, prima, ha attraversato l’aspetto della casualità, del caso. M’interrogavo a proposito di quanto stava dicendo adesso, se non sia il contrario, cioè che il clima sia ciò che risulta da una serie di combinazioni, di come le cose si combinano e di come non sono prevedibili, non sono dirigibili, non sono padroneggiabili. Visto che noi ci troviamo a constatare quanto avviene nell’esperienza della parola originaria, è proprio la questione del caso che si pone, cioè del caso originario nella logica della parola. Quindi, m’interrogavo come possa trovarsi qualcosa d’interessante nella relazione tra gli elementi. Come ciascuna cosa può trovare una logica, come si combini in un modo che non sia né negativo né positivo; ne accennava prima il dottor Chinaglia a proposito dell’ossimoro. Come questa apertura si offra a una molteplicità di altre cose che procedono, però, come una questione logica che conduca al fare, non solo in termini di prevenzione o di valutazione di elementi. Anche la gravità non è solo qualcosa che gravita o che indica il luogo o il basso, ma magari segue un’altra logica, vari aspetti logici delle cose che devono trovare il modo della combinazione
G.Z. Che posso risponderle? Per me, il caso è quello che non riesco ancora a spiegare. Può darsi che ci sia una spiegazione logica a tutto, ma noi non ci siamo ancora arrivati. Allora, quello che non riusciamo a spiegare lo chiamiamo caso, oppure, se facciamo un modello matematico, lo simuliamo come una funzione così detta random. L’importante, quando non sappiamo giustificare una cosa, è identificare una strada virtuosa che porti a ridurre il problema. Non sappiamo se lo risolveremo, l’importante è sapere che non lo peggioriamo. Se siamo davanti a problemi climatici, se siamo davanti a problemi di discrasia tra domanda e offerta d’acqua, sia perché diminuisce l’offerta, sia perché aumenta la domanda, in quanto aumentiamo noi sulla terra e gli usi che facciamo dell’acqua, dobbiamo comunque mettere in atto delle azioni che portino a una riduzione di questa discrasia, al di là della comprensione o delle giustificazioni tecniche o scientifiche di quello che sta succedendo.
C.M. Volevo solo precisare che quello che ho detto non si riferiva a una necessità di spiegazione o implicazione. Ponevo soltanto una questione rispetto alla logica, che possa intervenire qualcos’altro ancora. Comunque, grazie.
Pubblico Lei ha fatto cenno al Giappone e a ciò che sta facendo la Germania per l’utilizzo dell’acqua. L’introduzione in Italia di queste regole, secondo lei va contro e in che misura a comportamenti individuali e collettivi ormai consolidati nei confronti di questo problema? Cioè, c’è una sensibilità e una conoscenza tale che possa convincere o indurre o, quanto meno, generare l’introduzione di regole che esistono in altri paesi, oppure quali ostacoli bisogna superare?
G.Z. Non è un problema tecnologico, è un problema di etica. L’etica si costruisce un po’ alla volta; si costruisce anche parlandone qui, si costruisce parlandone in famiglia con i figli piccoli. Io ho provato. Fin da piccoli, i miei li ho abituati a fare la doccia e non il bagno, a chiudere il rubinetto quando non serve e a fargli vedere sul contatore di casa come l’effetto di questo comportamento produca il fatto che noi, in casa, consumiamo 90 litri di acqua per abitante al giorno, non 250. Non è che ci laviamo di meno per questo, semplicemente usiamo bene l’acqua, anche se costa pochissimo. Superiamo tuttavia sempre il minimo, per cui di fatto paghiamo di più, però rimane la soddisfazione intima di avere fatto qualche cosa che va nella direzione giusta e senza un grande sforzo. È una cosa che si diffonde un po’ alla volta, anche per contagio. Forse ci vuole molto tempo. Sarebbe più facile se l’acqua costasse di più, come diceva il dottor Chinaglia, però questo è molto difficile, perché basta aumentare un centesimo e i giornali fanno titoli in prima pagina con scritto “maxi stangata”, perché altrimenti non si legge. Poi, se uno fa il conto di quanto incide nel bilancio familiare l’incremento della tariffa di cui si è parlato in questi mesi, per effetto del piano d’ambito, vede che con il telefonino in una settimana spende di più rispetto a quello che spende in più di un anno di acqua. È un problema di etica, d’informazione, di comunicazione, molto difficile da affrontare perché, purtroppo, la nostra stampa è in buona parte scandalistica. Però la direzione è quella.
Chiara Alessi Volevo sapere perché molte risorgive nella zona del vicentino e anche del padovano sono scomparse, e se a questo fenomeno contribuisca l’escavazione indiscriminata che è stata fatta nel letto dei fiumi per uso industriale.
G.Z. Dicevo prima che nel vicentino, proprio dove ci sono i pozzi di Padova, la falda si è abbassata di dieci metri. Se si abbassa la falda in tale misura, non arriva più a quella specie di bocca di sfioro che sono le risorgive. Le risorgive sono attive quando tutta l’acqua che non sta nella falda, cioè che ha già saturato la spugna sotterranea, viene fuori per troppo pieno. Essendosi abbassata la falda di dieci metri, il troppo pieno non esiste più. Da questo derivano due cose: la prima è lo squilibrio tra ricarica e prelievo. Quando dicevo che è cambiata la climatologia delle piogge, forse non ho detto che questo ha comportato una riduzione del 20% dell’acqua che in effetti va a finire nella falda. La ricarica in questa grande spugna sotterranea è diminuita del 20%. Per contro, i consumi sono aumentati del 100%, e quindi c’è uno squilibrio; è come una vasca da bagno che ha un rubinetto che la riempie con meno acqua rispetto a quella che esce dal fondo. A questo si somma l’effetto delle escavazioni. Le escavazioni hanno abbassato in particolare il letto del fiume Brenta. Ma con l’abbassamento del letto, si è abbassata la quota alla quale comincia la ricarica dal letto del fiume verso le falde intorno. Quindi, mentre prima il fiume alimentava le falde partendo da un certo livello elevato e caricava una fetta di spugna ampia, ora la fetta di spugna che viene caricata sta più in basso, avendo perso tutta la parte superiore. In certe posizioni del Brenta, a Carturo, questo abbassamento è di dieci metri; all’altezza di Fontaniva, siamo sui 4-5 metri. Se si pensa che ogni metro di falda vuole dire circa 50.000.000 di m3 di riserva, si calcola facilmente quanta ne abbiamo perduta per questa ragione. È una cosa alla quale si sta rimediando con opere artificiali che troveranno un sacco di ostacoli da parte degli ambientalisti, ma che, forse, si riusciranno a fare per ripristinare il letto del fiume all’altezza originaria, realizzando un fiume artificiale. D’altra parte, ormai tutti i fiumi sono artificiali in Veneto.
R.C. Cioè, anche un’opera che andrebbe in direzione del ripristino dell’ecologia di un territorio incontrerebbe l’opposizione da parte degli ambientalisti?
G.Z. La prima cosa che succede è la nascita del “comitato contro”, che non nasce perché l’ambientalista si è fatto un’idea particolare, ma nasce perché uno che vuole fare carriera politica considera che quello è un argomento utile per la sua propaganda e, quindi, fa nascere il comitato stimolando certe reazioni. Poi, il comitato, appena è nato, non può più tirarsi indietro; va avanti per la sua strada! È un processo ormai codificato nei manuali. Negli Stati Uniti, tutti i capi dei comitati ambientalisti sono diventati senatori e poi hanno cambiato, ovviamente, atteggiamento.
Bruna Milesi Potrebbe fare un accenno all’acqua come via di comunicazione, qua nel Veneto? In particolare del perché in sessant’anni non siamo riusciti a fare l’idrovia Padova-Venezia?
G.Z. Il Veneto ha una storia di 500 anni di grande idraulica. La grande idraulica è nata qui. La scuola d’idraulica di Padova è una delle più conosciute nel mondo, non solo in Italia, per merito della storia che ci sta dietro. Quand’ero bambino vedevo i barconi carichi di sabbia, o carbone, o altro materiale che viaggiavano lungo il Bacchiglione e anche nei canali interni di Padova, trainati da muli, e era una cosa normalissima. Qualche anno prima, fino agli inizi del 1900, si arrivava col barcone fino a Vicenza. Anche il Bacchiglione era navigabile e, dove ci sono oggi dei salti – uno è poco dopo Selvazzano, un altro all’altezza di Montegalda – c’erano come degli scivoli poco inclinati e i barconi, che hanno il fondo piatto, venivano tirati su per questi scivoli, e così si arrivava fino a Vicenza. Tutto il Canale Battaglia fino a Monselice, Este, era navigabile, per non parlare del Naviglio del Brenta, e c’era tutta un’economia che viveva su questo. Poi, negli anni 60 ci siamo inventati l’idrovia Padova-Venezia, che in realtà doveva essere un pezzetto di una grande idrovia che doveva arrivare fino a Mantova e congiungersi, poi, col sistema Mincio e il sistema Po.
L’idrovia ha avuto due difetti, il primo che è stata dimensionata per barche di 1350 tonnellate, una dimensione allora appena concorrenziale, che è diventata non concorrenziale subito dopo, in quanto oggi si parla di barche da almeno 3000 t. Il secondo difetto è che non c’è stato il coraggio di farla subito. Se si fosse fatta subito probabilmente sarebbe stata realizzata per intero e, quindi, avrebbe avuto un senso, avrebbe generato l’insediamento delle zone industriali in prossimità dell’idrovia e avrebbe approfittato del porto di Venezia, dello sbocco in mare. Solo che è arrivata tardi, perché subito dopo c’è stata l’espansione edilizia. Sul tracciato dell’idrovia, sopra tutto quella che va da Padova verso ovest, si sono insediate un sacco di costruzioni, e oggi, di fatto, è irrealizzabile.
C’è da chiedersi se un’idrovia Padova-Venezia, che tecnicamente sarebbe ancora fattibile e potrebbe essere facilmente adeguata per fare passare battelli anche da 10.000 t, ha ancora senso o meno. Qui, le opinioni sono le più diverse, perché si mescolano quelle degli idraulici, degli economisti, degli avvocati e di tutti quelli che vogliono mettere lingua sull’argomento. La mia personale opinione è che una via d’acqua tra Padova e Venezia può essere facilmente trasformata in una grande zona industriale longitudinale, con le industrie adiacenti all’idrovia, in modo da ricevere le materie prime direttamente in fabbrica e potere caricare quello che hanno prodotto direttamente sul barcone senza necessità di trasbordo. Questo avrebbe oggi, viste le prospettive che ci aspettano, probabilmente un grande significato, perché, con barche sopra le 5000 t si può tranquillamente navigare nel mare Adriatico, si può andare nell’Egeo, nel mar Nero, si può risalire in Ucraina, in Russia fin dove si vuole, si può risalire il Danubio. L’apertura verso est probabilmente avrebbe un significato economico interessante.
A me ha fatto impressione una visita che ho fatto anni fa a Cremona, dove c’è un porto fluviale collegato al fiume Po e, sulle banchine di quel porto, sono nate e stanno continuando a crescere aziende che producono manufatti grandi, che per essere trasportati avrebbero bisogno di trasporti speciali; per esempio, grandi trasformatori e grandi pezzi di meccanica: li fanno, li caricano sul barcone e vanno in Arabia Saudita, nell’Egeo, senza dovere essere caricati sui camion con la scorta della polizia davanti e dietro, con costi di trasporto superiori a quelli di produzione. Ma, per far questo, bisogna avere un po’ di lungimiranza e superare molti di quei livelli di autorizzazione che dicevo prima, che sono diventati la nostra palla al piede per le grandi iniziative. Se poi aggiungiamo il fatto che il porto di Venezia è contrario perché perderebbe traffico, diventa un’idea che ha scarsissime possibilità di andare avanti.
R.C. Perché il terminale non sarebbe in realtà Venezia né Trieste, ma sarebbe?
G.Z. L’idrovia Padova-Venezia era nata nell’ipotesi di fare un trasbordo nel porto di Venezia. Questo, però, non ha senso perché i costi di trasbordo non giustificherebbero l’operazione. La cosa ha senso se la merce viene caricata sulla barca direttamente per arrivare a destinazione senza trasbordo. Adesso, poi, che si parla di autostrade del mare, sarebbe una cosa talmente ovvia!
R.C. Perché sul porto di Venezia ci sono delle controversie. C’è chi dice che non ha più una funzione.
G.Z. Il porto di Venezia è strozzato dalla mancanza di vie di comunicazione a terra, perché la merce arriva all’interporto, scende, e dopo rimane incastrata nei camion in tangenziale. In queste condizioni, uno che deve spedire della merce la fa arrivare al porto di Ancona o di Trieste.
R.C. E da lì, via mare per un’altra zona.
Concetta Ardito Ho sentito dire che buona parte delle risorse idriche vengono utilizzate nelle coltivazioni intensive e che la produzione agricola che ne deriva è maggiore del fabbisogno. Sembra che anche in questo caso ci sia uno spreco.
G.Z. Ha sentito dire dove?
C.A. Su alcuni giornali.
G.Z. Cioè, c’è una sovrapproduzione. Questo è un problema ancora più generale, che non è tanto di acqua quanto di sfruttamento della terra, e che poi sconfina in problemi di regolazione europea delle produzioni e degli aiuti alle produzioni. Sconfina con problemi sociali, perché buona parte di queste cose sono stimolate dalla Comunità Europea per mantenere i contadini sui campi, permettendo un reddito concorrenziale con altre attività. Sono molti gli aspetti che vanno messi insieme. Direi che in Veneto questo problema è molto ridotto, anche perché i Veneti hanno avuto la buona idea di specializzarsi in coltivazioni, sopra tutto orticole che hanno mercato e che sono fatte secondo criteri di produzione di qualità. Un po’ come avviene nell’industria si cerca la nicchia, così in agricoltura adesso non c’è solo il radicchio rosso trevigiano, ma c’è il radicchio veronese, ci sono le patate di Cologna, ci sono mille coltivazioni che richiedono acqua, ma richiedono essenzialmente terreni adatti e sistemi di commercializzazione adatti.
Non metterei in relazione questi aspetti con uno spreco di acqua, tenuto conto del fatto che, quando si irriga un terreno, tutta l’acqua che non viene utilizzata dalla coltura non viene perduta, ma rimane nell’ambiente, se ne va in falda oppure filtra verso i corsi d’acqua. Il vero problema di spreco è quando usiamo dell’acqua che sporchiamo durante l’uso che ne facciamo, rendendola non più utilizzabile per altri usi o addirittura dannosa.
R.C. Molte cose sarebbero ancora da indagare. Ci sarebbe da capire perché l’Egeo abbia cambiato la sua funzione, con questa “bomba” calda sopra, da dove venga; ci sarebbe da chiedersi, dato che basta un po’ di vento per alzare il livello dell’Adriatico, se il progetto Mose ha una sua validità o meno. Ci sarebbero ancora tantissime cose sia per quel che riguarda il nostro ambito più vicino, sia per quello che concerne l’aspetto planetario e, certamente, il dibattito suscitato indica che la questione è di grandissimo interesse e riguarda chiaramente ciascuno di noi. Anche questo incontro assolve a una funzione sicuramente di informazione, sopra tutto di educazione, perché la portata di alcuni gesti, la portata di una serie di combinazioni di cose, per lo più non è considerata. È considerato il primo segmento e non è considerata invece una serie di fattori.
Tutto ciò s’inquadra a pieno titolo con la questione che stiamo esplorando, anche clinicamente, in merito a mitologie, ideologie, fantasie che riguardano propriamente gli effetti di ciò che ciascuno fa, dice e le combinazioni di ciascuno con altri e altre cose.
L’amore
Ruggero Chinaglia Dalla Pioggia e il bel tempo, di Jacques Prévert.
Aspetto la dolce vedovanza
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
Lui ha abbassato la fiamma della mia lampada di Aladino
mi ha chiamata bugiarda
e io non dicevo niente
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
Entrando al bordello
si è tolto la fede
e ha scelto
una donna che mi somigliasse
E, poi, con tutti i miei nomi
e nomignoli e soprannomi
febbrilmente l’ha insultata
e d’un tratto l’ha frustata.
Con me, non osava.
Sei la mia cagna
il tuo solo nome è Fedele
e, per me, ti butti nel fuoco
Ecco quel che le diceva
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
E poi
si è scagliato su di me
come fossi la sua peggior nemica
e mi ha baciata
e mi ha accarezzata
e io ero diceva, piangendo
tutto l’amore della sua vita
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
Già il mio innamorato
lava il sangue del delitto
nell’acqua dei miei occhi.
Dove vado, da dove vengo…
Dove vado, da dove vengo,
Perché sono bagnata.
Andiamo, non è difficile capirlo.
Sta piovendo.
La pioggia è pioggia.
Io ci cammino sotto – e poi,
E poi nient’altro.
Andate per la vostra strada
Come io per la mia.
Perché sguazzo nel fango?
Perché mi piace.
E la pioggia, la pioggia mi fa ridere.
Rido di tutto, tutto, tutto.
Se avete le lacrime in tasca
È meglio che torniate a casa,
È meglio che piangiate su voi stessi.
Ma lasciatemi stare,
Lasciatemi stare. Lasciatemi, lascia¬temi.
Il suono della vostra voce non lo voglio sentire.
Andate per la vostra strada
Come io per la mia.
Il solo uomo che amavo
siete stati voi a ucciderlo,
a prenderlo a manganellate, a cammi¬nargli sopra…
a dargli il colpo di grazia.
Ho visto scorrere il suo sangue,
scorrere nel rigagnolo,
nel rigagnolo.
Andate per la vostra strada
come io per la mia.
L’uomo che amavo
è morto, la testa nel fango.
Ah quanto posso odiarvi,
odiarvi… è folle… è incredibile.
E voi vi impietosite,
voi siete buoni, troppo buoni con me,
eh sì credetemi, troppo, troppo buoni.
Buoni… buoni come l’ammazzatopi con i topi…
ma un giorno… un bel giorno, il topino vi morderà…
Andate, andate per la vostra strada,
uomini buoni… uomini per bene.
Il cannibalismo è la forma emi¬nente di amore secondo il canone occi¬dentale. Il pasto d’amore, infatti, soddisfa le prerogative comunemente attribuite all’amore, ossia il possesso e l’unione con l’oggetto a fin di bene, bene proprio o altrui.
L’amore è eterno finché dura è il titolo di un film uscito recentemente che indica con precisione una mitologia del canone occidentale: la fine del tempo. L’idea di amore, nel canone occidentale, è legata alla fine del tempo, dunque alla fine dell’amore. Questa idea di amore oscilla fra la possessione del suo presunto og¬getto e l’unione con esso, due modi di estinguerlo. Affetto, sentimento, attrazione, desiderio sono i termini con cui il discorso occidentale ha provato a definire l’amore, sempre intendendolo come rapporto, rapporto amoroso.
Rap¬porto amoroso è un modo per indicare il concetto di amore, ossia la sua sostanzia¬lizzazione una volta che è stata tolta la parola. Allora sarebbe possibile il rapporto amoroso. Entrare in rapporto, mettersi in rapporto, rapportarsi con l’Altro inteso come oggetto d’amore, sono metafore della mediazione di un in¬contro impossibile che si vorrebbe ren¬dere padroneggiabile e prevedibile. Que¬sto concetto d’amore sorge come rea¬zione all’amore originario, a quell’amore che Freud ha in prima istanza qualificato come amore di transfert. La fiaba di Ala¬dino e la lampada meravigliosa ruota ap¬punto attorno all’amore di transfert, pur attraverso il tentativo di sostanzializza¬zione, anche di localizzazione, che ogni elusione del transfert comporta.
Transfert, ossia l’itinerario della parola dalla sua causa alla sua cifra. Il transfert e l’amore che sta nella parola comportano che, nel dispositivo della parola, non c’è accesso diretto alla parola, non c’è chi possa dire quello che vuole, non c’è chi riesca a dire ciò che vuole senza incon¬trare equivoco, differenza o malinteso. Ma per intendere ciò di cui si tratta quanto all’amore, occorre esplorare la nozione di accesso non diretto alla pa¬rola, perché, contrariamente a quel che ognuno pensa, l’accesso alla parola non è diretto. Non c’è accesso diretto alle cose, dunque non c’è nemmeno comunicazione diretta. Niente telepatia. Non c’è accesso diretto al godimento, al sapere, al deside¬rio, alla verità. Quest’idea dell’accesso diretto è magica e ipnotica, toglie l’itinerario, toglie la domanda per isti¬tuire il regno della lampada, lo stato dei fatti, senza costruzione, senza struttura, senza industria, struttura e industria della parola. Così, nell’idea di accesso di¬retto, accesso diretto all’Altro, accesso diretto alla parola, può rappresentarsi la soggettività con il suo ricatto e il suo ri¬scatto, propri della mitologia del rapporto amoroso.
Aladino e la sua lampada indicano che l’accesso non è di¬retto. La lampada, per Aladino, diventa la chiave dell’accesso, la chiave così detta di lettura, la chiave della possibilità. Ogni nozione di chiave sorge rappresentandosi un sistema delle cose, un sistema finito, un codice da decifrare, cioè un codice già dato, una struttura già data. Ma, nella struttura della parola, il codice non è già dato, il codice s’istituisce parlando, è un aspetto della struttura che non è formale ma temporale. Allora, con Aladino, ognuno si rappresenta l’accesso innanzi tutto come dovuto, poi come permesso o come vietato, e istituisce il despota o il tiranno a sua misura quale detentore della chiave d’accesso. Ala¬dino, che non ha l’accesso genealogico alla famiglia del sultano, è costretto a fantasticare intorno alla lampada e al suo genio.
Il genio della lampada o il genio di Aladino o la genìa o l’ingenuità o l’ingegno? Parlando, l’accesso alla parola segue il modo del non. Parlando, qual¬cosa sfugge, per cui è impossibile avere le cose che si dicono, altresì è impossibile essere le cose che si dicono, e impos¬sibile è pure che le cose che si dicono, siano. Ecco i due impossibili della parola: l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere, il non dell’avere e il non dell’essere. Non si tratta del non avere o del non essere, ma del non dell’avere e del non dell’essere. Non si tratta della nega¬tiva dell’avere e della negativa dell’essere, ma del non proprio all’avere e del non proprio all’essere. Il non, Il non originario, il non strutturale indica l’assenza di dicotomia, l’assenza di alterna¬tiva fra l’avere e l’essere, fra l’avere e il non avere, fra l’essere e il non essere. Costitutivamente, parlando, avviene che la parola funziona secondo questi due non: il non dell’avere e il non dell’essere, il non della rimozione e il non della resi¬stenza, due funzioni che rendono impos¬sibile attribuire alla parola un codice, un significato, una decidibi¬lità.
Il modo comune di rappresentarsi que¬sti due impossibili che rendono la parola impadroneggiabile, è attraverso l’idea di perdita o l’idea di mancanza o di limite attribuiti a sé o all’Altro. Il modo co¬mune di reagire all’impossibile dell’avere e all’impossibile dell’essere – ciò per cui risulta impossibile dire cosa si ha e cosa si è, e che introduce alla questione del disagio come questione strutturale, come questione che avvia la ricerca, a partire dal non dell’avere e dal non dell’essere e che avvia la questione dell’amore – è l’impossibilità di at¬tribuirsi la perdita, la mancanza o il li¬mite.
Il modo comune di reagire a ciò che interviene parlando, a questa impadro¬neggiabilità, a questo accesso non diretto alle cose, è quello di attribuirsi una ca¬renza, una mancanza o un limite, di pen¬sarsi carenti di qualcosa o perché privati da qualcuno o perché carenti per nascita o perché limitati per motivi vari. Questo è il modo soggettivo, sostanzialista, di evitare la questione della parola a favore di un’idea di soggetto debole, malato o mancante. La questione ha ben altra nobiltà che non quella del soggetto: il non dell’avere istituisce la castrazione e il non dell’essere istituisce la disdicenza.
Ca¬strazione, disdicenza e limite non sono sensa¬zioni, né effetti, né attributi di qual¬cuno. Castrazione, disdicenza e limite sono séguiti del funzionamento delle cose, séguiti della funzione di rimozione, della funzione di resistenza e della fun¬zione di Altro, cioè lasciti della parti¬colarità.
La castrazione è il non accesso diretto al godimento, ciò per cui il godi¬mento non è mai completo, non rag¬giunge mai il colmo, non è mai finito e dunque la castrazione non finisce. Niente di negativo, quindi. La castrazione av¬viene in un dispendio senza conteni¬mento, inesauribile, e la nozione di esau¬rimento è la rappresentazione del toglimento della castrazione. L’esaurimento così detto nervoso è un modo di non considerare la questione della castra¬zione, un modo di patologizzare l’esigenza del godimento, fantasmatiz¬zata però in un accesso diretto al godi¬mento. Accesso diretto che comporte¬rebbe proprio l’estinzione, l’esaurimento dell’oggetto a cui ci sa¬rebbe accesso. Presumendo la possibilità di avere accesso diretto, l’idea di fine – nella fantasmagoria che può avere, tra cui quella dell’esaurimento – è una conseguenza immediata. L’esaurimento è una formula che reagisce all’impadroneggiabile della castrazione.
Ma il godimento, come effetto della pa¬rola, come effetto del funzionamento della rimozione, è inassegnabile, è impa-droneggiabile, è illocalizzabile per via della castrazione e, contrariamente a quanto viene comunemente creduto, è proprio la castrazione che lascia godere. Come dicevamo quindici giorni fa, il fantasma di padronanza vorrebbe togliere la castra¬zione per istituire la riproducibilità del godimento, per applicare al godimento una sorta di modalità scientifica per cui, a parità di condizioni, io saprei come, dove e quando riprodurre il godimento, cioè un modo di applicare alla parola la mitologia della droga. La mitologia della droga procede proprio dall’idea di un godimento riproducibile, padroneggiabile, controllabile e somministrabile a comando. Ora, proprio questa mitologia trova il suo scacco nella parola. Solo che lo scacco della pa¬dronanza, lo scacco della riproduci¬bilità, lo scacco della posologia viene inteso come mancanza, carenza, limite, deficit del soggetto, e a questa as¬senza di controllo e di padroneggiabilità della parola che è strutturale, si tenta di porre rimedio con la mitologia della droga.
Alla castrazione viene contrappo¬sta la prescrizione alla pienezza di sé, per cui ognuno deve essere padrone di sé, delle sue idee, dei suoi gesti, delle cose che dice. Padrone, e avere il con-trollo, mentre l’assenza di controllo viene spacciata come una patologia. Sorge così il soggetto della castrazione, ossia il soggetto castrato, soggetto della miseria o della povertà di spirito, sog¬getto che non avrebbe quel che gli serve o perché gli è stato negato o perché gli è stato tolto. Quindi, al soggetto della ca¬strazione che cosa immediatamente cor¬risponde? Il soggetto della rivendica-zione, ossia il soggetto che fa della ven¬detta il suo habitat, vendetta con i suoi corollari, la colpa e la pena.
Il sog¬getto della rivendicazione, soggetto del ricatto e del riscatto, soggetto dell’amore di sé, dell’amor proprio e dell’amor cor¬tese, soggetto dell’amore come rapporto amoroso, s’istituisce come vittima, è il soggetto vittima: vittima della castra¬zione, della disdicenza e del limite pensati e ritenuti come causati dall’Altro, dall’Altro despota, dall’Altro ti¬ranno, dall’Altro come nemico. Chi si crede vittima crea il persecutore come causa della castrazione e il tiranno come causa della disdicenza. Ma l’autore della castrazione non è qualcuno, ma autore della castrazione è il nome che funziona, è il nome che funziona nella funzione di ri¬mozione.
Funzionando la parola, producendo nel funzionamento effetti di senso e di godimento, la castrazione è ine¬vitabile. La castrazione è nello scarto tra qualcosa di previsto e qualcosa che si effettua, è nello scarto del funzionamento delle cose. Funzionamento imprevedibile, perché avviene non già in un sistema finito, ma nell’infinito attuale della parola. La castrazione, lungo il non dell’avere, lungo l’impossibile dell’avere, è ciò che rende impossibile il possesso, la posses¬sione.
La disdicenza, invece, segue la funzione di resistenza come impossibile dell’essere, è ciò che segue alla differenza da sé del significante. Nome, significante e Altro costituiscono la tripartizione della parola in quanto segno, segno tripartito che la rende impadroneggiabile. Occorre intendere la portata di ciò per capire la questione che con Freud ha preso il nome di inconscio. L’inconscio non è qualcosa di oscuro che poi si chiarirà. L’inconscio è la particolarità per cui ciascuna cosa non ha l’uguale, non ha il suo pari, sfugge alla previsione per cui occorre l’ascolto, l’intendimento, lo sforzo, l’itinerario per la qualifica di cia¬scuna cosa. In questo senso la castra¬zione è inconscia, originaria e senza soggetto. La psicopatologia è il tentativo d’istituire una coscienza della castra¬zione per tentare di localiz-zare la differenza e la variazione che si producono parlando.
Chiaramente, se la prescrizione è quella di avere la certezza di quel che si dice, di sapere che cosa e come dire le cose, di fronte allo scarto, alla differenza, alla variazione, alla sor¬presa, alla meraviglia, all’invenzione di qualcosa che si produce inaspettatamente, può esservi una reazione. Questa rea¬zione è la padronanza, che resta un fanta¬sma del discorso occidentale, un fanta¬sma per reagire all’impadroneggia¬bile della parola, all’impossibile come impossibile della rimozione e im¬possibile della resistenza.
Ecco allora la lampada, la lampada di Aladino come tentativo di gestire, controllare il non, per realizzare le cose in quanto tali senza un dispositivo intellettuale, senza il di¬spositivo del transfert, senza l’esigenza di qualificare le cose, ma in una sorta di automaticismo: detto fatto, pensato fatto, senza scarto, senza sorpresa e senza nessuna variazione, che è come dire senza arte e senza cultura, in un ideale psi¬cotico delle cose.
Dicevo del vittimismo come terreno su cui s’impianta e cresce la mitologia della droga con la sua poso¬logia della colpa e della pena. L’altra faccia del vittimismo è l’arrivismo, in cui si tratterebbe di essere il numero uno. Occorre distinguere il narcisismo dall’arrivismo. Nel narcisismo si tratta della riuscita, della rivoluzione delle cose verso la qualità, quindi verso l’eccellenza che sta nella qualità. L’arrivismo, invece, considera l’idea di essere il numero uno. E chi è il numero uno? Sarebbe il soggetto senza castrazione, senza mancanza, senza de¬bolezze, senza manchevolezze, senza in¬certezze, il soggetto pieno di sé, ossia il soggetto che è se stesso.
Essere se stessi è una prescri¬zione infausta, una prescrizione assolu¬tamente orribile e terribile; una prescri¬zione alla padronanza essere se stessi. Se stessi: una prescrizione alla stessità. L’importante è essere se stessi. Cioè, che cosa? Intanto essere, la prescri¬zione a essere abolendo la parola, il tempo, il divenire. Essere se stessi. Come, chi, secondo quale criterio? Es¬sere se stessi per diventare uomo, un vero uomo, una vera donna, per essere. Per essere morti. Essere se stessi, cioè essere morti. “Sii te stesso”, ossia muori, sii morto. “Non ti muovere! Sii te stesso. Giudica secondo te stesso”. Qual è il cri¬terio di se stessi? Non c’è. Bene, giudica senza nessun criterio, con l’autorità che è nel tuo essere!
Ma l’autorità è l’incremento, viene dall’aumento. Funzionando il nome, av¬viene un aumento, e l’aumento com¬porta l’autorità. Senza funzionamento, abolito il funzionamento, tolta la castra-zione, prescritto l’essere delle cose, quale autorità? Dove starebbe l’autorità? Di quale autorità? Sarebbe l’autorità dell’essere uguale agli altri soggetti, quindi si tratterebbe di essere uno che si raddoppia, si riproduce sempre nella sua specularità. Questo sarebbe il soggetto della castrazione, il soggetto della man¬canza.
Espungendo la castrazione e la di¬sdicenza dalla parola, la prescrizione è a questo, all’uguale, alla parità che poi di¬venta parità sociale, ossia paranoia so¬ciale. È l’abolizione della serie perché uno è il paradigma dei tutti. Il pluralismo è questo: la riproduzione, il plurale dell’uno, il plu¬rale dell’identico. Quello che sembra una grande conquista, il pluralismo, è la pre¬scrizione all’assenza di arte e di cultura, perché il pluralismo abolisce la moltepli¬cità, non apprezza la variazione estrema o la differenza estrema. Variazione e diffe¬renza sì, ma entro certi limiti, altrimenti ecco l’anormalità.
Castrazione e disdi¬cenza originarie non derivano quindi dall’assenza di qualcosa, da qualcosa che non c’è o che manca; al contrario, sono l’emergenza di qualcosa che è sovrab¬bondante. Qualcosa deborda, qualcosa eccede, per cui la castrazione sul ver-sante del godimento, la disdicenza sul versante del sapere, e anche del desiderio. Castrazione e disdicenza sono emer¬genze dell’impossibile: l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere. L’impossibile, ossia il non, il non della rimozione e il non della resistenza che rendono impadroneggia¬bile la parola e impadroneggiabili le cose, ciò per cui è essenziale il dispositivo della parola, il dispositivo di qualifica¬zione, ossia il transfert. Reagendo all’impossibile della rimozione e all’impossibile della resistenza, il di¬scorso isterico avverte la castrazione vit-timisticamente e tenta di farsi vittima dello strappo, vittima di un presunto au¬tore dello strappo e tenta di rappresentarsi come soggetto della castrazione: soggetto segnato da ciò che sarebbe stato tolto; il discorso ossessivo tenta di farsi servo della pienezza e, dunque, soggetto della mancanza. Povero di spirito il soggetto che tenta di rappresentarsi nel discorso isterico; soggetto misero il soggetto che tenta di rappresentarsi nel discorso osses¬sivo.
Se ci sono domande, notazioni, giu¬sto per proseguire.
Pubblico Io ricordo una frase che ho letto e riguarda forse il tema di sta¬sera “Amare il prossimo è la forma più raffinata di disprezzo del prossimo”.
R.C. Amare il prossimo. Già la formula è tutt’altro che chiara. Che cosa comporterebbe amare il prossimo?
Pubblico Potrei pensare “trasferisco qual¬cosa all’altro”. Ingenuamente, potrei pen¬sare questo.
R.C. La nozione comune di amore è volere il bene altrui. La massima espressione dell’amore sarebbe volere il bene del prossimo. Ma quale sarebbe il bene del nostro prossimo? La nozione di bene è del tutto oscura, del tutto non qua¬lificata. Il bene del mio prossimo è quello che io ritengo sia il suo bene. Quindi, fare il bene del mio prossimo è fare di lui ciò che io voglio. Non è la riduzione a schiavitù, questa? In certe forme, per la via del bene “Guarda, non opporti, è per il tuo bene. Io so qual è. Tu, no, quindi, io ti amo e faccio di te quello che voglio, perché è per il tuo bene”. È questo l’amore? È una nozione di amore un po’ sospetta! È una nozione di amore morale che passa, nella migliore delle ipotesi, attraverso una condivisione della nozione di bene, cioè attribuendo a que¬sto termine, diciamo così, un valore con¬diviso. Ma il valore è assoluto. Ciascun caso esige il suo valore assoluto. In nes¬sun caso in cui si tratta della qualità può venire attribuito un valore condiviso, per¬ché nessun caso è il plurale di un altro caso. Ciascun caso è specifico, assoluta¬mente unico. Allora, la questione clinica sta qui, nell’unicità della casistica.
Pubblico Ma non è orfano.
R.C. Non è orfano, è unico. Per giun¬gere all’unico occorre che le cose proce¬dano per integrazione. Quindi, orfano di nulla, carente di nulla, mancante di nulla. Per integrazione, per cui ciascuna cosa è integra. E nell’integrità non c’è più il male, non c’è più il negativo, non c’è più la fine del tempo. Questo vuole dire attraversare e dissipare ogni fantasmatica legata alla padronanza, al controllo, alla fine, all’esaurimento, alla carenza, alla perdita, alla privazione, alla spogliazione, alla violenza come cose procedenti da soggetto a soggetto, isti¬tuendo sempre un rapporto dove ci sa¬rebbe la rappresentazione della causa, dell’autore, del male, del negativo. La rappresentazione che è sem¬pre della tribalità, della tribù, cioè dell’origine. Chi si rappresenta l’origine, da questa idea fa procedere tutti i suoi guai e, se non ne ha li trova, se li procura. Ora, è chiaro che per giungere a qualificare la questione dell’amore, occorre, per così dire, chia¬rire i termini del dispositivo in cui ci tro¬viamo, che non è quello del luogo co¬mune, del discorso comune, ma è il dispositivo della parola originaria. Stiamo parlando di questo amore, non dell’amore da rotocalco o televisivo, o della nozione di amore che potrebbe avere Willy Pasini, che è sem¬pre quello televisivo, dei rotocalchi.
Bruna Milesi Amore è, puntini, pun¬tini.
R.C. Esatto, perché l’amore è volto nell’amare. Nella parola si tratta dell’amore, non di amare. Questa presunta transitività per cui l’amore si volge nell’amare, non è affatto automa¬tica, non è affatto scontata. Occorre inda¬gare l’idea che sia possibile amare! Altrimenti ricadiamo nel caso indicato prima, cioè amare come dire volere il bene altrui. Ma già volere il bene altrui è propriamente impossibile perché vorrebbe dire sapere il bene. È impossibile sapere il bene.
Pubblico Prima di tutto, saper volere bene a sé stessi, perché se non sono in grado di sapermi amare, con tutti i risvolti etici e morali, penso di non potere avere questa azione sugli altri. L’essenza dell’amore è diversa dall’amare, è indubbiamente collegata a un volersi bene cognitivo, non egocen¬trico. È già difficile arrivare a questo e riuscire poi a riflettere su questo amore…
R.C. Cosa intende lei per volersi bene? In che modo volersi bene sarebbe di¬verso, differente dal volere il bene altrui?
Pubblico È completamente diverso.
R.C. E come avviene questa profonda differenza?
Pubblico Avviene, probabilmente con tutta la propria cronistoria genetica, collegata anche a un discorso ancestrale. Lei di¬ceva che, non necessariamente queste anomalie di amore o di bene sono colle¬gate a qualcosa o a qualcuno oppure a un pas¬sato. Invece, secondo me, esistono colle¬gate a una storia anche genetica. Io ne faccio anche una questione biologica che uno si porta dietro proprio a livello gene¬tico, a livello ereditario, una storia cro-mosomica. Credo che il grande problema dell’umanità stia proprio in questo, cioè dovremmo veramente cancellare tutto quello che è stato finora e ricostituire un “uno” che possa prendere in mano la si¬tuazione in maniera completamente di¬versa, basandosi sull’esperienza di chi ha vissuto prima.
R.C. Guardi che Platone è partito da questo.
Pubblico Lo so, il mito della caverna.
R.C. Lei vuole ritornare a Platone?
Pubblico No. Però non c’è via di scampo in questo momento, secondo me.
R.C. Ma sì che c’è! Come no! Basta non fare come Platone. Che cosa ha fatto Platone? Platone, Aristotele hanno rea¬gito alla parola originaria, hanno reagito al caos e hanno preteso d’indicare quale fosse l’ordine naturale delle cose. È sorto così il discorso, il logos come discorso di padronanza, come discorso secondo cui occorreva pensare, giudicare, ritenere, ordinare, istituire la società, la famiglia, l’essere di ognuno per vivere tranquilli, in pace. Di pace non si sente più parlare da allora in poi, se non nelle falle di que¬sto discorso di egemonia di cui ognuno tenta di avere le chiavi, per imporlo a un altro, agli altri. Ma questa è una reazione alla parola originaria, è una reazione alla libertà della parola, è una reazione all’infinito della parola, perché tenta di istituire un “uno” fondante da cui si ori¬ginerebbe la serie finalmente ordinata se-condo scienza e coscienza. Ma questo è il toglimento della parola, è il toglimento del transfert, cioè è il toglimento del di¬spositivo in cui può avvenire l’invenzione, l’arte della parola e la clinica della parola, ossia la rivoluzione della parola verso la sua qua¬lità e non verso ciò che costituisce la meta prescritta. Perché solo ammettendo l’infinito attuale, non l’infinito potenziale, quel che si dice è da indagare e da ascoltare, perché tende a ri¬volgersi alla qualità, che non è quella che noi sappiamo già, non è quella di cui ab¬biamo la chiave, perché non c’è la chiave di lettura, non c’è la chiave della qualità, per cui non c’è il possesso di qualcosa che faccia in modo di orientare ognuno nella direzione giusta.
La questione è quella dell’umiltà, della generosità, dell’indulgenza tale per cui può essere accolta la differenza, tale per cui ciascuna differenza può giungere alla sua qualificazione. Questo è impensabile per Platone, è impensabile per ognuno che ritenga di partire dall’uno comune. Questa è la questione. Non si parte dall’uno, caso mai si parte dallo zero, da quello zero per cui la serie è infinita, per¬ché, se noi partiamo dall’uno, non c’è più l’infinito. La serie è finita, inizio e fine. Ma con lo zero, invece, con il non, la serie è infinita e come tale, imprevedi¬bile. Lì sta la clinica che non assegna a questo o a quello il torto o la ragione, la verità o l’anomalia. Ciascuna cosa è anomala. Ciascuna cosa procede dall’anomalia. Se noi togliamo questo, ci situiamo in un apparato di contenzione. Ogni amore, inteso nella formula del ca-none occidentale, è un apparato di con¬tenzione, è un apparato di estinzione, come peraltro indicavano le due poe¬sie lette prima, in cui si tratta del bene, di quel bene che l’ammazzatopi vuole per i topi. Allora, il passo impassabile, il passo incredibile per l’epoca è di ammettere di non sapere quale sia il bene dei topi, perché non ci sono più topi, e quindi non ci vuole nemmeno l’ammazzatopi. È materia difficile.
Pubblico Anche perché il discorso è colle¬gabile sempre a una propria convinzione morale, religiosa, storica che va a in¬fluenzare la vera essenza del pro¬blema. Cioè, noi pensiamo a una cosa collegandola a altre. Perciò lo sviscerare quella cosa, poi, diventa asso¬lutamente più complicato e direi quasi impossibile per la mente umana.
R.C. No.
Pubblico Anche perché siamo condizionati da tantissime esperienze e, sono convinta di questo, anche genetiche. Uno non rie¬sce a liberarsi del fardello che si porta dietro. Non è solo la struttura dell’uno, è la struttura di tutti quelli che ci hanno preceduto a comporre l’uno, e sono tanti. Le ripeto, è difficile da spiegare, perché non sono un’addetta ai lavori. Ma co¬munque sono problemi che hanno tal¬mente tante radici che, trovare il vero seme di quella pianta, non so se sarà mai possibile.
R.C. Andiamo dal nostro amico An¬drea.
Andrea Mi sono venute alla mente varie cose. Lei parla di parola originaria. In questi giorni sto leggendo un libro di un autore padovano, che parla di idea origi¬naria. È una storia molto simile alla storia infinita, dove si cerca un nome, bisogna dare un nome. Poi, parlando di bene, mi è venuto in mente che nel Vangelo, Gesù non dice mai cosa sia bene o male.
R.C. Mica per caso.
A. Mica per caso. Lei, prima, parlava di fantasmatiche e la signora diceva: “È possibile liberarsi”. Gesù dice: “Rinnega te stesso”. Io mi chiedo se è possibile libe¬rarsi dalle convinzioni. Un’altra cosa, in Apocalypse Now c’è la bellissima fi¬gura del colonnello Kurtz che dice: “Ha mai preso in considerazione delle vere li¬bertà, delle libertà dalle opinioni comuni, anche dalle proprie opinioni, dalle pro¬prie convinzioni, delle libertà dalle pro-prie convinzioni?”. È Gesù dice: “Rinnega te stesso”. Sono tutte cose che mi sono venute alla mente.
R.C. Bene. Ci sono altri?
A. Mi pare che Gesù si sia espresso sul concetto di amore, perché dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.
R.C. Sì, diceva del bene, non dell’amore. Non dice qual è il bene.
A. Non dice qual è il bene. Io mi difen¬derei dal concetto di amore degli altri, cioè se gli altri volessero amarmi se¬condo la loro idea di amore. A proposito di quello che diceva lei dell’incon-gruenza che c’è tra l’essere e il dover es¬sere, nelle dieci tavole che Dio diede a Mosè, Dio si rappresenta a proposito dell’amore divino come “Io sono colui che è”, cioè avviene una catalessi. Cosa pensa di questa espressione, cioè della rappresentazione di Dio?
R.C. Lei ha detto bene, la rappresenta¬zione di Dio. Questa è una rappresenta¬zione di Dio, per cui a Dio viene attri¬buito l’essere, come rappresentazione.
Pubblico Senza nessun tipo di scarto.
R.C. Se è, non c’è nessuno scarto. Ma, appunto, si tratta di elaborare questa rap¬presentazione di Dio in termini logici. Che necessità ha Dio di attribuirsi l’essere? Che necessità ha l’uomo, tra virgolette, di attribuire l’essere a Dio? Sono questioni. Ciascuno può dare un contributo.
Pubblico Come punto di riferimento. Ogni individuo ha bisogno di avere, condizio¬nato o condizionante che sia, un punto di riferimento sicuro, l’unico che, dicono, bisogna che ci sia.
R.C. Dicono… Bisogna… E già non è più così sicuro che sia necessario.
Pubblico Io ho messo le due condizioni per quello.
R.C. Perché lei, prima, diceva della difficoltà di sviscerare.
Pubblico Dell’impossibilità.
R.C. Sì, ma in effetti, se non c’è il can¬nibalismo non c’è nemmeno la necessità di sviscerare, perché cosa vuole trovare fra le viscere?
Pubblico Ma il retaggio del tempo…
R.C. In un contesto cannibalico. Se invece astraiamo dal can-nibalismo, cioè dalla necessità ani¬malesca di considerare le cose, noi pos¬siamo fare qualcosa che non è proprio comune, non è alla portata di mano, ma che può conseguire risultati imprevisti, imprevedibili, incredibili ad¬dirittura, e cioè indagare sulle cose attra¬verso la procedura per integrazione dove nulla è scontato, dove ciascuna cosa ha il suo statuto che però non è già dato. Non è già dato e non è già assegnato, quindi è senza la mitologia della predesti¬nazione e della superstizione.
Senza superstizione è dire una cosa quasi per assurdo, perché vuole dire senza attribuire a ciascun elemento un’origine comune o già data, assegnata, prevista, prevedibile, né un destino; vuole dire senza origine e senza destino. Questo sarebbe senza superstizione. Quale scienza, quale dispositivo, oggi, è in grado di assicurare questo modo della ricerca? Senza superstizione, cioè senza un accordo preventivo sull’origine e sul destino, lasciando che qualcosa si precisi liberamente, cioè senza sistema di riferi-mento, senza punto di riferimento.
Pubblico Ma io non ne faccio un discorso di predestinazione o di superstizione, ne faccio proprio un discorso che c’è.
R.C. Ossia di superstizione e di prede¬stinazione!
Pubblico No, è innegabile che la nostra esperienza genetica e il nostro bagaglio genetico sono impossibili da cancellare.
R.C. Prima superstizione. Veniamo alla seconda.
Pubblico Non è la superstizione, è un dato di fatto …
R.C. Un dato di fatto!?
Pubblico Io mi porto dietro dei caratteri o delle predisposizioni.
R.C. Sarebbe veramente da verificare, come minino. Com’è che lei è così si¬cura?
Pubblico La genetica, secondo me, è il ba¬gaglio ereditario che uno si porta dietro, anche come ricordi ancestrali, che magari non sono stati comprovati scientifica¬mente, però indubbiamente ci sono.
R.C. Ha mai sentito parlare di mimeti¬smo?
Pubblico Sì.
R.C. Mimetismo. La genetica lo chiama ereditarietà. Allora, lei crede alla genetica o al mimetismo?
Pubblico Alla genetica.
R.C. Cioè al mimetismo!
Pubblico Lei lo sta dicendo adesso, mime¬tismo. Io non l’ho mai sentito associato alla genetica.
R.C. Ah, vede!
Pubblico Ammetto la mia ignoranza. Non avevo mai associato le due cose. Comun¬que, credo che il mimetismo in natura abbia tutt’altro significato. È un modo per difendersi.
R.C. Noi constatiamo talvolta che, quanto viene ascritto all’ereditarietà, si rivela un caso di mimetismo, cioè un caso di credenza così radicata da scriversi in termini reali, ma senza nessuna radice genetica. E questo accade. Ciò non vuole dire che allora tutto diventa mimetismo, però sicuramente non tutto è ge-netica. Non bisogna prendere la genetica e buttarla nella spaz-zatura, ma occorre introdurre la valuta¬zione di ciascun caso e non fare di ogni erba un fascio.
Pubblico In questo sono d’accordo.
R.C. Però è la modalità più seguita fare di ogni erba un fascio, accomunare, generalizzare, banalizzare. E la parola non si presta a questo. Il modo della pa¬rola non è questo. Certo, è un modo diffi-cilissimo, poco apprezzato da chi ritiene di non avere il tempo per giungere a qua¬lificare le cose e che, quindi, deve sbri¬garsi, fare presto, tagliar corto e seguire quello che si dice, la diceria: “Io ho sempre sentito dire. Ma io credevo che”. Occorre introdurre un altro modo della ricerca, della valuta¬zione, del giudizio, un’altra clinica che non dà per scontato nulla. È questa la questione intellettuale che la cifrematica ha accolto rispetto alla parola. Non dico ha introdotto, ma ha accolto, perché te¬stimonianze di ciò ci sono qua e là nell’arte, nella cultura, nella poesia, nella scienza, nelle falle della superstizione e del luogo comune, nelle falle dei convin¬cimenti e delle regole generali. In queste falle, qua e là, ci sono altri riscontri. Quest’altro modo è il modo della cifrematica.
Bruna Milesi Ritorno alla frase biblica “Io sono colui che sono”. La lettura è quella di attribuire a quel “colui che sono” l’unico caso di predicato ver¬bale del verbo essere. Però, c’è an¬che un’altra lettura, cioè Dio avrebbe detto a Mosè “Sono quello che sono”. In questo caso l’avrebbe buttata lì dicendo “Cosa te ne importa?”.
R.C. Esatto. Ci sono altri?
B.M. Volevo solo fare una precisazione su Socrate, Platone e Aristotele. Io ho interpretato il loro pensiero in maniera storica. Condivido perfettamente la sua opinione riguardo globalmente il loro pensiero sulla morale, ma ritengo che il loro pensiero non potesse essere diverso per l’epoca storica in cui sono cresciuti. Chi dava da mangiare a Platone e a Aristotele? Chi ha permesso di svol¬gere i loro studi? Sono cresciuti in una società delle polis greche, che viene tanto decantata come il modello di democrazia, ma che era basata sulla schiavitù, quindi non avrebbe potuto essere diverso. Da qui, la genealogia della morale e del bene comune, che non è comune; è il bene di chi ha l’interesse a fare continuare le cose in quella maniera. Questo lo si può ca¬pire, perché questo fantasmatico bene comune, chiamato morale, si è evoluto e diversificato a seconda delle epoche sto¬riche intercorse fino a noi.
R.C. Ma certo. Infatti, è un esempio di discorso al servizio del potere. Allora, la questione è che ogni discorso è un di¬scorso al servizio di un padrone e ogni discorso si istituisce come reazione alla parola originaria che, invece, non si presta a nessun servizio se non a quello intellettuale. Nella parola originaria si tratta del servizio intellettuale, il quale non è fina¬lizzato a dimostrare una verità data né a dimostrare una morale data; non è finalizzato a niente. Il servizio intel¬lettuale è “finalizzato” alla qualità, cioè si rivolge alla qualità, è senza finalismo. Questa è la questione per cui il servizio intellettuale risulta quasi inaccettabile per ciascun discorso di padronanza e di ser¬vitù, ma, sono d’accordo con lei, non è che facciamo il processo a Platone; è un esempio, per capire, tuttavia, come mai sorge questa reazione, vuoi ai sofisti o a altre voci che sorgevano qua e là e che sicuramente non erano fi-nalizzate a un’economia della parola. Quindi, la questione è quella intel¬lettuale, è la questione della qualità della parola, della qualità delle cose, della qualità della vita che non procede dal confort, ma è ben altra qualità.
B.M. È una conquista.
R.C. Esatto, chiaramente. Come anche la salute.
Giusto per darci appuntamento alla settimana prossima, concludiamo an¬cora con Prévert.
Il Défilé
E Dio
Dopo aver sorpreso Adamo ed Eva
disse loro
Continuate, prego
non preoccupatevi per me
Fate come se non ci fossi.
I giovani e la conoscenza
Ruggero Chinaglia C’è chi ha da formulare domande in merito alle cose udite o in merito a quelle da udire? Proposte, suggerimenti, notazioni?
Giacomo Conti Lei, la volta scorsa, diede una risposta al mio intervento e, in breve, disse questo: “Chi è che decide quando uno ha bisogno? Chi è che può valutare questo? Come fai a essere sicuro che un tuo simile, quello al quale tu dedichi il sentimento, abbia bisogno dell’affetto, dell’amore? Chi è che può indovinarlo?”. Lei finì con questa domanda e la cosa mi ha lasciato silenzioso. Avrei voluto interromperla per dire: “Lo so, però bisogna anche provarci, bisogna andare anche vicino”. Probabilmente si ricollega a quello che può essere sviluppato questa sera con la conoscenza. Non lo so. Io aspetterei la fine della serata per chiederle o aspettare da lei un prosieguo di questa problematica.
R.C. Lei chiede chi decide del bisogno di aiuto? Bene, siamo proprio nella questione di questa sera, in effetti.
Cecilia Maurantonio Mi chiedevo, sempre in seguito al primo incontro, a proposito del non dell’essere e del non dell’avere, impossibili da realizzare, se questo non, come impossibile dell’avere e dell’essere, non indichi già che non c’è un aiuto che possa essere dato.
R.C. Lei vuole dare la risposta?
C.M. C’è questa questione che per me si presenta: in che modo intervenire quando ci sono delle necessità. Pensavo che qualcosa procede sempre dalla parola, che non è né il non avere né l’avere, ma questo non che diviene qualcosa, che a un certo punto interviene.
R.C. Non ho sentito finora molte questioni relative alla lampada di Aladino. Ma c’è chi ha letto il testo? Nessuno. Ah, ecco, lei l’ha letto. Ce n’è almeno uno. Quindi, è chiaro che stiamo facendo la lettura di questo testo, è chiarissimo.
C.M. Non ho ancora inteso come si situi la principessa in questo testo. A me è apparsa più come un pretesto per il personaggio di Aladino, per svolgere la questione di come diventare figlio del sultano.
R.C. Dice che Aladino vuole diventare il figlio del sultano?
C.M. È evidente che è impossibile occupare il posto del sultano.
R.C. Va bene. Quindi lei s’interessa alla principessa.
C.M. Sì, perché se non ci fosse la principessa…
R.C. C’è un libro edito da Spirali Ma chi è questa bella principessa, che si può leggere. È un libro “all’indice”, ma si può leggere. Allora, mentre lei si chiede chi è la principessa, io mi chiedevo chi sono i giovani. Chi sono i giovani di cui tanto si parla e ai quali sono dedicate tante cose, tante raccomandazioni, elogi, improperi?
Pubblico Quelli del Grande fratello.
R.C. Quelli del Grande fratello sono i giovani? È un’ipotesi. In effetti, al Grande fratello ogni quotidiano dedica almeno una pagina, con tante notizie e precisazioni. Ma perché quelli sarebbero rappresentativi dei giovani?
Pubblico Lo spartiacque.
R.C. Cosa fanno per meritarsi questa qualifica? Che cosa li caratterizzerebbe come giovani?
Mauro Rampin Basta guardare il Grande fratello per rendersene conto.
R.C. Ah ecco, lei che lo guarda, ci dica qualcosa.
M.R. Io non lo guardo.
R.C. Non lo guarda!
M.R. Non riesco a guardarlo più di tanto.
R.C. Quindi, almeno un po’ lo guarda.
M.R. Un po’ sì.
R.C. Sulla base di quel poco, che cosa ne dice? Perché quelli sarebbero i giovani?
M.R. Perché vedo che molti giovani ci tengono a questo tipo di programma, ambiscono a farne parte, fanno i salti mortali pur di conquistare uno spazio nella trasmissione.
R.C. Sì, quindi ci sono tante persone che ambiscono a questo. Ma perché questo li renderebbe e li qualificherebbe come giovani? Perché lei dice che questo sarebbe il paradigma dei giovani?
M.R. Potrebbe diventarlo, questo è il rischio.
R.C. Questo è il rischio. Quindi, lei non è d’accordo con questa formulazione.
M.R. No. Però, non dovrebbe accadere.
R.C. Secondo quale criterio?
M.R. Perché basta guardare il programma per rendersi conto della bruttura che c’è dentro e, nonostante questo, continua a essere proposto.
R.C. Ma no, proprio per questo!
M.R. Purtroppo, è un programma di successo.
R.C. E questo va benissimo per l’epoca. Quello che non capisco è perché lei accosta il Grande fratello ai giovani.
M.R. Perché mi sembra che i giovani di oggi, rispetto alle generazioni precedenti, siano un po’ meno giovani.
R.C. Quindi, non sono giovani. Sono giovani o non sono giovani?
M.R. Mi sembra che non siano all’altezza dei giovani delle generazioni precedenti dal punto di vista della qualità, solo questo. Volendo fare una valutazione, la produzione di programmi come questi rappresenta degli scontri.
R.C. Quelli non sono giovani, sono i fratelli. Lo dice il titolo stesso della trasmissione, dedicata ai fratelli di cui individuare il capostipite, il numero uno, il “Grande fratello”.
M.R. Nessuno sembra guardarlo; poi, in realtà, il programma è stravisto.
R.C. Sarebbe interessante capire chi lo segue e se chi lo segue possa effettivamente qualificarsi come giovane.
M.R. È seguitissimo dai giovani, il pubblico che lo guarda è un pubblico giovanile.
R.C. Ecco, è giovanile, ma quel che è giovanile indica effettivamente i giovani? I giovani sono giovanili? Chi è giovane, chi sono i giovani?
Pubblico Secondo me, giovane è chi non cede agli idoli, presi in senso lato. I ragazzi, non li chiamo giovani, del Grande fratello e chi li segue, cedono agli idoli di linguaggio, di comportamento, anche di affetto, credo. Io penso di non averlo mai visto o per qualche secondo.
R.C. Per partito preso?
Pubblico Non per partito preso. Sapendo un po’ di che cosa si trattava.
R.C. Ah ecco, sapendo un po’!
Pubblico Ho verificato per qualche secondo, qualche minuto, forse. Però, poi i miei meccanismi di autoprotezione si sono attivati e allora ho cambiato canale o spento il televisore.
R.C. Ah, lei ha dei meccanismi di autoprotezione. E anche di autodistruzione?
Pubblico Sì.
R.C. E come fa a individuare gli uni dagli altri?
Pubblico Le rispondo giovedì prossimo.
R.C. Prende tempo!
Pubblico Forse dalla tensione nervosa.
R.C. Quindi dal fastidio.
Pubblico Prima si diceva, questi giovani, sono giovani o sono vecchi?
R.C. Questo è l’auspicio. Infatti, la questione non è anagrafica.
Pubblico Dovrebbe riguardare l’iniziativa che ha una persona. Riguarda lo spirito, per me.
R.C. Sì. Quindi, non già l’età anagrafica, ma lo spirito. Questo già sposta parecchio la questione. La mia proposta è che giovani sono coloro che combattono. Che combattono ciascun giorno la battaglia intellettuale, senza riferirsi al passato, senza riferirsi al sistema, senza riferirsi alle consuetudini, alle abitudini, al già visto, al già saputo. I giovani sono coloro che non possono fare a meno della curiosità, perché non ne sanno mai abbastanza. Giovani sono coloro che non credono agli idoli, certamente, non credono alla sostanza, non credono al fondamento di ciò che, poi, diventa abitudine, consuetudine, credenza, sostanza. Quindi, i giovani, senza riferimenti all’età anagrafica, sono coloro che vivono all’orlo della vita, cioè dove le cose sono estreme, dove la parola è estrema, senza mediazione. I giovani sono coloro che mai giungono a dire “Noi sappiamo”.
“Noi sappiamo che” è la formula più diffusamente usata per alludere a una presunta verità già acquisita, già stabilita, una verità fondamentale e indiscutibile su cui tutti dovremmo essere d’accordo. “Noi sappiamo”, una sorta di captatio benevolentiae per istituire un sistema di riferimento cui appellarsi, un sistema da rispettare, anche per istituire, fra chi sta attorno, una complicità di appartenenza. “Noi sappiamo”. Noi. Noi che sappiamo, siamo noi. Noi e gli altri. Un modo d’istituire la cerchia, di fare cerchio, un modo d’introdurre la genealogia come genealogia del sapere. Noi che sappiamo, noi che siamo d’accordo su questo, apparteniamo allo stesso sapere, apparteniamo alla stessa genealogia e dobbiamo partecipare della stessa armonia sociale.
Questo è il messaggio, non tanto subliminale, che questa formula propugna. Spesso, il fondamento di questo “noi sappiamo” è una superstizione, una consuetudine, una fantasia, un fraintendimento, un dato in realtà né verificato né attendibile, su cui tuttavia sorgono presunte verità epocali. “Noi sappiamo”. Questa formula avoca al “noi” la garanzia di una verità condivisa, riconosciuta, che consente di potere affermare come verità la propria opinione, la propria credenza, però proposta come verità.
Dal “noi sappiamo che”, poi si passa, per esempio, a “la psicanalisi afferma che”, “la scienza afferma che”, “la medicina afferma che”. Ogni fesseria diviene sentenza, diviene verità: “Noi, inquisitori della Germania…”! Nel 1400 gli inquisitori si chiedevano, formulandola per iscritto nel loro manuale, Il martello delle streghe, se fosse cattolico dire, pensare qualcosa che contraddicesse le formule aristoteliche dei Dottori della Chiesa. Oggi, come ieri, viene posta la domanda se sia scientifico dire o pensare qualcosa che contraddica il breviario della così detta comunità scientifica, che cioè non sia incluso nel protocollo accreditato dai maggiori istituti di ricerca e dalle relative pubblicazioni. Il protocollo è l’applicazione del risultato statisticamente più conseguito, ma difficilmente tiene conto della differenza che contrassegna ciascun caso. Viene da chiedersi se interpellare il protocollo non sia una forma di delega, se affidarsi al protocollo non sia una forma di rassegnazione. Ogni protocollo incomincia, fatte le debite varianti con “Noi sappiamo che”. Per esempio, in medicina, “noi sappiamo che la sopravvivenza a una determinata malattia, la mortalità, la recidiva, la durata, la guarigione o quant’altro, si verificano in certi termini in una data percentuale di casi”, e su questa percentuale viene posta la scelta per una data terapia. Queste sono le basi delle cure dell’istituzione sanitaria che, essendo istituzione pubblica, ritiene di dovere basarsi sul probabile, sulla probabilità, secondo la statistica, quindi fatta salva la media dei casi. Quando diciamo “Noi sappiamo che”, ci appelliamo a questo criterio, a questa modalità della prevalenza del generale sul particolare, del generale su ciascun caso, che quindi non esiste più a favore della media generale dei casi.
Ma se questo è il criterio del pubblico, qual è il criterio del privato? C’è un criterio del privato? Su cosa si basa la disputa fra pubblico e privato? Dovrebbe vertere sul criterio in base al quale viene deciso il dispositivo da attuare caso per caso. Allora, di cosa si tratta nel pubblico? Secondo Giulio Giorello, si tratta della conoscenza, ossia del sapere pubblico e controllabile, cioè verificabile e falsificabile, quindi del sapere epistemologico, la conoscenza il cui posto è nel seno stesso della società democratica. Così dice Giulio Giorello in un quotidiano, oggi. Questa è la filosofia della scienza attuale: la conoscenza è strettamente connessa alla società democratica.
Dunque, la conoscenza è democratica, è conoscenza popolare, anzi, è direttamente connessa al potere del popolo, alla democrazia, cioè il pubblico è in realtà impopolare. È pubblico ciò che è popolare, ciò che pertiene al popolo, ciò che è del popolo. È curiosa questa faccenda. Il problema del pubblico, nella sua accezione di conoscenza e di scienza, è che deve rispondere alla caratteristica che non c’è niente di attendibile se non è dimostrato e valutato collettivamente. Collettivamente! Il perché è abbastanza chiaro quanto al pubblico. E allora il privato? Che cos’è il privato?
Per lo più, questa distinzione tra pubblico e privato riguarderebbe il business, il privato sarebbe il business personale di qualcuno che avrebbe un tornaconto particolare rispetto al servizio pubblico. Ma, in questo modo, il privato sarebbe l’altra faccia del pubblico, cioè dove pubblico e privato diventerebbero i sinonimi di gratuito e di a pagamento. Pubblico ciò che è gratuito, privato ciò che si paga. Ma è una mera idiozia ridurre a questo la questione del pubblico e del privato. È chiaro che, in questa accezione, pubblico e privato seguono la stessa logica e non giungono a qualcosa che effettivamente li distingua.
La questione è che l’istanza del privato è l’istanza della cifra, cioè del caso di cifra, dell’unicum che giunge alla qualità. Questa è la questione del privato, cioè di qualcosa che non ha la sua attendibilità dalla dimostrazione e dalla valutazione collettiva, ma che trova la sua validità dall’efficacia del caso unico. La questione del privato è la questione dell’istanza della salute come istanza di qualità. Le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra secondo la loro particolarità. Questo è l’assioma del privato, del privato come caso di cifra.
In questa accezione, pubblico e privato non sono più antitetici, ma esigono l’integrazione a condizione d’intendere il pubblico non già come il popolo, ma come l’infinita varietà e differenza delle cose, in cui ciascun caso è il caso del privato, il caso di cifra, il caso della qualità. Ora, se la formula di Giulio Giorello indica la sua appartenenza al discorso occidentale e al discorso della logica binaria, il caso del privato segue la logica singolare triale senza cui non c’è cifra, quindi segue la logica della parola.
Il privato, secondo questa logica, giunge a qualificarsi come servizio intellettuale. Solo così si dirige verso il suo destino, che è il miracolo. Il miracolo. Solo con il servizio intellettuale può avvenire il miracolo, ossia il caso può giungere all’evento straordinario, imprevedibile, imprevisto, unico, non codificato, non standardizzato, non protocollare. La clinica della parola giunge al caso unico e alla sua cifra proprio perché, con umiltà e generosità, non si affida alla conoscenza della casistica, ma esplora i termini del caso in questione senza riferimento a un sistema già dato.
Nella clinica, per la clinica, noi non sappiamo. Noi non sappiamo, non sappiamo già, abbiamo da indagare, da capire, da intendere, da ascoltare, da elaborare, perché se noi sappiamo, se noi partiamo dal presupposto che sappiamo, sappiamo già, noi siamo in un sistema, abbiamo già istituito un sistema dove è già chiaro il destino nefando, secondo il destino del sistema che, come ogni sistema, è quello di estinguersi, di saturarsi, di finire. Quindi, se noi sappiamo, sappiamo già la fine, sappiamo che finirà e ci adeguiamo a questa fine necessaria. Se noi sappiamo, ci troviamo a condividere l’idea di fine, a condividere il sapere sulla fine. Ogni sapere condivisibile o condiviso è il sapere sulla fine, è il ricordo della fine come ricordo del passato, del negativo, come ricordo di una morale che prescrive la fine. È un ricordo. Ogni sapere condiviso è il ricordo della fine.
Quel che giova invece al servizio intellettuale è non già il riferimento al passato, al sapere condiviso, alla fine certa, ma l’integrazione, nell’attuale, di ciascun dato che la ricerca fornisce. Qui sta una difficoltà, chiaramente, perché per lo più noi sappiamo, facciamo come se noi sapessimo, come se i dati fossero scontati, significassero, come se ogni dato significasse la stessa cosa, e non c’è nemmeno la raccolta dei dati, tanto noi sappiamo. Noi sappiamo per analogia, per consuetudine, per abitudine. “Noi sappiamo”.
Un’altra constatazione frequente nella mia esperienza è che, in relazione a qualche guaio di questa o quella natura, gli umani si chiedono “Perché, perché proprio a me?”, e fanno di quel guaio il segno di una predestinazione negativa, di una malevolenza superiore o della sfortuna. “Perché, perché fra tanti, fra tutti, perché proprio a me?”. Chiedendosi questo, per lo più incontrano la rassegnazione o la rivendicazione o la delega a qualche entità che dovrebbe rimettere le cose a posto; non sempre un’entità metafisica, può essere un medico, un avvocato, un professionista a cui viene fatta la delega di mettere le cose a posto, dato che ci sarebbe stata una predestinazione negativa, una sfortuna che anziché rivolgersi a tanti altri che stanno lì attorno, è accaduta proprio a me. “Perché proprio a me?”.
Eppure, la domanda è chiara e semplice. È accaduto proprio a me, non a altri. Non poteva accadere a altri che a me! Questo che è accaduto proprio a me, è una proprietà del mio viaggio. Quindi, che viaggio sto facendo se mi accadono questi guai? Che tipo di viaggio sto facendo dato che questo è accaduto proprio a me nel mio viaggio? Questa è la questione, dunque.
È una bella domanda “Perché proprio a me?”, solo che è raro che questa bella domanda giunga a avviare la ricerca, a avviare l’indagine, a promuovere una ricognizione intorno al viaggio, alla qualità del viaggio, ai modi del viaggio, addirittura a chiedersi se ci sia viaggio in atto. Raramente questa bellissima domanda promuove il servizio intellettuale, la ricerca intellettuale, l’indagine, l’analisi, la clinica intorno al “Perché proprio a me?”, dove non si tratta di me come soggetto, ma si tratta del dispositivo o, meglio, trattandosi di un guaio, di un apparato in atto che riguarda il modo di pensare, di vivere, di fare o di non fare, di credere, magari di non ragionare, perché chi crede non ha bisogno di ragionare, già crede, sa a cosa credere. Che bisogno c’è di ragionare se so a cosa credere? Io credo, dunque non ragiono. Non c’è bisogno di ragionare per chi crede. Perché occorre pur intendere che, se nulla avviene per caso, fatalisticamente, occorre intendere la ragione delle cose, occorre intendere qual è il contributo che ognuno dà ai suoi guai, perché nessun guaio accade senza il contributo di chi vi incappa, quindi senza una complicità; non è detto che sia volontaria, che uno stabilisca di incappare nei guai, ma tuttavia vi incappa. Come e perché?
Allora, come allestire il dispositivo d’indagine, di ricerca, il dispositivo intellettuale per intendere “Perché proprio a me?”. Certamente, la risposta non può giungere dagli apparati che sono coinvolti e compromessi con le stesse credenze che producono i guai, quelle stesse credenze che si costituiscono come idoli e che fondano una religione della sostanza, una religione della droga. L’aiuto non può giungere dalla sostanza, né da chi propone di farne uso, né da chi propone la parola come sostanza, cioè la parola inserita nella prescrizione o nel divieto intendendo la parola come psicofarmaco.
Oggi, anche in relazione alle varie riforme sul tappeto, va di moda dire che l’Italia è il paese europeo che destina meno fondi per la ricerca in Europa, per la ricerca pubblica. È il paese con i minori stanziamenti per la ricerca pubblica. Ma nessuno coglie che quella stessa diseducazione alla ricerca, per cui l’Italia è il paese con i minori stanziamenti della ricerca pubblica, conduce ognuno a trascurare l’investimento nella ricerca intorno alla propria vita, alla qualità della propria vita, alla condizione della vita. Qual è la condizione della vita per ciascuno? Quali sono le condizioni di salute per ciascuno? Per non fermarsi a declamare “Perché proprio a me?”, senza che questo avvii il servizio intellettuale, che non è il servizio a favore altrui; è il servizio per ciascuno, non è il servizio dell’altruismo. È il servizio per ciascuno.
È chiaro che questa domanda non giunge a dissipare la superstizione, la predestinazione, il fatalismo se non nel dispositivo della parola, in un dispositivo in cui la parola è la parola originaria, in cui si tratta, per ciascuno, di un viaggio all’orlo della vita; non nel benessere, non nel confort del quieto vivere, ma del viaggio all’orlo della vita. Direi che possiamo proseguire il dibattito per verificare se abbiamo risposto a alcune questioni, in particolare a quella che poneva il nostro amico. Giacomo Conti chiedeva chi decide del bisogno di aiuto? Forse in parte abbiamo risposto. Cosa dice?
G.C. Sì, sopra tutto a quella domanda che racchiude tanti pensieri e riflessioni: “Perché proprio a me?”.
R.C. Esatto. Perché?
G.C. È una domanda che ho ascoltato non molto tempo fa in un consesso di bioetica. Io volevo aggiungere qualcosa alla domanda che ho fatto prima, dicendo che il mio modesto tentativo di risoluzione era di mettermi di fronte a un caso e, se non altro per tentativi, riuscire a trasferire qualcosa dei miei sentimenti in chi in quel momento, forse, ne ha bisogno per risollevarsi, almeno temporaneamente. È chiaro che è un palliativo il mio, ma so benissimo che più di tanto non posso dare. Questo per me era di grande conforto, perché io non sono uno specialista. Dottor Chinaglia, venga sabato con me mezz’ora, veda se quello che faccio può arrivare a ottenere quello che io mi sono proposto di fare. Vado a fare un’attività di servizio che non specifico e lo faccio perché l’ho scelto io, non pretendo niente. Il fatto del “perché proprio a me?”, induce, ovviamente, chi ascolta o chi osserva uno che è colto da questa legittima ansia, che sicuramente tutti avremmo dentro, a dire “Porca miseria, è vero, uno che vive, purtroppo, è soggetto a questo”.
Io sono sempre del parere, per usare una battuta, che la salute sia una situazione provvisoria che non promette niente di buono, perché, fin che stiamo qui, stiamo bene.
Quello che fanno vedere le statistiche è bello, meraviglioso, splendido, lucente, ma quello che nascondono è vitale. Il pubblico non deve essere, secondo me, la somma dei privati, perché sarebbe facile a questo punto ammettere il concetto di maggioranza, che è molto discutibile, e che poi riguarda sopra tutto chi eventualmente riveste determinati poteri.
R.C. La ringrazio del suo intervento, perché sono cose attorno a cui occorre discutere, assolutamente, perché c’è una sorta di stupore intellettuale, l’uso di categorie scontate che, per essere comprensibili e condivise, giungono a banalizzare ogni cosa e a togliere la materia dell’aiuto. Lei ha detto tante cose, me ne sono annotate alcune, ma vediamo di tessere qualcosa. Intanto, occorre distinguere l’aiuto dall’altruismo e l’aiuto si qualifica come contributo alla qualità. E l’aiuto è tale se effettivamente contribuisce a questo, ossia se istituisce un dispositivo per cui la qualità s’instaura. Non aiuta per nulla tutto ciò che mantiene lo stato per cui qualcosa, diciamo un guaio, è accaduto. Il conforto, la rassicurazione non aiuta perché è una forma di altruismo che pacifica la coscienza, ma non contribuisce a che s’instauri la salute. È una questione intellettuale. Chi si trova in un guaio, o giunge a intendere per via di aiuto, la logica e la struttura di quel guaio e giunge a instaurare, per via di aiuto, un dispositivo che sovverte le condizioni per cui quel guaio si è verificato, è sorto, oppure siamo nell’altruismo, cioè siamo nell’accettazione, siamo nella rassegnazione. L’altruismo è una forma di specularità pacificante, ma che non giunge a dare un contributo effettivo se non di accettazione del guaio. Ma non si tratta di accettare i guai, per nulla, nemmeno di protestare contro i guai. Non serve a nulla. Occorre instaurare un dispositivo per cui quel guaio giunge a articolarsi. Perché questo avvenga, occorre trovarsi sul terreno della parola, sul terreno dell’Altro, sul terreno della clinica, occorre trovarsi cioè, su un terreno impraticabile che non si fa di statistiche, non si avvale di generalizzazioni, non si avvale di buona volontà. L’aiuto è ciò che consente al viaggio di andare nella direzione della qualità, cioè nella direzione necessaria alla vita; ma questa direzione non è data, non è prescritta, non è stabilita, non è assegnabile sulla base di convenzioni.
G.C. Scusi, è soggetta a limitazioni temporali, è provvisoria, può essere provvisoria, temporanea oppure permanente?
R.C. Direi che ha un carattere di permanenza.
G.C. Da come lo dice lei, senz’altro è assoluta. A questo punto, io che sono partito con le buone intenzioni, nel mio caso, in un certo senso, mi devo arrendere.
R.C. No. Perché si deve arrendere? Occorre combattere. Non arrendersi, occorre combattere.
G.C. Io ringrazio chi ha detto che non occorre essere giovanili per essere giovani. Se è questo, ci sto. Benissimo, non solo, combatto!
R.C. Quindi occorre acquisire gli strumenti per combattere.
G.C. Sì, per aumentare le conoscenze, le occasioni, tutto quello che uno ha e anche le sue virtù.
R.C. Ecco, non la conoscenza, ma le virtù della parola, le virtù del viaggio. Quali sono le virtù del viaggio?
G.C. Fatti non foste per vivere come bruti.
R.C. Sì, ma la formula dantesca occorre non diventi uno slogan per appiattirsi sull’acquisizione di facili formulari e occorre che, effettivamente, indichi la direzione per acquisire quegli strumenti che, soli, conducono ciascun caso alla sua riuscita, alla sua qualità. Questa è la difficoltà, l’attuazione di dispositivi caso per caso; non è mai lo stesso dispositivo. E la riuscita di un solo caso vale avere giocato la partita, perché noi non siamo nella contabilità dei morti e dei vivi, come sembra necessario fare nell’istituzione pubblica, per dare validità a un metodo piuttosto che a un altro. Qui, siamo sul terreno del caso, il cui valore è assoluto e dove la riuscita, il miracolo di un caso vale la partita. Questo è il caso del privato a cui mi riferivo, che non è il privato comunemente inteso, ma è il privato estremo.
Giungere a costituire dispositivi che giungono alla riuscita, caso per caso, è qualcosa di straordinario, che certamente non può essere acquisito come metodologia e applicato come metodologia. È un’altra cosa, un altro modo. Allora, quella che sembra un handicap è una virtù. Lei dice “Io non sono uno specialista”. Esatto. È proprio da lì che occorre cominciare. Non c’è lo specialista, ma c’è chi formandosi alla scuola della parola può dare un contributo a che la logica della parola sia ripristinata. I guai accadono in quanto sospensione della logica della parola, dove qualcosa diventa sostanziale e questa sostanzialità diventa guaio. Quindi, si tratta di ripristinare la logica originaria, la logica della parola, la logica della nominazione, la logica singolare triale lì dove, per lo più, a fare da padrone è la logica binaria, la logica dell’alternativa, la logica del sì o del no.
Nessuno sa quanto può dare e quel che può dare. Lei diceva che la salute è una condizione instabile, ma, più che una condizione instabile, è un’istanza, una tendenza, una proprietà del viaggio; non è uno stato. Già pensare allo stato di salute è come averlo perso. La salute è un’istanza del viaggio.
C.M. Quindi lei dice che chi è appena nato non ha già la salute, non è già data.
R.C. Non basta nascere. Occorre rinascere.
C.M. Quindi non è già data la salute.
R.C. Esatto.
C.M. Non è l’assenza del male, la mancanza del male.
R.C. Non è l’assenza del male. Esatto. Brava! Maria Antonietta Viero.
Maria Antonietta Viero Non è ancora formulata in maniera precisa, ma mi chiedevo se la domanda “Perché è accaduto proprio a me”, sia una proprietà del viaggio, e come fare perché questa proprietà del viaggio non incorra nella delega. Come si può trovare la direzione?
R.C. Instaurando dispositivi. Instaurando dispositivi di direzione, di ricerca, per fare, dispositivi da cui il viaggio tragga indicazioni, perché il viaggio non è rettilineo. Il viaggio non è né rettilineo né predestinato, ma esige dispositivi per avvenire e per andare nella direzione della qualità.
M.A.V. Mi chiedevo come rivolgersi al così detto professionista senza delega?
R.C. Il fatto di rivolgersi a un professionista non è automaticamente il segno di una delega. Se io ho un guaio giudiziario, mi rivolgo a un avvocato, cioè non c’è altro modo, nel senso che se si deve andare in giudizio, io non posso andare a parlare con il giudice, devo essere rappresentato da un avvocato. Questo lo stabilisce il diritto. La formula del diritto di procedura stabilisce che l’imputato non può non essere rappresentato da un avvocato. Il fatto che vada dall’avvocato non vuole dire che delego l’avvocato a risolvermi il caso. Io interpello l’avvocato, affido all’avvocato il compito, la mansione di rappresentarmi in giudizio, ma poi non gli lascio fare quello che vuole. Instauro con l’avvocato un dispositivo e do il mio contributo al caso, perché sono casi miei. Chi più di me può essere tenuto a cogliere, ingegnandomi, gli aspetti per cui quel caso va nella direzione della qualità? Certo, non da solo, con quel professionista, con quell’avvocato con cui instauro un dispositivo. Ma non è detto che sia il solo. Io posso instaurare anche differenti dispositivi, con altri, per giungere a cogliere la specificità e la via per cui quel caso giunga in porto, che affianca il dispositivo con l’avvocato e altri ancora. Occorre instaurare dispositivi, indagando sulla questione, sulla logica, sul modo, non accontentandosi della prassi. Né della prassi né del protocollo.
M.A.V. Un’ulteriore cosa. Come un così detto guaio incontra la proprietà del proprio viaggio? Nel senso che potrebbe sussistere una superstizione nella logica binaria, per cui può essere: o fai così, cioè o ti ammetti nel viaggio, oppure ti capitano i guai. Questa è una superstizione? Perché se il guaio può divenire, con i dispositivi, una proprietà del viaggio…
R.C. Proprietà? Non è che il guaio sia la proprietà.
M.A.V. Cioè, come rappresentazione di qualcosa in sospeso, quella che invece è una proprietà del viaggio.
R.C. Precisamente. Esatto.
M.A.V. Sì, ma allora c’è una sorta di iter obbligatorio per la dissolvenza, in questo viaggio. Il miracolo non propone…
R.C. Occorre instaurare dispositivi per cui il viaggio proceda. Nessun dispositivo è obbligatorio o obbligato, perché altrimenti sarebbe come dire che è già noto quale sia. Certamente, occorre intraprendere la ricerca opportuna, questo sì, e i dispositivi opportuni.
M.A.V. Mi sembra interessante l’accezione di privato posta questa sera, come il caso che giunga alla qualità. Mi è sembrato intendere così e come ponga le condizioni di ciascun caso. Mi chiedo allora, come sia difficilissimo pensare al viaggio specifico, all’unicum, nella chirurgia.
R.C. No, anzi.
M.A.V. Come la chirurgia può instaurare il caso specifico?
R.C. È chiaro che il chirurgo, mentre opera, non è che si ispira al caso ideale, ma al caso specifico a cui far fronte.
S.P. Purtroppo, il caso specifico deve essere sacrificato per la prassi; se uno segue la prassi è salvo.
R.C. È salvo!
S.P. Sarebbe il caso specifico. Se per caso gli va male e non ha seguito la prassi è fregato.
R.C. Ma qui siamo nell’infernale, però.
S.P. Ma è la realtà in cui viviamo. Comunque, non era di questo che volevo parlare. È bello quando si risolve il caso specifico, bellissimo, meraviglioso. Però, quando non si risolve? Si va a vedere se uno ha seguito la prassi. Il così detto professionista è legato. Lei ha parlato di sostanza, prescrizione, psicofarmaco. L’Italia non è solo l’ultima nella ricerca ma, da una certa propaganda, sembra che sia ultima nella prescrizione di farmaci che alleviano il dolore. Viene propagandato il diritto alla somministrazione della morfina, sia per i pazienti neoplastici, ma anche semplicemente nella cura del dolore cronico. Dicono che con la morfina si può vivere benissimo, si sta bene e si può condurre una vita normale, così detta normale. Io penso che sarebbe necessario approfondire questa cosa così pesante.
R.C. Certo. Che dire allora della reintroduzione del Ritalin, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta propugnando per la sindrome da disattenzione dei bambini troppo attivi, ipercinetici. Ora, c’è una circolare del Ministero della Sanità che fa riferimento chiaramente a una circolare dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che propugna l’uso di questo psicofarmaco per i bambini affetti da disturbo da deficit di attenzione e iperattività, cioè bambini ipercinetici, bambini che disturbano in classe, non stanno fermi, perché il bambino ideale deve stare fermo, deve essere cadaverizzato. Tutto ciò indica che il servizio intellettuale è chiaramente raro e che gli apparati disciplinari inseguono sempre più le vie spicce. L’uso della droga realizza in pieno l’andare per le spicce.
Abbiamo parlato, proprio tre settimane fa, della mitologia della droga come forma di erotismo, cioè l’applicazione di una presunta causa per un presunto effetto, conoscendo quale deve essere l’effetto e, dunque, quale la causa. Questa è l’apoteosi della conoscenza. L’apoteosi della conoscenza è proprio l’erotismo. Ma l’erotismo, dove porta? Porta a togliere il servizio intellettuale, porta a una democrazia del bene e del male e alla somministrazione paritetica, parificata, paritaria del bene e bel male e dei loro presunti rimedi e corollari. A tutto questo occorre dire: non ci sto! Ma non solo dirlo. Occorre proprio non starci. Occorre non abdicare, non rinunciare, non dimettersi dal servizio intellettuale, dalla questione intellettuale come questione di vita.
M.A.V. A proposito di quel che diceva adesso, c’è anche la questione della parità, sull’idea dell’istanza di parità. Sembrerebbe abolita la differenza, la variazione, ma forse sottostà a un’idea di non potere stare solo; cioè l’unicum può essere rivolto, anziché all’assoluto della solitudine con cui procedere, a una fantasmatica che si rivolge all’unicum come un’eccezione, che può portare da un lato al castigo, dall’altro al sacrificio.
R.C. Esatto. Ma queste sono superstizioni. L’eccezione va nella direzione dell’eccellenza. È una questione che riprendiamo la volta prossima, perché la cosa che avevo proprio in mente di affrontare è la questione della solitudine e di come la “nostra” epoca, cioè la “vostra” epoca, neghi la solitudine, e ciò proprio quando afferma che si tratterebbe di stare bene con se stessi, che è l’idiozia somma che spesso, sempre più spesso, si sente dire: stare bene con se stessi! Stare bene con se stessi… Provate a analizzare questa formula, poi la settimana prossima ne discutiamo.
Sabrina Resoli Proprio perché sia ripresa, magari la prossima settimana, vorrei qualche precisazione sulla relazione tra servizio intellettuale e obbedienza. Mi pare che il servizio intellettuale esiga l’obbedienza che, anche in questo caso, non è verso qualcun altro.
R.C. Sì, certo.
S.R. Per esempio, anche obbedienza a questo “non ci sto”, per cui…
R.C. Beh, è una battuta questa. L’obbedienza non è qualcosa di volontario per cui dice adesso ci sto o non ci sto.
S.R. Qualcosa che è avvertito come inderogabile.
R.C. Ecco, che sia avvertita o no, è un’obbedienza inderogabile. È un’obbedienza non soggettiva, inderogabile; è un’obbedienza che dissipa il soggetto e la padronanza che il soggetto vorrebbe avere intorno alle cose.
S.R. Quest’obbedienza esige la dissipazione dell’idea di soggetto.
R.C. Esatto. Quindi di padronanza.
S.R. Perché altrimenti viene intesa come rappresentazione del volere altrui o chissà quale altra rappresentazione.
R.C. Rientra nel fantasma soggettivo, fantasma di violenza, fantasma di rapporto, fantasma di erotismo.
Aladino, il cibo, il fumo
Ruggero Chinaglia Abbiamo annunciato la settimana scorsa un intervento introduttivo di Maria Antonietta Viero. Maria Antonietta Viero è imprenditrice, scrittrice, autrice del libro La ballata del Moro Canossa che abbiamo presentato in varie città, nel Veneto e altrove, e questa sera testimonia di alcune note attorno alla Lampada di Aladino e la pelle.
Maria Antonietta Viero Il sintomo, che percorre la fantasia di morte, non conosce la gravità del male umano, percorre la linguistica, nella parola, indicandone i termini: linguistica non esplicita, non tradotta, ma da indagare. La rappresentazione del sintomo: come può essere irta la verità? Come leggere i segni senza che questi stiano in un principio deterministico causale, perché il segno non sia segno di qualcosa, perché questo qualcosa non è predeterminabile? Dell’accadere c’è complicità? Come capire la complicità che ci riguarda dell’accadere? Contrastare la pulsione, economizzare il rischio, osare, contrapporre il luogo comune a giustificazione, a garanzia di appartenere al genere umano, quando già il viaggio indica l’andare in direzione della sua qualità, verso la sua cifra, quando dell’accadere qualcosa dell’ascolto si è instaurato, può comportare, sì, qualche guaio, che l’inconscio, in quanto logica, non pone in una scala di più o meno gravità.
Questione di arbitraria combinazione, tracce che si producono nell’atto stesso di seguirle nel viaggio della vita. Un guaio, una falla, un deragliamento: come reperire i termini per riprendere la rotta e ammetterli proprietà di quel viaggio? Se qualche guaio accade, forse è perché è stata sospesa la parola originaria? Perché qualcosa si è insinuato come senza rischio, senza scommessa, in assenza di assoluto? Forse. Forse si è instaurata la superstizione, il tabù, il luogo comune, il sistema, la lingua propria, il debito umano per partecipare così alla festa dei mortali, retta su un principio di parità. Ma anche il guaio offre la chance d’intendere, offre la sua occasione di vita. Anche ciò che può sembrare una circostanza avversa può divenire pretesto per il viaggio e la sua proprietà. Questo, nel dispositivo intellettuale esige l’occorrenza del suo attraversamento. La sospensione della parola originaria comporta l’alternativa, ma la vita non ha alternativa. Se bene/male, positivo/negativo non stanno più dietro, come modi ossimorici del due, l’inconciliabile da cui le cose procedono, ma si pongono dinanzi, al servizio di un soggetto che si fa tale per far da padrone su vita o morte, allora ciascuno non pensa alla morte, ma ognuno ci pensa, cioè ognuno si lascia andare, cede alla paura, e la paura poggia sempre sulla fantasia della fine delle cose, della fine del tempo. Nascita-morte, il cerchio si chiude. Quanto e quando un compromesso fantasmatico, cioè questa idea della fine, impedisce che il fantasma di morte come operatore frastico della ricerca della lettera che, anziché compiere la sua scrittura nell’etica, tenti la rappresentazione nel segno di una scrittura tangibile e senza malinteso come segno del male? Quale lettera, fantasma di morte come idea della differenza, percorre il dovere di rappresentarla come segno di una comunicazione senza la funzione di morte? L’instaurazione dell’alternativa vita-morte è un esibire l’animale fantastico anfibologico come forma dell’Altro, nell’idea del despota, del tiranno, del vampiro. Questo animale ruota attorno al nome del male e al significante del male. Per un verso la morte è come sostanza; per l’altro proviamo con questo enunciato: “Non toccatemi”. Questo che si presenta come un segnale di pericolo pone in rilievo che c’è qualcosa di sostanziale, per cui potresti toccarmi, farmi male. “Non toccatemi”. Se mi tocchi, muoio. Devo difendere la mia pelle. La nota salta sul rigo, si fa iceberg, chiama all’ascolto. Non toccatemi, perché, il solo tocco del dito, la pelle si fa scudo di mille innumerevoli aculei, perché il nemico non invada, non segua il disegno, inganno che il tocco del dito ha rilasciato nel suo dermatografismo e non entri, non violenti, non sporchi. Un delirio di invasività, cui segue un delirio di purificazione. Ma la pelle, questione complessa, lancia il segnale, segnale d’allarme sull’orlo della vita; lancia la sua richiesta di aiuto estremo che il professionista, specialista di sezione non coglie. E porta fuori strada, per seguire attentamente la prassi giusta. Non entra nell’integrazione, resta un mattone a parte. E così l’interlocutore non si instaura e l’ascolto sfuma. Ma la pulsione, per fortuna mai paga, decisa verso l’essenziale dell’occorrenza, impone il suo modo a chi si trova nel viaggio. E altri segni si aggiungono. Difficile instaurare l’Altro in quel che si dice cercando, perché l’ascolto non delega altri a capire. La sordità resta. La pelle riguarda l’immagine del corpo. Come non vederne i segni allo specchio senza che l’idea di morte come fantasma di morte avanzi quanto alla non ammissione, per esempio dell’età, della forma, dell’immagine? Inammesso è il figlio, che non diventa padre per età. Il figlio non ha da diventare padre, come nell’iniziazione, perché non può prescindere dal padre stesso. E entrambi procedono dal due, da quell’inconciliabile da cui procedono le cose. Negato il figlio, l’Altro diviene unità e l’intero diviene il tutto anziché l’integro, l’integrazione. Se il figlio non è ammesso, la pelle è toccabile, palpabile, diventa intollerante, intollerabile, urticante, una ribellione in atto, un prurito che allude a una chiusura non più contenuta. “Noli me tangere”. Cristo così si rivolge a Maddalena e alle altre donne, dopo la risurrezione, prima di ascendere al Padre. Come dire: del corpo non c’è sostanza. Il corpo è intoccabile. L’idea che la pelle faccia scudo, barriera impermeabile, protezione per il dentro del corpo, isolando così un dentro-fuori, fa una rappresentazione sostanziale del corpo soma. Come sostanzializzare il nome, come sostanzializzare la parola? Da volgere in occasione perché ancora si indaghi, perché si indaghi sull’onda anomala che porta il significante silente, tradotto in sostanza per l’euforia del nome. Intoccabile. L’appuntamento, con l’occasione che la vita ci offre non sono cedibili: vanno accolti e integrati. E il rilievo che ciascuno, cogliendo, ammette nel dispositivo della parola originaria è già sulla via della particolarità, quella a cui quel rilievo è rivolto, un rilievo che appella a un gesto di sollievo.
R.C. Bene. Molte sono le questioni che sono state poste da questo intervento e molto interessanti. Quindi vediamo, nel corso della sera, di dare un’eco anche a queste proposte. E, per cominciare, provo a dare qualche nota sia in relazione al dibattito sorto la settimana scorsa sia a queste note che si situano in una traversata. È stato molto interessante il riferimento a Cristo che, dopo la resurrezione, non prima, pone la questione dell’assenza di contatto “Noli me tangere”, che, quindi, non sta tanto a indicare il divieto di toccare, ma l’impossibilità di toccare, la constatazione che non c’è contatto possibile. Noli me tangere, non c’è più contatto. Quindi, né contatto umano, reciproco, vicendevole, né contatto con la sostanza. E non c’è più contatto nemmeno con le sue rappresentazioni, non c’è più contagio, non c’è più contaminazione, non c’è più infezione che sono le rappresentazioni del contatto nei vari discorsi. E che ciò avvenga dopo la resurrezione non è casuale; dopo la resurrezione, cioè dopo che il significante, dopo che il figlio, funzionando, risulta differente da sé. Cristo non muore, ma risorge in quanto compie il funzionamento del significante che, appunto, differisce, differisce da sé, risulta inidentico e, dunque sfugge alla presa, al contatto, sfugge a ogni presa sostanzialistica e la resurrezione prelude all’ascensione, quindi al corpo in gloria, al corpo non più somatico, al corpo non soggetto alla genealogia e alla circolarità.
Il fantasma di morte occorre distinguerlo dal fantasma di morire. Il fantasma di morte è operatore frastico, notava Viero, cioè è operatore lungo la funzione di morte. Pulsione di morte che non ha nulla a che vedere con il desiderio di morire, come è stato più volte tradotto. Non c’è desiderio di morire né desiderio di morte, ma c’è pulsione di morte come pulsione di scrittura, pulsione perché la frase si scriva, pulsione perché il significante, differendo, funzionando, si scriva. E in questo funzionamento la resurrezione, la resurrezione del figlio.
Il mito di Cristo indica che la pulsione di morte comporta la scrittura, comporta la resurrezione, non già l’idea di morire come viene tradotta psichiatricamente. E, infatti, vita e morte costituiscono la questione aperta e non già l’alternativa fra la vita e la morte. Desiderare la morte sarebbe già ipotizzare l’alternativa fra la vita e la morte, conoscere la morte a tal punto da desiderarla; ciò è completamente assurdo. Non c’è chi possa desiderare alcun che, perché non c’è chi possa conoscere alcun che. Come già dicevamo la settimana scorsa, la conoscenza è un miraggio del discorso occidentale, è un miraggio legato a un’idea di sostanza.
Il desiderio è un paradosso, non è un sentimento, non è qualcosa che possa venire coniugato in “io desidero questo”, “io desidero quello”. Non si tratta del desiderio. Nella formula “io desidero” si tratta di un’idea di padronanza che nulla ha a che vedere con il desiderio. Non basta dire “io desidero” perché si tratti del desiderio. Io desidero è la negazione del desiderio, infatti, il desiderio è qualcosa di paradossale secondo la logica particolare, e che non si lascia certo racchiudere nella possibile coniugazione e nell’attribuzione di un oggetto al desiderio.
Quindi, non c’è conoscenza della morte, non c’è desiderio della morte, non c’è conoscenza del desiderio. Nel viaggio si tratta propriamente di esplorare il paradosso del desiderio. Paradosso in che senso? Perché ciascuna formula che tenta di padroneggiare il desiderio, si trova esposta alla differenza da sé del significante che sembra rappresentare il desiderio, che dunque, in questo senso, ne rappresenta il paradosso, perché il significante, dividendosi da sé, mai giunge a significare l’oggetto del desiderio, perché l’oggetto è causa di desiderio e il significante che apparentemente lo rappresenta, mente, ossia differisce. Per cui il desiderio è preso in un processo che mai giunge alla sua fine.
La cosa interessante di questo processo, lungo cui si svolge il paradosso del desiderio, è che ciò comporta il sapere, il sapere come effetto, il sapere che non si trasmette! Non c’è chi possa trasmettere il sapere, perché il sapere si effettua lungo il funzionamento dei significanti, lungo la loro menzogna, lungo il loro differire. Il sapere è cioè sapere effettuale, cioè temporale, e l’effettuarsi del sapere contribuisce a capire e a intendere l’idioma, la particolarità, la logica particolare a ciascuno, la logica particolare a ciascuna cosa. Quindi, il sapere segue l’atto di parola e il suo funzionamento, non lo precede! E capire segue la supposizione e non già la certezza. Capire procede dalla supposizione, dall’ipotesi, e comporta un processo di messa in questione. Quindi, la supposizione è essenziale per capire, supposizione che sta nel varco instaurato dalla resistenza del significante, cioè nella sua differenza da sé. Di supposizione in supposizione accade di capire. Supponendo, capisco, e quel che si capisce è la supposizione, non già la sostanza. Cioè, la supposizione è il modo, la via dell’ammissione. Ammissione di che cosa? Ammissione del funzionamento del significante. Avventurarsi nella supposizione è già ammettere che le parole non sono tali, ma che, entrando in un processo di qualificazione, variano e differiscono.
L’ammissione del funzionamento è anche l’ammissione del figlio. Il figlio, ossia il significante che funzionando differisce da sé, è essenziale per la dissipazione del fantasma di genealogia, ossia del fantasma di morire, dell’idea che ognuno è soggetto alla morte. Ammettere che il significante differisce è qualcosa di difficile, praticamente qualcosa che il discorso occidentale non accetta, perché ha come conseguenza che mai si può giungere alla comprensione reciproca o alla conoscenza di sé o dell’Altro. Chi propugna la comprensione reciproca o la conoscenza di sé o conoscenza dell’Altro, abolisce l’ammissione del figlio, abolisce il funzionamento del significante, abolisce il sapere effettuale, abolisce il mito di Cristo, abolisce la resurrezione, è soggetto alla mortalità delle cose, alla finibilità; senza funzionare, le cose finiscono. Il funzionamento è l’assicurazione che le cose non finiscono, perché, funzionando, le cose non finiscono.
Funzionando, le cose incontrano un’usura particolare, che è la metafora e la metonimia, usura che non consuma le cose, ma le rende assolutamente differenti e varie, infinitamente. È curiosa questa accezione di usura senza esaurimento, senza consumo, senza consunzione. Usura linguistica, usura per cui le cose, ciascuna cosa, può entrare in un processo di qualificazione e qualificarsi, una questione assolutamente essenziale. Ma perché questo processo mai può giungere alla comprensione reciproca e alla conoscenza di sé? Perché le cose non stanno in una linea né in un sistema, ma procedendo dal due e secondo la particolarità, quindi secondo la logica singolaretriale, ciascuna cosa si trova in un dispositivo infinito. Infinito, senza linea, senza allineamento e senza sistema. Le cose si trovano nell’immortalità. E questa cosa bellissima è proprio ciò che fa paura al discorso occidentale, perché impedisce la classificazione, impedisce di ordinare le cose secondo uno schema prestabilito, impedisce la codificazione preventiva, impedisce ciascun sistema disciplinare che è garantito dalla finibilità.
Allora, c’è questo incredibile paradosso nel discorso occidentale che si avvolge attorno a ciò che fa più paura, cioè la mortalità, e sembra non potere farne a meno. L’idea di fine, che è ciò a partire da cui ognuno ha paura, è ciò che caratterizza il discorso occidentale. E proprio perché non c’è comprensione e non c’è conoscenza possibile, ciascun atto, ciascuna volta, impone il processo d’indagine, il processo di ricerca. Ciascun atto induce a una costrizione logica, la costrizione di capire e d’intendere la particolarità; ciascuna volta.
Comprendersi vorrebbe dire che la particolarità non c’è, che possiamo vivere sul ricordo, su un’idea di comunanza che, tanto, pensiamo allo stesso modo la stessa cosa. Ma questo è un miraggio sostenuto dalla teoria dell’informazione, ma è un miraggio. La comunicazione è un’altra cosa e non segue la teoria dell’informazione. La comunicazione esige di capire e di intendere ciascuna volta il particolare e lo specifico di quel dettaglio, per cui ciascuno, nel viaggio, si trova in questa costrizione, che è la costrizione logica di capire e intendere la particolarità; e capire non è un atto volontario. La costrizione non comporta il volere capire, comporta di capire, di non potere fare a meno di capire, per procedere. Ma non basta volere capire, si tratta di capire e, per capire, occorre non cancellare la memoria e non vivere di ricordi, cioè non sostanzializzare le cose, non riferirsi al caso precedente, all’analogia, alla somiglianza, allo schema come noto e ripetitivo. E non è possibile prevedere quando, come e cosa capisco. A un certo punto le cose si capiscono, nel viaggio, per questa costrizione, che è la costrizione procedendo il viaggio, nel gerundio del viaggio.
Nessuno può costringersi a capire, nessuno può essere costretto da altri a capire “Voglio farti capire”. Eh, “Voglio farti capire”, “Vorrei capire”. No! C’è una costrizione logica per cui, a un certo punto, le cose si capiscono. E quanto spesso accade di sentire la formula “Non so, non capisco e, dunque, non faccio”, come se il fare dovesse seguire cronologicamente al sapere e al capire, in assenza della simultaneità, facendo delle cose una successione, una cronologia? “Non so, non capisco” sono enunciati che indicano come il sapere e il capire non preesistano all’atto di parola, alla sua procedura, al suo funzionamento. Infatti, senza discernere, come capire? Come capire senza l’ironia, senza la questione aperta, senza il due da cui le cose procedono, quindi senza l’ossimoro? Come capire senza separare il grano dal loglio come dice il Vangelo? Come capire facendo di ogni erba un fascio? Come capire affastellando, come capire affascinando, come capire se le cose fanno fascio, come capire senza distinguere, senza discernere? Come capire senza supposizione, che procede dal due, lungo il funzionamento?
Ma c’è chi dice: “Per me è impossibile capire”, presentandosi come soggetto incapace di capire e si attesta su questa presunta incapacità negando la parola originaria, il dispositivo, la procedura e instaurando un discorso di padronanza assumendo l’autismo, asserendo che ciò che differisce e varia gli risulta incomprensibile perché non è sostanziale, perché non è soggettivo, perché impone uno sforzo intellettuale. “E io, in quanto soggetto, sono incapace di sforzo intellettuale”, perché, per definizione, il soggetto è soggetto debole, malato, incapace. Che sforzo, che intellettualità può venire dal soggetto che è soggetto alla sostanza, soggetto alla morte?
“Non so, non capisco, non so cosa questo voglia dire, non capisco cosa questo possa volere dire”. È proprio lo sbigottimento. “Non so, non capisco. Ma queste cose a me, venire a dire queste cose a me! Ma non so, non capisco. Ma mi dica lei cosa vuole dire questo! Cos’è, cos’è questo?”. Ti estì? Cos’è? “La sostanza, mi sia svelata la sostanza! Posso io formulare un’ipotesi attorno a cos’è questo? Cosa posso io pensare in merito a dove conduce?”. E no! Questo avvierebbe il viaggio, avvierebbe un itinerario. “E come faccio io che devo stare ben piantato come sono, altrimenti le mie certezze sarebbero abbattute?”. “Potrei capire cose – oddio! – che potrebbero incrinare la mia identità. Eh no, perbacco! Potrei capire cose che mi sono vietate, che non devo capire, che non devo sapere. Potrei sapere quello che non devo sapere!”.
Che cosa rende gli umani pari? Che non sanno della morte. E se io, aggirandomi, andando di qua e di là, potessi poi venire a sapere qualcosa che non devo sapere? Potrei venire cacciato da questo paradiso terrestre e trovarmi chissà dove, in un altro mondo. La soggettività, palla al piede degli umani, è il corollario della mortalità, dell’idea di mortalità, che però è anche, paradossalmente, garanzia di stare tutti insieme, di tenersi compagnia, di condividere lo stesso destino e, quindi, di potere accettarlo. Accettazione della mortalità che passa attraverso la presunzione di potere conoscersi. E è attorno a ciò che è avvenuto e avviene il naufragio intellettuale di quella che viene chiamata psicoterapia, e che consiste nell’accettazione della mortalità, nella prescrizione all’accettazione della condizione umana, della condizione di soggetti, ossia nell’ideale di padronanza, nell’ideale di conoscenza, nell’ideale di sapere, di conoscere quali sono i propri limiti e di gestirli. Questo sarebbe il successo del soggetto: il controllo di sé e la gestione dei propri limiti. Questo sarebbe il soggetto adeguato, il soggetto ben adattato e ben adeguato.
Ognuno ignora quale sia il suo fantasma, però lo segue, ne dipende, vi obbedisce tanto più quanto più elude la clinica della parola, la logica della parola e tanto più quanto più applica i dettami del soggettivismo. E ognuno, in quanto soggetto, ritiene di dovere stare in buona compagnia, di farsi compagnia, e infatti quel che è inviso agli umani è la solitudine. La relazione sociale è un apparato di prescrizione del mutuo soccorso secondo i canoni del tenersi compagnia.
Soccorso, altruismo, aiuto non sono la stessa cosa. Il soccorso è la forma altruista di aiuto, cioè è ispirato dal pericolo di morte e mira a evitare la morte, prestare soccorso per evitare la morte. Mentre l’aiuto esige il viaggio, la direzione, il dispositivo di direzione. L’aiuto esige la trasformazione intellettuale, esige che il viaggio approdi alla qualità. E quindi non è facilmente localizzabile l’aiuto, non è facilmente prestabile. Come si dice? Prestare aiuto. Non chiunque può prestare aiuto, perché l’aiuto viene dall’Altro, viene dalla differenza assoluta perché non c’è chi conosca il bisogno di altri. E la solitudine è la condizione del dispositivo in cui l’intervento dell’Altro produce l’aiuto.
Il discorso comune pone, come prova estrema di equilibrio, di benessere, di stare bene con se stessi. L’importante, dice lo psicopompo di turno, è stare bene con se stessi. E questa formula è diffusissima. Voi aprite la televisione e c’è sicuramente il Pinco Palla che dice “Eh, stare bene con se stessi è proprio il massimo”. Che cos’è la felicità? È stare bene con se stessi! Che cos’è la tranquillità? È stare bene con se stessi.
Cecilia Maurantonio Anche volersi bene.
R.C. Beh, è la condizione. Volersi bene, così posso stare bene con me stesso. “Stare bene con se stessi”. È veramente paradossale questa formula dove l’idea di solitudine è significata da un’idea di compagnia, dove la solitudine sarebbe stare con, stare con se stessi. È veramente incredibile il modo con cui il discorso occidentale respinge la nozione di solitudine, tramutandola in una sorta di compagnia, se pur paradossale: compagnia di se stessi.
E chi è questo se stesso con cui si tratterebbe di stare? È l’idea di sé? Si tratterebbe di stare bene ognuno con l’idea che ha di sé? È l’idea dei propri guai, l’idea dei propri limiti, cioè l’accettazione dell’immagine macabra che ognuno ha di sé, la rassegnazione. Si tratterebbe di stare rassegnati, pur con le rappresentazioni più terribili che uno può avere di se stesso. E una volta accettato, una volta rassegnato, ognuno conseguirebbe il benessere; una volta rassegnatosi, ognuno riuscirebbe a stare con se stesso e con tutte le sue paturnie! Oppure il se stesso sarebbe la coscienza di sé o la coscienza dei propri guai o dei propri limiti o del proprio essere? Chi, dunque, può stare con se stesso?
Ora, di cosa si tratta nella solitudine? Ecco la questione, perché viene confusa la solitudine con lo stare soli, con l’essere soli. Ma siccome ciò è assurdo e inaccettabile, ognuno pensa di aggirare lo star da solo volgendolo con lo stare con se stesso. Già non è più da solo, perché ha tutte queste varie rappresentazioni che gli tengono compagnia, tutto mirando a eludere la solitudine. Ma cos’è la solitudine? È una proprietà di chi? Di ognuno? La solitudine è proprietà del soggetto?
Solitudine è la singolarità. La solitudine è la condizione del sé, il sé che non è se stesso, ma l’oggetto, l’oggetto singolaretriale e, dunque, specchio, sguardo, voce; tu, io, lui. Oggetto, cioè quanto nella parola viene contro, ciò che fa da ostacolo, ciò che è causa: causa di godimento, causa di desiderio, causa di verità. Oggetto in perdita, imprendibile, oggetto invisibile, irrappresentabile, oggetto che non è mai se stesso: è il sé che nessuno può conoscere e con cui nessuno può stare in compagnia.
E come è potuto accadere che il sé, l’oggetto che è singolaretriale e che ha come sua condizione la solitudine, la singolarità e la trialità perché è causa di godimento, di sapere e di verità, è tu, io, lui, specchio, sguardo, voce, punto di caduta, punto di fuga, punto di oblio, che, appunto, l’oggetto irrappresentabile si sia trasformato in soggetto e sia diventato il se stesso con cui potere stare bene insieme? Chiaro che è una rappresentazione soggettiva perché così diventerebbe padroneggiabile e controllabile. E che vi sia l’oggetto su cui non c’è presa è ciò che più disturba ciascun discorso che vorrebbe, invece, stabilire l’ordine delle cose, in quanto ciascun discorso si pone come discorso di padronanza, come discorso di controllo.
Infatti, l’oggetto è invisibile, è imprendibile, eppure è ciò che causa: causa la domanda, la pulsione, il viaggio, la ricerca. L’oggetto è inquietante, è assolutamente inquietante perché è irrelato, è senza relazione sociale, senza compromesso e espone ciascuna cosa alla sua particolarità. L’oggetto non è affatto noto e non è facile da individuare, comporta quello che chiamavamo il servizio intellettuale, comporta il viaggio come viaggio intellettuale, comporta lo sforzo. E, attraverso lo sforzo, l’oggetto è indotto dalla pulsione.
Dunque, è tutt’altra cosa rispetto a ogni forma disciplinare che presume di sapere già come stanno le cose. Ma per via di oggetto e della logica singolare triale le cose non stanno, vanno e vengono, sono esposte a un movimento non circolare, non rettilineo che comporta per ciascuna cosa un ritmo e una lingua, l’aritmetica e la linguistica di ciascuna cosa. E per via di questa aritmetica e di questa linguistica ciascuna cosa entra nel racconto in modo non generico, non casuale, non fatalistico, non banale e sollecita all’ascolto, perché il cammino di ciascuna cosa non è predeterminato.
Qual è l’istanza, la tensione, la tendenza? Non sono già dette, non sono già date, non sono già assegnate. Come capire qual è l’istanza del mio progetto che, se la contraddico e il progetto si arena, io posso anche morire? Non c’è da scherzare! Il problema è che non si può scherzare, perché senza l’ascolto di questa istanza, effettivamente entriamo nel discorso occidentale, cioè entriamo nella mortalità. Entrando nell’alternativa fra la vita e la morte noi potremmo incappare, anziché nel modo in cui la vita si scrive, nel modo in cui la morte di scrive, nel modo in cui la rappresentazione della morte si scrive fino al punto di morirne. E forse che il tumore non è in questa direzione? Il tumore, un’istanza paradossale di vita che va a morire. Non c’è da scherzare, ma c’è da indagare sui modi con cui l’ideologia della vendetta può giungere a realizzarsi. C’è chi lo fa in un modo e c’è chi lo fa in un altro: chi si avvale del cibo, chi del fumo, chi di altri mezzi. Anche per quanto riguarda il cibo e il fumo, chi s’interroga intorno all’aritmetica e alla linguistica del cibo e del fumo? In che modo il cibo entra nel dispositivo, nel viaggio, nella vita di ciascuno? Non è questo che insegue la dietetica con le sue diete, andando per tentativi e cercando di individuare quale cibo si tratta di introdurre o di escludere dalla dieta? La dietetica ha fatto grandi passi nella ricerca del ritmo, ma si mantiene nella logica binaria, cioè nella logica dell’alternativa, e per quanto possa ampliare il confine dei cibi consentiti, ce n’è sempre almeno uno che dev’essere vietato! La dietetica si configura, cioè, come una riproduzione della legge dell’incesto, dove tutti, tutte le donne, tutti gli uomini, tranne uno, tranne una, tranne quell’uno con cui si realizzerebbe l’incesto, cioè l’atto impuro, l’atto che avvelenerebbe la vita, l’esistenza. Dunque, nella migliore delle ipotesi ognuno insegue la sua dieta, ossia insegue quel cibo che gli è vietato per localizzarlo, abolirlo e purificare la sua dieta, la sua alimentazione: finalmente sano perché purificato dal cibo impuro.
Attualmente, si va allungando sempre più la lista dei così detti disturbi dell’alimentazione, come dire che sempre più si allunga la lista dei cibi impuri, delle sostanze impure che costituirebbero il veleno di questo o di quel caso. Il catalogo dei disturbi è sempre più ampio. Chi s’interroga oggi sulla logica dell’alimentazione, del cibo, di cosa si tratta nel cibo? Perché è fin troppo facile intendere di che cosa si tratti nei così detti disturbi dell’alimentazione: dell’idea di alternativa, dell’alternativa fra il grasso e il magro, fra il bene e il male, tra la vita e la morte. È l’applicazione al cibo della logica dell’alternativa e dell’applicazione al cibo dell’idea del corpo come corpo mortale, come corpo rappresentato e significato dal cibo.
È chiaro che chi presumesse di avere individuato la sostanza del male, cibandosene, farebbe la rappresentazione di questa sostanza. Ecco i così detti disturbi dell’alimentazione, dove l’alimentazione non c’entra nulla. C’entra la fantasmatica della sostanza, la fantasmatica dell’incesto applicata alla cucina, alla casa e all’alimentazione. Si tratta sempre della sostanzialità, della significazione delle cose, che è sempre la significazione della morte e del male.
Così come anche la sigaretta e il fumare non sono disgiunti da un’idea di significazione e di localizzazione del piacere e della sua altra faccia, la pena, perché si tratta sempre di confermare, per gli umani, l’alternativa fra il piacere e la pena, il piacere e la colpa, la colpa e la pena, fra la vita e la morte. Si tratta sempre di significare l’alternativa e di riprodurla.
Quindi, attraverso il cibo o il fumo passa la posologia del piacere e della pena, cibo o fumo che devono significare, con la loro assunzione, la somministrazione del premio o della pena. Quante volte accade di sentire che la questione del cibo entra nella posologia del premio o della pena? “Mangia, che ti fa bene!”, “Mangia, se mi vuoi bene!”, “Sei stato bravo, per cui puoi mangiare anche il dolce!”, “Questa sera a letto senza cena!”, “L’ultimo boccone è quello che ti fa bene!”, “Mangia, mangia tutto, perché è l’ultimo boccone quello che ti fa bene”, “L’ultimo boccone è quello che ti fa ingrassare!”, “Mangia, non vedi come sei magro, come sei magra, mangia!”, “Non mangiarlo, che ti può fare male!”, “Non adesso il dolce, il gelato, per carità!”. Ecco la somministrazione del bene e del male attraverso il cibo!
È chiaro che poi ognuno giunge a farsi da sé la posologia del bene e del male, del rimedio e del veleno. E il corpo, allora, deve risentire di questa idea di spazio, di spazialità, e oscillare tra il grasso e il magro, tra il peso e la leggerezza sempre rappresentate dal peso, dunque senza immunità, sempre rappresentate dall’idea di male o di bene come male minore.
Quindi, come intendere in che modo il cibo e il fumo partecipano del sostanzialismo e del relativo erotismo? Quale cibo nutre e quale avvelena? Quale cibo nutre e quale ingrassa? Quale nuoce e quale fa bene? Anche il cibo incorre nell’anfibologia rimedio o veleno, nutrimento o tossico per una fantasmatica algebrica applicata alla vita o alla morte. Ma si tratta d’intendere che la questione è intellettuale, il cibo è intellettuale, è questione intellettuale!
E, dunque, anche il cibo procede dall’ironia, dalla questione aperta e non dall’alternativa fra il bene e il male, fra il grasso e il magro, fra il rimedio e il veleno. “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete, questo è il mio sangue”. Di quale cibo si tratta? Eppure, la questione della dieta parte da questo atto che istituisce l’eucaristia e che dissipa l’idea di sostanza, del cibo come sostanza, del nutrimento come sostanza.
La cena, l’ultima cena, il banchetto, ciascun banchetto è dispositivo intellettuale senza applicazione della vendetta e dei suoi corollari che sono la colpa e la pena. Se voi leggete il Vangelo, è curioso, ma subito prima dell’istituzione dell’eucaristia Cristo indica in Giuda il traditore, dopo di che istituisce l’eucaristia: assenza di vendetta, assenza di ripartizione della colpa e della pena, ironia estrema, perché questo gesto non istituisce l’economia del sangue! “Prendete e bevete, questo è il mio sangue”, non è un gesto d’iniziazione per compiere l’economia del sangue bevendo il sangue, come ciascun rito iniziatico propone, non fa l’economia del male per consacrare il male, ma dissipa la mitologia della sostanza. Nessuna economia, ma transustanziazione!
Chi si appresta alla dieta intendendo che si tratta innanzi tutto d’instaurare la transustanziazione, perché altrimenti ogni cibo rappresenterà l’economia del male per cui ce ne sarà almeno uno che rappresenterà il veleno? E fino a che questa fantasia persiste è sempre una dieta catartica, è sempre una dieta di purificazione, cioè è sempre una dieta che mantiene il presupposto che vorrebbe togliere. Così come il fumo, il fumare, è una rappresentazione del ritmo delle cose, cioè la sostituzione del ritmo delle cose, dell’aritmetica con la rappresentazione della loro finibilità, consumabilità. Ogni sigaretta si accende e finisce, ogni sigaro si accende e finisce, ogni fumata inizia e finisce e sancisce le cose finite: “Ah, adesso che ho fatto, mi faccio una bella fumata!”, “E dopo avere fatto, una bella sigaretta”, “Dopo mangiato, ah, una buona sigaretta!”, “E dopo questo, ah, mi faccio una fumata!”. Ogni cosa che finisce, fumo. C’è un ritmo delle cose? Ma certo, lo scandisco io fumando! La fumata marca e sancisce che qualcosa è finito, che qualcosa finisce, dunque fumo, tutto va in fumo.
E dunque, cos’è la lotta contro il fumo? Di cosa si tratta? Come smettere di fumare? Ma, sopra tutto, perché smettere di fumare? Chi s’interroga intorno a perché fuma, anziché pensare di smettere? Eppure, l’ideologia più comune è che basta uno sforzo di volontà: posso smettere quando voglio. Infatti, come diceva Mark Twain, smettere di fumare è la cosa più facile del mondo, l’ho fatta centinaia di volte! Quindi, più che porsi la questione di smettere, si tratta prima di capire perché fumo. E questo lo affronteremo la prossima volta.
Tutto ciò per dare un’eco alle sollecitazioni che il testo di Maria Antonietta Viero aveva proposto, perché è chiaro che non ci si può accontentare della nozione di corpo come organismo, come serie di apparati che seguono le leggi della termodinamica; è qualcosa che non può bastare più per chi si trova nel passo di capire e intendere come e perché accadono le cose. E lo dimostrano i medici stessi non sapendo che pesci prendere di fronte alle così dette malattie della pelle, o sintomi non catalogati, e altre cose. E anche l’idea di attribuire tutto a una predeterminazione genetica è sempre un modo per riproporre la predestinazione. Occorre integrare le varie cose nella parola, e occorre innanzi tutto non scherzare con la morte, perché ognuno non pensa alla morte, ma ognuno ci pensa. Cosa vuole dire che ognuno ci pensa? Che ognuno, pensando alla morte, cede alla sua superstizione e si lascia andare.
E allora è proprio lì che si tratta d’instaurare quel dispositivo in cui l’interlocutore non cede alla superstizione, non cede all’idea canonica, al protocollo, alla modalità protocollare, ma fa sì che s’instauri l’ascolto, e con l’ascolto la clinica, e con la clinica la direzione della cura. È un capitolo complesso, difficile, ma sta nella nostra missione.
Ci sono domande, notazioni? Perché le raccogliamo e ne teniamo conto per giovedì prossimo. Ci sono domande o siete rimasti basiti da queste notizie? Lei è rimasta basita? Dica, allora.
Cecilia Maurantonio Lei, poc’anzi, parlava della necessità che s’instauri la transustanziazione.
R.C. Non è che un teorema la transustanziazione, è una constatazione. Non è che bisogna fare chissà quale purificazione del mondo: è una constatazione. Che non c’è più sostanza è una constatazione, ma occorre giungere a farla. Non è che bisogna partire con le bombe atomiche per fare la transustanziazione, è una constatazione.
C.M. Lì dove avviene la constatazione, può esservi l’eccesso? Perché sono due domande. Esiste l’eccesso di cibo o la necessità della dieta? Che possono essere due cose anche differenti.
R.C. Ecco, esatto. Altri, altre domande? Ecco una mano dal fondo.
Pubblico Rispetto alla nozione di corpo come è stata intesa questa sera, volevo porre una domanda. Come intende la cifrematica la questione dei trapianti di organi rispetto, appunto, a come è stato inteso il corpo in questo dibattito?
R.C. Finalmente una domanda seria. Anche quella di prima lo era, però… Poi, altre? Altre domande? È un tema delicato. Capisco che può incontrare vari tabù, varie superstizioni.
C.M. Volevo fare una precisazione dicendo che, con la domanda di prima, c’era anche una proposta.
R.C. Beh, certo, questo era implicito. Poi? Altri? Altri che vogliono dare un contributo per giovedì prossimo? Oh, quasi all’ultimo minuto. Prego, dica.
Sabrina Resoli Mi chiedevo se la pulsione di morte può essere intesa come istanza della differenza assoluta.
R.C. La pulsione non è istanza, è pulsione. Occorre distinguere tra pulsione di morte, pulsione sessuale e istanza della differenza. Sono tre cose.
S.R. Sì, ci penso per giovedì prossimo.
R.C. Ci pensa, eh! Ognuno ci pensa. Sì, pensiamoci. Poi? Altri? Ecco una mano proprio nel centro della sala.
Pubblico Mi viene in mente che di fronte a una malattia che pare di dovere subire, inspiegabile, il primo approccio è di tentare di trovare delle letture, tentare di capirne qualcosa, fare delle ipotesi, trovare delle strade per non arrendersi al fatalismo o affidarsi ciecamente alla medicina. E la guarigione? La questione della guarigione è insita nel percorso? È già strutturata con la ricerca della possibile ragione per cui qualcosa si manifesta in questo modo?
R.C. Può dire qualcosa di più?
Pubblico È sempre difficile capire perché ci si ammala, perché ogni primavera ti viene l’allergia, e tu fino alla notte prima stavi bene, o perché improvvisamente ti viene un tumore che non si capisce da dove venga fuori, perché qualsiasi cosa, quando stai male, senti un estraneo che ti invade e tu non sai da dove viene questa cosa, non eri preparato, non te la meritavi, non hai fatto nulla per cercarla e ti capita.
R.C. Esatto.
Pubblico Per cui la ribellione, penso, è il primo atteggiamento, la frustrazione, e poi mettiamoci la disperazione. Dopo reagisci e cominci a chiedere: “Che cosa posso fare per venirne fuori?”. Allora, può essere che qualcosa, mi è sembrato di avere capito prima dal suo discorso, riguardi una forma di risparmio pulsionale, non lo so, qualcosa che non è stato assecondato o non ci si è creduto, o si è avuto paura di andare fino in fondo rispetto a qualcosa? Non so. E quindi la malattia si situa come in una sorta di contrappasso proprio per farti incontrare quello che avresti voluto evitare, come una sorta di costrizione per affrontare qualcosa. Questo sarebbe il lato positivo, tutto sommato, della malattia: costringersi da soli a qualcosa che si voleva evitare di affrontare; come dire che la malattia non è un vero male. Però occorre, a volte, cominciare a aprire un ventaglio di ipotesi, anche assolutamente irrazionali, apparentemente non logiche. Quando stai male, dici “sto male per questo, sto male per quest’altro, potrebbe essere quest’altra cosa ancora”, anche cose che apparentemente non c’entrano niente con la malattia, ma che ti fanno soffrire.
Può essere che qualcosa, a un certo punto, si comici a configurare come un disegno e arrivi a ipotizzare qualcosa che ti pare verosimile e magari, dopo, guarisci sul serio. Altre volte, di fronte a chi sta male, invece, ti viene da dire: “Guarda, sono così convinto che tutto quello che tu stai facendo, lo stai facendo con grande generosità che ti assicuro che guarirai”. Come dire: mi hai già dato così tanto che ti voglio restituire anch’io così tanto che quello che ti partecipo ti aiuta a guarire. Cioè, è una conferma che non esiste il male, che non sei nel male, che non è vero niente e che è solo un brutto sogno e tu guarirai.
R.C. Questo sarebbe il soccorso.
Pubblico Di fronte alla malattia ti viene quasi da…
R.C. Da soccorrere, sì.
Pubblico Quando invece stai male, provi questa specie di mappatura, anche per capire quando succede qualcosa a chi ti è caro…
R.C. Certo.
Pubblico E, appunto, la questione della guarigione, non so se intervenga già lungo questo viaggio di ricerca, perché qualcosa a un certo punto si sposta, e magari non ha più quell’incidenza che aveva prima. Quindi, mi chiedo se si possa evitare la malattia in qualche modo, se si potrebbe evitare la malattia, l’ammalarsi. O se invece è come un nodo, qualcosa di estremo a cui si arriva, proprio perché non si è riusciti a trovare un’altra modalità.
R.C. Queste sono ipotesi di lavoro molto interessanti. È quasi un programma di ricerca. L’ultima ipotesi è tra l’altro innovativa, per cui non si tratterebbe di evitare la malattia, ma di accoglierla come occasione. Comunque, sono cose che vedremo di svolgere.
Maria Antonietta Viero Armando Verdiglione pone la questione del due come questione dell’autonomia. Mi chiedevo se l’autonomia è un modo del far da sé come modo di togliere l’immunità? Cioè, tra autonomia e immunità rispetto a questa questione.
R.C. Sì, Bene.
M.A.V. Perché sembrerebbe troppo leggero il far da sé. Allora, “chi uccide chi?” sembrerebbe la domanda all’interno.
R.C. Chiaro. Bene. Ci sono altri? Ecco, c’è un’altra mano.
Pubblico Se la malattia fosse appunto un’occasione, quasi una benedizione a volte, perché è un modo per aprire gli occhi verso qualcos’altro.
R.C. Beh, dire occasione è già dire molto. Perché, se poi lei entra nella benedizione, magari subito dopo si pone come maledizione, e allora…
Pubblico Un’occasione.
R.C. Invece, un’occasione è già moltissimo.
Pubblico È come un richiamo a dovere rinunciare alla padronanza che abbiamo su noi stessi e sul mondo. La volta scorsa si parlava di ultimi, e di agire da non professionisti. C’era un signore che diceva che di fronte alle persone con cui lui sta, queste gli chiedono “Ma perché è toccato a me?” Io, adesso, sto frequentando una comunità dove ci sono vari casi di ultimi, oppure di ammalati, ex tossicodipendenti, gente di strada, di rifugiati politici e di rifugiati sociali, come me, però è come se in questa condizione di marginalità, di malattia o di ex malattia, gente che non ha titoli, che non è professionista in qualcosa, però mi sembra che solo in queste situazioni si possa avere uno sguardo nuovo, creare qualcosa di nuovo su tante cose.
Io sono stato sempre un tipo abbastanza difficile, molto diffidente, molto critico su tutto e su tutti, ma lì, in un’occasione particolare quando eravamo tutti attorno a un tavolo, ognuno diceva la sua opinione su un fatto, magari di natura ecologica, ma poi da lì, si è partiti con una discussione più ampia. Si procedeva in una maniera che a me sembrava all’inizio un po’ ridicola, cioè ognuno diceva la sua e scriveva, però era come se fosse un principio di qualcos’altro che non c’è nei dibattiti, nei convegni di professionisti, che non c’è nemmeno, penso, nelle riunioni parrocchiali o di altro tipo. Poi, la volta scorsa l’ho detto a lei privatamente, e ora volevo dirlo al microfono, io la devo ringraziare perché, ascoltando lei, forse per la prima volta ho capito il Vangelo, ammesso che sia lei, sia altri, sia il Vangelo diciate la stessa cosa sotto forme diverse, come lo stare con gli ultimi, l’abbandonare se stessi, l’obbedienza. L’ultimo intervento, la volta scorsa, era sull’obbedienza, l’obbedienza di Cristo al padre se vogliamo, o l’amare il nemico più dell’amico. È un qualcosa che stasera è venuto fuori.
R.C. Bene. Grazie. Ho preso nota di alcune cose.
Lei aveva alzato la mano prima, e poi la signora. Allora, ancora due domande. Prego.
Pubblico Volevo capire meglio il pregiudizio della scienza. Se, domani, il tumore si potesse guarire, qual è il problema? Come si pone tutta la questione? La scienza ragiona così. Non può sempre guardare il caso singolo, lo specifico. A un certo punto bisogna anche, per un’economia intellettuale, generalizzare i vari formulati della teoria generale. Quindi, è questo che volevo chiederle. I meriti della scienza ci sono.
R.C. E noi non li togliamo mica.
Pubblico Poi, la lampada di Aladino, Aladino, il fumo, eccetera. Accendere la sigaretta è un po’ come Aladino che strofina la lampada.
R.C. Bravo!
Pubblico La localizzazione del piacere dell’Altro. Io vorrei meglio capire qual è il fantasma che attraversa la scienza oggi. Anche la scienza è opera dell’uomo e non esiste nessuna verità certa.
R.C. La signora, per concludere. Prego.
Pubblico Volevo chiedere, come la malattia si combina con il cibo? E se si apre una piccola finestra, se si osa andare oltre, con speranza, come rinforzare questa cosa, come riuscire a staccarsi dal dolore? Come ricostruire quello che è dentro alla persona che ha la malattia, che però è in una fase medica quasi positiva? Come fare perché la malattia regredisca, se così si può dire? C’è l’accettazione? Grazie.
R.C. Grazie a lei. Beh, quindi la questione è importante e ha mosso molte sollecitazioni. Ho annotato molte delle che sono state proposte, e quindi la prossima settimana proseguiamo, sopra tutto intorno alle questioni che sono state proposte e che riguardano la salute intesa non in modo ideale, ma in modo effettivo. Non già la salute come qualcosa di idilliaco, incontaminato, di catartico, ma la salute come ciò che s’instaura nel dispositivo della vita.
Come il fantasma di morte fonda la nosologia e si dilegua all’orlo della vita
Ruggero Chinaglia Comincia questa sera una nuova serie di dibattiti, che prosegue quella precedente e quella ancora prima, e il pretesto è La lampada di Aladino e il Grande Fratello. I giovani, la sessualità, la comunicazione. Ma il titolo vero e proprio del dibattito di questa sera è ancora differente: Come il fantasma di morte fonda la nosologia e si dilegua all’orlo della vita. Chi ne era al corrente? Dato che il titolo è questo, quali sono le domande? Eccone una.
Graziella G. Volevo dire che il titolo l’ho letto sul quotidiano, ma non me lo ricordavo più.
R.C. Ah, lei l’ha letto.
G.G. Sì, ma non mi ricordavo più il titolo.
R.C. L’ha letto e se l’è dimenticato. Quindi, grazie a questa dimenticanza lei si trova qui. E cosa ha pensato leggendolo?
G.G. Non ho pensato a niente. Mi ha incuriosito il fatto di trovare la morte e ho detto “Boh”.
R.C. Ah, davanti alla morte lei dice boh?
G.G. Ecco, non ci penso mai, io, alla morte. Perché devo pensare alla morte?
R.C. Infatti è addirittura impensabile.
G.G. Esattamente.
R.C. Ma lei è proprio sicura di non pensarci mai?
G.G. Mi sono trovata una volta in pericolo di vita, però non ho mai pensato di morire. L’unica cosa che veramente non ho pensato è stata proprio che non morivo. Ma neanche mi ha sfiorato minimamente l’idea di morire.
R.C. Però ha pensato che non moriva.
G.G. Minimamente pensato. Ho saputo poi che potevo morire, però io non l’ho mai pensato.
R.C. E da chi l’ha saputo?
G.G. Poi, da un’amica. Ma davvero io sono restata tranquilla, non so perché. Lo dico col cuore, ma io non ho mai pensato un attimo che potevo morire.
R.C. E già! Ma infatti. Bene. Quindi il titolo l’ha incuriosita al punto da dimenticarsene subito. Questo è interessante.
G.G. Può essere che l’ho cancellato, così. Sapevo che c’era questa conferenza, ma dopo non ci ho più pensato.
R.C. Infatti noi non parliamo mica della morte, perché è impossibile parlare della morte.
G.G. Anche perché non la conosce nessuno.
R.C. Esatto.
G.G. Si può fare un’ipotesi.
R.C. Sì, sì, già.
G.G. Per sentito dire si dice che può essere così, ma poi…
R.C. Nessuno è tornato a dirlo, finora.
G.G. Esattamente. E quindi per me è un mistero.
R.C. Per lei è un mistero?
G.G. Qualcosa che non si conosce.
R.C. Ci sono altri che non pensano mai alla morte? Che con certezza possono dire di non pensarci mai? Nessuno. Quindi, ogni altro ci pensa. E come fa a esserne così sicuro?
Pubblico Sicuro di che? Di pensarci?
R.C. Di pensarci. Qual è l’elemento che può garantire con sicurezza che x sta pensando alla morte?
Mauro R. Diciamo che si pensa all’idea di morire.
R.C. Come?
M.R. Che è più presumibile pensare all’idea di morire. Cioè, io almeno ho notato che da quando si affronta qui l’argomento della morte, penso più spesso a cercare di raffigurarmi la morte. Cioè, “A come sarebbe se…”. Quindi, automaticamente, è già un’idea, una rappresentazione del morire che non ha nulla a che vedere col morire in sé, però l’unica cosa che posso pensare è questa.
R.C. “Come sarebbe se”? Se che cosa?
M.R. Se io morissi.
R.C. Ah ecco. Quindi, non lo dà nemmeno per certo!
M.R. Ma io non posso darlo per certo!
R.C. È una mera ipotesi! E quindi come facciamo a dire che questo è un pensiero di morte?
M.R. No, infatti, non è un pensiero di morte, è una raffigurazione, non voglio dire un esorcismo, ma comunque è un pensiero ideale che in sé non ha la morte.
R.C. Esatto. Perché, di che cosa si tratta quanto a ciò che comunemente viene chiamata morte? Dato che della morte non c’è esperienza, di che cosa si tratta quanto a ciò che comunemente viene chiamata morte? Lei giustamente dice che è un’idea, una rappresentazione, una raffigurazione. Di che cosa? Chi è che azzarda una risposta? Perché sembra che siamo tutti d’accordo, diciamo morte e tutti abbiamo capito. Ma di cosa si tratta in effetti?
Pubblico Un sacco di barzellette possono venire fuori, ma dopo si fa sacrilegio.
R.C. Ma dato che non c’è idolo non c’è nemmeno profanazione.
Pubblico Perfetto! Senta, la domanda è un dubbio conseguente a un altro, secondo me notevole: per che cosa viviamo?
R.C. Ripeta.
Pubblico Per che cosa vivo?
R.C. Ah, per che cosa?
Pubblico O viviamo. Per me è consequenziale.
R.C. Non “perché”, ma “per che cosa”.
Pubblico Per che cosa vivo o viviamo? La storia, o comunque quello che io o noi abbiamo riscontrato o percepito, è la fine di uno stato fisico, di una situazione fisica, fisiologica, conseguente al deperimento della nostra macchina nella quale è racchiusa, praticamente, la nostra essenza della vita. Questa macchina è destinata a deperire. Quindi, a un certo momento, è la fine di una parabola, la fine di questo ciclo. Dopo, non essendoci esperienza, non avendolo mai provato, riferisco quanto diceva Gioacchino Belli: “’N altro è parlar de la morte e ‘n altro è morir”.
R.C. Eh già.
Pubblico A volte, certe situazioni si vedono rinviate in chi in quel momento è più vicino, perché questo sfortunatamente è più vicino di te attore, rispetto a un’altra persona malauguratamente più sfortunata.
R.C. Però, ancora non ha proprio risposto alla questione. Di cosa si tratta? Perché, giustamente, lei ha dato un contributo importante. Un conto è parlare della morte, un conto è morire. E quindi, possiamo aggiungere, un conto è pensarci. Però lei ha aggiunto qualcos’altro: la fine. E quindi noi possiamo dire che un conto è la morte e un conto è la fine.
Pubblico Clinicamente parlando, la morte ha una sua dimensione che viene accettata praticamente da tutti. Se pensiamo ai soggetti eventuali candidati all’espianto − parlo di interventi comuni − la morte ha una sua dimensione.
R.C. Sì, quella è la morte secondo il discorso medico. È la certificazione. Vabbè, c’è anche quella. Ecco, c’era lì una mano, poi un’altra.
Gregorio G. Io volevo ritornare a un argomento affrontato forse da poco. Cioè, se si possa parlare di morte senza eros.
R.C. Senza eros. In che senso?
G.G. Anche nel linguaggio comune si usa.
R.C. Noi, fin qui, ne stavamo parlando senza eros.
G.G. Io volevo sapere se si può parlare di morte senza eros. Nel linguaggio comune, per esempio, si usano certe espressioni come “ti amo da morire”, oppure “i signori della morte”, ossia i terroristi; oppure “l’amore è una causa”, oppure certi dicevano “l’orgasmo, piccola morte”. Anche Aladino, per esempio. Aladino è un adolescente che non sa morire, non sa passare alla fase adulta. Quindi, perché c’è questo intreccio continuo tra eros e morte?
Cecilia Maurantonio La mia domanda è se c’è un autismo connesso al tempo e un autismo connesso all’oggetto, e quindi se anche il fantasma di morte può avere una connessione rispetto a questo. Può precisare qualcosa?
R.C. Bene. Altri? Ecco un’altra mano.
Pubblico I maestri orientali, per esempio Osho e molti altri, affermano che la morte si può conoscere. Infatti, loro distinguono quattro stadi, e dicono che si tratta…
R.C. Bhagwan, si chiamava Bhagwan.
Pubblico Come?
R.C. Non si chiamava Bhagwan?
Pubblico Osho Rajneesh.
R.C. Ma Osho non era un soprannome?
Pubblico Non credo.
R.C. Per gli amici era Osho. Per la confraternita era Osho. Ma si chiama Bhagwan Rajneesh.
Pubblico Sì, può darsi. E comunque è uno dei tanti maestri orientali indiani. L’ho citato così, perché è stato il primo che mi è venuto in mente. Ecco, questi affermano che la morte si può conoscere. A parte il discorso per cui siamo morti migliaia e migliaia di volte e si potrebbe rivivere la morte attraverso il sonno ipnotico, loro affermano che la morte è il distacco del corpo eterico e fisico dal corpo astrale e dal corpo mentale. L’incarnazione si distinguerebbe proprio per questo, cioè che il nuovo corpo astrale e mentale si unirebbe a un nuovo corpo eterico e fisico. E la morte sarebbe questo distacco, che loro descrivono in quattro fasi che il guru indiano sa benissimo padroneggiare e sa quando dare inizio al distacco. Poi, ci sarebbe da citare Il libro tibetano dei morti, in cui si danno dei consigli su che cosa avviene attraverso questo passaggio, come avviene, che cosa succede, quali sono le proiezioni mentali che avvengono e a che cosa bisogna fare attenzione, che cosa bisogna evitare, su che cosa bisogna concentrarsi nell’ultimo minuto prima del distacco, come i sensi ti abbandonano. L’udito, per esempio, è l’ultimo senso che ci abbandona. E allora bisogna stare attenti, per esempio, che si debba morire in una stanza con poca luce, perché la luce schiaccia l’uscita della così detta anima.
R.C. Questo, per una buona reincarnazione?
Pubblico Non necessariamente reincarnazione, perché potrebbe essere che uno non si reincarni più. Infatti, Il libro tibetano dei morti tende a dare tutti i consigli necessari, utili perché uno…
R.C. Sarebbe la tanto agognata ricongiunzione.
Pubblico Sì, cioè finire con il ciclo delle nascite e delle morti che riguarda questa terra, cioè questo pianeta.
R.C. Esatto.
Pubblico Per esempio, Osho Rajneesh ha messo sulla sua tomba: “Mai nato e mai morto. Ho soltanto visitato questo pianeta”. Interessante questa epigrafe. Lui dice: “Non dovete mai piangermi, perché io vivo ancora dopo. Non è niente”. Ha scritto tantissime pagine su questo, proprio per rassicurare i suoi adepti, i suoi seguaci che la morte non è niente. È questo distacco che è fatale, ma è necessario se si vuole progredire, se si vuole evolvere. Altrimenti non si può evolvere. È nella natura delle cose e, appunto, uno può scegliere il momento in cui morire, in cui lasciare avvenire questo distacco, che è consapevole.
R.C. Secondo lei, perché si è sentito in dovere di rassicurare i confratelli?
Pubblico Perché loro hanno paura, cioè la paura è una reazione normale, è una reazione del “sé inferiore”, come dicono loro, è l’attaccamento necessario, come l’egoismo, d’altra parte.
R.C. Un sé pavido, quindi.
Pubblico Penso di sì. È questo nucleo che è attaccato alla dimensione terrestre, perché altrimenti non ci sarebbe nessun desiderio di vivere.
R.C. Esatto. Questa è la questione: il desiderio di vivere. Molti si preoccupano del desiderio di morire, e allora scatta la prevenzione verso chi avrebbe questo desiderio di morire. Altri ritengono possa accadere che tizio non abbia più il desiderio di vivere, allora dicono: “Non desidera più vivere”, dando per scontato che possa esserci il desiderio di vivere o il desiderio di morire. Ma perché dovrebbe esserci il desiderio di vivere? Perché vivere dovrebbe essere nell’ordine del desiderabile? E chi potrebbe asserire di desiderare o non desiderare di vivere?
Freud ha parlato della pulsione di morte e molti hanno capito che si trattava del desiderio di morire. Poi ha parlato della pulsione di distruzione e allora molti hanno capito che si trattava dell’autolesionismo, cioè sempre facendo come se l’uomo fosse padrone, padrone per non essere schiavo. Padrone sulla morte o padrone sulla vita per non essere schiavo della morte o schiavo della vita. Padrone o schiavo considerati in un’alternativa che fonda anche l’alternativa fra la vita o la morte. Ma perché dovrebbe esserci questa alternativa? È un’alternativa?
O la vita o la morte. Questione di vita o di morte non è un’alternativa, ma è proprio l’assenza di alternativa. Fra la vita e la morte non si tratta di scegliere. È propriamente la questione aperta. Questione di vita o di morte, questione aperta, cioè senza alternativa, senza scelta, senza padronanza. Proprio da questa questione, che è senza padronanza, procede il vivere, procede il fare, procedono l’arte e la cultura, procede la scienza. Cioè, non si tratta di scegliere fra la vita e la morte, ma, procedendo dalla questione di vita o di morte, si tratta di decidere il da farsi. Assolutamente impossibile scegliere fra la vita e la morte. Si tratta di stabilire il da farsi: che fare, come fare. E invece, comunemente, in termini di discorso di padronanza, la questione aperta viene capita come possibilità di scegliere fra due eventualità che sono assolutamente escluse dalla scelta.
Certo che, per giungere a questa formula, ci voleva la cifrematica e, occorre dire, ci voleva Armando Verdiglione, perché nemmeno Freud era giunto a formularla in termini così precisi. Lacan si era avvicinato dicendo che è indecidibile l’alternativa che si formula con “O la borsa o la vita!”, nel senso che non è data la vita senza la borsa o la borsa senza la vita, ma sempre mantenendo la questione di una relazione fra le due cose, mentre la questione è proprio quella della relazione. La questione aperta è la relazione, la relazione originaria che non è relazione fra, ma è relazione, dunque apertura. Apertura a partire da cui non c’è più l’alternativa esclusiva, non c’è più la possibilità di scegliere fra positivo e negativo. Bene e male, giuntura e separazione, armonia e disarmonia non sono tra le possibilità della scelta. La scelta, eventualmente, riguarda altro. Non è l’alternativa, cioè la scelta non sta nella dicotomia, né istituisce la dicotomia, non sta nell’esclusione. La scelta non fonda nessuna esclusione né toglie qualcosa, né va a scapito di qualcosa o di qualcuno. Il fantasma di morte comunemente inteso è questa idea di alternativa, di scelta fra, l’idea che ci sia un bivio e io debba scegliere fra le due possibilità che il bivio offre. Ecco, questa è l’idea di morte! Chi può dire di non averci mai pensato? Quindi, è una cosa che non necessariamente riguarda l’idea di morire, ma questa poi arriva in seguito, perché se la questione di vita o di morte, anziché nei termini dell’apertura, è intesa come alternativa, è chiaro che alla fine dell’alternativa c’è la fine delle cose e questa giunge magari a rappresentarsi. Cioè, senza la questione aperta siamo nel fantasma di morte, siamo nell’idea di fine, siamo nella predestinazione alla fine.
Magari uno la parola morte non la pensa mai, la parola fine nemmeno, ma, vivendo nell’alternativa, questa alternativa è la rappresentazione della morte, è la rappresentazione della fine, è la paralisi. Perché si tratta di questo, della paralisi. Dato il fantasma di fine, ognuno vive nella paralisi, cioè vive nella sostanza, vive nell’idea che ogni cosa debba trovare la sua soluzione.
Qual è la soluzione di questa cosa? Cioè, qual è la fine? Ogni cosa è sostanza. Qual è il fine o la fine di questa sostanza? Ognuno, quindi, vive nel finalismo e si domanda: “A che pro? A che fine? Con quale fine? Dove andrà a finire? Ma questa cosa quando finirà? Come va a finire?”, e ritiene che, per stabilire se farla o non farla, occorra sapere dove va a finire, quando andrà a finire, perché, cosa e come finirà, e allora potrà stabilire se farla o non farla. Questo finalismo è la paralisi, ossia la decisione non è in direzione del programma. Perché è il programma a decidere che quella cosa è indispensabile; lo esige il programma per via dell’analisi, senza soluzione e senza alternativa, perché queste sono alcune delle prerogative dell’analisi. È la caratteristica stessa dell’analisi che non vi sia soluzione. Analisi vuole dire proprio questo: senza soluzione. Senza soluzione, senza finalismo, senza fine. Dunque, per via di analisi le cose non finiscono ma trovano il modo di rivolgersi alla qualità, secondo l’occorrenza che lo esige.
Non sono io a esigerlo, non è l’altro a esigerlo, non è qualcuno, non è il padrone, né lo schiavo, né la vita, né la morte. È l’occorrenza. L’occorrenza lo esige. Mentre il padrone si paralizza. Il padrone, per contrapporsi alla sostanza, istituisce l’alternativa, l’idea del controllo, della padronanza, della sufficienza, l’idea del fine necessario per stabilire se fare o non fare. “A quale fine dovrei io…?”. Ecco già il servo. “A quale fine dovrei io fare questo?”. E già sorge l’idea dell’alternativa e dell’alternanza fra servo e padrone, nell’idea di padronanza.
La questione aperta introduce al servizio intellettuale, che non è il servizio dello schiavo a favore del padrone, ma è il servizio intellettuale senza alternativa fra servo e padrone perché è questione di vita o di morte.
C.M. Scusi, lei dice questione di vita o di morte, non questione di vita e di morte.
R.C. E no, questione di vita o di morte.
C.M. Però pone l’alternativa.
R.C. Per lei! Per lei si pone l’alternativa. Ma quell’o è un vel, non è un aut aut. Questione di vita o di morte, non alternativa. Un’adiacenza.
C.M. Quando dice relazione, intende anche ossimoro?
R.C. L’ossimoro è modo della relazione, dunque assenza di alternativa. Chi può dire con certezza che mai ci pensa all’alternativa? Ecco, pensare all’alternativa è un fantasma materno, fantasma di morte, fantasma che comporta l’abolizione dell’apertura, del due, dell’infinito. È la paralisi intellettuale. Allora niente più deve accadere, ma ogni cosa deve rientrare nell’ambito del possibile o del probabile, ogni cosa deve rientrare nell’ambito della probabilità, della possibilità. Quante possibilità ho io che mi vada bene? Di farcela? L’alternativa. Dunque, quella cosa non ha più nessuna eventualità di accadere, diventa un fatto nell’ambito della possibilità, della probabilità, cioè del previsto, del già previsto, cioè della predestinazione. Così nulla più accade. Pensando all’alternativa niente più accade, tutto è già previsto nel bene e nel male, tutto deve rientrare nell’ambito delle previsioni, nella statistica delle previsioni, quindi nel finibile, nel finito.
Questo toglimento dell’accadere comporta l’assenza di miracolo. Il miracolo è ciò che sorprende perché non segue le leggi del possibile e del probabile, non segue le leggi della natura. Ma quali sono le leggi della natura? Di quale natura si tratta? La natura del possibile e del probabile, la natura dell’umano, cioè la natura che segue i principi deterministici e causalistici. Il miracolo non segue questi principi e è per questo che sorprende, perché segue l’occorrenza, l’esigenza; non già perché è qualcosa di divino, ma perché non segue la via, il criterio del possibile e del probabile.
Per il miracolo non si tratta di appellarsi a un ente superiore, a una divinità o a un dio agente, questa è la superstizione più comune. Il miracolo è ciò che non segue la presunta necessità del sistema, il criterio della necessità del possibile e del probabile. In questo senso il miracolo è l’esigenza di ciascuno. Ciascuno vive per il miracolo. Potremo dire per fare i miracoli. Già Dante lo aveva detto a suo modo, già Dante dà l’indicazione: “Fatti non foste a viver come bruti”, ma per il miracolo, perché qualcosa accada d’imprevisto, di sorprendente. Il miracolo va in direzione della qualità, ma una volta sgombrato il campo dal fantasma di morte, dal fantasma di alternativa, dall’idea di predestinazione, dall’idea di conoscenza di sé, dell’origine e della propria meta, del proprio destino, dei propri mezzi, delle proprie risorse, dei propri limiti. Tutta questa conoscenza è la paralisi, ossia è un’idea di morte. Non è data la conoscenza di sé, la conoscenza dei propri limiti, la conoscenza delle proprie risorse, la conoscenza del proprio avvenire, che sono idee, fantasie, fantasmi di fine; perché ognuno si rappresenta assolutamente peggio di quel che “può fare”, assolutamente peggio, e si rappresenta gli altri assolutamente peggio di quel che sono, e si rappresenta l’avvenire assolutamente peggio, perché se lo rappresenta secondo la paralisi, secondo l’alternativa, secondo la via rettilinea che dovrebbe condurlo… Dove?
Presupporre la via come rettilinea è già la morte, è già l’alternativa, è già la spazializzazione, è già una geometrizzazione della via, è già una geometria dell’apertura, è già un toglimento del due in direzione dell’universalità. Allora, chi può dire di non averci mai pensato? Ma il problema non sta se ci ha mai pensato o no. Il problema è che chi ci pensa si lascia andare, si paralizza, si sostanzializza, si localizza, si sofferma a pensare se desidera vivere o morire. “Ma io desidero veramente vivere o desidero morire?”. E allora si sofferma a pensare alla morte. Ma come pensare alla morte? Perché la morte è impensabile, lo abbiamo già detto. Come pensare alla morte? Attraverso la sua economia, per esempio per la via delle malattie, per cui nessuno pensa alla morte, ma ognuno ci pensa attraverso le malattie.
Pubblico Ma la vita è una malattia, è una malattia come un’altra.
R.C. Sì, questo lo diceva già… Era Mark Twain o George Bernard Shaw?
Pubblico Era un medico.
R.C. Era un medico? Ma lo diceva perché l’aveva letto. Chi lo diceva, secondo lei? Chi era a dirlo? Lo dicevano in tanti pensando di essere originali, ma in realtà dimostrando che ognuno ci pensa. “La malattia chiamata uomo”, “La vita è una malattia mortale”, cioè in assenza totale di fantasia.
Pubblico Ognuno fa quel che può.
R.C. Esatto, “Ognuno fa quel che può” è proprio la formula matematica del toglimento del miracolo! “Ognuno fa quel che può”, ossia conserva e mantiene i presunti limiti, le presunte pecche, le presunte impossibilità, secondo il criterio del possibile e del probabile. “Ognuno fa quel che può”, ossia ognuno si paralizza. Fare quel che si può è paralizzarsi, è vivere nella paralisi. Perché, che cosa posso fare io? Che cosa posso veramente fare? Nella migliore delle ipotesi, poco o nulla. Che cosa posso fare? Perché, nel momento in cui la questione entra nella possibilità, il negativo, la predestinazione negativa prevale. E se anche prevalesse la predestinazione positiva, è una predestinazione, per cui questo toglie l’ingegno, toglie l’instaurazione del dispositivo, perché tanto la predestinazione è positiva e posso fare qualunque cosa.
Allora, da una parte il principio dell’impossibilità, dall’altra il n’import quoi, posso fare qualunque cosa, senza criterio, senza discernimento, senza direzione. Ognuno si lascia andare sia nella predestinazione positiva sia nella predestinazione negativa. È un lasciarsi andare. Ognuno ci pensa e si lascia andare. Ma questa non è la malattia. Questa è già la morte, la somministrazione della morte attuata solamente pensando di padroneggiarla, pensando di potere esercitarne il controllo e la padronanza, cioè di diventare l’autore, il somministratore del male e facendo dell’economia del male la propria mentalità, cioè il proprio recinto.
Pubblico Questo succede anche a chi ha talento? Visto che il genio si limita a quello che può fare.
R.C. Visto che?
Pubblico Il genio è misurato, ha la sua misura, ha il suo limite.
R.C. Non ho capito. Può dargli il microfono?
Pubblico Se questo succede anche a chi ha del talento. Mi pare di potere dire che il genio è uno che possiede doti particolari. Non saprei come altro definirlo.
R.C. Ma la questione non è questa, non è chi ha talento. La questione è chi non ne ha? Chi non ha talenti? Chi non ne ha?
Pubblico Magari non li usa. Anch’io vado sempre in giro a dire che ho la coscienza a posto, perché non la uso mai, è sempre pulita come la camicia.
R.C. La questione non è chi ha il talento, ma chi non ha talenti? Perché i talenti non stanno nella conoscenza. Chi sa, chi conosce quanti e quali sono i talenti se non corre il rischio di vita? Già il Vangelo ci pone la questione in questi termini. E per chi non li usa, dice Cristo: “Sangue e stridor di denti”, come dire di non andare a protestare poi, a lamentarsi.
C.M. Anche per i talenti c’è il valore assoluto?
R.C. In che senso?
C.M. Che non sono misurabili qualitativamente, cioè non c’è un talento che vale di più rispetto a un altro, perché non so qual è esattamente la specificità del talento, rispetto a che cosa.
R.C. Ah, sì, certo. Non c’è la classificazione dei talenti. Ci sono i talenti.
C.M. Quindi il valore di vita.
R.C. C’è il talento, è chiaro.
C.M. Il talento ha una sua caratteristica.
R.C. I talenti stanno nei mezzi e nei modi della parola. Lì stanno i talenti.
Gregorio G. Secondo lei chi è il più forte, chi arriva prima, chi vince tra Eros e Thanatos?
R.C. Chi vince o chi arriva primo? Cioè, è una gara di corsa?
G.G. Mettiamola così.
R.C. Perché, se fosse una lotta, non ci sarebbe nemmeno chi arriva secondo.
G.G. Beh, ma nell’arco dell’esperienza, l’ultima è Thanatos. O no? Non è il finale?
R.C. No. Nell’ambito dell’esperienza, no.
G.G. Nel ciclo esistenziale.
R.C. Ah, nel ciclo esistenziale! Non lo sappiamo. Non ne sappiamo niente del ciclo esistenziale perché non abbiamo − come dicevamo prima − esperienza della morte in quella direzione; però abbiamo esperienza di altre cose. Perché a lei interessava in questa combinazione?
G.G. Non per un particolare motivo, era uno sviluppo, una riflessione. Sono due totem, chiamiamoli così, di cui ho sentito parlare, di cui ogni tanto sento parlare e che non riesco da solo a sintetizzare e a sviluppare.
R.C. Esatto, ecco un’altra questione. Abbiamo visto l’alternativa, la scelta esclusiva, la dicotomia, la contrapposizione. Lei ci dà un’altra indicazione della fantasmatica gnostica, la sintesi, che è un altro modo della paralisi. Come fare la sintesi è l’ideale gnostico. Fare la sintesi, cioè la ricomposizione. Ma se non c’è frattura, non c’è nemmeno ricomposizione. Se non c’è dicotomia, non c’è nemmeno l’esigenza della ricomposizione. L’idea della ricomposizione, da dove viene? Che cosa c’è da ricomporre o da comporre?
G.G. Può darsi che dipenda dall’incertezza.
R.C. No, dipende sempre dalla formula che dicevamo prima, che il vel viene inteso come alternativa, come contrapposizione, come aut-aut, per cui o l’uno o l’altro. Questa è la sintesi. L’estrema sintesi è questa: o l’uno o l’altro, mi sbarazzo dell’uno e ho l’altro come sintesi del tutto, mi sbarazzo dell’altro e ho l’uno come sintesi. L’idea della sintesi è sempre all’insegna della linearizzazione o dell’algebra, dove cioè le cose sono segnate, hanno un segno, il segno del positivo o del negativo. Segno che dovremmo individuare perché sta dappertutto. Allora, l’importante sarebbe cogliere il segno delle cose, perché quel segno ci dovrebbe dire se fare o non fare quelle cose, se hanno una predestinazione buona o una predestinazione negativa. Questo è il criterio della sintesi, un criterio che toglie l’analisi. Il criterio della sintesi è il criterio della sostanza, è il criterio della drogologia. L’estrema sintesi dell’epoca contemporanea è lo psicofarmaco, è la droga; questa è la sintesi dell’epoca. Tolta l’apertura, tolta l’analisi, tolta la transustanziazione, resta la sostanza buona o malvagia, la droga o lo psicofarmaco. Cosa scelgo? “Devo fare questa cosa, ma ne sarò capace? Forse è meglio se mi carico un po’. Come mi carico? Prendo un caffè. È poco! Ne prendo due. Due adesso e due dopo! Mi fumo anche qualche sigaretta. Però, tutti questi caffè mi fanno male. E se mi facessi un po’ di…? Una volta, anche due! Solo quando ne ho bisogno per fare quella cosa. Perché io non ho i mezzi, sento che da solo non ce la faccio. Mi carico un po’. Ma adesso sono così carico che non riesco più a scaricarmi. Che faccio? Beh, mi faccio una camomilla. Una camomilla da sola non basta. Me ne faccio due! Mi prendo anche una tisana. Beh, però, magari, un piccolo tranquillante… Poco, una volta. Una volta? Quando ne ho bisogno”!
Allora, prima mi carico, poi mi scarico. Questa è la sintesi: vivere di sostanza, vivere di droga. La sintesi. Che bella cosa! No, la questione è quella dell’analisi, non della sintesi. L’analisi senza la sintesi, perché nell’infinito non c’è possibilità di sintesi. L’infinito è senza sintesi.
Pubblico Pazienza!
R.C. Non pazienza. Per fortuna!
Pubblico Sto pensando di farmi ricoverare, ma ho disdetto la prenotazione.
R.C. Ha disdetto la prenotazione?
Pubblico C’è per caso qualche scorciatoia per fare un po’ di felicità, ammesso che…
R.C. Ecco. “Ammesso che…”. La felicità è senza scorciatoie, la felicità è un istante, è ciascun istante nell’itinerario della vita a condizione di non inseguirla come fine, perché se noi facciamo della felicità il fine, quello è il modo migliore per escluderla, in quanto non c’è la padronanza sulla felicità, non c’è il controllo. La felicità partecipa del miracolo, cioè di quanto di meraviglioso e sorprendente accade. Accade! L’accadimento è senza controllo, è senza padronanza, è senza previsione e senza finalismo. Prevederla, calcolarla, stabilirla, inseguirla è il modo migliore per abolirla.
Pubblico Mi viene il nervoso.
R.C. Le viene il nervoso?
Pubblico Se vado in cerca.
R.C. Ah ecco, andando in cerca della felicità, sì, certo, può venire il nervoso.
G.G. Prima si è parlato di talenti. Il concetto stesso di talento già fa riferimento a qualche cosa che preesiste, a cui segue uno sviluppo. Ognuno di noi nasce con dei talenti.
R.C. Ecco, questo è totalmente da mettere in discussione. Abbiamo detto prima che non sono innati, non c’è il talento innato. Adesso lei dice che invece sono innati. No!
G.G. Veramente, prima di sostenere questo, sono partito dal fatto che esistono dei talenti. Il problema è che non vengono scoperti.
R.C. E no, c’è un equivoco. Non è che non vengono scoperti! Ho detto che non c’è chi possa conoscere i suoi talenti. Se ne può avvalere secondo l’occorrenza, ma questo non vuole dire sapere o conoscere quali sono e quanti sono i talenti, perché i talenti sono pulsionali. Il talento esige la pulsione, la domanda, il progetto, il programma, l’occorrenza. Nell’occorrenza, il talento. Però ciò esige che ci sia il dispositivo intellettuale in atto, non il bagaglio.
Non c’è nessun bagaglio e io non so quali sono i miei talenti, per questo accade il miracolo; per cui, all’occorrenza, non devo stabilire se fare o non fare: faccio secondo l’occorrenza. Questa è la questione dei talenti, talenti pulsionali. Pulsionale, cioè che esige la domanda in atto, la forza, la forza in atto in quanto domanda e, ovviamente, il progetto e il programma di vita.
G.G. Guardando il regno animale, però, le cose sembrano funzionare diversamente.
R.C. E beh, ma noi che ce ne facciamo del regno animale? Dobbiamo modellarci sul regno animale?
G.G. Per l’uomo c’è un modello di società che insegna la competizione.
R.C. Può darsi. E allora?
G.G. La competizione è un’idea che ci consente di sopravvivere.
R.C. Ah sì! Esatto, un’idea.
G.G. Le cose sembrano funzionare così.
R.C. No, no, non sembrano.
G.G. La lotta di classe non l’ho inventata io.
R.C. È vero, l’ha inventata Platone, in effetti. Nessuno addebita a lei l’invenzione della lotta di classe, ci ha già pensato Platone. Ma, appunto, si tratta di analizzare l’idea platonica della lotta di classe, mica di realizzarla. Analizzarla, svolgerla, senza parteciparvi. È una fantasia. “Sembra che nella società…”, sembra! Ma se noi questa idea la analizziamo, non è detto che dobbiamo seguirla, obbedirvi, dipendervi. Analizziamola. Analizzandola si dilegua. Però occorre trovarsi all’orlo della vita.
Noi abbiamo cominciato a farlo, e proseguiamo.
Come la salute procede dalla questione di vita o di morte
Ruggero Chinaglia Chi è al corrente di quale sia il titolo di questa sera? Nessuno? Eppure non è un segreto. Nessuno ne è al corrente? Quindi, se non c’è chi sia al corrente del titolo di questa sera, c’è da capire come mai voi siate qui. Io ne sono al corrente, quindi sono qui per questo. Ma ciascuno di voi, non essendo al corrente, come mai si trova qui? Lei, per esempio?
Pubblico Per me è la prima volta che vengo qui. Io dico che La lampada di Aladino è un nome che m’ispira, come associazione, per cui mi incuriosisce sapere di che si tratta. Leggo qui che c’è scritto I giovani, la sessualità, la comunicazione, non so se sia questo il titolo della serata.
R.C. No, questo è il titolo della seconda serie.
Pubblico Allora non c’entra nulla.
R.C. C’entra, nel senso che ciascun incontro affronta anche questa questione.
Pubblico Scopriremo di cosa si tratta.
R.C. Quindi, lei è qui per la lampada, sopra tutto.
Pubblico Sì.
R.C. Bene. E la sua amica, vicino?
Pubblico Sono stata invitata. Siccome ho due figlie adolescenti, la cosa mi ha incuriosito.
R.C. Quindi anche lei per la lampada?
Pubblico No.
R.C. Per Aladino?
Pubblico Siccome ho due figlie adolescenti, allora mi interessava la cosa.
R.C. Giusto, quindi lei non è qui per sé, è qui per i figli.
Pubblico Per i miei figli e, naturalmente, anche per me.
R.C. Chiaro. Altri che siano qui per qualche motivo? No, nessun motivo. E nemmeno c’è chi, allora, abbia qualche domanda da porre? Lei, pur non essendo al corrente.
Cecilia Maurantonio Questo è da verificare.
R.C. È al corrente o non è al corrente di quale sia il titolo di questa sera?
C.M. Rispetto al titolo non sono preparata, però ciò non impedisce di formulare una domanda, perché c’è un tema, c’è un titolo, ci sono state delle lezioni precedenti, lo svolgimento di ciò che è stato detto. La mia domanda verte sulla questione della lampada di Aladino, e mi interessava sapere perché incomincia con il fantasma del padre morto.
R.C. Lei ha letto la storia?
C.M. Sì, devo leggerla ancora una volta e prossimamente lo farò, in funzione anche di questa seconda serie del Grande Fratello. Come si pone e come si introduce il pubblico e come si introduce lo schermo? Come mai ciascuna cosa assume un’importanza assoluta quando si tratta del cinema, della televisione o del monitor? Quindi, se poteva precisare come interviene la videomatica nella sua funzione particolare.
R.C. Quindi, lei non è interessata a quale sia il titolo di questa sera.
C.M. Questo non le impedisce di tenerne conto anche per i prossimi incontri. So che, posta la domanda, entra in una elaborazione, quindi sono tranquilla. Grazie.
R.C. Ho capito, va bene. Quindi non c’è chi sia interessato a sapere quale sia il titolo della serata. Va bene qualunque titolo. Questo perché siete preparatissimi o perché nessuno si è preparato?
Pubblico Ma sta facendo il terzo grado?
R.C. Eh, perché lei è venuto così, alla garibaldina?
Pubblico Guardi che Garibaldi è passato alla storia, questo non dimentichiamolo; dove passava, il segno l’ha lasciato.
R.C. Quindi, lei ha questa mira di passare alla storia? Va bene, allora ve lo dico.
Pubblico Non leggo né “Il Mattino”, né “Il Gazzettino”, va bene? Non li leggo, se c’era scritto non lo so.
R.C. Va bene, ve lo dico. Data l’insistenza così veemente, ve lo dico. Allora, il titolo è Come la salute procede dalla questione di vita o di morte. Adesso che ne sapete di più ci sono domande? No. Quindi, se dipendesse da voi, dovrei stare zitto. Se dipendesse da ciascuno di voi, io dovrei stare zitto perché non ci sono questioni che muovano la curiosità, no? Va bene, per fortuna ho preparato qualche appunto.
La salute è questione intellettuale, per tanto non c’è statistica che tenga. La statistica vorrebbe fornire la rappresentazione statica di ciò che è lo stato dei fatti, intesi come fatti sociali. Ma la salute non è un fatto sociale, non è nemmeno un fatto: è questione intellettuale che non si presta alla previsione, alla predizione e nemmeno alla contabilità dei vivi e dei morti.
Ciascuno è in viaggio, e così ciascuna cosa è in viaggio. Allora, se ciascuno è in viaggio e è esposto all’accadere, all’avvenire, all’evento, è impossibile basarsi sulla statistica, impossibile che il viaggio si basi sulla previsione.
Quali sono le caratteristiche del viaggio? Perché, se fosse per la statistica, il viaggio sarebbe da considerare un viaggio di gruppo o un viaggio di specie o un viaggio di genere. Ma, se ciascuno è in viaggio e ciascuna cosa è in viaggio, qual è il valore della statistica? Qual è il valore della previsione? Se ciascun viaggio è nella sua caratteristica, nella sua distinzione, nella sua differenza, nella sua varietà, fare la statistica del viaggio vorrebbe dire che tutti sono nello stesso viaggio, e che tutti, tutti uguali, sono nello stesso viaggio, uguale, e il viaggio si presterebbe al calcolo delle probabilità. Ma, in assenza di questa omologia, di omologazione, di omogeneità, ciascuno è nel suo viaggio. Dunque, di che viaggio si tratta? Qual è la direzione del viaggio? Non dico la meta, dico la direzione. Qual è la direzione del viaggio?
Il viaggio di cui parlo, che non è di gruppo, né di specie, né di genere, è secondo la logica della nominazione, cioè secondo la logica particolare, la logica della parola, in direzione della qualità. Il viaggio di cui parla invece ogni statistica è in direzione della sua fine. Ogni statistica procede dalla fine del viaggio, e fa il calcolo di dove finirà.
Il viaggio intellettuale, invece, il viaggio che avviene nella parola, è in direzione della qualità e nessuno sa già quale sia la logica e quale sia la qualità. Ignorando la logica del viaggio, il discorso occidentale istituisce la conoscenza della fine del viaggio, istituisce il pericolo della fine del viaggio, istituisce una serie di presunte conoscenze intese a fare l’economia della fine del viaggio, quindi senza nessun interesse per il viaggio, per come va il viaggio, per come avviene, ma ponendo l’accento sulla fine: come, quando e dove va a finire il viaggio.
Eppure, il viaggio di cui si tratta non è la vacanza, non è una sorta di eccezione alla vita, è la vita. Come mai il discorso occidentale, anziché porre la questione del modo di vivere, si accentra attorno alla questione della fine del viaggio? Questa è la questione essenziale. Ognuno si occupa dell’inizio e della fine ma non del modo del viaggio, della direzione del viaggio. E così ognuno si predispone a soddisfare una sorta di prescrizione, e cioè che il viaggio deve finire. Così, il viaggio consiste nell’evitamento, nell’economia di questa certezza, cioè della fine del viaggio. Questa è l’idea naturale del viaggio, cioè della vita. Ognuno della vita ha l’idea che finirà, che deve finire; per tanto il viaggio stesso deve fare l’economia di questa prescrizione. E ognuno si predispone al viaggio con tutte le rappresentazioni che l’idea della fine del viaggio propone: dall’alternativa allo sdoppiamento, all’idea del male da evitare, all’idea del conflitto da evitare, all’idea della fine da evitare, da rimandare. Ma chi si pone la questione di come viaggiare, come fare il viaggio, della direzione del viaggio, della salute del viaggio, della sua salute? Perché gli umani pensano a salvarsi dalla fine del viaggio? Perché hanno un’idea della salute come salvezza, ma ignorano la salute, di che cosa si tratti quanto alla salute, che non è evitare la fine del viaggio, ma è nel modo del viaggio. L’idea che ognuno ha della salute è l’idea di assenza del male, di economia del male, di evitamento del male, quindi sempre con il male davanti da conoscere per evitarlo. Pensando, ognuno partecipa della fatalità del male, del fatalismo del male, cioè del male considerato ineluttabile e di cui si tratta di somministrarsi la dose minima possibile per sopportarlo il più a lungo possibile. È una specie di lunga agonia.
Pubblico Lo chiamano istinto di conservazione, che è innato.
R.C. Istinto di conservazione! Per di più innato! E questo dove sta scritto?
Pubblico Un bambino, sin dalla più tenera età, capisce che comportandosi in un certo modo può farsi male fisicamente e psicologicamente. E facendo altre esperienze, capisce che ci sono altri modi per farsi male. Freud diceva che ogni essere umano cerca di vivere facendo in modo di evitare i dispiaceri. Credo che sia un istinto dell’essere umano evitare ciò che potrebbe procurare del dispiacere.
R.C. Ma se non fosse affatto noto ciò che sia male, dove stia il male, come potrebbe questo bambino impostare la sua vita per evitare il male?
Pubblico Allora parliamo di male fisico, che si vede subito, perché se mette il dito sul gas acceso, si brucia, e non lo farà più, perché da quel gesto ha avuto una percezione che gli ha provocato un dolore.
R.C. Ecco, quella è una percezione, una percezione dolorosa. Va bene.
Pubblico Il bambino va insieme a altri bambini e si scontra con uno di questi, e allora cosa fa? Pensa che reagendo in quel modo, se vuole l’amicizia di quel bambino, non dico che si sottoporrà alla volontà dell’altro ma, in qualche modo, farà qualcosa affinché possa ricevere l’amicizia del bambino, evitando ciò che eventualmente gli procura dispiacere. Questa volta ha fatto un’esperienza non di male fisico, ma di male psicologico o di male psichico.
R.C. No, lei dice che si scontra, litiga, quindi quel bambino non ha il male dinanzi a sé. Infatti, ha dinanzi a sé un’eventualità, per esempio il pallone, e fa qualcosa per conseguirlo. Dunque, ammettiamo che arrivi allo scontro, questo scontro in che senso sarebbe un’esperienza del male?
Pubblico Il padrone del pallone non è lui, ma è un altro bambino, e lui lo vuole; chiaramente, il proprietario del pallone non può dargli il suo pallone. Allora ha capito che è meglio avere un suo pallone, ha fatto l’esperienza che servirà per evitare un ulteriore dispiacere.
R.C. Ecco, noi non sappiamo se questo sia un piacere o un dispiacere.
Pubblico Penso che il bambino soffra.
R.C. Ho capito. Lei pensa che il bambino soffra, lei lo vede e dunque “pensa che…”, pensa qualcosa. Pensa che soffra, pensa che gioisca, pensa che cosa possa essere per lui bene o male. È qui che incominciano, per così dire, i guai rispetto al viaggio. Ora, è chiaro che il bambino è un pretesto. È chiaro che ciascuno si avvale di pretesti. Anche Freud, per indicare come nulla sia innato, ha preso a pretesto il bambino, ha preso a pretesto lo sviluppo, le fasi, ha preso vari pretesti, in particolare quelli che più si prestavano per farsi ascoltare. Ma nemmeno Freud poteva pensare che gli umani fossero così bestie, e cioè che prendessero il pretesto per svolgere un ragionamento, si fissassero su quello e non ascoltassero il ragionamento; per cui ognuno si è dedicato allo studio delle fasi dello sviluppo del bambino, a pensare come catalogare lo sviluppo ideale del bambino ideale, senza tenere conto del ragionamento, della questione che stava nell’esempio, ma non come esempio generale, come esempio particolare, come pretesto per cogliere la particolarità di qualcosa. È così che, per lo più, è stato letto Freud, cioè come campione di psicologismo. Invece no, Freud non ha indicato come dev’essere lo sviluppo, il comportamento, e via via l’educazione del bambino ideale. Ha posto, invece, la questione della logica particolare, ha posto la questione dell’inconscio come qualcosa che è assolutamente in-conosciuto, non comune, non partecipabile, quindi non per tutti, ma come questione intellettuale per ciascuno, come questione del viaggio di ciascuno, in quanto l’inconscio è condizione del viaggio di ciascuno.
Pubblico Durante il quale si cerca di evitare i dispiaceri.
R.C. No.
Pubblico E invece sì. Perché, guardi, non parliamo più dei bambini, parliamo invece delle persone adulte. Io leggo lì Il grande Fratello, e la cosa mi offende terribilmente, perché non penso a George Orwell, penso a quel programma che fanno in televisione. Allora, io, che faccio? Per evitare il dispiacere di sentirmi offesa da quel tipo di programma, io non lo guardo e proseguo il mio viaggio, in direzione di che cosa? Di ciò che mi possa gratificare.
R.C. E già qui c’è una prima distinzione tra il piacere e la gratificazione.
Pubblico Anche questo è piacere, il sentirsi gratificati.
R.C. Invece, noi non sappiamo già. Non sappiamo. Noi partiamo da questa base, che non sappiamo. Solitamente, l’oratore per accattivarsi una parte dell’uditorio, dice “Noi sappiamo che…”, “Noi sappiamo…”, quindi, almeno una parte dell’uditorio è con lui perché sono d’accordo. Invece, “noi non sappiamo”, perché ciascuno vive nella differenza e nella variazione assoluti per quel che riguarda ciascun atto. E, dunque, la differenza e la variazione assolute comportano che noi non sappiamo. Per potere ascoltare ciò che altri dice, occorre che s’instauri questa condizione d’ignoranza assoluta, perché se noi sappiamo già cosa va a promuovere la domanda, dove si dirige, che cosa chiede, com’è, qual è il suo piacere, qual è il suo dispiacere, eccetera, se noi sappiamo già tutto non ascoltiamo nulla, perché “noi sappiamo già”. E se noi sappiamo già, siamo assolutamente assordati da quel che sappiamo o, meglio, che presumiamo di sapere. Per ascoltare, per udire prima, e per ascoltare poi, qualcosa della particolarità della domanda che ci è rivolta, occorre non sapere già, non sapere già che cosa ci è chiesto e quale sia la risposta. Altrimenti è per tutti la casa del Grande Fratello, dove ognuno sa già quel che accadrà, quello che l’altro vuole, quello che vuole lui, quello che vuole lei. La casa del Grande Fratello è la casa dove “noi sappiamo già”, è la casa della lingua comune, è la casa dell’obiettivo comune, è la casa del male comune, è la casa del bene comune, è la casa dell’idiozia. Questa è la casa del Grande Fratello, la casa dell’idiozia, ma la base dell’idiozia è il sapere comune. È sulla base dell’idiozia che si fonda il sapere comune, perché invece l’idioma, cioè la lingua che procede dalla particolarità, non è comune. Lo dice la parola stessa: idioma, qualcosa che procede dalla particolarità, e questa particolarità non è nota, non è già saputa.
È questo che Freud chiamava l’inconscio, la particolarità ignota. L’inconscio è la particolarità ignota, è la logica ignota secondo cui va il viaggio; qualcosa di paradossale. Ma ogni altra presunzione sfocia nella casa del Grande Fratello, dove tutto è cosciente, tutto è saputo, tutto è rettilineo, senza particolarità, dove vige l’idiozia. Allora, non si tratta di offendersi rispetto a questo, né di reagire. Si tratta, invece, di non accettare, di non accettarlo intellettualmente; non di non accettarlo razzisticamente, severamente, ma di non accettarlo intellettualmente.
Cosa vuole dire non accettare intellettualmente qualcosa, in particolare l’idiozia? Vuole dire andare secondo l’ignoto. Ma qual è? È qui che la questione diventa complessa e interessante. Vuole dire non seguire la via facile, la via della banalità, del facile sapere condiviso. E badate che il facile sapere condiviso è ciò che regge quello che è chiamato il sistema sociale e civile. Ogni sistema si regge su questo: sul facile sapere condiviso.
Pubblico Sussiste la cultura della superficialità.
R.C. Che sarebbe?
Pubblico Il facile sapere condiviso che viene propinato dai mezzi di comunicazione trova consenso nel pubblico.
R.C. Chiaro. Quanto più è facile tanto più è condiviso.
Pubblico Quello che propinano i mezzi di comunicazione, a mio avviso, è molto superficiale e non dà alla gente la possibilità di riflettere sul viaggio, sulla vita e sulle vere cose che sono davanti a noi, sui veri valori su cui ognuno dovrebbe appoggiarsi.
R.C. Ecco, il valore. Ora, lei ha toccato una questione importantissima: il valore e i valori. Ma, come appoggiarsi sui valori?
Pubblico Secondo me i valori sono quelli che a noi non procurano dispiacere.
R.C. Ma noi non è che possiamo vivere per l’edonismo, non possiamo vivere per il piacere. Non è che non possiamo perché sia brutto, ma ancora una volta vorrebbe dire presumere di conoscere già dove stia il piacere.
Pubblico Il piacere è ciò che non ci fa male, ciò che ci procura serenità per noi, ciò che ci fa stare in pace con il nostro inconscio e con la nostra coscienza.
R.C. Può darsi. Ammettiamo di accogliere questa ipotesi. Ma dunque, se questo è il piacere, cioè quello che ci procura la serenità, la tranquillità…
Pubblico Questo non significa che stiamo fermi.
R.C. Esatto. E non stiamo fermi. Bravissima. E dunque, di questo piacere non c’è conoscenza possibile perché, dato che siamo in viaggio, dato che non stiamo fermi, il nostro viaggio procede nella differenza e nella variazione, nell’arte e nella cultura. Il piacere è un effetto, è un effetto del viaggio, non un suo sostegno. Noi lo incontriamo viaggiando, non è ciò su cui possiamo appoggiarci per viaggiare, e dunque non sappiamo già dove stia, come sia, non possiamo riprodurlo.
Pubblico No, anzi, è proprio questo che stimola verso il viaggio: il fatto di non conoscere ciò che c’è da scoprire.
R.C. Perfetto.
Pubblico Infatti, quando si legge un libro di cui non si conosce neanche l’autore, allora che cosa succede? C’è la curiosità di scoprire cosa c’è dietro, che cosa c’è nel libro, nascosto tra quelle parole. E così, una volta che lo si è scoperto e si è arrivati alla fine del libro, possiamo pensare se quel libro ci è piaciuto o non ci è piaciuto, se ci ha gratificato o non ci ha gratificato, se ha proposto dei problemi, delle opinioni condivisibili o non condivisibili da chi legge. Quindi, il fatto di leggere un libro è come iniziare un viaggio a breve termine: inizia e finisce. Ma, lei diceva all’inizio che si viaggia senza pensare a come si viaggia, ma pensando soltanto alla fine. Io ogni tanto ci penso, alla fine. Penso alla morte e ho paura, e questo è innato secondo me, e quando penso alla morte preferisco non pensarci, perché ho paura.
R.C. Lei fa spesso ricorso all’idea di innatismo.
Pubblico Sì, per me è troppo importante.
R.C. E si è chiesta perché?
Pubblico Sì, certo. Non mi sono data una risposta però ci penso, ci rifletto.
R.C. Comodo però non darsi una risposta.
Pubblico Mi rende felice, mi rende serena. Io sono un’insegnante e quando ho un successo mi sento gratificata, sono felice e torno a casa volando.
R.C. E se non si sente gratificata?
Pubblico Sto male.
R.C. Vede? Quindi lei ha degli alti e dei bassi.
Pubblico Sì, repentini.
R.C. E non le pare una fregatura?
Pubblico No, mi sento viva, mi fa sentire viva. Il fatto di avere degli alti e dei bassi mi fa sentire bella, mi fa sentire viva, sono serena.
R.C. Ma no, se ha i bassi non è serena.
Pubblico Eh no, però so che poi arriveranno gli alti.
R.C. Eh, lo sa, e spera.
Pubblico Ce la metto tutta perché sia così.
R.C. Quindi, lei sa. Sa che ci sono gli alti e sa che ci sono i bassi.
Pubblico È anche una questione di economia, così si parlava. Anche in economia ci sono gli alti e i bassi.
R.C. Brava. È una questione di economia. Prima, questo dicevo: l’economia della morte, l’economia del male.
Gregorio G. Volevo chiedere alla signora, in merito a quello che si diceva prima, sulla legge del massimizzare il piacere e minimizzare il dolore: come mai ci sono persone che perdono le speranze? Come mai questa gente si fa del male, del male fisico? Quello che lei chiama istinto di sopravvivenza, dove sarebbe?
R.C. Ecco, la questione è posta. Il nostro amico Gregorio pone un’istanza di differenza. Se cerchiamo di localizzare il bene e il male, il piacere o il dispiacere per potere fare il viaggio con questo criterio, ebbene noi, così facendo, facciamo un torto al viaggio. In che senso? Creiamo il cerchio, la circolarità del viaggio basato sulla presunzione di potere ripetere l’esperienza piacevole per evitare quella spiacevole. Facendo in questo modo, intanto, confondiamo il piacere con la piacevolezza e, dunque, confondiamo il piacere con la coscienza del piacere, con il ricordo del piacere, confondiamo il piacere con la rappresentazione del piacere, rappresentazione come ciò che viene rappresentato, come la presentificazione del piacere. Il piacere non è questo.
Pubblico Io so cosa può fare piacere al mio bambino.
R.C. No, lei proponga al suo bambino che cosa è il piacere, e lui le dirà: “No, non è questo. No, questo no”. “È questo?”, e il bambino le dirà “No, non è questo”. Ma perché? Perché il piacere è ignoto. L’idea di potere riprodurre il piacere va in scacco, incontra uno scacco per cui è sorto il discorso isterico.
Il discorso isterico sorge proprio allo scopo di ribadire l’impossibile coscienza del piacere, che ha come corollario il fallimento di ogni forma di condivisione del piacere. Questo dice il discorso isterico: non c’è condivisione del piacere e che ogni rappresentazione e ripresentazione proposta del piacere come bene altrui, ebbene, “non è questo”, non è così! Il discorso isterico dice che non c’è possibile rappresentazione del piacere proponibile come bene altrui. Non c’è chi sappia, conosca dove sta il “mio” piacere. Su questo insiste il discorso isterico che, dunque, è il discorso che più di ogni altro mal sopporta il totalitarismo e cioè anche il maternage, il discorso materno che vorrebbe inculcare la nozione rigida, fissa di bene, di piacere e quant’altro secondo un principio sostanzialista, cioè secondo un principio che ne possa consentire la localizzazione e la riproduzione. Se ben guardiamo, questa è la pedagogia.
Se voi volete sollecitare l’isteria fate i pedagogisti, fate i pedagoghi e avrete immediatamente un esempio di cos’è, di dove mira e a chi si rivolge il discorso isterico, che più di ogni altro ribadisce che non c’è coscienza del piacere, non c’è coscienza del godimento, non c’è coscienza del sapere, ma che sono effetti lungo il viaggio. Quando il discorso isterico dice “il viaggio è mio e me lo gestisco io”, cosa che veniva parodiata negli anni ‘70 con l’immagine del corpo, dice che non c’è coscienza del viaggio, che nessuno può dirigere il viaggio altrui, nemmeno con le migliori intenzioni, perché non bastano le intenzioni per intendere.
Intenzione e intendimento, apparentemente prossimi, sono agli antipodi. Ogni intenzione è contraddetta dall’intendimento perché il viaggio non è rettilineo, la via non è rettilinea, il viaggio non è circolare, il modello del viaggio non è quello del cerchio, che sarebbe il modello del viaggio idiota. Il viaggio idiota è il viaggio comune, il viaggio di gruppo, tutti nello stesso viaggio. Ma questo non è il viaggio. Ciascuno è nel suo viaggio. Questa è l’istanza intellettuale: ciascuno nel suo viaggio. E dunque pone la questione di quale sia l’educazione perché sia soddisfatta questa istanza suprema, suprema per ciascuno, perché ciascuno esige le proprietà del suo viaggio, che non sono né condivisibili né conoscibili per analogia da un altro viaggio. Non c’è casa comune.
Pubblico C’è famiglia.
R.C. Sì, bravissima, c’è famiglia. Assolutamente. E questa è una questione importante: la famiglia. Ma, dunque, come intendere la famiglia perché non si produca come la casa del Grande Fratello? Perché non basta dire famiglia perché automaticamente si ponga nei termini della famiglia originaria, cioè della famiglia nella parola e non invece nei termini della genealogia. Molti dicono famiglia e intendono genealogia.
Pubblico Può darsi. Quando uno parla di famiglia pensa alla genealogia, non alle altre famiglie.
R.C. Genealogia è già mortalità, è già la fine del viaggio. Allora, se famiglia diventa il nome della fine del viaggio, lei capisce che diventa qualcosa da aborrire. Infatti, accade spesso di constatare che c’è chi fugge dalla famiglia, chi si ritorce contro la famiglia. C’è chi dice: “Strano, era una famiglia così di gente perbene, non gli facevano mancare niente, erano così brave persone, facevano tutto per il suo bene”. E allora si è capito perché c’è stata questa reazione: perché non era famiglia, era genealogia. Era fantasma di mortalità, era prigione. Non basta dire famiglia perché s’instauri effettivamente la famiglia nei termini dell’originario, perché, se io dico famiglia, e produco e confermo il fantasma di mortalità, lei prima diceva che questo produce la paura.
Pubblico Certo.
R.C. C’è chi dice: “È inspiegabile, una famiglia che si è disgregata, distrutta, rovinata, ognuno in lotta con i fratelli, con i parenti, con i genitori, con i figli”. Certo, quello è il minino che possa capitare in una genealogia, cioè in un apparato dove viene proposta, confermata, riaffermata in ciascun istante la mortalità, la fine del viaggio, l’imbrigliamento del viaggio, la prigione in cui il viaggio non può svolgersi.
Pubblico Però ci sono anche famiglie che sono il contrario di quello che lei ha detto, delle famiglie positive, dove c’è il dialogo, dove il viaggio è lasciato fare, dove si parla, dove si mettono in evidenza dei problemi e si cerca di risolverli insieme. Esistono anche questo tipo di famiglie, che in genere si dicono famiglie positive.
R.C. No. O c’è la famiglia o c’è la genealogia. Famiglia genealogica, no. È impossibile, cioè o c’è la famiglia o c’è la genealogia, perché sull’idea di fine la famiglia non sorge nemmeno. Quindi, o famiglia o genealogia.
Pubblico E allora parliamo di famiglia positiva.
R.C. Ma non è la stessa cosa. La famiglia non è né positiva né negativa. Si tratta della questione intellettuale che è complessa. Allora, se noi non sappiamo dove sta il bene e dove sta il male, il viaggio non va né verso il bene né verso il male, perché con questa idea il viaggio non si svolge, ma si arresta subito dinanzi alla prima difficoltà. Perché se dinanzi a noi abbiamo l’eventualità del bene e del male e ogni circostanza può avere il segno negativo davanti, come dicevamo la settimana scorsa, allora è la paralisi. Se dinanzi a Edipo ci fosse il bivio, se Edipo potesse scegliere tra il bene e il male, Edipo si fermerebbe al bivio. Come rischiare di scegliere il male? Se dinanzi a noi c’è il conflitto, noi siamo assolutamente paralizzati, immobili. Se dinanzi a noi c’è l’alternativa fra il bene e il male il viaggio non avviene. Se dinanzi a noi abbiamo l’idea, anche solo l’idea, del bene o del male, questa idea ci paralizza. Se il bene/male è alle spalle, se il conflitto è alle spalle, se l’apertura è alle spalle – e bene/male è l’apertura, è il modo dell’apertura – allora noi possiamo andare in direzione della qualità del viaggio; ma se abbiamo dinanzi l’idea del bene o del male, questa idea arresta il viaggio. Allora ecco la questione intellettuale, la questione aperta, la questione di vita o di morte.
Chi avesse dinanzi la morte, certamente non procede. Allora, avere dinanzi l’idea del male, l’idea di morte è la stessa cosa. L’idea di alternativa è la stessa cosa. O questa idea trova modo di elaborarsi fino a dissiparsi, oppure è ciò che produce l’arresto del viaggio intellettuale con ciò che comporta, perché viaggi di gruppo ce ne sono tanti come viaggi piacevoli, come viaggi intrapresi come idea di piacevolezza. L’idea di piacevolezza è ciò che consente di poter soffrire, perché tanto so che poi verrà qualcosa di piacevole. Su questa alternanza tra il piacevole e lo spiacevole si fonda l’accettazione della morte, cioè si fonda l’accettazione della vita intesa come una successione di alti e di bassi. Ma la successione degli alti e dei bassi è senza ritmo, è una accettazione algebrica dell’eventualità del bene o del male, senza però intendere di cosa si tratti in questa idea del bene e in questa idea del male.
La questione del piacere è una questione estrema. Il piacere giunge improvvisamente, come effetto estremo, e dunque è imprevedibile. A nessuno può essere consigliato dove troverà il piacere, perché non si tratterebbe del piacere. Sì, forse di qualcosa di piacevole, ma che nulla ha a che vedere col piacere. Mi rendo conto che è qualcosa di difficile da capire, perché ognuno si appoggia su qualcosa, tende quantomeno a appoggiarsi su qualcosa; ma questo qualcosa su cui si appoggia non è il valore del suo viaggio, perché è impossibile appoggiarsi su qualcosa che avviene. Se io mi appoggio su qualcosa, certamente non è qualcosa a cui vado incontro, ma è qualcosa su cui sono seduto o accasciato o appoggiato. Sarà un’abitudine, solitamente ci si appoggia sulle abitudini. E l’abitudine, ogni abitudine, è indice che il viaggio è fermo, appoggiato. Non c’è viaggio dove c’è l’abitudine, non c’è viaggio dove ci sono gli appoggi, i punti di appoggio. Il viaggio esige il movimento, il ritmo, non la statica o la statistica. Esige il rischio, il rischio del viaggio che è rischio di verità e rischio di riuscita. È chiaro che non si tratta, come dicevo prima, di un viaggio comune o comunemente inteso.
Pubblico Quindi dire che uno è abituato a viaggiare, è abituato ai viaggi, è una gran castroneria.
R.C. Sì, ma qui non parliamo dei viaggi, ma del viaggio, perché non ce ne sono tanti. Ciascuno ha un solo viaggio, questa è la distinzione. Non ci sono tanti viaggi da fare, ciascuno ha un solo viaggio. Non è che sia solo viaggio di andata o solo viaggio di ritorno, ha un solo viaggio in cui le cose vanno e vengono, in cui si tratta di tante cose, ma qui si tratta sopra tutto della qualità, della qualità del viaggio che non dipende dalla classe, non c’è viaggio di prima, seconda o terza classe, dove basta pagare il biglietto. La qualità del viaggio è il frutto di una serie di cose che non sono prestabilite e che non dipendono nemmeno dalla volontà così detta soggettiva, anzi: più c’è questa volontà, tanto meno il viaggio procede.
Il viaggio è qualcosa che esige l’astrazione assoluta e lo statuto intellettuale, ossia l’attraversamento dei luoghi comuni, vale a dire di ogni mitologia che riguardi la padronanza sul bene e sul male, che è sempre padronanza sulla morte.
Ora, se noi leggiamo la favola di Aladino, il primo messaggio, quello che si coglie subito, è proprio questo: Aladino ignora, ignora ogni cosa. Aladino non sa, non sa prima quel che avverrà dopo, per cui è costretto all’ingegno per capire, per intendere.
Pubblico Aladino non sa, però capirà. Quindi, la lampada è la luce della conoscenza.
R.C. Eh, questa è la lettura facile! Questa è la lettura del catechismo. Siamo al catechismo. Siamo all’illuminismo. Siamo nel 1700!
Pubblico Ma perché? Ho detto semplicemente la mia opinione.
R.C. Sì, questo è un modo facile, non siamo al Costanzo show.
Pubblico E però qui si possono esprimere le opinioni personali.
R.C. Sì, ma bisogna veramente meditare. Meditare vuole dire intendere che la parola è il mezzo e che segue una logica particolare. L’illuminismo, come riproposta del dialogo platonico, è un discorso di padronanza, cioè un discorso dove tutto è già codificato. Se Aladino non sa, e come lei giustamente dice, inventa qualcosa, allora questo è originario. Questo sta in ciascun atto! Questo qualcosa che inventa vale in quell’atto. Per un altro atto occorre un altro ingegno, un’altra trovata, un’altra invenzione. E, in ciascun atto, Aladino ignora. Questo gli consente di inventare, di procedere, perché mai si appoggia su ciò che sa, cioè mai si appoggia sulla conoscenza illuministica o illuminata, mai si fonda su un’abitudine.
Allora, il viaggio è il viaggio originario, cioè incontra ciascuna cosa nell’originario di quella cosa, non nella sua rappresentazione, non nella sua presentificazione, non nella sua idealità, ma nell’originario. E in questo statuto c’è l’incontro con l’inedito, con la novità, e dalla novità la qualità e dalla qualità il piacere. Il piacere come piacere originario che mai può diventare ricordo del piacere, cioè piacevolezza, da pensare di ritrovare la volta dopo, perché la volta dopo è un’altra volta. E se noi pensiamo di fare l’economia dello sforzo, pensando che la volta prossima sarà come la volta prima, ci troveremo molto delusi perché avremo mancato l’incontro.
Pubblico Cosa intende per parola originaria?
R.C. La parola originaria è la parola il cui testo mai può darsi come già noto, quindi parola che mai può darsi come conosciuta, come già saputa, a cui potere attribuire un significato già acquisito, ma di cui si tratta, ciascuna volta, di cogliere la sezione, la lezione, la sfumatura, di cogliere l’uso, l’usura, fino alla cifra.
Pubblico Sì, ma non c’è solo la parola.
R.C. Faccia un esempio.
Pubblico L’immagine.
R.C. L’immagine è una dimensione della parola, non è qualcosa di estraneo.
Pubblico Un gesto.
R.C. Un gesto è un gesto nella parola. Può darsi un gesto fuori dalla parola? Sarebbe la sostanza, sarebbe l’idiozia. Un gesto fuori dalla parola sarebbe l’idiozia. Un gesto è una parola. È nel dispositivo della parola.
Pubblico Mi viene in mente dal Genesi della Bibbia: “All’inizio era il verbo”.
R.C. No, non “all’inizio”, ma “In principio era la parola”, ossia en archè. Archè è un termine interessante. Archè non è l’inizio, l’inizio che chiama la fine; non è nella logica del segmento, non è nella logica del sistema finito, ma si tratta della parola nel suo principio, quindi nella parola, in un dispositivo in cui non vige l’idea di sistema, cioè il cerchio.
È difficile, difficilissimo ammettere, accogliere questa nozione di parola non sistematica, perché l’educazione che viene impartita sempre a ognuno è invece in questa direzione. La questione intellettuale è la questione della parola originaria, cioè della parola dove non c’è sostanza. E se non c’è sostanza, non c’è nemmeno padronanza. Se non c’è sostanza non c’è nemmeno la possibilità di creare un sistema. Dunque, la parola è libera. La parola libera è la parola senza sostanza, è la parola originaria. Ma libera in che senso? Libera di qualificarsi, libera di giungere al suo valore, libera di trovare nel viaggio il suo valore. È questo che promuove il viaggio. Se il valore ci fosse già prima, perché viaggiare? Perché fare il viaggio? Perché vivere? Qualcuno chiedeva la settimana scorsa: “Perché vivere?”. Per questo, proprio per questo.
Pubblico Comunque, la salute è una situazione provvisoria.
R.C. E così abbiamo fatto crollare tutto l’edificio. No, è vero che la salute, più che provvisoria, è aleatoria, perché non è uno stato, un modo di essere che può essere perduto o incrinato. La salute è un’esigenza, un’istanza che trova soddisfazione nel viaggio. Se non viene inteso ciò, ognuno vive nell’idea di liberazione, nell’idea di salvezza, ma in assenza di libertà e di salute.
La negazione della libertà è l’idea di liberazione. Se c’è chi pensa che deve liberarsi è perché evidentemente si pensa schiavo, e non occorre che lo sia ma, se si pensa schiavo, lo è. Quindi, l’idea di liberazione fonda quella di schiavitù e, per quanto si possa pensare alla democrazia, l’idea di liberazione manterrà sempre la schiavitù, una schiavitù ideale, che promuoverà una forma di liberazione ideale che non verrà mai raggiunta. Così come l’idea di salvezza dal male o dalla morte mai farà sì che si possa conseguire la salute, perché salute e salvezza sono antitetici.
Ma per intendere questo è indispensabile affrontare il processo di qualificazione delle cose, perché per lo più noi sentiamo parlare di libertà, ma si tratta di liberazione, noi sentiamo parlare di salute, ma si tratta di salvezza, cioè di fantasie che confermano la negazione di ciò che vogliamo conseguire. Ma questa è la questione intellettuale: intendere che c’è una differenza tra lo statuto originario di ciascuna cosa e l’idea che ne abbiamo. L’idea che noi abbiamo delle cose è assolutamente differente dalle cose. Noi possiamo dire famiglia, ma se pensiamo alla genealogia, sarà genealogia e non ci sarà famiglia. Noi possiamo dire salute, ma se l’idea che noi abbiamo è di salvezza, sarà costantemente una forma di economia del male, che per sua necessità esige giorno per giorno un po’ di male per consentire il processo di liberazione. Questa idea di liberazione dal male, dalla morte, dall’Altro, da questo, da quello, è ciò che istituisce la prigione.
L’esperienza della cifrematica è l’attraversamento delle rappresentazioni che ognuno ha delle cose per non rimanere avviluppato nel fantasma di mortalità, perché ognuno si rappresenta le cose come secondarie alla loro mortalità e alla propria mortalità. E in questa condizione, che viaggio è? Più che un viaggio può trattarsi di un pellegrinaggio, un viaggio a Lourdes, a Fatima o altrove. Ma questi pellegrinaggi che cosa dicono? Pongono proprio l’istanza di questo altrove.
Ognuno si rappresenta l’altrove nella morte, per cui occorre restituire al viaggio l’altrove originario, senza bisogno di andare a Lourdes, a Medjugorje o chissà dove, o di sbattere la testa contro qualcosa: occorre restituire al viaggio l’altrove originario. Ma questo altrove è reperibile solo se non c’è l’idea di sostanza, se non c’è l’esigenza illuminista di localizzare e di dare un nome alle cose. Se il nome deve essere stabile, codificato, comune e condiviso, è la fine del viaggio. Ciascuno ha invece l’esigenza del viaggio, ha l’esigenza che il viaggio approdi alla qualità. Questa è la scommessa!
E allora occorre seguire le indicazioni di Aladino, l’indicazione non della prima lettura, ma di una seconda o di una terza, cioè che occorre l’ingegno. Ma quale ingegno? Di che cosa si tratta nella lampada che non diffonde luce? Perché, se lei va a rileggersi la fiaba…
Pubblico Sì, l’ho letta.
R.C. L’ha letta? Ha fatto caso a quel passo dove dice che deve essere prima svuotata di tutto ciò che possa farla funzionare come lampada illuminante? Ecco, quella è la lampada che non illumina. La lampada di Aladino è una lampada che non illumina. E qui sta la sua qualità: è la lampada che non illumina, e proprio perché non illumina risulta essenziale! E per capire perché, quindi quale sia la caratteristica di questa lampada che non illumina, ma che è essenziale, e da cui procede il viaggio di Aladino e da cui procede il viaggio di ciascuno, ci diamo appuntamento alla settimana prossima.
Pubblico Ma è illuminante.
R.C. No, non è illuminante proprio per quello. Ma io capisco ciò che lei intende dire, però occorre fare un passo in più.
Di una lampada che non illumina. Ovvero come l’ingenuità e la sessualità procedono dall’ignoranza
Ruggero Chinaglia Questa sera il riscaldamento non funziona? Allora cominciamo la lezione di questa sera come Via Crucis, come espiazione pasquale, quaresimale!
Chi ha da porre proposte, questioni, domande per scaldare un po’ l’ambiente?
Gregorio G. Una domanda che riguarda l’ultimo incontro, una cosa che non mi è chiara riguardo al concetto di piacere, di dolore e dell’inizio e della fine del viaggio. Ho letto un libro che s’intitola Lo zen e il tiro con l’arco, e a un certo punto si parla di come riuscire a colpire il bersaglio non concentrandosi sul bersaglio, ma su altro, da cui il processo stesso procede. L’inizio e la fine del viaggio. Poi lei ha detto che c’è “un’economia della fine”, quasi come se la fine avesse un aspetto negativo, come se si volesse evitare la fine. Però, per chi ha avuto un’esperienza di dolore per esempio, più che un’economia della fine c’è un’accelerazione verso la fine, cioè il dolore deve finire; è evidente questo. Magari se uno vive un’esperienza piacevole, la fine di quell’esperienza non c’è. Nel caso di un’esperienza di sofferenza, di dolore io non penso a un’economia della fine. Grazie.
R.C. Grazie a lei. Altri che osino esporsi a una domanda?
Cecilia Maurantonio La volta scorsa lei ha detto: “La salute è aleatoria, non è uno stato, un modo di essere, ma è un’esigenza, è un’istanza che trova soddisfazione nel viaggio”. A questo proposito è essenziale come intervengono, rispetto alla salute, la condizione e l’Altro.
R.C. Mi rendo conto che, ancora, questa fiaba di Aladino e la lampada meravigliosa non è stata letta da nessuno.
Pubblico Certo che l’ho letta. È anche molto interessante, molto sibillina per l’analogia con un minimo fenomeno contingente che potrebbe dare un feedback mediatico nel mondo. Molto interessante per le implicazioni pedagogiche.
R.C. Cosa c’è di pedagogico nella fiaba di Aladino, a suo avviso?
Pubblico Enfatizzando un particolare, il genio che viene sprigionato dalla lampada occupa talmente la fantasia del proprietario della lampada, che gli sfugge il controllo del fenomeno.
R.C. E questo sarebbe pedagogico?
Pubblico Non so se questo è pedagogico, bisognerebbe rifletterci. Anche la tecnica dell’intreccio è molto interessante.
R.C. Ma l’ha letta di recente?
Pubblico No, dieci anni fa, circa.
R.C. Non basta. Non c’è chi abbia deciso di leggerla tenendo conto di ciò che andiamo dicendo? Ciò che andiamo dicendo è la lettura della fiaba, ma non c’è chi se ne sia accorto, sin qui. Nessuno se ne è accorto. E, per non accorgersene, ha evitato di rileggere la fiaba, per non correre il rischio di accorgersene. Chi ha visto il film Passion di Mel Gibson? Lei l’ha visto? E come l’ha trovato?
G.G. Io l’ho trovato abbastanza spettacolare.
R.C. Spettacolare?
G.G. Come un’americanata.
R.C. Cruento.
G.G. Un’americanata.
R.C. Che cos’è un’americanata? Perché il portavoce del Vaticano dice che il film narra effettivamente quel che è accaduto. Quindi lei è rimasto impressionato?
G.G. Lo scopo del film era anche quello.
R.C. Certo, infatti. Curioso che abbia suscitato tutto questo dibattito.
Pubblico Sì. C’è da dire che è anche sadico, però.
R.C. Non è propriamente sadico.
Pubblico Probabilmente qualche sadico in sala c’era.
R.C. Non le pare che il film metta in risalto che i Vangeli siano poco letti? È un’ipotesi.
Pubblico Probabilmente sì. Ma perché ci vengono spesso raccontati, e ognuno fa una lettura diversa. Come per la Lampada di Aladino. È noto che è stato fatto un libro, ma pochissimi l’hanno letto o riletto.
R.C. Lei si chiede perché mai dovrebbe leggere la Lampada di Aladino, giustamente! Dato che ne parliamo, è un testo che può costituire un’occasione per intendere di cosa si tratti nella lettura. Una lettura che non risulti moralistica o pedagogica, cioè scontata, ma che sia clinica. La lettura clinica è assai poco praticata, perché comporta innanzi tutto l’analisi e poi anche la messa in questione dei pregiudizi, della morale, della conoscenza, la messa in questione della “chiave di lettura”. Perché avvenga la lettura clinica occorre innanzitutto non utilizzare, se si presume di possederla, la chiave di lettura, in funzione della quale la fiaba, il testo in questione, dovrebbe risultare funzionale a una morale, a una verità prestabilita, a una verità data come causa e, per di più, da condividere.
Non si tratta di leggere “alla luce” di qualcosa, “alla luce delle più moderne o recenti acquisizioni”, “alla luce delle acquisizioni scientifiche” o quant’altro, ma si tratta di leggere con la scommessa che leggendo si produca la luce. Presumere che la luce ci sia prima della lettura, ebbene, nega la Pentecoste, nega il viaggio intellettuale nel cui corso può accadere, appunto, la Pentecoste.
Non è che nel viaggio la Pentecoste sia già scontata, acquisita, perché la Pentecoste è ciò per cui avviene l’intendimento. Se l’intendimento è dato già per acquisito, già avvenuto prima del viaggio, allora di che viaggio si tratta? Un viaggio del tutto inutile se l’intendimento c’è già. Perché viaggiare? Perché il viaggio intellettuale?
Alcuni ritengono che la luce sia da vedere o serva per vedere. Fare luce per vedere quando, piuttosto, la luce è indispensabile per udire e dunque è indispensabile per la clinica. La clinica giunge con la piegatura, con l’altra piega di ciascuna cosa. Mentre la luce s’instaura con la divisione. Ciascuna cosa, dicendosi, si divide e con la divisione s’instaura la luce. La luce è nel processo di automazione, nel processo temporale, essenziale perché le cose si odano e per l’ascolto clinico.
Non è una luce da vedere né si tratta di vedere la luce. Vedere la luce è il modo usato spesso per indicare la nascita, il venire al mondo. “Venne al mondo” e poi “vide la luce”, come se la nascita comportasse il mondo. Questo, come minimo, è avvolto in un’idea naturalistica delle cose e l’idea naturalistica comporta l’inizio e la fine. Già l’inizio esige la fine, si presume che qualcosa inizi e finisca. L’idea dell’inizio e della fine contrasta il viaggio perché, presumendo che finisca, il viaggio è impossibile. L’idea della fine del viaggio abolisce il viaggio, è un’economia del viaggio, fino a abolirlo. E che il viaggio avvenga non va da sé.
Che il viaggio intellettuale avvenga non è scontato, la questione intellettuale sta qui. Fare il viaggio comporta la dissipazione dell’idea di essere pro o contro qualcosa. Eventualmente, sono le cose che vengono contro il viandante, ma il viandante non è pro o contro le cose, perché ignora, ignora le cose, ignora di cosa si tratti.
Sembra una brutta cosa l’ignoranza e ognuno si premura di dimostrare di sapere già tutto o, quanto meno, di sapere abbastanza per applicare la sufficienza a sé e agli altri. Saperne abbastanza è l’espressione più comune dell’antintellettualità. Chi può saperne abbastanza di qualcosa se ciascun atto è originario? Saperne abbastanza dell’atto indica avere abolito l’Altro, averlo inscritto in un ricordo e quindi vivere di ricordi.
Abolire l’incontro che ciascun atto propone a favore della rappresentazione di un atto ideale che si dovrebbe ripresentare è la presentificazione, vivere del presente, vivere di ricordi, vivere di rappresentazioni. Vivere di ricordi è vivere di rappresentazioni o vivere nel presente. Vivere nel presente indica vivere di ricordi. C’è chi può credere di essere “all’avanguardia” affermando di vivere nel presente. Ebbene, egli afferma di vivere di ricordi.
Dove vive Aladino con la sua lampada meravigliosa? Lampada che, com’è noto, non fa luce, non illumina; non è un lume e dunque non è finalizzata a fare luce, a illuminare, a dare l’illuminazione. A questa condizione è lampada meravigliosa, lampada da cui procedono cose meravigliose, che destano meraviglia, cose non già sapute, cose sorprendenti. Qual è dunque la natura, la caratteristica meravigliosa di questa lampada, se non fa luce?
C’è chi potrebbe credere che la lampada sia per Aladino il supporto della delega, nel senso che Aladino non sa fare e dunque delega alla lampada di fare al posto suo, ma questa è una lettura gnostica, una lettura drogologica, una lettura pedagogica, che intenderebbe il genio della lampada come l’agente salvifico che toglie a Aladino le castagne dal fuoco. Il genio sarebbe un dio agente, il dio che accoglie le suppliche, il dio che accoglie le richieste e le soddisfa, e Aladino sarebbe un idolatra ricompensato della sua idolatria. Questa è la vera lettura pedagogica. Bisogna essere buoni idolatri e allora ognuno sarà ricompensato.
Ma è un po’ facile così, e per intenderla in questo modo occorrerebbe leggere Aladino senza l’atto di Cristo, senza il Vangelo, in maniera illuministica, con la luce della ragionevolezza, cioè con l’idiozia. Sarebbe molto ragionevole intenderla così; ragionevole, cioè idiota. Quello che è ragionevole è per lo più idiota, cioè non giunge alla ragione dell’Altro, ma si ferma alla ragionevolezza, a ciò che soddisfa o dovrebbe soddisfare il rapporto sociale, cioè la genealogia, il fantasma materno, ovvero l’idea di mortalità. È molto ragionevole l’idea di mortalità, è così ragionevole da risultare idiota, nel senso che non dà nessun contributo al viaggio.
Se questa fosse la lettura della fiaba, non si capirebbe perché questa fiaba è nelle Mille e una notte, cioè nell’itinerario intellettuale di Shahrazàd. Che ci starebbe a fare l’istanza dell’idiozia nel viaggio di Shahrazàd? Occorre pure chiedersi questo dato che Le mille e una notte sono il viaggio di Shahrazàd, almeno una parte del viaggio, quella parte che giunge a instaurare per Shahrazàd la sessualità e il dispositivo del matrimonio, a dissipare l’idea d’incesto, a dissipare l’idea di mortalità legata all’incesto.
Perché leggere Aladino e la lampada meravigliosa? Per capire qual è il contributo che la fiaba reca a Shahrazàd, cioè al lettore, che non sia pedagogo, moralista o amante dell’idiozia. In quel caso il contributo potrebbe essere nullo, perché questo lettore, che non è lettore, troverebbe che la fiaba conferma tutte le sue credenze, va in direzione di tutte le sue convinzioni. Troverebbe che è una bella fiaba per bambini, bla bla bla. Invece no, non si rivolge ai bambini, si rivolge al lettore. Come divenire lettore? Visto che dobbiamo fare lectio brevis per non congelare, veniamo subito al dunque.
Di che cosa si tratta quanto al genio della lampada? Si tratta dell’angelo dell’annunciazione! Solo che la variante islamica dell’angelo comporta non già che l’angelo annunci ciò che sta per accadere ma che ubbidisca, che sia servo in conformità al dettato coranico in cui c’è un solo padrone, Allah, e tutti gli altri sono servi. Quindi, anche l’angelo, l’angelo coranico, si sottopone alla formula del servizio: “Cosa vuoi, cosa comandi?”. Non ancora servizio intellettuale che procede dalla profezia, ma servizio al padrone.
Ma, sia pure nella variante islamica, con il genio le cose si dicono, con l’annunciazione le cose si dicono, non possono non dirsi e dicendosi si fanno. Con l’annunciazione le cose entrano nel loro processo di qualificazione, entrano nel loro funzionamento e si avviano i dispositivi pragmatici in cui le cose avvengono e divengono. Il soggetto illuminista, il soggetto della lampada, non ha nemmeno bisogno della lampada, sa già cosa lo interessi e cosa non lo interessi. Aladino, invece, si avvale della lampada ciascuna volta, perché ignora di cosa si tratti, ignora come fare, ignora il da farsi. E l’annunciazione, il genio, l’angelo, intervengono a avviare il processo, la processione. Aladino si avvale dell’ingenuità. Aladino è ingenuo? Cosa vuole dire che è ingenuo?
Per Aladino non c’è un sapere innato, Aladino stesso non è innato, non è generato, è genitus nec generatus. Genito, ossia senza genealogia. Voi sapete chi è genitus, nec generatus? Cristo, ma Cristo in quanto filius. In quanto filius, Cristo è genitus, ossia procede dal padre, non è figlio del padre, ma è figlio che procede dal padre. Rispetto al padre non è generato, non è nella genealogia, ma è nella processione, è nell’ingenuità.
Questa è la proprietà della processione: il figlio procede dal padre, e proprietà della processione è l’ingenuità.
Pubblico Figlio del padre, quindi?
R.C. No, non è figlio del padre.
Pubblico Cosa intende quando dice che non è generato?
R.C. Genito, non creato, “della stessa sostanza del padre”. Dunque, per dir così, senza sostanza.
Pubblico È un’altra cosa dire che Gesù è figlio dell’uomo?
R.C. Tutta un’altra cosa. Non c’è genealogia. Cristo indica l’assenza di genealogia, indica la funzione di figlio, ossia che il figlio si divide da sé, è senza identità e procede dal padre, così come l’Altro procede dal padre e dal figlio. Questa è la processione funzionale della parola. Senza genealogia senza innatismo, senza mortalità. È solo così che Cristo risorge, perché procede dal padre, ma non è generato dal padre.
E qui siamo a Sant’Agostino, che indica la questione intellettuale. Sant’Agostino prima di essere teologo è linguista e ciò attorno a cui indaga è la parola, la parola nella sua tripartizione: il padre, il figlio, l’Altro. Il padre, funzione di zero, il figlio, funzione di uno e l’Altro, funzione di altro dallo zero e dall’uno. Questo dice anche Aladino con la sua lampada, ossia che non c’è genealogia, non c’è innatismo, che le cose non sono tali ma procedendo dall’annunciazione, si qualificano. Esigono il genio, l’angelo, l’annunciazione perché entrino nel processo di qualificazione, perché entrino nel viaggio.
Aladino non partecipa del fantasma materno, non partecipa dell’idealità della nevrosi. Qual è l’idealità della nevrosi? Che debba esserci qualcuno che faccia al posto nostro, di avere diritto all’intervento salvifico come prova d’amore, questa è l’idealità nevrotica: la prova d’amore. Questa prova d’amore è inseguita nell’intervento salvifico, cioè nell’intervento di chi debba intervenire dato che “non so, non posso, non voglio, non devo fare”. E perché non so, non posso, non voglio, non devo fare? Perché “non ho chiesto io di venire al mondo, di nascere”.
E in questa “genealogia coatta” nessuna missione è ammessa, se non quella di partecipare della genealogia, ossia di andare verso la fine del viaggio, senza nessun viaggio, perché “non l’ho chiesto io di fare il viaggio”. Questa è la forma eminente di rivendicazione nevrotica, che si compie con la paralisi in assenza di domanda, rappresentando l’assenza di pulsione, rappresentando il destino dato per certo, ossia la mortalità.
Aladino, dacché risorge, affronta la sua missione. Perché Aladino risorge? Se aveste letto la fiaba vi sareste accorti che non si può leggere Aladino senza Cristo, e che Aladino è una interessantissima allegoria dell’atto di Cristo. Certo, senza la cifrematica è quasi impossibile capire ciò, così come senza la cifrematica è impossibile fare l’analisi della nevrosi, ossia dell’idealità che ognuno ha della propria fine.
Questa è la nevrosi: l’idealità della propria fine, dovuta alla presunta appartenenza alla genealogia e ribadita dal motto proprio al generatus per eccellenza, ossia al figlio generato, al figlio che si situa nella discendenza, al figlio che crede nell’incesto, motto di ribellione all’incesto e che lo conferma, motto che afferma: “Non ho chiesto io di nascere”, e che quindi invoca il dio agente o quanto meno l’agente, anche senza dio, riparatore dell’ingiustizia della nascita non invocata, non richiesta, addirittura subita. Torto, violenza, ingiustizia da ribadire giorno per giorno, con la propria rappresentazione, con la propria ripresentazione, con il proprio ricordo.
Quindi, ciascuna cosa, ciascun gesto è l’occasione per ribadire che “no, non l’ho mica chiesto io”, e dunque “non posso, non voglio, non so, non devo fare nulla, perché sono figlio, figlio tuo”, la prova evidente dell’incesto, perbacco. Quindi non c’è alternativa: o c’è la questione intellettuale con la sua ingenuità, o c’è l’infernale, ossia la riproposta quotidiana del presunto sopruso per cui ognuno è stato generato.
Ci sono domande adesso che abbiamo dissipato il torpore delle coscienze tranquille?
Pubblico Mi sembra che si possano associare in qualche modo Cristo e Adamo. Anche Adamo non era generato, bensì creato.
R.C. No, lei crede alle fiabe, cioè non le legge. Lei si fa raccontare le fiabe e non le legge, quindi vive di queste fiabe, nel fiabesco. La mitologia sta lì per essere letta, per trarne il messaggio, le indicazioni, non per mandare giù di tutto. Sia che Cristo sia il secondo Adamo, il nuovo Adamo, o che Cristo sia Adamo o non lo sia, né Adamo né Cristo sono creati, meno che meno se Cristo è il secondo Adamo.
Ora, se lei pone questa eventualità, poi non può introdurre la creazione. Cristo non è creato, né generato, ma è genitus. Qui entriamo nella questione intellettuale. Non è questione di catechismo spicciolo, è questione intellettuale, di clinica, di logica, di intellettualità, su cui non c’è pace possibile, non c’è accordo possibile con la coscienza, non è compatibile con la nevrosi ideale e nemmeno con la psicosi ideale, è questione intellettuale. Ora, la questione intellettuale procede dall’inconciliabile, procede dalla lampada di Aladino.
Pubblico Questo lo pensano gli gnostici.
R.C. Non credo proprio. Se c’è un presupposto gnostico è che le cose si concilino, perché, altrimenti, la ricomposizione cosa sarebbe? La sintesi cosa sarebbe se non la conciliazione? Non litighi con se stesso, si metta d’accordo.
Pubblico A proposito del film, c’è una scena particolare in cui la Madonna si avvicina al figlio che non riesce a portare la croce. E allora lei risponde: “Era bambino”. E lui dice: “Vedi, io ho il potere di rendere nuovo…”. Non ricordo più le parole.
R.C. Il testo è quello del Vangelo, non una sceneggiatura adattata. Il Vangelo pone un’altra sceneggiatura della cosa, in particolare il Vangelo di Giovanni. Ai piedi della croce Cristo dice a Maria: “Donna, questo è tuo figlio”, e indica Giovanni. E a Giovanni dice: “Uomo, questa è tua madre”. Senza genealogia! Totale dissipazione della genealogia! Ironia assoluta, senza ricordi, senza presentificazioni, istanza della famiglia come traccia dell’interdizione e non già come linea genealogica. E nel film Passion questo non c’è, perché è difficile da intendere.
È da leggere il dettaglio di cui lei parla, perché il Vangelo dice del Cireneo che aiuta Cristo a portare la croce.
Chi può dire che l’esperienza originaria sia piacevole o dolorosa, chi può dirlo? Nell’esperienza c’è il dolore, c’è la gioia, c’è il piacere, ma questo non vale a rendere l’esperienza dolorosa, gioiosa o piacevole. L’esperienza è originaria, non risponde alle categorie mentali della rappresentazione, cioè del ricordo, di un atto ideale che è già stato e che dovrebbe ripetersi, perpetuarsi, per rendere l’esperienza conforme. Non c’è conformità dell’esperienza. Si parla non di un’esperienza qualsiasi, bensì parliamo dell’esperienza originaria, dell’esperienza della parola, dell’esperienza del viaggio intellettuale, non della gita in barca o dal dentista; non è questa l’esperienza.
Cecilia Maurantonio A proposito dell’angelo come annunciazione, anche il sogno può essere un modo dell’annunciazione, o il racconto stesso?
R.C. Che ne sarebbe dell’annunciazione senza il sogno?
C.M. Appunto, c’è anche questo aspetto del sogno nell’annunciazione.
R.C. Certo, altrimenti sarebbe l’annuncio funebre, senza il sogno e la dimenticanza. Sogno e dimenticanza.
C.M. Si può parlare di un dispositivo nuovo, allora. Siccome c’è questa introduzione al viaggio…
R.C. Dove?
C.M. Attraverso l’annunciazione incomincia il viaggio. L’annunciazione annuncia il viaggio.
R.C. L’annunciazione è già nel viaggio.
C.M. E l’introduzione al viaggio allora non c’entra con l’annunciazione?
R.C. Eh già!
C.M. Un’altra domanda è rispetto all’autenticità; se essa ha una connessione con l’acquisizione di qualcosa lungo il viaggio, o se la constatazione segue all’acquisizione lungo il viaggio e l’autenticità può in un certo qual modo perpetuarsi.
R.C. È un effetto che segue all’acquisizione. Altre domande?
Concetta Ardito Che cosa intende per atto di Cristo?
R.C. L’atto che procede dall’apertura originaria. Atto senza genealogia, atto sessuale, atto che va in direzione della qualità. Atto che non deve purgarsi da nessun male, che non deve liberarsi da nessuna macchia e che va in direzione della cifra, della qualità. Questo è l’atto di Cristo.
Sabrina Resoli Dire che il figlio procede dal padre, cioè, la processione s’intende che prima c’è il padre e poi c’è il figlio?
R.C. No, non s’intende che prima c’è il padre e poi c’è il figlio, perché allora il figlio sarebbe il successore, sarebbe il discendente, sarebbe la genealogia. E, dunque, se non s’intende così?
S.R. Pensavo a nome e significante. Se funzione di figlio è il significante preso nella funzione di resistenza, il figlio che procede dal padre indica che il significante procede dal nome?
R.C. Il significante che funziona procede dal nome. Infatti, un significante rimosso funziona come nome adiacente a un altro significante. La processione.
S.R. Ma è il significante rimosso che funziona da nome?
R.C. Funziona come nome, sì.
S.R. La processione è questa?
R.C. Esatto, che il filius procede dal pater. Il significante che funziona procede dal nome che funziona e l’Altro procede dal significante e dal nome.
Questa è la tripartizione del segno: nome, significante, Altro. Tripartizione senza successione, per cui, stante questa processione, il dire non si volge mai nel detto e il fare non si volge mai nel fatto e ciascun atto è originario. Non c’è sapere sul dire e sul fare.
Chi è che si riserva l’ultima domanda, molto impegnativa? L’ultima domanda. Qualcuno che non si sia ancora esposto. Lei? Ma come. Se era così distratto! Dica.
Alessio Menegazzo Lei, la volta scorsa ha parlato di norme, regole e motivi. Che cosa riguardano? Riguardano la condizione dell’analisi?
R.C. Non solo l’analisi. Norme regole e motivi riguardano…
A.M. O riguardano quello che avviene nel dispositivo?
R.C. Bravo, esatto. Riguardano l’instaurazione del dispositivo, certo.
A.M. Chi le stabilisce queste norme, regole e motivi?
R.C. Chi le stabilisce? Dipende. Dipende dal dispositivo.
Questa era l’ultima domanda o c’è l’ultima domanda prima della passione in vista della resurrezione? Nessuno osa fare questa domanda così impegnativa? O c’è l’audacia? Non c’è? Ma come, voi accettate che non ci sia l’ultima domanda? Allora vuole dire che questo incontro non finisce e prosegue la settimana prossima.
Cristo, Aladino e l’annunciazione
Ruggero Chinaglia Proseguiamo questa sera con la lettura di Aladino. La lettura è ciò con cui le cose giungono al semplice, ciò con cui la fiaba giunge alla saga, cioè alla cifratura del materiale che propone, con la dissipazione del fantasma di mortalità e del conseguente fantasma di padronanza.
Al punto in cui siamo giunti con la lettura di Aladino e la lampada meravigliosa, constatiamo che la fiaba procede dalla Bibbia, combinando Antico e Nuovo Testamento, e ci indica come l’islam partecipa del cristianesimo, oltre a partecipare del discorso greco, della gnosi greca.
Leggiamo un brano della Bibbia, in particolare una parte del secondo capitolo del Genesi: Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente.
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c’è l’oro, e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon; esso scorre intorno a tutto il paese di Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza, del bene e del male, non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”.
E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”, e gli pone accanto Eva.
Il serpente, che era la più astuta di tutte le bestie, disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino, Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”, fino alla cacciata e le relative conseguenze.
Mentre il Vangelo di Luca, 1,26-38, così racconta:
Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra, la potenza dell’Altissimo; colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”.
Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei. (Luca 1,26-38).
Questo nella Bibbia, quanto al mito della cacciata, al mito di Adamo e Eva e al mito dell’annunciazione.
Leggiamo ora qualcosa della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa, che comincia così:
Nella capitale di un regno della Cina, ricchissimo e molto esteso, il nome del quale ora non ricordo, viveva un sarto che si chiamava Mustafà, senza altra distinzione se non quella che gli dava la sua professione. Il sarto Mustafà era molto povero e il suo lavoro gli procurava appena quanto era necessario per mantenere se stesso, sua moglie e un figlio che il cielo gli aveva dato.
Quindi, Aladino, è un figlio che viene dal cielo.
Il figlio, che si chiamava Aladino, era stato allevato con trascuratezza ed era un monellaccio. Era cattivo, ostinato, disobbediente a suo padre e a sua madre. Non appena fu un po’ cresciuto, i suoi genitori non riuscirono più a tenerlo in casa; usciva fin dal mattino e passava il tempo a giocare per la strada o nelle piazze, con piccoli vagabondi, discoli al par di lui.
Giunto all’età di imparare un mestiere, suo padre, che non era in condizione di fargliene imparare uno diverso dal suo, lo prese nella sua bottega, e cominciò a mostrargli come dovesse maneggiare l’ago. Ma né con le buone, né minacciandogli castighi, fu possibile al padre dominare lo spirito volubile del figlio e costringerlo ad essere assiduo e costante nel lavoro come avrebbe voluto.
Non appena Mustafà voltava la testa, Aladino scappava per ritornare solo la sera. Il padre lo castigava ma Aladino era incorreggibile e, con grande dispiacere, il padre si vide costretto a lasciarlo fare. Ciò lo addolorò molto e il dispiacere di non poter far rigare diritto suo figlio gli causò una malattia così ostinata che ne morì dopo qualche mese.
La madre di Aladino, quando vide che suo figlio non voleva imparare il mestiere del padre, chiuse la bottega, e vendette i ferri del mestiere per mantenere col ricavato, unito al poco che avrebbe potuto guadagnare filando il cotone, sé e suo figlio.
Aladino, che non era più trattenuto dal timore di suo padre, e che tanto poco si curava di sua madre da osare di minacciarla alla minima esortazione che gli faceva, si abbandonò allora alla più completa libertà, conducendo una vita scapestrata. Frequentava sempre i ragazzi della sua età, né tralasciava di giocare con loro con passione maggiore di prima.
Continuò questa vita fino a quindici anni, senza dimostrare interesse per nessuna cosa.
Era in questa condizione, quando un giorno, mentre giocava in una piazza con una schiera di vagabondi, secondo la sua abitudine, fu notato da un forestiero di passaggio che si fermò a guardarlo.
Quel forestiero era un mago insigne, conosciuto con il nome di Mago Africano. [Le mille e una notte, Ed. Newton Compton, pagg. 679/680].
La fiaba comincia praticamente con la morte del padre. Prima, il padre è descritto con tutte le caratteristiche negative, povero, misero, incapace di educare il figlio, incapace di lavorare, incapace di dominare lo spirito volubile del figlio, proprio un padre da poco, fino a che, appunto, muore. Quindi il padre è un padre già morto, morto prima ancora di morire, un padre senza autorità, senza qualità. E il figlio Aladino è il figlio discolo, il figlio generato che degenera. Il figlio di papà che si perde, che si lascia andare. Si lascia andare a partire dal padre morto. Ma come può il padre morire, il padre che è immortale nella parola? Infatti, anche la fiaba ne tiene conto e arriva subito un altro padre, il Mago Africano, che invece è ricchissimo, bravissimo, insigne, conosciuto.
Ecco che, a partire dal padre morto, dall’idea di mortalità attribuita al padre, s’instaura l’anfibologia del padre: padre buono/padre malvagio, padre povero/padre ricco, padre sano/padre malato. A partire dall’idea del padre morto, sorge la dicotomia, cioè sorge ogni possibile attribuzione di qualcosa e del suo opposto. Ebbene, pur nell’anfibologia, pure nell’alternativa, nella fantasmatica che indica l’oscillazione tra padre buono e padre malvagio, la vicenda di Aladino non può non procedere dal padre. Questa è la prima questione in cui ci imbattiamo leggendo la fiaba e analizzando ciò che ci pone dinnanzi, senza parteciparvi con la morale, senza che questo debba essere funzionale a una morale del bene o del male.
E dunque, pur in questa apparente messa a morte del padre, procedendo dal padre, si avvia il viaggio di Aladino. E che cosa accade a Aladino dopo avere incontrato questo altro padre, che è generoso, gli offre vestiti, gli offre varie indicazioni, lo toglie dalla strada, lo porta con sé a far conoscere ai mercanti, ai gioiellieri, alle persone importanti, gli fa scegliere i vestiti che preferisce? Accade che un giorno dice:
“Andiamo, caro figlio, oggi voglio farti vedere delle cose bellissime!”.
A tale scopo lo condusse a una porta della città, che portava verso grandi e belle case o, per dir meglio, palazzi magnifici, ognuno dei quali aveva bellissimi giardini, i cui ingressi erano liberi. A ogni palazzo che vedevano chiedeva ad Aladino se gli piacesse e ogni volta che appariva un nuovo palazzo Aladino esclamava: “Oh zio, questo è ancora più bello degli altri che abbiamo visto!”.
Intanto s’inoltravano sempre più nella campagna, e l’astuto mago, che desiderava andare ancora più lontano per portare a compimento il piano che aveva in mente, colse l’occasione di entrare in uno di quei giardini.
Quindi, il mago porta Aladino a vedere i giardini. È noto l’interesse assoluto dei ragazzi di 15 anni verso i giardini, no? Questo, in ogni paese, in particolare in Cina. Però, il mago dice a Aladino che ci sono dei giardini bellissimi e Aladino lo segue. E poi, dopo un po’, riposano, fanno uno spuntino e poi …proseguono il cammino in mezzo ai giardini che erano separati gli uni dagli altri solo da piccoli fossi, che segnavano i confini, ma non impedivano il passaggio. La buona fede faceva sì che i contadini di quella capitale non avessero bisogno di altre precauzioni per impedire di nuocersi l’un l’altro.
Bastava un piccolo fosso. Sembra quasi che la lezione di Roma fosse già nota: chiunque attraversasse il fosso subiva la sorte di Remo.
Il Mago Africano insensibilmente condusse Aladino molto lontano oltre i giardini, e gli fece traversar dei campi, che lo condussero fin vicino ai monti.
Aladino, che non aveva mai camminato tanto, si sentì molto stanco per quella lunga passeggiata.
“Zio”, disse al mago, “dove andiamo? Abbiamo lasciato molto indietro i giardini, e non vedo altro che monti. Se c’inoltriamo ancora, non so se avrò forza abbastanza per ritornare alla città.”
Aladino è stanco e non sa se avrà forza abbastanza per ritornare in città.
“Fatti animo, nipote”, gli rispose il finto zio, “voglio farti vedere un altro giardino che supera in bellezza tutti quelli che hai visto. Non è molto lontano di qui, anzi non vi sono da fare ormai che pochi passi e quando vi arriveremo tu stesso mi dirai se non ti sarebbe spiaciuto di non averlo veduto, dopo esser giunto così vicino.”
E così giungono finalmente nella valle del giardino.
Era questo il luogo straordinario in cui il Mago Africano aveva voluto condurre Aladino per l’esecuzione di un gran progetto per cui era venuto dall’Africa fino in Cina.
“Non andiamo oltre”, disse ad Aladino, “voglio farti vedere cose straordinarie e sconosciute ai mortali: e mi ringrazierai poi di averti fatto assistere a tante meraviglie.
E lì il mago compie il rito, accende il fuoco …e, mentre la legna bruciava, vi gettò sopra un profumo che teneva pronto. Si formò allora un fumo densissimo, che egli spinse da una parte e dall’altra pronunciando parole magiche che Aladino non capì.
Nello stesso momento la terra tremò, e si aprì davanti al mago e ad Aladino, e lasciò scoperto un blocco di pietra quadrato di un piede e mezzo circa di lato e alto circa un piede, posato orizzontalmente, con un anello di bronzo infisso nel mezzo, per poterlo sollevare.
Aladino, spaventato da quanto accadeva davanti ai suoi occhi, avrebbe voluto darsi alla fuga. Ma era necessaria questa cerimonia magica e il mago lo trattenne, rimproverandolo molto e dandogli uno schiaffo tanto violento, che lo gettò a terra, e poco mancò che non gli rompesse i denti.
Il povero Aladino tutto tremante, e con le lacrime agli occhi, esclamò:
“Caro zio, che ho mai fatto per meritare che mi picchiate così forte?”.
“Ho le mie buone ragioni per trattarti a questo modo”, gli rispose il mago. Il mago tratta Aladino con le sue buone ragioni. “Sono tuo zio, e tengo ora il posto di tuo padre; non devi quindi discutere con me. Ma, figlio mio”, aggiunse poi con tono più dolce, “non temere di nulla: non chiedo altro che di essere ubbidito alla lettera, se vuoi trarre profitto e renderti degno dei vantaggi che ti voglio procurare”.
…“Hai visto ciò che ho fatto, grazie alla virtù del mio profumo e alle parole che ho pronunciato? Profumo e parole. Sappi dunque che sotto questa pietra c’è nascosto un tesoro, che è destinato a te e ti farà diventare un giorno il più ricco sovrano del mondo. Ciò è tanto vero, che non c’è nessuno al mondo, tranne te, a cui sia concesso di toccare questa pietra e di sollevarla per entrarvi. A me pure è proibito toccarla, e porre piede nel luogo dove si trova il tesoro, quando sarà aperta. Perciò bisogna che tu faccia esattamente quanto ti dirò, senza trascurare nulla: questo è un affare di grande importanza per te e per me”.
E Aladino a questo punto è incuriosito. “Ebbene zio, […] di che si tratta? Comandate, sono pronto a obbedirvi.”
Dice il mago, “Mi fa molto piacere, figlio mio […] che tu abbia preso questa decisione. Vieni, accostati, prendi quest’anello e alza la pietra.”
“Ma zio”, rispose Aladino, “non sono abbastanza forte per alzarla; bisogna che mi aiutiate.”
“No”, replicò il mago, “non hai bisogno del mio aiuto e non otterremmo nulla, io e te, se ti aiutassi; è necessario che l’alzi da solo. Pronuncia il nome di tuo padre e di tuo nonno, tenendo nelle mani l’anello, e vedrai che ci riuscirai senza fatica.”
Così fa Aladino e, sorprendentemente, solleva la pietra.
“Figlio mio”, disse allora il Mago Africano ad Aladino, “ascolta attentamente tutto ciò che sto per dirti. Scendi nella caverna e, quando sarai giunto ai piedi degli scalini che vedi, troverai una porta aperta, per la quale entrerai in un gran locale a volta, diviso in tre grandi sale, una dopo l’altra. In ognuna vedrai, a destra e a sinistra, quattro grandi vasi di bronzo a forma di tini, pieni d’oro e d’argento: ma bada bene di non toccarli. Prima di entrare nella prima sala, alzati la veste, e stringitela bene in vita; passa nella seconda, senza fermarti, e da questa nella terza. Bada soprattutto a non accostarti ai muri e a non toccarli con la veste, poiché se li toccassi, moriresti subito. Questa è appunto la ragione per cui ti ho detto che devi tenerla stretta in vita. In fondo alla terza sala vi è una porta che dà accesso a un giardino con bellissimi alberi tutti carichi di frutta: cammina diritto e attraversa il giardino seguendo un sentiero che ti porterà a una scala di cinquanta gradini per salire su una terrazza. Quando sarai giunto su di essa, vedrai dirimpetto a te una nicchia, e in questa una lucerna accesa. Piglia la lucerna, spegnila, e quando avrai gettato via lo stoppino, e versato il combustibile, mettitela in petto e portamela. Non temere di macchiarti l’abito, perché il combustibile non è composto d’olio. Se i frutti del giardino ti piacciono, ne potrai raccogliere quanti ne vorrai, perché non è proibito.”
[…] “Va’, figlio mio”, gli disse, dopo avergli dato queste istruzioni, “scendi con coraggio: stiamo per diventare ricchi tutti e due per tutta la vita.”
E non prima di avergli dato un anello, che si tolse dal dito, dicendogli che l’avrebbe preservato da ogni male che gli potesse accadere, se avesse osservato bene quanto gli aveva ordinato. Quindi, Aladino si inoltra nel giardino, attraversa il giardino senza fermarsi, sale sulla terrazza, prende la lampada, la spegne, getta lo stoppino, il combustibile e se la nasconde in petto. Poi torna indietro e si ferma nel giardino, un giardino bellissimo.
Gli alberi erano carichi di frutti stravaganti. Ogni albero ne portava diversi. Ve n’erano di bianchi, di lucenti e trasparenti come il cristallo, di rossi, di verdi, di azzurri e di quelli che si accostavano al giallo, con molte altre specie.
I bianchi erano perle, quelli lucenti e trasparenti, diamanti; quelli rosso cupo, rubini; quelli verdi, smeraldi; quelli violetti, ametiste, gli azzurri, turchesi e così via, e questi frutti eran tutti di una grossezza e di una perfezione straordinaria.
Aladino, che non ne conosceva né le qualità né il valore, non restò affatto colpito alla vista di questi frutti che non erano di suo gusto, come lo sarebbero stati invece fichi, uva e gli altri frutti eccellenti che sono comuni in Cina. Non essendo ancora in età da conoscerne il valore, immaginò che quei frutti fossero soltanto vetri colorati di poco conto.
Quindi, non ci sono vergini nel giardino, ma frutti e vetri colorati, cristalli colorati. È noto che la mitologia del martire islamico è guidata dall’idea di avere, dopo la morte, la visione del giardino, allietata da settantadue vergini. Così narra la mitologia; ma che è, appunto, pura e mera mitologia, dovuta a un errore di traduzione, perché in realtà, nel giardino, ci sono frutti e, in particolare, uva colorata, proprio come ci racconta Aladino. Quindi, Aladino, nonostante non ne conosca il valore, prende molti frutti di ogni colore e se ne riempì le tasche, le borse, l’abito, nelle pieghe della cintura, dappertutto; anche in petto, tra la veste e la camicia e si dirige verso l’uscita. Dunque, Aladino è nel giardino e dinanzi all’uscita, vede lo zio e dice:
“Zio, vi prego di porgermi la mano per aiutarmi a salire”.
Il mago gli disse:
“Figlio mio, dammi prima la lampada, perché potrebbe esserti d’impaccio”.
“Perdonatemi zio,” replicò Aladino. “Non m’impaccia affatto e ve la darò, appena sarò salito.”
Aladino non molla la lampada e il Mago Africano si arrabbia moltissimo e dunque …esasperato dalla resistenza del ragazzo, fu preso da uno spaventevole sdegno. Gettò un poco del suo profumo sopra il fuoco che aveva avuto cura di mantenere acceso, e appena ebbe pronunciate due parole magiche, la pietra, che serviva a chiudere l’ingresso della caverna, ritornò da sé al suo posto con sopra la terra, nel medesimo stato in cui era all’arrivo del Mago Africano e di Aladino.
E dunque, Aladino è sotto terra. Fa per tornare nel giardino, ma il giardino non c’è più: un muro gli impedisce l’accesso. Non c’è più il giardino e Aladino si trova nella terra, anzi, sotto terra. Quindi, anche Aladino è cacciato dal giardino, dal giardino dai frutti meravigliosi, per non avere restituito la lampada. Da una parte si tratta di avere preso i frutti di un certo albero, dall’altra di non avere restituito la lampada. Aladino è sepolto, sepolto vivo.
…chiamò mille volte suo zio gridando che era pronto a dargli la lampada: ma le sue grida erano inutili, e non vi era più mezzo di essere udito; allora rimase nelle tenebre e nell’oscurità…
Infine, dopo aver dato tregua alle lacrime, discese fino in fondo alla scala della caverna per andare a cercare la luce nel giardino da dove era già passato; ma il muro si era richiuso ed unito di nuovo, per un altro incantesimo del Mago Africano.
…Raddoppiò le grida e i pianti, e si sedette sulla scala della caverna senza speranza di rivedere mai più la luce, e con la certezza di passare dalle tenebre in cui era, a quelle di una prossima morte.
Aladino restò due giorni in quello stato, senza mangiare né bere. Il terzo giorno finalmente, pensando che la morte fosse inevitabile, alzò al cielo le mani giunte e con una perfetta rassegnazione ai voleri di Dio esclamò:
“Non vi è forza e potenza che in Dio, il Grande, l’Altissimo!”.
Nell’alzare le mani giunte, fregò senza avvedersene l’anello, che il mago Africano gli aveva messo al dito, e di cui non conosceva ancora la virtù.
Improvvisamente un genio di statura immensa e dallo sguardo spaventevole, prese forma davanti a lui come se venisse da sotto terra, finché toccò con la testa il soffitto, e disse ad Aladino queste parole:
“Che vuoi? Eccomi pronto ad obbedirti come tuo schiavo, tuo e di tutti coloro che hanno l’anello al dito, io e gli altri schiavi dell’anello”.
…“Chiunque tu sia, fammi uscire da questo luogo, se ne hai il potere”.
Non appena ebbe pronunciato queste parole, la terra si aprì ed egli si trovò fuori dalla caverna, esattamente nel luogo dove il mago l’aveva condotto.
Allora, dopo tre giorni, al terzo giorno, Aladino, che era sepolto, esce dal sepolcro. Non possiamo dire proprio che resuscita, perché non era mai morto, però questo ci interroga intorno alla natura e alla struttura della resurrezione.
È sorprendente questa combinazione di Aladino con Cristo, e occorre dire che c’è anche un’altra evocazione che rafforza questa combinazione.
Noi abbiamo, nel Vangelo, il racconto della tentazione sostanzialista, cui Cristo viene sottoposto da Satana. “Guarda le ricchezze del mondo, adorami e tutto questo sarà tuo”. Mentre Cristo non abbocca, Aladino abbocca. Abbocca, ma fino a un certo punto, perché non restituisce la lampada. E l’indicazione interessante che ci dà Aladino è intorno alla resurrezione, in cui il figlio risorge, ma risorge in quanto non è mai morto. Leggendo Aladino con Cristo, anche per Aladino si tratta della dissipazione della genealogia. Prima la fiaba ci presenta Aladino come il filius generatus, il figlio che partecipa della genealogia e del fantasma di mortalità, che accomuna il padre morto con il figlio morituro – questa è la genealogia – poi invece lo troviamo come filius genitus, perché la condizione della resurrezione in Cristo è il filius genitus nec generatus.
Questa è la lezione di sant’Agostino: il filius è filius genitus nec generatus. Che cosa indica questo? Non tanto come è stato tradotto, che si tratta del figlio generato e non creato. Genitus, non generatus. Genito non vuole dire generato. Sant’Agostino dice che è genitus, in quanto procede dal padre, non generato dal padre, ma procedente dal padre. Questa è la questione straordinaria che Aladino ci ripropone, anche se per la via del fantasma materno, ossia per la via secondo cui ogni figlio che si crede generato è il figlio che si ritiene mortale, è l’uomo di Aristotele, l’uomo mortale. Mentre è immortale il filius genitus, che procede a sua volta dal padre immortale, che dunque è in questa processione e non nella genealogia.
Il filius genitus è il figlio senza identità, che non deve assomigliare al padre, che non partecipa né della sostanza, né di altra caratteristica genealogica, meno che mai della caratteristica genealogica per eccellenza, ossia la mortalità. Il filius che risorge è il filius che si divide da sé; non che si divide in due, in quanto partecipa della procreazione, ma che si divide da sé, ossia è il significante che funziona, il significante preso nella funzione.
Pubblico Perché il padre ha bisogno del figlio?
R.C. Chi ha detto che ha bisogno?
Pubblico Perché non sa stare senza il figlio?
R.C. Perché senza il figlio non esiste. È questa la questione della tripartizione del segno: padre, figlio, Altro o padre, figlio, spirito. Se togliamo uno di questi, nemmeno gli altri esistono. È la questione del genere, della tripartizione del genere o della tripartizione del segno: il figlio procede dal padre, l’Altro procede dal figlio e dal padre e questa è la processione, mentre il padre procede dal due e questa è la procedura. La processione indica la tripartizione funzionale del segno: padre, figlio, Altro. È in questo modo che il segno funziona parlando, in questa genesi, secondo cui il figlio procede dal padre e l’Altro procede dal padre e dal figlio e in questo sta la logica della parola, la logica della nominazione.
Ora, genitus nec generatus comporta che il figlio nasce o che non nasce? È nato o non è nato? Dove sta la nascita per ciascuno? Di che cosa si tratta quanto alla nascita? La nascita è qualcosa di assolutamente non naturalistico. Si tratta di non confondere la nascita con il parto. In che modo ciascuno partecipa della nascita? E che ne è della nascita per ciascuno, quanto al viaggio intellettuale? Pare una questione seria, no? Perché è facile dire che si nasce e si muore. Se il figlio è genitus nec generatus, nasce il figlio? E se nasce, come nasce? Chi è che vuole cominciare a porre qualche ipotesi?
Sabrina Resoli Figlio, come significante che funziona, nasce ciascuna volta che il significante si divide da sé, e quindi differisce.
R.C. Quindi lei dice che la nascita è la divisione.
S.R. È la non identità.
R.C. Per questa via potremmo arrivare alla clonazione.
S.R. No, perché la clonazione sarebbe l’idea dell’identico che si moltiplica, la divisione del significante invece è la constatazione che è impossibile l’identità.
R.C. Sì, ma per quale via la nascita sarebbe divisione?
S.R. Non lo so, è un’ipotesi.
R.C. È un’ipotesi, ma vediamo di metterla alla corda. Bene, come prima ipotesi è impegnativa e interessante.
Pubblico Gesù disse: “Prima che Abramo fosse, io sono”, quindi, il figlio si pone prima del padre, perché dice: “Prima che Abramo…”, che s’intende, nel linguaggio ebraico, il padre. Quindi dice: “Prima che fosse il padre, io sono” e questo ci porta a pensare che il figlio non nasce, perché esiste già prima. Quanto alla resurrezione, io la vedo come un contrappunto.
R.C. Può precisare?
Pubblico Il figlio non nasce perché esiste prima del padre.
R.C. Ma già se lei dice prima… Prima, dopo, non c’è né prima né dopo.
Pubblico Non c’è né prima e né dopo?
R.C. Sì, siamo nella simultaneità e il segno è tripartito nella simultaneità. Se lei dice prima, dopo, siamo nella successione e nel fantasma di mortalità.
Pubblico No, il figlio nega di succedere al padre.
R.C. Ecco, nega di succedere. Appunto.
Pubblico Poi, c’è qualcosa che ha a che vedere con la psicodinamica, però il discorso si fa un po’ complicato.
R.C. Psicodinamica? Cosa c’è di psicodinamico?
Pubblico Ci sono due piante, due alberi nel giardino dell’Eden, tutti e due nel centro. Se tocchi l’albero della conoscenza, muori; ma c’è anche l’albero della vita e anche quello è al centro. Sono due.
R.C. Questo è al centro, quell’altro è in un punto qualunque.
Pubblico Io, il primo lo vedo come presenza del padre, di Dio.
R.C. Ma adesso lei sta passando dal figlio all’albero. Com’è la questione?
Pubblico L’albero della conoscenza io lo vedo come padre.
R.C. Ah, lei lo vede! Qui non c’è da vedere!
Pubblico Invece l’albero della vita lo vedo come il figlio.
R.C. Se lei s’immagina qualcosa, se addirittura la vede, vuole vederla, siamo proprio nel campo del fantasma materno.
Pubblico Beh, non so, per lo meno… Allora dica lei cosa intende per albero della vita e cosa sia l’albero della conoscenza. Lo dica lei.
R.C. Si è arrabbiato. Come il Mago Africano! Si arrabbia, voleva avere ragione subito… Va bene, va bene, ha ragione lei.
Pubblico Riguardo alla nascita, secondo me, come ha detto lei, come non c’è la morte, non c’è la nascita. C’è una processione, non del padre. Quindi, per me la nascita non esiste, è una processione dal padre, la vedo come un passaggio, eventualmente una porta sul giardino. Se c’è processione non ci può essere nascita. C’è questa simultaneità, la coesistenza di padre, figlio e Altro, come non c’è una resurrezione dalla morte se uno non è morto. Aladino non era morto.
R.C. Quindi, lei dice che non è che non ci sia la nascita, ma è in questa porta verso il giardino.
Pubblico Un passaggio.
R.C. Un passaggio? Ma cosa vuole dire un passaggio?
Pubblico Forse un procedere.
R.C. Passaggio. Il passaggio comporterebbe sempre l’idea di una evoluzione, di cambiamento, di progresso, no?
Pubblico Anche di regresso, perché infatti Aladino è stato scacciato dal giardino.
R.C. Sì, esatto. Beh, in questo senso sarebbe il figlio generato, Adamo. Adamo non è Cristo. Infatti, Adamo è cacciato dal giardino, mentre Cristo è assunto in cielo.
Cecilia Maurantonio La logica, come condizione del dispositivo che interviene nella tripartizione del segno. La condizione sta nella tripartizione, cioè nel divenire, nell’instaurarsi, nello strutturarsi della tripartizione.
R.C. Qual è il soggetto?
C.M. La condizione. Lei ha parlato di logica, della logica della parola.
R.C. Eh, perché dovevamo arrivare fino all’annunciazione. Ho letto all’inizio il brano del Vangelo di Luca intorno all’annunciazione, dove c’è l’angelo; mentre la volta scorsa abbiamo detto che c’è il genio. In Aladino c’è il genio dove nel Vangelo c’è l’angelo, e il genio è la variante islamica dell’angelo.
C.M. Abbiamo detto questo la volta scorsa. Io ho notato questa differenza: il mago dice a Aladino di evocare il nome del nonno e del padre, per potere entrare sotto terra, invece lui, quando si trova sotto terra, invoca l’innominabile, Dio, Allah. Questo è anche un momento importante per lui, no?
R.C. In che senso importante?
C.M. Intanto non si rivolge all’albero genealogico. Poi volevo dire una cosa a proposito di quello che ha detto la dottoressa Resoli riguardo alla divisione: se fosse come dice lei, allora si avrebbe la ripetizione della nascita continua, ci sarebbe la ripetizione della nascita in ciascuna divisione, ciascuna divisione una nascita ripetuta all’infinito, e quindi non ci sarebbe percorso. Grazie.
R.C. E accanto alla nascita non dobbiamo trascurare la natura, e accanto alla natura la nazione, dove, per natura, si tratta dell’andare e venire delle cose: da dove le cose vengono e dove vanno; nella natura si tratta anche della struttura della pulsione. Invece, nella nazione si tratta dell’avvenire. Ora, è chiaramente un altro dispositivo in cui la nascita non è intesa junghianamente come avvio verso la morte, né come la venuta al mondo.
Non è trascurabile questa cosa, ma è determinante rispetto al vivere, rispetto all’idea che ognuno può avere di sé, dell’Altro, della famiglia, perché, chi si crede generato, cioè chi si crede “figlio di”, chiaramente s’inscrive in una genealogia, s’inscrive in un fantasma di mortalità, con tutto ciò che ne segue, con tutto ciò che comporta rispetto alla logica e al modo del viaggio, al progetto e al programma di vita, a ciò che fa o che non fa, che farà o non farà, che ha fatto o non ha fatto. Cioè, il rimando, la riserva, la remora, il rimpianto, il pentimento, sono corollari dell’idea del filius. Qual è l’idea che ognuno ha del filius? Da questo discende un’idea di sé, un’idea dell’Altro, un’idea del padre. Noi, leggendo il testo di Aladino constatiamo che i guai, per Aladino, cominciano a partire dalla sua idea di padre, e da questa idea del padre procede lo scenario: il figlio discolo, il figlio degenere, il figlio senza avvenire. Quale avvenire se il padre è dato per morto? Dato per morto il padre, anche il figlio o è morto o morirà, comunque tanto bene non sta, già comincia a sentirsi con qualche guaio.
Allora, non è una questione meramente teologica, è una questione linguistica. Quella che può sembrare una questione teologica è una questione linguistica, una questione logica. È la questione della genesi e della genetica secondo cui ciascuno è in viaggio. Con quale genesi e con quale genetica procede il viaggio? Qual è la genesi e qual è la genetica secondo cui procede il viaggio? Questo è quanto ci pone Aladino, cioè il mito di Cristo: la questione intorno alla genesi e alla genetica secondo cui procede il viaggio.
È tenendo conto di questo che noi possiamo leggere Aladino con Cristo, altrimenti leggiamo Aladino e basta, ossia Aladino il pazzo, Aladino il visionario, Aladino il degenere, Aladino l’allucinato, Aladino come segno di ogni possibile idealità. La questione analitica e clinica sorge perché, anche a partire da quel che si enuncia come dicotomia, come alternativa tra la positività e la negatività, anche da lì c’è una domanda che esige di cogliersi e non di essere catalogata, cioè inscritta in un casellario.
Occorre tenere conto della lezione che viene dalla parola originaria, e occorre tenere conto dell’annunciazione. Nel testo cristiano l’angelo è la condizione dell’annunciazione. Nella variante islamica l’angelo chiede: “Cosa vuoi? Io sono il tuo servo, ti soddisferò”. Cosa vuoi? Quindi, nella variante islamica ci sarebbe il volere, che è sempre il volere divino, il volere di Allah. E quindi c’è chi ha da soddisfare il volere. Nel testo biblico, invece, non c’è questo volere, c’è l’indicazione dell’avvenire. Avverrà che…, avviene che… È un’altra cosa: ciò che avviene non è soggetto alle modalità del potere, del sapere, del dovere o del volere.
L’avvenire è senza soggettività, non è preso nel viluppo delle soggettività, delle varianti del fantasma di padronanza, e questo è essenziale. Potere cogliere, individuare, articolare il fantasma di padronanza lì dove si pone è essenziale perché il viaggio prosegua, altrimenti al primo inghippo si ferma. Si ferma e si giustifica la fermata secondo ogni facile idealità: non posso, non voglio, non so, non vedo. E di pretesti ce ne sono a bizzeffe, no? Ogni pretesto è buono per confermare queste idealità.
Ma come avviene che il viaggio di Aladino prosegua? Innanzi tutto perché il padre non è morto e non muore. È immortale. E così il figlio, e così l’Altro. Da questa struttura il viaggio prosegue, non è destinato a finire, e le vicissitudini del viaggio non sono il segno del male, del negativo, della morte, ma sono vicende del viaggio. Se vengono affrontate, sono vicende del viaggio. Se invece costituiscono il segno del male, del negativo, della morte, non verranno affrontate, e il viaggio si arresta. È banale, ma è così. Questo è l’importante della clinica perché il viaggio proceda.
Pubblico Posso?
R.C. Le è passato adesso?
Pubblico Secondo me, il padre si va formando attraverso il figlio, quasi che fosse il figlio che genera il padre. Si può dirlo?
R.C. Eh, lei è arrivato a dirlo senza neanche chiedere il permesso. Dirlo si può dirlo, ma quali sono le implicazioni di questo? Chiaro che questa ipotesi che lei avanza, per nulla banale, rientra chiaramente in una fantasmatica ben precisa. Esigerebbe però una conferenza per svolgersi adesso, cosa che chiaramente non è possibile, perché sono già passate le ventitré. Quindi ne prendiamo nota e vediamo di rispondere la prossima volta.
Aladino, la principessa e la sessualità
Ruggero Chinaglia A proposito di quanto andiamo dicendo, quali domande, quali notazioni, quali proposte? Ormai, la fiaba Storia di Aladino e della lampada meravigliosa è chiarissima, no? Chi ha capito di cosa si tratta? E chi non ha capito proprio niente?
Silvio M. Tutti gli altri!
R.C. Se nessuno capisce niente, cosa facciamo noi qui? Nessuna questione è rimasta in sospeso al punto da meritare una ripresa, una ulteriore indagine?
S.M. Io sono fermo a tre volte fa, perché non sono potuto venire.
R.C. È fermo lì.
S.M. Eh sì, a quando parlava del viaggio e avevo scritto un appunto. Dato che il viaggio non è di gruppo, che parte avrebbe nel viaggio la così detta solidarietà di cui tanto si parla ai nostri giorni?
R.C. La solidarietà nel viaggio?
S.M. Sì. Se c’è, cosa potrebbe significare?
R.C. Lei ha un’ipotesi in merito?
S.M. Un grosso punto di domanda, perché molto spesso ci si lascia incantare dall’idea di solidarietà.
È una strada, forse facile, per rappresentare l’Altro e per riempirlo di così detti doni, di cui certamente non ha bisogno. Solidarietà… Parto spesso da un preconcetto e da un’idea dell’Altro rappresentato. E allora dico che solidarietà è una bella parola, fa piacere sentirsi dire che c’è solidarietà. Uno si sente parte. Nel viaggio non mi sembra che ci sia parte per nessun altro, se non per chi lo sta facendo.
R.C. Come le si è posta la questione della solidarietà nel viaggio?
S.M. Così, sentendo parlare di viaggio mi è venuta in mente la tanto decantata società e anche le esigenze personali, di ricerca personale. Mischiare il proprio viaggio con quello degli altri, andando o anche partecipando alle varie iniziative – io sono stato un paio di volte in Africa – si gira, si parla, si allarga il proprio spazio.
R.C. Certo. Quindi lei dice solidarietà in quale accezione?
S.M. Siccome tutti i partiti, i sindacati, adesso parlano spesso di iniziative di solidarietà e dicono che occorre essere tutti solidali, allora mi chiedo, rispetto al viaggio vero che uno fa, quanto questa parola sia una preclusione al viaggio.
R.C. Sì. Bella domanda. Ce ne sono altre?
Cecilia Maurantonio Siccome è stato posto come titolo La lampada di Aladino e il Grande Fratello, mi sono interrogata intorno alla questione che pone, a proposito del grande pubblico che lo segue, di quali sono gli elementi che…
R.C. Ma noi non siamo ancora giunti a qualificare con precisione i termini della storia di Aladino e lei vuole già scantonare verso il Grande Fratello!
C.M. No. Non è così. È solo fortuito questo accostamento?
R.C. Potrebbe anche essere fortuito. Se non sappiamo ancora nulla di Aladino, come possiamo dire che l’accostamento con il Grande Fratello sia o non sia fortuito?
C.M. Proprio perché sto indagando intorno alla questione della lampada di Aladino…
R.C. Ah, sta indagando!
C.M. Certamente. Per esempio, questi tre termini, realtà, simultaneità e spettacolo potrebbero trovare una connessione.
R.C. Ma la fiaba di Aladino, cosa racconta al lettore?
C.M. La cosa interessante è che c’è proprio la questione del lettore. C’è una direzione. È una direzione anche questa.
R.C. Sì, ma questa fiaba, lei l’ha letta?
C.M. Sì. Ho incominciato con…
R.C. E cosa ha letto nel testo?
C.M. Avevo già riscontrato alcune cose che lei magistralmente ha svolto.
R.C. Cosa ha letto lei in questi ultimi giorni, tenendo conto delle acquisizioni degli incontri precedenti?
C.M. Incomincia qualcosa proprio con l’ultima lettura che lei ha fatto. C’è tutto un fare che si avvia da parte di Aladino. Anche l’aspetto così dettagliato del suo modo di incontrare i vari bottegai e commercianti, dei materiali che compra: tutto ciò che non aveva mai fatto né mai pensato di fare, si trova, a un tratto, a fare. Si trova in un lavoro, in un lavoro anche specifico, perché è simultanea la cosa che interviene. C’è il lavoro…
R.C. Aladino lavora?
C.M. È in un progetto.
R.C. Non si può dire che lavori. Aladino non lavora.
C.M. Non lavora, però c’è l’incontrare il bottegaio e vendere. Vende, vende.
R.C. Aladino vende? Cosa vende?
C.M. Cose di cui lui non sa già qual è il valore.
R.C. E le vende! A chi le vende?
C.M. C’è il mercante imbroglione e c’è quell’altro più onesto…
R.C. Ah, dice dei piatti.
C.M. Sì.
R.C. Mica li vende, anzi. Li svende! La svendita non è vendere. Li dà via, li butta.
C.M. Però, Aladino non sa qual è il loro valore.
R.C. Appunto. E nemmeno li valorizza. Non è vendita quella. La vendita esige il processo di valorizzazione, quindi svendere non è vendere. Anzi, si tratta proprio di un evitamento sia della vendita sia del processo di valorizzazione che la vendita esige, perché, per vendere, occorre la valorizzazione. Non la denigrazione, non l’idea di prostituzione, ma l’idea di valorizzazione. Anzi, non solo l’idea: il processo. La vendita è una cosa interessantissima se è nel dispositivo.
C.M. Non si può mai sapere cosa si vende.
R.C. No. Praticamente, no.
C.M. Quindi c’è la questione del fantasma, perché nella lettura lei era partito con il fantasma del padre. Però, mi chiedevo se si tratta sempre dello stesso fantasma, perché c’è un percorso e c’è un viaggio. E il fantasma giunge anche alla scrittura. C’è la scrittura perché ci sono delle operazioni, ci sono i tre operatori. La mia curiosità verte intorno a questo: come approda e accoglie il fantasma? Quale fantasma e, addirittura, secondo quale logica? Grazie.
R.C. Ma quindi qui non ci sono lettori della storia di Aladino, non c’è nessun lettore!
S.M. Non hanno il libro!
R.C. Non hanno il libro. Per quello! Lei è troppo buono, è solidale! Nell’accezione però di complicità, mentre la solidarietà mai è complicità.
È un peccato che ci sia questa indifferenza verso Aladino, perché è una storia molto interessante. Capire qualcosa della storia di Aladino è un contributo al proprio viaggio, perché la fiaba, e ogni fiaba, sorge e si formula a partire dall’istanza del viaggio. Certo, rispetto al viaggio la fiaba espone le riserve, le remore, le paure, i presunti impedimenti al viaggio e tenta di giustificare queste riserve, paure e remore. Così prende il via il racconto della fiaba, ma, appunto, procedendo dall’istanza del viaggio. È questa la questione interessante, perché annuncia qualcosa di originario. Certo, occorre leggerla questa fiaba, non prenderla così com’è, non convertirla in un senso comune, non convertirla in qualcosa su cui essere d’accordo o discordi, partecipi o critici. No, occorre leggerla!
Gregorio Gigante Il Vangelo, per di più, non è una fiaba.
R.C. Il Vangelo non è una fiaba. Lei dice “per di più”, però io non ho mai detto che il Vangelo è una fiaba.
G.G. Però, ogni volta è stato fatto un accostamento tra Aladino e Cristo.
R.C. Sì, un accostamento.
G.G. Beh, non si può certo trascurare l’elemento fantastico della fiaba.
R.C. Abbiamo detto che per leggere Aladino occorre non trascurare l’atto di Cristo, quindi che occorre leggere Aladino con Cristo, non che Aladino sia Cristo. Non abbiamo detto questo.
G.G. Beh, in un certo senso abbiamo fatto degli accostamenti.
R.C. Degli accostamenti, certo.
G.G. Per esempio, abbiamo detto che nella fiaba Aladino va a finire sotto terra e che poi c’è la sua rinascita. Anche di Gesù c’è la resurrezione, poi il desiderio.
R.C. Il desiderio?
G.G. Cioè, non c’entra il desiderio, ma Gesù è comunque esposto…
R.C. Un momento, un momento! Lei dice il desiderio. Se consideriamo la tentazione di Cristo come tentazione intellettuale, cioè insostanziale, questa tentazione ci dice che il desiderio non è transitivo. Come dire che Cristo non desidera. Cristo non desidera. Si può arguire dal racconto evangelico delle tentazioni che Cristo desidera?
G.G. Veramente, viene tentato.
R.C. Sì. Ma la tentazione che cosa ha a che vedere con il desiderio?
G.G. Certamente la tentazione infrange un accordo.
R.C. Come infrange? Quindi lei dà un’accezione negativa di tentazione. Perché?
G.G. Bisogna vedere da che cosa si viene tentati.
R.C. Beh, certo.
G.G. Perché si è concluso il discorso parlando dell’eternità, e poi abbiamo parlato di nome, significante e Altro.
R.C. Sì.
G.G. Quindi c’è stato un accostamento in questo senso, per cui il problema non è solo un dogma religioso, ma è linguistico. A me sfugge come dal Vangelo, che è la storia di Gesù, si riesca a arrivare attraverso una fiaba a conclusioni di questo genere, cioè a problemi che esistono su un altro piano.
R.C. Un altro piano, eh! Un altro pianeta. Qual è il piano? Qual è il piano su cui considerare le cose? Le cose devono stare sullo stesso piano? C’è un piano su cui le cose devono stare?
G.G. Esiste un ordine.
R.C. Ecco, l’ordine. Bravissimo. L’ordine non è un piano. Allora, secondo quale ordine occorre considerare le cose? C’è un ordine prestabilito? Non c’è.
G.G. La maggior parte degli ordini sono convenzionali.
R.C. Ecco, c’è un ordine convenzionale. Ma ci sono solo ordini convenzionali?
G.G. Alla fine si scelgono quelli più rispondenti.
R.C. Ah, si scelgono. E con quale criterio?
G.G. Il criterio come limite. Il più adeguato, il più aderente.
R.C. Il più aderente a cosa?
G.G. Alla realtà.
R.C. Realtà? Quale realtà?
G.G. Del mondo, la realtà individuale, sociale. I piani sono diversi.
R.C. Dunque, anche la realtà non è una sola? Più realtà, più piani, più ordini. E allora, in questa molteplicità, come stabilire quale sia l’ordine e quale sia il piano per considerare una cosa o un’altra? Cioè, se, come dice lei, non c’è un ordine canonico e non c’è un piano prestabilito, anche il Vangelo è da leggere, non è un testo sacrale, è un testo da leggere.
G.G. Da interpretare.
R.C. Non diffonde una verità già data, è un testo da leggere e, leggendo, può darsi il caso di trovare qualcosa.
G.G. Il senso.
R.C. Perché è un testo, è testo. Un testo fatto di frasi, di parole il cui ordine non è già dato, perché l’ordine non dipende dal testo, dipende dalla lettura “secondo” la logica. È questa la questione. Se l’ordine dipendesse dal testo, impossibile leggerlo; non è da leggere, ma da mantenere nel suo ordine e nella sua verità data. Ma, se invece l’ordine è dato dalla lettura, noi ci possiamo trovare tante cose leggendo. Sta qui l’interesse della cosa, sta qui la tentazione come tentazione intellettuale, tentazione da cui procede la lettura, dunque tentazione che non comporta nulla di negativo, né di per sé significa il desiderio. Ma questo lo vediamo magari fra poco.
Prego.
Pubblico Io non mi sono iscritto a questa serie di incontri. Ho visto il manifesto stasera e sono entrato subito. Siccome ho sentito puntare l’attenzione sul rapporto fra tentazione e desiderio, ho pensato a questo: si può concepire una tentazione associata al desiderio, che è in un certo senso conseguente al desiderio, così come mi sembra che lei abbia accennato alla tentazione senza desiderio. Io, personalmente, credo che Cristo, nel deserto, il desiderio di alimentarsi e di mangiare l’abbia provato. E quando il diavolo, Satana, si è avvicinato promettendogli di potere mangiare del pane, se avesse acconsentito alla trasformazione dei sassi in pane, è come se lui, in quel momento, lo stesse già provando il desiderio o comunque, anche per un solo momento, lo ha provato. Quindi, la sua, in quel momento, è stata una tentazione conseguente, strettamente associata a un desiderio, almeno in parte. Poi, credo che Cristo abbia potuto concepire altre tentazioni, dissociate dal desiderio.
R.C. Questo, però, è visto dalla parte di Satana.
Pubblico Anche dalla parte dell’uomo, dalla parte dell’umanità imparentata con quella di Cristo, perché Cristo è già Dio e anche un altro uomo, secondo la fede, se si ha fede. Comunque, questo è quanto vorrei sapere. Cosa ne pensa lei? Sicuramente Cristo ha affrontato tentazioni senza desiderio, ma, nel caso del deserto, il desiderio di rifocillarsi, di mangiare, c’era.
R.C. Qui, intanto, si tratta di stabilire se la fame possa qualificarsi come desiderio, il desiderio di mangiare. La fame è il desiderio di mangiare?
Pubblico No. Però, in conseguenza della fame è giocoforza concepire e sperimentare fisiologicamente il desiderio di mangiare, perché non è un’aspirazione soltanto mentale o culturale, ma è qualcosa di più. In definitiva, bisogna stare attenti a affermare che Cristo ha avuto solo tentazioni senza desideri, in quanto è molto più facile resistere alla tentazione senza desiderio, mentre è molto difficile resistere alla tentazione che si associ al desiderio. Per tanto, nel caso della tentazione associata al desiderio di mangiare, l’avere resistito a una tale tentazione, associata a non così poco desiderio, ha un grande valore, mentre resistere a una tentazione non associata al desiderio ha molto meno valore.
R.C. Se fosse vero che il desiderio è una proprietà della coscienza, cioè se fosse possibile sapere ciò che si desidera. Allora, sapendo ciò che si desidera, è possibile una gestione molto controllata delle cose.
G.G. Si desidera la felicità assoluta.
R.C. Chi? Tutti? Questo dovrebbe valere per tutti?
G.G. Quasi. In pratica, ci si accontenta anche di poco.
R.C. No! Non è vero. Nessuno si accontenta di poco, anzi. Ciò non vuole dire che questo sia il desiderio universale. La questione è che, innanzi tutto, noi non sappiamo. Non sappiamo! Non sappiamo nemmeno ciò che desideriamo, perché la struttura del desiderio non è data dall’enunciare: “Io desidero”. La formula “Io desidero” è quasi una negazione della struttura del desiderio, che è radicalmente inconscia, mentre l’enunciato “Io desidero”, vorrebbe imporsi come qualcosa che è controllato dalla coscienza.
G.G. La finalità del desiderio è il piacere.
R.C. Chi lo ha detto?
G.G. Si può desiderare qualcosa che non sia piacevole?
R.C. Un momento. Lei dice “La finalità del desiderio è il piacere” e poi anche “Non si può desiderare qualcosa che non sia piacevole”, mentre in precedenza ci siamo soffermati proprio su questa distinzione tra il piacere e il piacevole, perché il piacevole non è una proprietà del piacer. Il piacevole è una sorta di ricordo che dovrebbe consentire la riproduzione di qualcosa che c’è stato e che si vorrebbe fare ritornare. E il piacevole non è assolutamente detto che garantisca il piacere. Il piacevole non fonda il piacere e il piacere non è fondato sul piacevole. Lei può dire che qualcosa di cui ha fatto esperienza è risultato piacevole, ma nulla garantisce che quell’esperienza possa essere riprodotta. Chiaro? Come per altro è constatabile da ciascun gesto, da ciascun atto, da ciascuna cosa.
G.G. Allora cosa intende Lacan per “non cedere sul desiderio”?
R.C. “Non cedere sul desiderio”? Lacan? Bisognerebbe interrogarlo. Ma sa, come disse quel tale: “Il morto, interrogato, non rispose”.
Non cedere sul desiderio! Certo, occorre distinguere tra il piacevole e il piacere, tra il desiderio e il desiderabile. Occorre molta umiltà per non rischiare di costituire un ordine generale delle cose fondato su un animale fantastico creato sulla base di categorie preordinate che dovrebbero consentire di fare, di questo animale fantastico, l’esempio positivo, l’esempio cui dovere assomigliare, cui dovere ispirarsi, quasi da riprodurre. Questo animale fantastico cui ispirarsi, a cui ricondursi, nega il viaggio, toglie proprio l’istanza stessa del viaggio, perché sarebbe un viaggio a destinazione nota, a destinazione assegnata, a destinazione prescritta. È una variante del viaggio verso la morte, cioè del viaggio a destinazione nota, a destinazione comune, il viaggio “umano” per eccellenza, dove l’uomo è questo animale fantastico caratterizzato dalla morte certa.
Invece no, il viaggio non ha destinazione certa, come già ha indicato Ulisse.
G.G. Ma anche Gesù dice: “Io sono la via, la verità, la vita”.
R.C. Sì, ma con questo non dice che il viaggio deve rispondere a determinate modalità. Sì, dice che c’è la via, che c’è la vita, certo, che c’è la verità, d’accordo, ma non risultano prescritte. In ogni caso, anche questa formula è da leggere, non può essere presa e applicata. La questione clinica sta nel “noi leggiamo”, in ciò che noi leggiamo. La lettura, la lettura clinica, fa sì che il viaggio si svolga lungo vicende che non sono già stabilite e consente per altro al viaggio di svolgersi non secondo il canone convenzionale, ma secondo l’originario, secondo la particolarità di ciò che entra nel viaggio.
Sì, quest’accezione di viaggio è qualcosa che non è comune alla vulgata disciplinare, per esempio religiosa o civile.
C.M. Questo scarto è la differenza, la distinzione che c’è tra esempio e modello?
R.C. Sì, adesso atteniamoci a quanto si sta dicendo. Attenersi a quanto si sta dicendo, difficilissimo! Attenersi a quel che si dice, straordinario! Chi effettivamente riesce a attenersi, quindi a cogliere e a obbedire a ciò che si dice, a quel che si dice, alla notizia, alla novità che giunge dicendosi, in quel che si dice? Chi? Certo, non chi s’ispira a un ordine convenzionale o a un ordine prestabilito, perché non giunge nemmeno a ascoltare quel che si dice, tutto preso com’è dall’osservanza del canone. Tutto preso dall’osservanza del canone, chi ascolta quel che si dice? Figuriamoci, potrebbe addirittura contraddire il canone! Ci mettiamo a ascoltare? E se ciò che ascoltiamo è in contraddizione? No, no! Quest’osservanza è una cappa micidiale. Ma, dunque, l’attenersi a quel che si dice è qualcosa di originario che noi possiamo cogliere proprio leggendo il Vangelo.
Mi pare che la settimana scorsa parlassimo dell’annunciazione. Come viene intesa comunemente l’annunciazione? La struttura dell’annunciazione, come viene divulgata? L’angelo va da Maria e dice: “Avrai un figlio”. “Oh” – dice Maria – “non conosco uomo”. “Ebbene, avrai un figlio perché è opera dello Spirito”. “Ah, va bene” – dice Maria – “sia fatta la volontà di Dio” o meglio, precisa – e qui sarebbe da verificare bene il testo, perché è a questo che ci atteniamo, non al senso, ma al testo – “Avvenga di me ciò che si dice”. “Avvenga di me ciò che si dice”: eccola, l’annunciazione!
La struttura dell’annunciazione è questa, non già l’angelo che annuncia a Maria il suo destino. No, l’annunciazione sta in queste parole di Maria: “Avvenga di me ciò che si dice”. Questa è la struttura dell’annunciazione, una struttura non religiosa, ma la struttura logica dell’annunciazione. Struttura che è per ciascuno, non più solo per Maria. Per ciascuno che si trovi nel viaggio si tratta di questa annunciazione: “Avvenga di me ciò che si dice”, cioè l’avvenire. L’avvenire sta nell’ascolto di quel che si dice, quindi occorre l’ascolto. Occorre che le cose si dicano e che quel che si dice giunga fino all’ascolto, e oltre ancora. Intanto, fino all’ascolto.
G.G. È possibile l’ascolto passivo?
R.C. Passivo? L’ascolto non è che passivo.
G.G. Non è passivo l’ascolto?
R.C. Sì, è passivo. Come non è passivo? Lei prima dice “È possibile un ascolto che sia passivo?”. Io le dico di sì, e lei adesso dice di no!
G.G. Quando in natura bisogna misurare un fenomeno, la misura interferisce col fenomeno stesso.
R.C. Ecco, ma lei che accezione dà al termine passivo?
G.G. L’ascolto senza schemi.
R.C. Senza schemi, già…
G.G. Senza schemi preordinati, un ascolto che coglie la realtà nel suo svolgimento.
R.C. Quindi passivo! Senza schemi, cioè passivo.
G.G. Nell’annunciazione, quel che si dice fa riferimento a un plurale, quel che noi diciamo.
R.C. Sì, noi come indice dell’infinito, “noi” che mai è “noi due”. Noi.
G.G. Ma anche l’analista con l’analizzante.
R.C. L’analista con l’analizzante, ebbene, non sono “noi due”, non sono due, non fanno coppia. No. È importante, è importantissimo questo, perché nel dispositivo analitico non c’è coppia. Non c’è la coppia maestro e allievo, medico e paziente, sano e malato, servo e padrone. No! Questo schema nega ogni eventualità di analisi. Allora, una questione importantissima è il dispositivo. Ma il dispositivo della parola, come s’instaura? Quando? Lei dice, analista analizzante, ma questa è una formula lacaniana. Noi diciamo cifratore e cifrante, perché analista ha acquisito uno statuto sociale e non intellettuale, è diventato un termine professionale, dove, proprio in virtù dell’accezione professionale del termine, si riproduce la coppia servo e padrone nella varietà del medico e paziente. Lì dove l’ossimoro, cioè la contraddizione originaria si rappresenta in una coppia di contrari, in una coppia che fonda un’alternativa e che diventa il modello della relazione sociale, lì siamo assolutamente fuori dall’eventualità che avvenga l’analisi, che avvenga l’assoluzione.
Assoluzione! Analisi vuole dire assoluzione, scioglimento. È a partire dallo statuto dell’assoluzione che può instaurarsi l’ascolto, che qualcosa può giungere come novità, secondo una piega per cui quella cosa non significa il senso comune, il luogo comune, l’accezione comune, ma assume quella caratteristica, quella sfumatura che è propria in quel caso, in quel dettaglio, in quella circostanza e non partecipa di un dettato comune, del sapere comune, di una morale, di un canone, di un ordine prestabilito. Dunque, l’ascolto giunge a avere questo requisito per astrazione, ma non va da sé, non avviene per buona volontà.
G.G. Visto che siamo sull’argomento, in che cosa la cifrematica si distingue da quello che ha detto Lacan? In che cosa va oltre?
R.C. A lei coglierlo. Dovrei dirglielo io? Sta a lei coglierlo. Perché io dovrei vincolare la novità della cifrematica a qualcosa quando lei può coglierla in un’altra cosa? Perché dovrei io riassumere, localizzare, sostantificare qual è l’apporto, il contributo, la novità?
G.G. È una tentazione.
R.C. Esatto, certo. Sta a lei coglierla, sta a lei la lettura di questa scienza nuova, di questa esperienza nuova, di questa procedura nuova che si annuncia con la cifrematica. Certamente, ci sono molte differenze e distinzioni che si possono fare rispetto a quanto è stato già detto o scritto, cioè rispetto a ogni altro discorso che si ispiri a un principio di gestione e di controllo, ossia di padronanza dell’ordine delle cose, perché il viaggio si svolge e avviene secondo la logica particolare. L’ordine del viaggio è secondo la logica particolare! Non è che non ci sia l’ordine; l’ordine c’è, è secondo la logica particolare, secondo la particolarità della parola, che però non è già stabilito quale sia. Non sta a me dire quale sia. Occorre intendere procedendo dalla tentazione intellettuale e non da una morale, da una religione o da una superstizione da applicare. Possiamo dire che l’interesse del viaggio sta lì, procede secondo quest’ordine. Perché di un viaggio di cui si sanno tappe, modalità, destinazione, ebbene, quale sarebbe l’interesse? Sì, giusto come vacanza, giusto come alternativa a qualcosa, perché il viaggio, invece, è senza alternativa. Il viaggio originario procede senza alternativa, in direzione della qualità, in direzione, se vogliamo, anche del piacere, ma di cui ignoriamo le prerogative se non dopo averlo incontrato, non prima. Quindi, non secondo la tentazione diabolica: “Vai lì, fai questo! Il piacere è lì, è piacevole. Fai!” Questa è la tentazione sostanziale, la tentazione gnostica, la tentazione secondo il prevedibile, il calcolabile, il probabile, secondo la morte. No, la tentazione intellettuale è differente, cioè è tentazione che procede dall’ignoranza.
Mentre la fiaba sa, conosce e giustifica gli impedimenti, le remore e le riserve, il viaggio originario si svolge senza impedimenti, senza remore, senza riserve, dunque anche senza paura, ma a condizione di analizzare il materiale fiabesco, cioè il materiale che si pone come alternativa. Alternativa fra il bene e il male, fra il buono e il cattivo, fra la vita e la morte.
Ogni alternativa che si ponga, è l’indice del fiabesco, è l’indice che siamo nella fiaba, cioè nella presentazione, quella che Charcot chiamava la presentazione del malato e che, sulla scia di Charcot, Lacan ha proseguito con la presentazione del caso. Sia la presentazione del malato, sia la presentazione del caso indicano il fiabesco.
Il caso è impresentabile, perché non è mai risolto il caso. Il “caso” è caso di cifra, caso di qualità e può essere presentato solo secondo la modalità dell’anatomia patologica, come cadavere. La presentazione del caso è la presentazione del cadavere. L’unico caso presentabile è quello del cadavere, dove nulla può più avvenire. Ecco, può essere presentato il caso dove nulla può più avvenire, con il cadavere. Ma se noi abbiamo un testo, come quel testo può diventare cadavere, se lo leggiamo? Se noi ascoltiamo, come quel testo può essere cadaverizzato? Come può essere limitato nel suo contributo, nel suo apporto, nella sua tentazione, nella sua annunciazione?
Questa è la questione dell’analisi, e questa è la questione del primo colloquio analitico, dove avviene la presentazione del materiale fiabesco e dove si tratta, già nel primo colloquio, della dissipazione della superstizione gnostica, cioè della dissipazione dell’arroganza in base a cui ognuno si presenta come caso conosciuto, cioè si presenta come cadavere.
La chance del primo colloquio sta nella dissipazione di questa arroganza e nell’instaurazione dell’autenticità della domanda. Qualcosa prosegue se l’arroganza, non dico è totalmente dissipata, ma almeno incrinata; l’arroganza per cui ognuno si presenta come soggetto con le sue soggettività, con le sue consapevolezze, con i suoi convincimenti, con le sue superstizioni come irrinunciabili, negando dunque l’annunciazione.
Con la domanda, con l’annunciazione, può instaurarsi il dispositivo della ricerca, dell’analisi, del viaggio, anche dispositivo dell’impresa, dove si tratta del cifratore e del cifrante; ma non come statuti sociali, bensì come statuti logici, statuti intellettuali per cui può avvenire qualcosa d’originario, d’impensabile, d’imprevedibile, d’incalcolabile. Non possibile o probabile: incalcolabile!
La portata di Maria sta propriamente in questo. Maria, con l’annunciazione, inaugura lo statuto del cifratore: “Avvenga di me ciò che sta nella parola”, ciò che sta in quel che si dice. Ossia, è il cifratore che si dispone alla cifratura, alla ricerca, all’obbedienza. Obbedienza nella sua accezione clinica, cioè come disposizione all’ascolto. Questo indica l’obbedienza. Obbedire vuole dire udire innanzi tutto ciò che viene contro: contro ogni aspettativa, contro ogni previsione, contro voglia. Contro, ossia non padroneggiato. Questa è l’obbedienza che procede dall’udire. Occorre innanzi tutto udire per obbedire, e poi ascoltare. Ma perché ci sia udire occorre non ci sia sordità, arroganza, soggettività. Occorre vi sia l’angelo come condizione del dispositivo, l’angelo nell’accezione logica, non l’angelo con le ali.
Effettivamente, come lei aveva modo di precisare prima, la questione del dispositivo viene volta invece nella coppia. Ogni cosa viene accoppiata: servo e padrone, medico e paziente, maestro e allievo, marito e moglie. Le coppie. Ma, l’idea della coppia da dove viene? Da dove viene la prima coppia che poi dà modo a tante altre di seguirla? La coppia è già un’idea di alternativa. Se voi aveste letto la storia di Aladino, potremmo parlarne in modo più preciso, cioè risulterebbe chiaro come l’idea di coppia sia un corollario dell’idea di origine, che è l’altra faccia della fine.
L’alternativa è sempre fra l’origine e la fine, tra l’inizio e la fine. L’alternativa è sempre pensata rispetto alla fine, ogni alternativa si formula rispetto alla fine. Che cosa vuole dire questo? Che ognuno ha dinanzi a sé, costantemente, come suo destino la fine, e rispetto a questo si orienta. E ogni decisione, ogni scelta che viene presa è sempre come evitamento di una presunta fine, perché crede fermamente che ci sia la fine, che sia prescritta, ma che sia però evitabile. Evitabile! Ecco allora l’alternativa, la serie delle alternative, l’alternativa che procede dalla certezza della fine rispetto a cui viene scelto il male minore. L’alternativa è sempre fondata sull’idea del male da economizzare per potere scegliere il male minore, e questo è il fondamento psicoterapeutico.
Pubblico Un po’ come quando si va a votare.
R.C. Secondo l’ordine, secondo il canone di quel giornalista, Montanelli, che diceva che “Occorreva turarsi il naso”. No, noi possiamo andare a votare senza questo canone, senza questo principio del male minore, oppure anche non andare a votare. Non è mica obbligatorio. Se lei è convinto che deve scegliere il male minore, è sempre un male. Dunque, perché lei deve sempre indirizzarsi verso il male, se pure minore? Perché deve obbedire al principio psicoterapico dove si tratta sempre di conformarsi, adattarsi al male minore per risultare funzionali all’ordine costituito? No, non si può accettare la morte, non si può morire vivendo. Occorre vivere, occorre sbarazzare l’orizzonte da questo costante riferimento al male. Ma non è che ciò possa avvenire per volontà “Adesso decido che non credo più nel male”. No! Se questa credenza è instaurata, o è analizzata, dissipata, trova assoluzione, oppure si ripete. Si ripete, perché è chiaro che il canone ha una sua presa, fatta di fantasie, superstizioni, paure, riserve, remore.
Dicevamo anche della negazione della solidarietà. L’alternativa sorge negando la solidarietà, cioè negando la relazione originaria, che è la solidarietà. Quindi, non è la solidarietà con qualcuno o con qualcosa, perché allora diventerebbe complicità, accondiscendenza all’erotismo, accoppiamento. Instaurando la coppia diabolica vittima e carnefice, servo e padrone, medico e paziente, maestro e allievo non c’è l’approdo da nessuna parte. Ma se maestro e allievo e quant’altro giungono al dispositivo, alla struttura del dispositivo, allora giungono a instaurare l’interlocuzione lungo cui può svolgersi il viaggio. È un’altra cosa, è uno scenario senza alternativa, senza riferimento alla morte.
Ma come può avvenire ciò? Con il dispositivo della parola originaria. Questo è, se lei proprio vuole, il contributo, lo specifico della cifrematica: l’instaurazione del dispositivo della parola originaria, dove si tratta dell’idioma per ciascuno. Non dell’idiozia, ma dell’idioma, della lingua particolare. Ora, il bello è che il materiale della nostra conversazione di questa sera è vero che viene da trent’anni di esperienza cifrematica, però viene anche dal testo della storia di Aladino. È un vero peccato che non ci sia chi intenda leggerla per trarne indicazioni inimmaginabili. Certo, non fermandosi al fiabesco, ma questo in ciascuna conversazione. Se ci fermiamo al fiabesco, allora siamo nel pettegolezzo, a sentire i mali, le disgrazie, i consigli di come evitare questo, di come evitare quello. Non è facilissimo non rimanere invischiati nei pettegolezzi.
Volevo parlarvi questa sera del matricidio, del parricidio e di altre cose, però qualcosa abbiamo pure affrontato. Ci sono altre domande?
C.M. La volta scorsa lei ha letto un capitolo del Genesi e ha parlato del figlio genito; poi ha posto la questione di cos’è la nascita. Penso che la nascita sia un proseguimento di questo…
R.C. Sì, altre domande? Abbiamo parlato un’ora questa sera, ci sono domande sullo specifico di questa sera senza dovere andare in cerca di quello detto un secolo fa? Se ne ha le faccia, altrimenti lasciamo che facciano altri. C’è un testo. Questa sera c’è un testo. Leggiamolo! Questa idiosincrasia per la lettura si può affrontare! Intellettualmente, si può affrontare, perché è chiaro che c’è un’idiosincrasia per la lettura, è evidente. Tutto il discorso occidentale è un’idiosincrasia per la lettura e tutto ciò che ne segue è il corollario di questa idiosincrasia, che è a favore del conformismo. Ora, non è mica una novità, si tratta solo di non accettarla, intellettualmente dico: la non accettazione intellettuale. Questo è importante, che quindi non vuole dire la lotta armata. La non accettazione intellettuale vuole dire l’indagine intellettuale, la ricerca, l’analisi, l’assoluzione in direzione della qualità per non fare della vita un matricidio perenne, un infanticidio costante. Eppure, ce l’abbiamo dinanzi agli occhi che cosa vuole dire l’osservanza del canone occidentale.
C’è giorno in cui i giornali, le radio, le televisioni non ci presentino il caso dell’infanticidio? Passa giorno? No, non passa, perché questo è il paradigma del discorso occidentale, è il memento del discorso occidentale, per cui, pure nell’esecrazione, nella mortificazione, nell’avvilimento, nell’abbattimento, tuttavia occorre che venga presentato, perché è il paradigma. Sarebbe da sorprendersi se ci fosse un giorno senza il caso del matricidio, senza il caso dell’infanticidio, senza il caso dell’omicidio o senza il caso del suicidio, che è sempre la stessa cosa presentata in modi differenti! È sempre la stessa cosa. A alcuni dà fastidio, a altri un po’ di più, a altri un po’ di meno, uno non capisce come mai a alcuni evoca paure e a altri no. Ma chi fa l’analisi di ciò per non aderire a questo canone, anche nella formula dell’anticonformismo che è l’altra faccia dell’adesione? Perché è sempre adesione.
Dunque, non si tratta né di conformarsi né di anti conformarsi, ma di capire, d’intendere intellettualmente. Intellettualmente, cioè secondo la particolarità. La particolarità sta in ciascun atto, però occorre accorgersene e non rimanere adesi al fiabesco, alla presentazione di sé come di un caso conosciuto. Ogni presentazione di sé o dell’Altro è la presentazione del malato di Charcot, che per quell’epoca era una cosa clamorosa, sensazionale, sfatava alcune superstizioni. Ma oggi, attenersi a quel modello, oggi che non siamo più in quell’epoca… Oppure siamo in quell’epoca? Questa è la questione. Ma vi vedo provati, molto provati!
Pubblico Posso dire una cosa?
R.C. Prego.
Pubblico Lei ha affermato che essere in viaggio verso una meta conosciuta equivale all’essere in viaggio verso la morte. È vero?
R.C. Sì.
Pubblico Non c’è soltanto questa valenza, secondo me, perché non è detto che il fatto di conoscere la meta voglia dire che la meta è una meta di morte. Può essere anche una meta di vita.
R.C. Sì, questa è la doratura della pillola. La doratura della pillola passa attraverso questa considerazione, nel senso che mantiene l’alternativa fra il bene e il male e volge la fine come fine rivolta al bene. Ma è la doratura della pillola, nel senso che non incrina di niente la logica dell’alternativa. Il finalismo positivo non è per nulla differente dal finalismo negativo, è sempre finalismo, cioè è sempre qualcosa che accetta la fine. La finalizzazione è una forma di accettazione della fine. Che poi questa fine si presuma di rivolgerla al bene piuttosto che al male…
Pubblico Sempre fine è.
R.C. Certo, perché il principio della dicotomia, cioè della dicotomia fra il bene e il male è mantenuto, questa è la questione. Allora, o effettivamente s’instaura l’apertura, l’apertura senza alternativa, l’apertura da cui le cose procedono – e allora la direzione non è verso il bene o verso il male, ma è direzione verso la qualità del viaggio – oppure si tratta sempre del cerchio che deve ritornare al punto di partenza, che deve volgersi verso il bene, il bene conosciuto. Ma l’unica cosa conosciuta è la fine, e allora è il cerchio tra l’origine e la fine, è il cerchio della destinazione conosciuta.
Pubblico Quindi l’alternativa, secondo quello che lei afferma, non procede verso la fine, ma è superare la dicotomia fra il bene e il male?
R.C. Certo.
Pubblico E dunque bisogna andare al di là del bene e del male, come proponeva Nietzsche, in un certo senso? Qualcosa di simile?
R.C. Non al di là del bene e del male, ma dell’alternativa fra il bene e il male; che poi non è neanche un al di là, nel senso che bene o male non stanno davanti a noi, perché se stanno davanti a noi sono sempre indice del finalismo. Cioè, bene-male è un ossimoro, è una contraddizione. Questa contraddizione è intoglibile e è proprio perché c’è che può avvenire l’annunciazione e può avvenire il viaggio! A partire dal bene-male come apertura, qualcosa può cominciare a qualificarsi. Questa è la questione: non si può scegliere tra bene e male.
Bene e male non sono oggetto di scelta, ma il canone occidentale ha fatto del bene e del male qualcosa che si può scegliere, anzi, addirittura un titolo di merito nello scinderli, togliere il male e ammantarsi di tutto il bene, come se fosse noto, conosciuto, come se ci fosse la conoscenza del bene. Ma allora il mito della cacciata non vi ha detto niente. Non lo avete letto! La conoscenza del bene e del male comporta la cacciata dal giardino! Cioè che non c’è più il viaggio, che la conoscenza, la presunta conoscenza, l’idea di conoscere il bene e il male toglie il viaggio; è già la morte. Questo dice il mito della cacciata. La presunzione di conoscenza nega il viaggio, impedisce il viaggio. Postulare la conoscenza toglie il viaggio.
Pubblico Sì, perché sarebbe equivalso per l’uomo a elevarsi, a diventare come Dio, simile a Dio. Mangiare dall’albero del bene e del male avrebbe comportato sfidare Dio.
R.C. Sì, ma la lezione è che questa conoscenza presuntamente acquisita comporta che il giardino, il giardino dell’occorrenza, il giardino del viaggio non c’è più.
Pubblico C’è una caduta, una conseguenza.
R.C. Sì. Poi, sono metafore.
Pubblico Volevo aggiungere che, forse, andando avanti si potrà sempre più abbandonare l’idea del perdente che va giù, l’alternativa tra il bene e il male, e si potrebbe sempre più parlare di morte-vita o potremo sempre più parlare di morte-vita. Forse è più congruo con la nostra realtà.
R.C. Ecco, morte-vita, esatto. Questo è molto interessante, perché la questione è proprio la questione di vita o di morte: per ciascuno, la questione è la questione di vita o di morte rispetto a cui non si può mica scegliere! A partire dalla questione di vita o di morte c’è da andare, c’è da fare, c’è da vivere.
Pubblico Sperando che proceda verso…
R.C. Non sperando! Se lei già dice sperando, ecco allora che la riserva, la remora, la superstizione hanno già messo un piede dentro al viaggio, perché vuole dire che la questione di vita o di morte è già nel compromesso. “Speriamo che” è già nel compromesso, abbiamo già il male davanti, un orizzonte fosco in cui bisogna “sperare che”, e allora, ecco il compromesso, l’evitamento, l’apparato di contenzione. Occorre analizzare le riserve perché il viaggio non risulti contenuto tra le maglie delle riserve o delle remore o delle superstizioni, perché, apparentemente, nessuno o pochi ammettono di avere qualche superstizione, qualche riserva. Ma anche chi ammette di avere una superstizione o una riserva, la sua superstizione non sta dove crede che stia.
Pubblico Sant’Agostino quando ha detto “Ama e fa ciò che vuoi” ha detto una cosa molto grande e molto bella, se riuscissimo a farla. O no? Perché in quel “fa ciò che vuoi” ha eliminato completamente ogni apparato, ogni regola.
R.C. Ecco. Però dobbiamo leggere in questo caso Sant’Agostino con Machiavelli, quando dice che “Il popolo che fa ciò che vuole è pazzo, il principe che fa ciò che vuole non è savio”.
Pubblico Adesso è tardi…
R.C. Esatto. Quindi lo riprendiamo la settimana prossima.
Mamma la paura: il matricidio, l’aborto, l’infanticidio
Ruggero Chinaglia Ci sono domande rispetto alla volta scorsa, o alle volte precedenti, o rispetto alla lettura in corso? Perché è in corso la lettura, vero? Chi non ha in corso la lettura ha assolutamente torto. Provi a giustificarsi con se stesso, se riesce, ma sappia che ha torto. Perché noi, leggendo questa storia stiamo facendo acquisizioni incredibili, cose che non avevamo previsto di acquisire. Quindi, noi che leggiamo, acquisiamo, e chi non legge ha torto, ha torto a non leggere. D’altronde, abbiamo accennato giovedì scorso perché il canone occidentale è contrario alla lettura. E così, giustamente, ognuno si attiene al canone; ossequioso, ossequiante, osservante, si attiene e non legge.
La lettura non è cosa facile, certamente, per la lettura è essenziale l’analisi e poi la clinica. Avvenuta l’analisi, con la clinica e con la scrittura, la lettura consente di capire e d’intendere di cosa si tratti nel testo. Senza questo dispositivo, chi può capire e chi può intendere? L’esperienza cifrematica è un’esperienza testuale, in quanto di ciò che entra nell’esperienza, importa appunto il testo, la sua analisi, la sua lettura. Anche la memoria è testuale. La memoria è testo, testo di ciò che tende a scriversi e si scrive.
Per non vivere di ricordi, per non vivere di impressioni, di rimemorazioni, per non vivere di passatismi, occorre che la memoria si scriva e, mentre si scrive, esige la lettura. La memoria non è un deposito, un recipiente, un calderone o un pozzo; la memoria sta nel processo intellettuale che esige l’analisi, la lettura, la scrittura, l’intendimento, la cifratura, la comunicazione.
Il testo è lì per leggerlo, perché sia letto, perché ne avvenga la lettura, perché così facendo entri nella memoria. Non per essere ricordato, né per essere consacrato. Quando dico testo, non alludo a un testo sacro, ma al testo di ciascuna conversazione, di ciascun incontro, di ciascun avvenimento; è il testo di quel che accade per ciascuno, il testo di ciascun racconto. Come intendere quel che si dice, quel che ciascuno dice e quel che altri dice senza questo processo? Come leggere il testo di chi narra, di chi racconta?
Non si tratta di mettersi nei panni altrui per immaginare quel che può essere accaduto. Così non si capisce niente e si fa un torto al racconto e al testo. Già ognuno fatica a stare nei propri panni, figuriamoci mettersi in quelli altrui; proprio un assurdo, sempre che si tratti di panni. Ma si tratta, invece, del testo, quindi della parola, del modo in cui le cose si dicono e si scrivono. Non si tratta tanto di chiedersi cosa avrà voluto dire, perché nessuno dice quello che vuole dire, e quello che importa non è ciò che x vuole dire, ma quello che si dice, qual è il racconto, qual è il testo del racconto oltre le intenzioni, oltre le buone o le cattive intenzioni.
È chiaro che la lettura del testo, anche del testo di ciò che si dice, avviene nel malinteso. Per questo il canone occidentale aborrisce la lettura, perché, leggendo, ciascuna cosa si espone al malinteso. Ma è proprio lì che sta la questione della verità, che procede dal malinteso!
Pubblico Non è un malinteso, è un modo per esprimere una verità da più punti di vista, perché io posso intendere una cosa e un altro ne intende un’altra, però l’oggetto di discussione è quello. Quindi, non è un malinteso, è un esprimere una propria verità. Se io leggo Shakespeare, per esempio l’Amleto, per me Amleto in qualche modo rappresenta lo stesso Shakespeare, è una trasposizione dello stesso Shakespeare. Però, mi dà anche altre cose che mi fanno riflettere e che, in qualche modo, assomigliano a me. E quindi non si espone al malinteso per me, perché quella verità, che Shakespeare ha espresso attraverso Amleto, corrisponde a quello che penso io.
R.C. Sì, questo può essere un aspetto accomodante.
Pubblico È un modo per leggere.
R.C. Perché è ancora più inquietante trovare qualcosa che non ci si aspetta di trovare, che non sta nella “nostra” verità.
Pubblico Sicuramente. Quando Amleto dice “Essere o non essere”, io non mi aspetto quelle parole, però le trovo e rifletto. Mi inquietano queste parole, perché mi fanno pensare alla morte. Qui ritorniamo al viaggio di cui si parlava qualche tempo fa. Io non mi aspetto di trovare quelle parole, però ci sono e devo analizzarle. Quelle parole mi costringono a vedere com’è la realtà che Shakespeare ha rappresentato, perché in qualche modo è quello che vedo io. È questo il motivo per cui si predilige un autore piuttosto che un altro, perché in qualche modo ci assomiglia quello che dice.
R.C. Sì, ma questa non è ancora la lettura.
Pubblico E qual è?
R.C. Non bisogna avere fretta.
Pubblico Per me la lettura è anche riuscire a leggere tra le righe.
R.C. Esatto, è questo sopra tutto. Allora, leggendo tra le righe il testo, e anche Amleto non è più il testo di Shakespeare.
Pubblico È il mio. Sarà presuntuoso, però è il mio.
R.C. È il suo testo.
Pubblico Perché, come diceva Troisi, la poesia non è del poeta ma è di chi la dice.
R.C. Vede che anche Troisi diceva qualcosa di interessante? Ma prima di lui, altri, no? La questione è proprio così. È per questo che il testo non appartiene a qualcuno, nemmeno a chi lo legge. Nemmeno il “proprio” testo è proprio, nel senso che, a un’ulteriore lettura, è un altro testo ancora. Questo è il processo intellettuale, dove il testo, leggendolo, analizzandolo è sempre Altro.
Pubblico Dipende dallo stato d’animo che si ha nel momento in cui si legge se si vedono le cose in maniera diversa. Se io leggo Leopardi adesso, a questa età, non mi dà più l’effetto che mi dava quando ero adolescente, anzi, lo critico pure perché non mi piacciono le sue idee. Mi piacciono le sue poesie, sono belle, però io non sono più quella di prima per cui non posso viverle […]. Quindi, c’è anche il tempo, oltre allo stato d’animo, che ci permette di vedere le cose e di leggere la stessa frase, lo stesso verso in maniera diversa.
R.C. Chiaro, ma se lei lo leggesse con lo stesso stato d’animo, per dire così, potrebbe accadere d’incontrare Altro. Perché è una questione di tempo. Per cui lo stato d’animo non è mai “stato” e, intervenendo il tempo, la lettura, quello che io leggo, quello che lei legge, quello che si legge, differisce e varia. Ma non automaticamente, bensì nel processo di cifratura, nel processo d’intendimento, di qualifica delle cose che si leggono; sopra tutto se ciascuna cosa viene colta nella sua particolarità e nella sua qualità. Particolarità e qualità.
Quel che lei dice parlando, cos’ha da invidiare a Shakespeare o a Leopardi se lei non si lascia andare al gergo? Anche ciò che lei dice è poetico. Però questo è scarsamente praticato, perché il gergo per lo più prevale, c’è una prevalenza del gergo, di quella che viene ritenuta una lingua comune per capirsi e per comprendersi meglio. Allora accade che, con questo miraggio di capirsi, di comprendersi e di comunicare tra noi, ognuno parla facile, parla gergalmente, si lascia andare al gergo. E in questo caso veramente la comunicazione è tolta, il testo è tolto, perché il gergo cancella il testo, toglie la poesia, toglie il colore, la sfumatura, toglie la particolarità a favore dello slogan, della frase facile, del senso comune. Il senso comune, il luogo comune, sono fatti di gergalità.
Pubblico Una lettura di superficie.
R.C. No, la superficie è qualcosa di straordinario. Che cosa avrebbe la superficie di negativo? Dove dovrebbero stare le cose se non sulla superficie?
Pubblico Ma se la superficie è vuota.
R.C. No, perché la superficie dovrebbe essere vuota? Questo, per esempio, è un luogo comune: che ci sia la superficie come indice della banalità, e il profondo come indice di qualcosa di importante. La contrapposizione tra superficie e profondità da dove viene? È stata analizzata? L’idea di profondità è stata analizzata? Questa sorta di sinonimia tra profondo e importante, significativo, è stata analizzata? Perché spesso accade di udire “Ha detto delle cose profonde”, “Nutre un sentimento profondo”, “È una verità profonda”. Perché la profondità sarebbe rafforzativa del valore?
Pubblico Perché secondo me lì c’è il mistero. Mi fa pensare al mare, alla superficie del mare e a tutto quello che c’è dentro. Noi vediamo solo la superficie, e solo i subacquei possono vedere quello che c’è in fondo al mare, nel profondo. E quindi, ciò che non vediamo è profondo e misterioso, e è affascinante per questo.
R.C. È affascinante la profondità?
Pubblico Sì.
R.C. Perché consente di fare un fascio: o di ogni erba un fascio o di ogni fascio un’erba. Questa è la fascinazione, il fascino, il fascio. Ma, il fascino viene dal fascio, il fascino è un modo del fascio. Fascio di cose. Il fascio impedisce di cogliere ciascuna cosa nel suo valore.
L’idea di profondità è un’idea romantica, un’idea gnostica. Jung era amante della profondità, la profondità dell’inconscio, la profondità del pensiero, i pensieri profondi. Ciascuna questione è questione di superficie, superficie come apertura e superficie come squarcio. È questione di relazione e di tempo. E non c’è profondità nel tempo!
L’idea di profondità è un’idea d’origine. Quanto più profonda tanto più la cosa sarebbe vicina all’origine, alla sua vera origine! E questa è la questione gnostica. È la questione della localizzazione, della ricerca dell’origine che dovrebbe rivelare la verità sul destino. Una volta chiarita l’origine, risulterebbe chiaro anche il destino.
Ma questa è una superstizione che ha origine nella gnosi ebraica, cristiana, islamica; varie forme di gnosi che concorrono a mantenere questa superstizione che è, a un tempo, superstizione dell’origine e superstizione della fine. L’idea è che, chiarita l’origine, si chiarirà anche il destino, cioè verrà istituito il cerchio totalmente chiaro. E questa è una superstizione.
Pubblico Può essere anche un credo.
R.C. Sì, è la stessa cosa.
Pubblico Un punto di vista.
R.C. Sì, avere punti di vista è una superstizione, è un modo di affezionarsi a qualcosa ritenuta positiva, tale da costituire un postulato, cioè un fondamento. Il logos come discorso di padronanza, il canone occidentale sorge stabilendo alcuni postulati, dichiarandoli i migliori che ci siano, affezionandocisi, e partendo da lì per stabilire che cosa è vero e che cosa è falso. È questo il canone occidentale, e è importante che sia emerso con questa chiarezza, perché magari può sembrare una cosa difficilissima, astrusa, che riguarda solo gli altri, o solo i filosofi, o solo i matematici, o chissà chi. No, riguarda ognuno che si affeziona a uno o più postulati, ossia a un credo. Che lo chiamiamo credo, che lo chiamiamo punto di vista, è la stessa cosa.
Pubblico Scusi, è anche la necessità di mettere ordine nel caos. L’uomo ha sempre avuto bisogno di ordinare per, in un certo senso, non essere vittima, per dare a qualcosa un senso e quindi chiamare le cose con il loro giusto nome, e mettere ordine nelle cose.
R.C. Quindi siamo a Platone. Il caos era l’ossessione di Platone. Ma noi dobbiamo adeguarci a Platone? Anche perché caos è ordine, il temine caos indica l’ordine.
Pubblico Cioè, se noi diamo tesi, antitesi, sintesi…
R.C. Ecco, se noi entriamo in questa gabbia siamo nella gnosi!
Pubblico La filosofia hegeliana ha dato un significato, una svolta sicuramente.
R.C. E siamo proprio nella gabbia, no?
Pubblico Tesi, antitesi e sintesi per cui tutto o niente, niente o tutto, cioè si torna al circolo.
R.C. Non si tratta di ordinare l’ordine, ma d’intenderlo. Lei dice che c’è il caos originario dove le cose accadono e si dispongono, e noi dobbiamo ordinarle. No, noi dobbiamo leggerle, dobbiamo intendere l’ordine che c’è già. È impossibile ordinare l’ordine, a meno d’istituire un meta-ordine, cioè un canone con il quale impedirsi d’intendere ciò che c’è di originario in quel che accade.
La difficoltà è proprio l’ascolto secondo l’ordine originario, senza pretendere di “ordinare l’ordine originario” in un ordine convenzionale, gergale, canonico, ma che non è più l’ordine originario, che non è più l’ordine della parola, per un’intesa, una relazione tra persone dove ci deve essere un canone comune, un codice al quale fare riferimento che deve essere oggettivo, deve essere quello.
Pubblico Ma per una così detta interpretazione, per un’intesa nel linguaggio della comunicazione, per una relazione tra le persone, ci deve essere un canone, ci deve essere un comune canone, appunto un codice al quale fare riferimento che deve essere oggettivo, che deve essere quello, se no, uno può interpretare soggettivamente.
R.C. No, non soggettivamente. Se accadesse come dice lei…
Pubblico Se io sono italiana e parlo con un italiano, abbiamo un linguaggio comune che è la lingua italiana a cui fare riferimento, mentre se io parlassi con un inglese e non sapessi una parola d’inglese…
R.C. Restiamo all’italiano.
Pubblico Se abbiamo una lingua comune…
R.C. Ecco, non è in comune!
Pubblico Non è in comune, dice?
R.C. Per nulla! Infatti, se lei legge un testo può fare un’interpretazione di ciò che ha letto, letterale o secondo determinati riscontri, poi confrontare con la lettura di altri e constatare che non c’è nulla di comune, che lei ha inteso alcune cose in un modo, altri in un altro e che non concordano in niente. Eppure, si tratta sempre dell’italiano, si tratta sempre dello stesso testo, però lei ha inteso una cosa, altri un’altra. E questo è quel che accade parlando in una lingua che non è per nulla comune. Viene presunta comune ma non lo è. E ciò che lei chiama soggettivo – prima diceva che ci sarebbe il rischio di un’interpretazione soggettiva – è un’interpretazione libera, non soggettiva. L’interpretazione soggettiva sarebbe quella accomunante, cioè quella che prescrive che parliamo tutti la stessa lingua. Questa è l’ipostasi soggettiva, assoggettivante. Ma la parola non è soggettiva, è libera.
Questa è la questione straordinaria come questione intellettuale. L’ordine della parola è che la parola è libera e si tratta d’intendere quello che si dice nel suo testo e nel testo di altri, quello che liberamente si dice. È questa libertà che esula dal canone e che il canone cerca di espellere.
Pubblico Sì, ma ci vuole la volontà di comunicazione per cui, se io ho voglia di farti capire, comunicherò in maniera chiara, distinta, o leggerò un testo insieme a un’altra persona, cercherò qualcosa in comune, una lettura comune, cioè la volontà di capirsi, di relazionarsi; sicuramente. Diversamente diventa ermetica, cioè potrei essere un tipo ermetico e fare una lettura tutto sommato nascosta. Interpretare e non volerlo comunicare, insomma, dipende dalla volontà. Penso di leggere in comune con altri, di leggere la stessa cosa, di capire la stessa cosa. In questo ci può aiutare la critica, perché se io mi affido a un libro, leggo una poesia con il suggerimento che la critica mi fa, sicuramente sono un po’ schiava, cioè come diceva lei prima, devo per forza affidarmi a quello che mi suggerisce e non ho una mia giusta lettura del testo, sono per così dire forzata nell’interpretare quella poesia, quel testo.
R.C. Ma perché lei dice che la comunicazione esige la volontà, che sarebbe una conseguenza della volontà di comunicare? In che senso ci sarebbe questa volontà prima, come volontà di comunicare, come volontà, lei diceva, di leggere tutti la stessa cosa?
Pubblico A meno che non vi sia qualche patologia, nel linguaggio…
R.C. Ecco la questione: la patologia! Cosa sarebbe, secondo lei, la patologia?
Pubblico Sicuramente, nelle afasie, si può avere una comprensione, una espressione diversa dalla maggioranza delle persone, perché, avendo una lesione nei centri del linguaggio, sicuramente la decifrazione, quel processo che ci sta dietro, può essere distorto.
R.C. Eppure questa tesi, che risale al periodo tra la seconda metà e la fine dell’Ottocento, è stata contraddetta già nel 1889 da Freud, quando ancora faceva il ricercatore in un istituto di anatomia, e ha scritto un opuscoletto confutando la tesi di quelli che allora erano i luminari dell’epoca, Meynert, Charcot e altri che avevano formulato questa tesi dell’origine focale dell’afasia.
Freud ha constatato, con studi appropriati, citando casi specifici, che l’afasia non segue la teoria dell’origine che “a lesione uguale corrisponde afasia uguale”. Cita il caso di afasie senza lesione, di afasie di un tipo mentre se ne aspetterebbe di un altro, perché c’è la lesione di un centro che dovrebbe dare un’afasia o una parafasia di un certo tipo, e invece si riscontra un sintomo di tutt’altro genere. Quindi, già da allora noi possiamo constatare che non è così, che il rapporto positivista causa-effetto non può costituire il fondamento del discorso così detto scientifico, e che anche la così detta patologia, che talvolta viene citata per introdurre il limite del discorso, il limite della logica, non tiene. E è proprio quello che accade in ogni settore.
In ogni settore è introdotto il “patologico” per indicare il limite entro cui bisogna stare! Ma questa non è la prova della validità o della veridicità del metodo, è solamente la prova dell’adesione alla finitezza del metodo per cui, al di là di un certo limite è posta l’eventualità dell’anormale, dell’anomalo, del patologico. Il patologico sarebbe ciò che farebbe eccezione all’ordine costituito preso a canone, a esempio. Ma non avendo noi un ordine da difendere, possiamo indagare il “patologico”, l’anomalo, e intendere l’ordine dell’anomalo senza dovere classificarlo come patologico e respingerlo, bensì intendendo qual è in quel caso, la logica secondo cui le cose si dispongono.
Chiaro che è un’indagine difficile, ma è proprio lì, nelle pieghe dell’ordine che sta la questione clinica e anche la questione poetica come questione non canonica. Perché una tale paura di ciò che esula dal canone? Perché una tale paura dell’anomalia da dovere costruire tutta questa serie di luoghi comuni, di punti di vista, di ipostasi, di steccati, per bandire tutto ciò che sarebbe indice di anomalia? Perché questa paura? Ognuno può anche provare a interrogarsi e a rispondere.
Pubblico Se non ci fossero dei punti di vista, delle opinioni, saremmo degli animali, saremmo puro istinto.
R.C. Puro istinto. E che cos’è il puro istinto?
Pubblico Quello dell’animale. Reagisce, cioè pensa e agisce senza riflettere.
R.C. Cosa fa l’animale?
Pubblico L’animale in genere pensa e poi agisce senza riflettere.
R.C. Quindi pensa.
Pubblico Agisce direttamente, aggredisce se è il caso.
R.C. Quindi lei teme di essere confusa con un animale?
Pubblico Sì.
R.C. Da parte di chi?
Pubblico In base a quello che lei sta dicendo.
R.C. Dunque, per differenziarsi e distinguersi dall’animale, lei che cosa deve fare? Avere punti di vista?
Pubblico Sì, certo. Ragionare.
R.C. Ah, ragionare!
Pubblico Esprimere il proprio punto di vista, esprimere delle idee, perché è con le idee che uno va avanti, secondo me, per cui differisce dall’animale. Ma sono mie idee.
R.C. È curioso, io non ho mai seguito la discriminante di dovere aderire a qualcosa per distinguermi dall’animale. È una cosa che mi devo impegnare molto per capirla. Lei dice che, intellettualmente, c’è questo pericolo?
Pubblico Quella è l’essenza di quello che lei sta dicendo.
R.C. Quindi, noi abbiamo come missione quella di distinguerci dagli animali?
Pubblico Non so se è una missione o no, però…
R.C. Perché ci sarebbe il pericolo di essere animali.
Pubblico Gli eventi forse ci danno delle dimostrazioni che ci avviciniamo troppo agli animali.
R.C. Dunque, l’animalità. Si tratta di evitare l’animalità.
Pubblico Perché no?
R.C. Lei come qualificherebbe l’animalità?
Pubblico La guerra è animalità.
R.C. La guerra? Lei ha visto un esercito di animali?
Pubblico Sì.
R.C. Dove?
Pubblico In guerra.
R.C. No, sono uomini. Non si è mai visto, a parte in qualche poema, un esercito di animali. Solo gli uomini istituiscono gli eserciti.
Pubblico Secondo certe teorie evoluzionistiche, sicuramente noi abbiamo un minimo di origine comune se è vero che deriviamo dalla scimmia, ciò più o meno, perché c’è chi lo contesta e chi sicuramente ha altre teorie. Ma se badiamo a Darwin, allora partiamo dall’idea di un comune antenato, e progredendo, evolvendo, se pensiamo al sommarsi delle esperienze e del progresso, da quello arriviamo all’uomo.
R.C. Perché dovremmo badare a Darwin?
Pubblico Per l’origine. Se non possiamo pensare che siamo tanto diversi, la base sicuramente, il substrato comune c’è.
R.C. Substrato comune?
Pubblico Non per questo dobbiamo regredire e ritornare…
R.C. No, dobbiamo sempre progredire, no?
Pubblico Dobbiamo, speriamo almeno di andare il più possibile avanti.
R.C. Quindi, lei sostiene che l’idea di progresso comprende quella di animalità?
Pubblico Sicuramente la comprende e, se possiamo dire, la supera e predomina.
R.C. La supera?
Pubblico La supera, sicuramente. Se noi guardiamo nell’evoluzione, dalla scimmia in progressione arriviamo poi al bambino, all’uomo. In tutto c’è una progressione, quindi un aumento, sotto tutti i punti di vista, di sviluppo, di progresso. Insomma, c’è un filo conduttore che però va più avanti e progredisce.
R.C. C’è un’altra mano alzata, prego.
Pubblico Volevo dire che, in un certo senso, io da una parte invidio gli animali, perché, nella loro semplicità, penso siano gli esseri più liberi che ci possano essere, pure nella loro schiavitù, perché nel loro “puro istinto” non hanno freno alle loro pulsioni, agiscono in base alla loro pulsione. Diversamente, l’uomo è dotato di un’infinita rete di apparati nervosi e ha sviluppato un’intelligenza che gli ha permesso, a differenza dell’animale, di avere la capacità di scoprire i vari processi naturali che, seppur visibili agli occhi di tutti, però non tutti riescono a capirne il senso e, scoprendo man mano i vari processi naturali, di diminuire la nostra dipendenza dai fattori naturali. Per esempio, in caso di cataclisma l’animale è completamente soggetto a questo, mentre l’uomo, avendo scoperto cosa lo può causare, sapendosi regolare, può intervenire per salvarsi la pelle. Ecco, chiamiamolo progresso.
R.C. Mi sembra che lei abbia toccato effettivamente la questione nodale. L’uomo, lei dice, può attuare accorgimenti per salvarsi la pelle. Quindi, quello che caratterizza l’uomo rispetto all’animale è l’idea di mortalità. L’animale ignora la mortalità, l’uomo invece ne è schiavo. Questo mi pare che lei dica, no?
Pubblico Non penso che ci possa essere un paragone.
R.C. Non è un paragone, è una precisazione. Lei dice che l’uomo può, differentemente dall’animale e grazie all’intelligenza, attuare accorgimenti per salvarsi la pelle.
Pubblico Ma è quello che avviene.
R.C. Dunque, questo avviene in quanto c’è l’idea che la pelle sia in pericolo, no? Se vive nel pericolo di morte c’è l’idea di mortalità, giusto?
Pubblico Evidentemente sì.
R.C. Che non c’è per l’animale. Questa è la schiavitù umana!
Pubblico Non intendevo dire proprio questo.
R.C. No, lei non intendeva dire questo, però, tra le altre cose, ha detto anche questo. Lei non intendeva dirlo, non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura, però così ha detto, suo malgrado. Contrariamente al canone cui lei si ispira, questo ha detto.
Pubblico Allora faccio delle precisazioni.
R.C. Questo è un esempio indicativo di quanto dicevamo poco fa, e cioè che non parliamo né la stessa lingua, né la lingua comune, né parliamo per volontà, né seguendo le intenzioni. L’ordine della parola contraddice anche le migliori intenzioni umane a tal punto che, parlando, contraddiciamo l’idea da cui siamo partiti e affermiamo qualcosa che era al di fuori della previsione. Questo avviene parlando, che lo ammettiamo o no. Può accadere, dunque, di decidere di ascoltare quel che si dice nostro malgrado, oppure di fare orecchie da mercante. Allora, facendo orecchie da mercante, lei può correggersi e precisare. Prego.
Pubblico Precisavo che, mentre l’animale occupa gran parte del suo tempo esistenziale a soddisfare le sue pulsioni principali, quindi a procurarsi il cibo e un posto dove stare, l’uomo, grazie indubbiamente alla sua intelligenza, è riuscito a ovviare a certi bisogni primari, per esempio quello di procurarsi il cibo.
R.C. Lei non si procura il cibo?
Pubblico Io sì, ma non devo lottare.
R.C. Non deve lottare?
Pubblico Non come un animale. Il tempo che l’animale dedica ogni giorno a procacciarsi il cibo, io posso impiegarlo, grazie al progresso che la civiltà umana mi offre oggi, per altre cose.
R.C. Lei dice “oggi” per dire quando?
Pubblico Adesso, qui e adesso. Perché, indubbiamente, trecento anni fa non poteva essere come qui e adesso.
R.C. E tremila anni fa?
Pubblico Men che meno.
R.C. Perché?
Pubblico Perché le condizioni sociali, storiche, ambientali di tremila anni fa non possono minimamente essere paragonate con quelle di oggi.
R.C. E perché, scusi? Erano peggiori?
Pubblico Diciamo che la civiltà umana era meno libera di quella che può essere oggi, era più soggetta alla natura. La società di tremila anni fa non era ricca, progredita e avanzata come quella di oggi, la qualità di vita sociale era nettamente inferiore.
R.C. Cioè, Lucrezio scriveva tra gli stenti?
Pubblico Non ho detto questo.
R.C. Catullo era nelle caverne?
Pubblico Io non ho assolutamente detto questo.
R.C. Platone viveva tra gli sterpi, nella caverna?
Pubblico Non lo so, ma magari Platone è morto a trentacinque anni. Magari se Platone ci fosse adesso, fino a settant’anni potrebbe fare dell’altro. Questo avviene e non l’ha deciso lui sicuramente.
R.C. Ah, lei dice qualità della vita nel senso della durata?
Pubblico Nel senso di avere più libertà a disposizione, individualmente, da impiegare come l’individuo decide di fare. Questo intendo, niente di più, né di meno. L’animale non può farlo, non può deciderlo se non si è prima accaparrato il cibo e un posto dove ripararsi.
R.C. Quindi, anche per lei c’è la priorità di distinguere tra quel che è umano e quel che è animale.
Pubblico No, assolutamente, è solo una constatazione, non è che metto l’animale su un piano e l’uomo su un altro.
R.C. Sì, certo. Questa è razionalmente la giustificazione, ma ritengo più interessante, molto più interessante, ciò che le è sfuggito tra le maglie della sua giustificazione, ossia la questione dell’idea di mortalità che è ciò attorno a cui l’uomo si attorciglia.
Vedo un’altra mano alzata, prego.
Gregorio Gigante Si è passati da una qualificazione negativa dell’animale per cui si dice “Mi ha dato dell’animale”, a una connotazione di tipo positivo, cioè che gli animali vivono nel loro sistema, sono guidati dall’impulso e così via. Allora, io mi stavo chiedendo qual è il fine della conoscenza. La conoscenza non mira alla padronanza? Questo è il punto. Prima si diceva come, attraverso la conoscenza, si riesce a gestire, a avere delle risorse per controllare una situazione e avere possibilità di sopravvivenza. Cioè, il fine della conoscenza.
R.C. Il fine? Anche lei avalla e conferma le tesi di coloro che l’hanno preceduta?
G.G. No, io facevo riferimento al patologico. Perché dobbiamo definire il patologico? Prima di tutto per difendere noi stessi dal patologico, per dare un senso. È come se prendessimo le distanze da ciò che è patologico, che è malato. Lui è malato, io no. Perché? Penso che tutto questo nasce da un bisogno di rassicurazione.
R.C. Certo, quindi dalla paura. La rassicurazione rispetto alla paura.
Pubblico Quindi, la conoscenza padroneggia.
R.C. Padroneggia. Appunto, padroneggia! Ma dovrebbe servire a padroneggiare che cosa? Che cosa si potrebbe padroneggiare con la conoscenza?
Pubblico Il negativo.
R.C. Il negativo, certo. Qual è proprio il massimo del negativo?
Pubblico La morte.
R.C. Ecco, siamo tornati lì. Qual è il fine della conoscenza? Adesso risponda: il fine della conoscenza è padroneggiare?
Pubblico La morte!
R.C. La morte. È un fine ideale poiché non c’è conoscenza che possa padroneggiare la morte. Ma questa è l’idea. Questa è l’idea che guida la conoscenza.
Pubblico Ma io volevo considerare anche la questione della responsabilità, il concetto di responsabilità. Ossia, quando uno si ritiene responsabile? Una persona si ritiene responsabile nel momento in cui riesce a padroneggiare una certa situazione, cioè è il concetto stesso di padronanza.
R.C. Il concetto stesso di padronanza è il concetto stesso di morte! Questa è la questione. Poi, uno tenta di giustificarsi come può, perché nessuno ammette di avere paura della morte, nessuno sa che ha paura della morte, capisce? Se lei avesse questa coscienza non dormirebbe neanche la notte. Invece lei, magari, la notte dorme. Se ha proprio la coscienza della morte allora non dorme, è sicuro. Impossibile dormire con la coscienza della morte, infatti l’insonnia sfiora questa questione qui. L’insonnia, ciò che impedisce di dormire, è proprio questo, è la coscienza della mortalità. Allora, uno s’impasticca perché non deve pensare, ma non può impedirsi di pensare, sopra tutto se il suo pensiero è assolutamente cosciente e orientato verso questo destino. E non può dormire, chiaro, è impossibile.
Ma, “fortunatamente”, per lo più, ognuno ignora questa paura. Ce l’ha, ma la ignora, cioè non ne ha la coscienza ossessivante, la ignora perché si sposta su altre cose. Avete presente la metafora, la metonimia? Processi di condensazione e di spostamento. Ecco, si sposta. Canonicamente e anche non canonicamente si sposta. C’è chi magari ha altri tic o altri toc, e non sa perché li ha, ma li ha e se li porta appresso, e per lo più ruotano attorno a questa questione, ma in che modo non lo sa, né lo saprà mai per via del canone. Solamente mettendo in questione il canone potrà intendere qualcosa, ma non lo sa.
C’era un’altra mano alzata, prego.
Pubblico Perché la morte è negativa? Perché la morte ci fa così paura? Poi, non è vero che gli animali non hanno coscienza della morte, gli animali seguono molto il loro istinto, solo che non hanno paura, forse non hanno questo senso di negatività. Perché per noi invece sì?
R.C. Per noi?
Pubblico Per gli uomini.
R.C. Per gli uomini? No, la questione non è comune per quanto Aristotele abbia cercato di renderla tale. La questione non è comune, ma ognuno se la rappresenta a modo suo e fa i conti con una serie di rappresentazioni che per lo più ignora. Ignora il perché e il percome, ma ci crede e ci pensa, tanto ci crede quanto ci pensa. Per altro, tanto più aderisce al canone, ai luoghi comuni, tanto più ci crede. Quanto più partecipa del discorso canonico, tanto più questa cosa gli è prescritta dall’ordine del discorso, che è un ordine finito.
Qual è il fine? Qual è il senso? Sono queste le domande comuni. Qual è il senso della mia vita? Qual è il fine per cui…? Quanto dura? Qual è la mia origine? Tutti modi di somministrarsi l’idea della fine. Ognuno non sa perché non ha indagato e non ha analizzato, ma si nutre di questo e pensa che la sua salvezza stia qui o lì. Ma già chi pensa alla salvezza pensa alla fine.
L’idea di salvezza, come quella di liberazione, presuppongono il loro contrario come riferimento assoluto. Allora, chi vuole salvarsi ha come riferimento la dannazione, cioè una fine non gradita, e ognuno se la rappresenta. Chi vuole liberarsi ha come riferimento assoluto il padrone, la schiavitù. Questo è il suo habitat, però lo ignora. Dice che vuole liberarsi perché è libero, e vuole liberarsi sempre di più, e sempre di più l’ideologia della liberazione istituisce la gabbia dell’antintellettualità o dell’intellettualismo, cioè del canone da condividere, ma senza analizzare, per carità.
Accettare o respingere, condividere o espellere. Il canone comune funziona così, per antitesi, per alternative, tutti insieme oppure tutti per conto proprio, cioè con immagini fosche, antitetiche, senza sfumature, senza analizzare. “L’analisi? Per carità. Io ho i miei capisaldi, ho le mie idee, i miei punti di vista perbacco, e quelli mi guidano”. Ecco il canone. Da cosa vuole liberarsi il soggetto se non dai punti di vista che lo vincolano, che lo obbligano a una prescrizione di cui talvolta ignora le ragioni perché sono postulate, non sono indagate, non sono analizzate. Allora, l’applicazione del canone porta alla paura.
Pubblico La risposta sicuramente potrebbe essere che, visto che c’è un limite, c’è la fine del fisico, allora vado sopra, nel metafisico, per trovare la via di salvezza con il ricorso a dei credi, alle religioni. L’uomo trova la salvezza attraverso ciò che gli sta sopra, che si erge al di sopra di tutto, che non viene dalla limitazione del fisico. La morte è qualcosa di reale, concreto, fisico; è un limite, è la fine. E quindi cerco una soluzione andando a credere a qualcosa che la possa superare, quindi la religione, penso.
R.C. Superare?
Pubblico Presumo che possa essere credere in Dio, credere in un assoluto, credere in assoluto a qualcosa che sta al di sopra di tutto e che, quindi, supera il concetto limitato della morte, della fine, dell’aldilà.
R.C. Supera o accetta?
Pubblico Tutte e due, cioè accetta e nello stesso tempo va oltre, quindi la supera, la sublima, si trasforma, trasformare il cerchio finito del seme che diventa pianta. La morte del seme dà origine alla nuova vita, le foglie che cadono in autunno danno quella rinascita in primavera ecc. Così è un modo di superare.
R.C. Superare?
Pubblico Diciamo, dalla morte vedere la vita nuova, in un certo senso. L’immagine classica del cristianesimo è che dalla croce c’è poi la resurrezione, quindi la vita nuova, c’è la speranza della trasformazione e quindi la sopravvivenza. L’uomo non finisce ma sopravvive, trasformandosi in una natura nuova, l’uomo nuovo.
R.C. Non mi pare che questo conduca a una dissoluzione dell’idea di mortalità, ma a una rassegnazione in vista di un premio che ci sarà più avanti. Però, la questione è come ognuno vive giorno per giorno l’incombenza dell’idea di fine se quest’idea non è dissipata? Quali sono le incombenze note e ignote che l’idea di mortalità procura? Questa è la questione. E, se vogliamo porla in termini più espliciti, come mai in quest’epoca che si ispira al benessere, in cui la distrazione dovrebbe essere garantita facilmente, l’industria che vanta il maggior numero di fatturato dopo quella delle armi è l’industria che produce psicofarmaci? Come mai? Se nessuno risente intellettualmente di questo problema, come mai l’industria più fiorente è quella che produce psicofarmaci?
Ma prima di rispondervi ho visto un’altra mano alzata, che era precedente a questa questione, anche se magari si collega.
Sabrina Resoli Lei diceva che è un’invenzione questa che si ha della morte, però non è così. Lei ha detto prima che la morte è un credo che deriva dal canone e, quindi, può essere una superstizione perché può essere vista come un passaggio. Abbiamo visto nella favola di Aladino, che Aladino non era morto, era solo sepolto, e quell’idea della morte deriva dai nostri canoni, dal nostro modo di concepire la vita secondo i condizionamenti che abbiamo, ma potrebbe essere un credo, quindi una superstizione.
Pubblico Cambiando riferimento, sicuramente la morte fa parte di un processo vitale, come per le piante e i vegetali. Il principio vitale che poi ritorna, che ritorna in vita, è un passaggio sicuramente circolare. Il riferimento alla morte non è in se stessa ma alla vita, fa parte della vita. Quindi, già questo spostamento potrebbe dare una speranza o una soluzione: non avere paura, c’è vita lo stesso, anche nella morte. Dalla morte si passa alla vita e viceversa, si ritorna alla morte. Come nel ciclo delle stagioni: primavera è vita, inverno è morte, completamente.
Bruna Milesi Io volevo dire una cosa.
R.C. Sentiamo.
B.M. Sembra che non abbia molta attinenza, però è una questione che mi frulla in capo da diverso tempo e questa settimana volevo proporla. Tante parole che sono intervenute stasera con la mia questione si trovano, quindi la propongo in quanto il tema della morte trova in un testo, il Vangelo, una elaborazione articolata. La domanda è questa. Prima si parlava di testi e quindi vorrei attenermi al testo scritto. C’è un libro dove c’è un gergo e un libro dove c’è un testo. Cioè, ci sono testi molto particolari che sono scritti dalla mano dell’artista, e poi ci sono testi ancora più particolari che rientrano nei testi sacri e che sono le Sacre Scritture. Ora, i Vangeli sono tornati spesso nelle nostre conversazioni e si dice che vanno letti perché non c’è una chiave di lettura particolare. Ecco, la mia domanda è questa. La Chiesa sostiene che questi testi sono ispirati da Dio, ma la Chiesa attualmente si sta interrogando su come leggerli. Fino al Concilio Vaticano II c’era una lettura molto particolare, poi, dal Concilio Vaticano II ci si sta interrogando in modo diverso rispetto all’origine del testo. Quindi, chiedo, che cosa significa in tutto il discorso cifrematico l’ispirazione divina? Trova una sua collocazione? Perché se la morte, la resurrezione è vista come superamento della morte, quel discorso chiuso trova l’apertura, il cerchio trova la sua spirale.
Non so se ho formulato la domanda in modo chiaro, io volevo dire che la paura della morte ce l’ha anche Gesù, anche Gesù ha paura della morte e dice “Dio se puoi aiutami”. Ci sono quattro Vangeli, però ciascuno usa parole completamente diverse, per cui questa paura va letta anche rispetto alla comunità cui il Vangelo è indirizzato. È un testo, quindi va letto. Se in un verso dice “Allontana da me la paura” in un altro lo dice in modo diverso, quindi ci sono varie letture di questa presunta paura. E poi da là bisognerebbe un attimo vedere Cristo “vero Dio, vero uomo”. Noi vediamo l’umanità di Cristo secondo parametri umani. Cristo ha trovato la soluzione dicendo: “Però non sia fatta la mia volontà”, si è affidato completamente, si è abbandonato alla decisione del Padre, c’è stato l’abbandono fiducioso di trovare una soluzione, la soluzione migliore che lasciava nelle mani del Padre. Quindi, si è lasciato andare alla morte, non ha più avuto paura. Superare la paura significa fidarsi di qualcuno. Questo in un Vangelo, però in un altro Vangelo si legge: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”. Sono due letture e comunque è la lettura della paura di Cristo come noi la leggiamo, secondo i nostri parametri umani. Quindi, attribuire a Cristo la paura… Il Vangelo non è la cronaca diretta, è un testo.
R.C. Capisco che si potrebbe andare avanti molto a lungo e ognuno troverebbe molte giustificazioni a tutte le proprie fantasie e a quelle altrui, ma non ci interessa né giustificare, né accettare, né pacificare le coscienze, ci interessa ragionare.
Allora, per concludere temporaneamente, perché la cosa è piuttosto ampia e noi proseguiamo anche la settimana prossima, per tranquillizzare ognuno dico questo con chiarezza e semplicità: scegliendo il canone occidentale, seguendo ciò che ognuno crede sia il suo ben fondato punto di vista, non c’è ragionamento. Per questa via nessuno ragiona, ma solamente accetta e giustifica la sua accettazione della normalità. Lungo questa accettazione non c’è ragionamento. Il ragionamento è un’altra cosa, esige un’altra logica che non è quella del canone. Dico questo perché sia chiaro e perché ognuno questa notte possa dormire.
L’incredibile potere dell’uovo di Ruck
Ruggero Chinaglia Avere le proprie idee, avere i propri punti di vista è il modo d’impedirsi il viaggio chiudendosi nel recinto del soggettivismo chiamato personale. “Io ho le mie idee”, “Io so quello che va bene per me”.
Com’è accaduto che negli ultimi trent’anni si è affermata un’impostazione anti intellettuale basata sull’assenza di ricerca e sull’arroganza? L’arroganza è l’altra faccia della modestia e entrambe tolgono la domanda a favore del tutto chiaro, tutto subito. Ogni giustificazione è arrogante, così come ogni facile spiegazione. Togliere l’inconscio è il colmo della modestia intellettuale e dell’arroganza correlata. Modestia e arroganza volgono la domanda intellettuale in domanda di liberazione dal male e nella sua variante, la domanda di guarigione. Per mantenere il canone e le sue forme feriali e festive, la nevrosi e la psicosi. Tutto ciò è improntato all’esorcismo, tolto il viaggio, tolta la ricerca. L’impresa è addirittura osteggiata. Il viaggio senza programmi e senza progetto è del tutto immaginario, ossia ideale. L’assenza di educazione si doppia sull’abolizione del fare e del rischio di vita. Può cominciare una ricerca senza rischio?
La fiaba senza la ricerca diventa il terreno della vita reale, la malattia da cui essere guariti. La fiaba della così detta malattia mentale ancora non è stata letta, eppure ogni giorno si arricchisce di pagine nuove. A quando la lettura? Intanto, apprendiamo che il Ddl per la riforma della Legge 180 noto come Burani Procaccini, è stato bocciato in Aula e deve ritornare in commissione. A breve dedicheremo un dibattito su questo tema.
Intanto, per molti l’idea della nascita è già idea di morte, in quanto ripropone il mito della cacciata e la fantasia di un’immortalità naturale che la nascita farebbe finire. A questo allude il motto “Non ho chiesto io di nascere”, che postula una vita prima della nascita, una vita beata senza difficoltà, da rivendicare in continuazione. In quanti e quali modi ognuno si assoggetta, si rende schiavo dell’idea di mortalità?
Il testo della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa offre materiale interessante al proposito. Ne proseguiamo la lettura, lettura preziosa, che ci ha fornito il pretesto per indagare su molte cose, fra l’altro sull’annunciazione, termine che viene dal greco rhema, in latino verbum. In prossimità del suo epilogo la fiaba pone una questione che ne chiarisce il percorso e consente elementi di lettura. È un dettaglio che combina l’anfibologia della madre con il fantasma di origine o di mortalità o di genealogia. La questione dell’origine viene formulata così: da dove viene il potere del genio? Dall’uovo di rukh! L’uovo di rukh è l’origine del potere, è il padrone del genio. L’origine, il ritorno all’origine, toccare l’origine chiude il cerchio con la morte. E il genio svanisce, rilanciando l’infanticidio con il suo fantasma di assassinio.
[…]«Principessa», rispose Aladino, «basta che voi troviate che vi manca un uovo di rukh, perché trovi anch’io lo stesso difetto. Ve- drete dalla sollecitudine che userò per mettervi riparo, che non c’è nulla che non farei per amor vostro.
Tosto Aladino abbandonò la principessa Badr al-Budur, e sali nel salone dalle ventiquattro finestre, e là, tratta dal petto la lampada che portava sempre con sé, in qualunque luogo andasse, dopo il pericolo che aveva corso per aver trascurato tale precauzione, la strofinò.
Il genio si presentò subito.
Aladino gli disse:
«Genio, manca ancora a questa cupola un uovo di rukh sospeso nel mezzo; io ti chiedo in nome della lampada di cui sono proprietario, che tu faccia in modo che questo difetto sia riparato». Aladino aveva appena pronunciato queste parole, che il genio lanciò un grido così penetrante e spaventevole, che il salone ne fu scosso ed Aladino vacillò. «Come, miserabile!», gli disse il genio con una voce da fare tremare l’uomo più coraggioso. «Non ti basta che i miei compagni ed io abbiamo fatto tutto quello che hai voluto? Vuoi ancora, con una ingratitudine che non ha pari, che ti porti il mio padrone, e che lo appenda nel mezzo di questa cupola? Questo attentato meriterebbe che foste ridotti in cenere, tu, tua moglie ed il tuo palazzo in questo stesso momento […].
Bisogna distinguere fra matricidio e parricidio. Il matricidio è l’applicazione del fantasma materno, del fantasma di fine, una reazione al parricidio e alla sessualità. Con il matricidio l’infinito è tolto, lo zero è tolto, l’uno si divide in due. Questa è la struttura del matricidio in cui il tempo finisce per cui è pensato passare o durare. Il padre è morto, il figlio è destinato a morire, l’Altro è espunto e la sua eventuale comparsa significa, rappresenta il male, il negativo, il nemico, la morte. Corollario del matricidio è l’infanticidio, e ogni omicidio, ivi compreso il suicidio, che non è altro che una variante dell’omicidio. Nel matricidio non c’è più combinazione né combinatoria, ma solo alternativa.
Con la morte della materia intellettuale sorge il discorso come causa, la cui origine è localizzata dalla verità da conservare e dimostrare. Con il matricidio non c’è più struttura temporale, viene tolto il funzionamento della parola. L’aborto rientra nel fantasma di padronanza del matricidio. Alla madre è assegnata la funzione di morte, dunque la madre uccide, la madre può uccidere. L’aborto è la risposta a questa fantasmatica, la sua applicazione.
L’infanticidio è la conseguenza dell’idea che l’uno si divida in due. Se si divide in due, il figlio muore. Esemplare la parabola di Salomone e delle due donne. La donna matricida e infanticida lascerebbe che il figlio dell’altra donna venisse diviso in due. Ma, appunto, la divisione non è algebrica, non divide in due, l’uno si divide da sé, è inidentico a sé, quindi funziona. E questo è il figlio nella sua funzione.
Corollario del matricidio è l’incesto, l’erotismo nelle sue varie forme, la paura, il panico. Con il matricidio il fantasma di origine diventa fondamento e ha come corollario il fantasma di fine.
L’anfibologia del padre è un indice del fantasma materno e del fantasma d’alternativa. E già l’alternativa significa la fine, dato che è alternativa esclusiva. È alternativa fra due possibili soluzioni. L’idea di soluzione è già idea di fine. È già previsione della fine.
Ma, come sorge l’alternativa? Postulato il padre morto, l’ossimoro diventa l’alternativa esclusiva rappresentata per antonomasia dalla coppia servo e padrone, che più di ogni altra giunge a significare la relazione sociale. Sull’idea della messa a morte del padre l’apertura non c’è più, e per esempio, sotto e sopra significano sottomissione e sopraffazione. Chi sta sopra e chi sta sotto. La rivoluzione circolare, il rapporto geometrico come significazione dell’incesto.
L’anfibologia del padre è rappresentata da Aladino con il sultano e il sarto, anfibologia tra vivo e morto, tra ricco e povero, con il sultano e il mago, anfibologia tra buono e malvagio, tra autorità e severità.
Per ognuno, nella fiaba che si rappresenta, si tratta del padre che vacilla, che oscilla nell’alternativa fra forte o debole, fra padre o amante, fra padre o marito, fra padre e oggetto amoroso o sessuale. Il padre debole o il padre amante possono poi volgersi nella fantasia del marito traditore o che può tradire, o comunque, debole rispetto alla tentazione sostanzialista. Il padre debole è già il padre morto, il padre messo a morte.
Patrimonio e matrimonio
Ruggero Chinaglia Ci sono questioni, interrogativi? Siamo quasi alla conclusione dell’indagine.
Cecilia Maurantonio Riprendo qualcosa dello svolgimento del fantasma che precedentemente ha specificato con la figura del mago, come fantasma del padre. Adesso, mi chiedevo, tenendo conto di ciò che ha detto la volta scorsa intorno all’annunciazione, se con la principessa si dissipa il fantasma materno, cioè se interviene un’immagine altra per cui la madre non fonda più la genealogia delle donne. Con la principessa si avvia lo svolgimento della identificazione? È principessa in quanto figlia del sultano e con lei si avvia l’identificazione dello sguardo come punto di sottrazione, con il sultano per quanto concerne lo specchio come punto di distrazione? Riguardo al fratello del mago, che la volta scorsa ipotizzavo come fantasma del sultano, con la sua uccisione, quindi con il distacco, il sultano interviene in altro modo? Qualcosa di specifico all’oggetto: dal percorso del fantasma, dall’assoluto delle operazioni, alla scrittura dell’oggetto?
R.C. Va bene. Ci sono altri che abbiano lavorato un po’ in questi giorni? Che abbiano da testimoniare della produzione intellettuale? O sono stati giorni passati nell’attesa del trapasso?
Bruna Milesi Sono stata costretta a leggere la fiaba e l’ho trovata molto interessante, anche se va letta non solo una volta. Nel leggerla mi ponevo la questione di chi è il protagonista e mi sono chiesta cosa vuole dire protagonista. Comunque, se devo dare al protagonista una mia definizione, nella fiaba il protagonista è la ricchezza. Mi balzava questa come protagonista, perché tutto quanto ruota attorno a come i vari soggetti, viene proprio da dire subjectum, si rapportano alla ricchezza e ci sono varie sfumature: Aladino e poi la madre di Aladino, la cui figura secondo me è molto ben delineata; la principessa stessa, anche il papà della principessa, il sultano; ma sopra tutto Aladino, la mamma e la principessa. Aladino e la mamma, all’inizio, chiedono al genio di mangiare – a parte che si mangia sempre in questa storia, tutti mangiano, probabilmente in un mondo in cui c’è tanta fame si mangia; c’è questo elemento del mangiare – e non ricorrono alla lampada se non quando c’è la fame. Vendono i piatti d’oro, però la storia dice che Aladino e la mamma, essendo stati poveri, non sanno pesare quei piatti d’oro, per tanto il ricorso alla lampada è soltanto… Non si lasciano, come in altre storie analoghe o come nelle semplificazioni delle storie di Aladino, prendere la mano dalla voglia, dalla bramosia del denaro, della ricchezza, ma continuano la loro vita. La mamma non cambia gli abiti, continua a vestire poveramente. Però, Aladino, a differenza della mamma usa la lampada, la gestisce, la porta avanti, mentre la mamma ha paura della lampada, tanto è vero che è lei che per prima pulisce la lampada, è lei che per prima vede il genio e, terrorizzata, dice: “Butta via quella lampada che ho troppa paura del genio, ho troppa paura di quell’omaccione che viene fuori”. Poi la mamma si vota alla povertà, diventa monaca, diventa santa, cioè, prende la ricchezza nell’alternativa bene e male, e in questa alternativa la ricchezza è il male, tanto è vero che lei ne rifugge e va nell’eremo, in questa alternativa lei trova la morte.
R.C. Chi?
B.M. La mamma.
R.C. Quando?
B.M. La mamma di Aladino viene uccisa dal…
R.C. La mamma viene uccisa?
B.M. La mamma di Aladino non viene uccisa?
R.C. Ah, lei ha capito così? Avrà i suoi motivi. Lei ha capito che era la mamma di Aladino. E poi?
B.M. Poi, ritornando all’uso che Aladino fa della ricchezza, non la tiene per sé, usa la ricchezza per acquistare un bene migliore, vale a dire, arrivando alla reggia del sultano butta i soldi, di modo che quando avrà bisogno del popolo, lui se ne è comprata la benevolenza. Pertanto, il popolo, quando il sultano gli nega la sua benevolenza, insorge per salvare Aladino. E poi la figlia del sultano che, invece, pur essendo nata ricca, la lampada la butta via perché vuole rendersi conto se quel birbaccione che sta dando lampade nuove in cambio di lampade usate è effettivamente il mago o no. Quindi dà la propria lampada, la lampada di Aladino.
R.C. Bene. Pare che abbia colto qualcosa.
B.M. Anche la morte della mamma.
R.C. Quella no. Quello è un dettaglio da chiarire. Ha colto qualcosa d’altro di rilevante. Altre domande?
Maria Antonietta Viero Riprenderei alcuni significanti della scorsa settimana. La parità, l’imparità, l’impari e la famiglia mi facevano pensare a qual è l’idea o qual è il fantasma che sottende l’idea di una continuità, che impedisce la differenza e si presenta come fantasia di scampato pericolo? Questo ha a che fare con l’impari? E come l’eccezione o l’una volta per tutte, non è ripetibile se la ripetizione non incontra la ripetitività, perché è ciò che non è mai stato? Però, probabilmente, è una fantasia che continuità e ripetitività possano in qualche modo esorcizzare l’idea di scampato pericolo per l’impari o per la differenza che avverrebbe.
R.C. Lo scampato pericolo?
M.A.V. Sì. Ho pensato che la questione dello scampato pericolo poteva essere qualcosa che riguarda una sfida a Dio, una sfida al fantasma, all’operatore e, mi chiedo se c’è un avvicinamento tra l’impari e l’altro fratello.
R.C. Ci sono altre domande?
Alessio Menegazzo Avrei preparato cinque domande.
R.C. Cinque? Sullo specifico di Aladino?
A.M. No, è un altro campo.
R.C. Stavo parlando dello specifico, della questione Aladino. È di questo che stiamo ragionando. Lei ha letto la storia?
A.M. Aladino potrebbe essere colui che si presenta per una richiesta d’aiuto.
R.C. Si presenta a chi?
A.M. A lei!
R.C. Ah, lei vorrebbe sapere quale sarebbe la mia risposta a chi si presentasse…
A.M. Se può dare una risposta anche in termini psichiatrici. Oppure, dirigendo il soggetto…
R.C. Se non c’è soggetto, lei come può dirigere il soggetto?
A.M. Siccome guardando le pagine gialle ho trovato tra gli “specialisti in psichiatria e neurologia” il nome “Dottor Ruggero Chinaglia”, allora mi chiedevo cosa ha questo a che fare con la psicanalisi.
R.C. Le pagine gialle mescolano cose tra loro differenti. Io sono specialista in molte cose, e ciò non toglie che ciascuna cosa dia un contributo alla ricerca. Perché non ci si deve arricchire, non si deve ricercare, si deve essere ignoranti? Lei ritiene che chi fa psicanalisi debba essere assolutamente ignorante? Ignorante in tutto e allora può fare psicanalisi? Io ritengo invece che la psicanalisi è alla punta, alla punta della ricerca e quindi si avvale di tante cose. La cifrematica integra ciascuna cosa, è integrazione, procedura per integrazione, per cui si avvale di tantissime cose, della scienza, dell’arte, della cultura, della scrittura. Non c’è contrasto fra le cose!
A.M. Bene, intanto questa è la prima.
R.C. Vediamo d’incominciare a rispondere a alcune notazioni che ho raccolto, a partire dal dibattito della settimana scorsa e di quella precedente. Sono notazioni che vengono dalla lettura e dall’analisi della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa per cogliere quale sia il caso clinico. La scommessa sta in direzione del caso clinico, dunque la scommessa è in direzione della dissipazione del fantasma materno, cioè del fantasma di fine, detto anche fantasma di mortalità. Per molti, l’idea della nascita è già l’idea della morte, in quanto ripropone il mito della cacciata, la cacciata dal giardino e la fantasia di una immortalità naturale che la nascita farebbe finire. A questo allude il motto “Non ho chiesto io di nascere, e pertanto…”, con le rivendicazioni del caso. È un enunciato che postula una vita prima della nascita, una vita beata, facile, senza difficoltà. Da cui l’idea della nascita come discesa nella valle di lacrime. L’idea della valle di lacrime è già idea di matricidio. Matricidio come applicazione dell’idea della fine, applicazione di un fantasma materno, cioè la negazione della madre e del suo mito così come può esserci la negazione del padre e del suo mito.
Dunque, il matricidio come reazione al parricidio e alla sessualità. Ora, chiamiamo parricidio non già la messa a morte del padre, ma la funzione in atto del padre; c’è questa distinzione da fare. Mentre il matricidio è la negazione della madre, il parricidio è la funzione paterna in atto. Parricidio originario.
Cos’è anche il parricidio? Il parricidio è l’assenza di parità. Parricidio: assenza di pari, di parità. Assenza di parità sociale. Funzione di padre in atto. L’altra faccia del parricidio è la sessualità. Dove non c’è sessualità, c’è l’idea di parità. Ogni tentativo di salvare la parità nega la funzione di nome, la funzione di significante, la funzione di Altro e nega anche la politica, cioè la sessualità. Ogni tentativo di parificazione toglie il tempo e la sua politica, toglie la sessualità. Non c’è parità.
Pubblico Il parricidio è assenza di parità?
R.C. Sì, assenza di parità.
Pubblico E allora anche assenza di sessualità?
R.C. No, il contrario. Parricidio: assenza di parità. Parricidio e sessualità. Anche la sessualità è assenza di parità. La sessualità è in assenza di parità, pertanto non c’è mai omosessualità. Mai omosessualità perché non c’è parità, non c’è omologia, non c’è omoios, non c’è pari sociale, non c’è simile. La sessualità esclude l’omoios, la sessualità che procede sempre dall’impari, cioè dalla differenza.
L’idea di omosessualità è, pari pari, la negazione della sessualità, parodia della sessualità, economia della sessualità. Questo è importante. Non è questione di uomini e di donne quanto alla sessualità. È questione della differenza, se è ammessa o se è negata, se c’è, se è in atto o se viene tolta. La negazione o il toglimento della sessualità è il matricidio, matricidio in cui il tempo finisce. Finisce, o può finire, o deve finire; nelle sue varianti è pensato come destinato a finire. Un’altra idea è che il tempo passi o duri, sempre idee della fine del tempo.
Pubblico Il matricidio procede dall’idea di parità?
R.C. Esatto, dall’idea di parità. Diciamo che l’idea di parità è matricida, come quando qualcuno dice: “Lei dice questo a me! E lei, allora?”, “Tu dici questo a me! E tu, non sei uguale?”, “Fai le stesse cose, quindi siamo pari”, “Ma come, tu pretendi questo da me! E tu, perché non le fai tu?”. Tu e io come pari, nella parità. “Eh no! Come io! E lei? Innanzi tutto, faccia prima lei!”.
“Pari”. “Siamo pari”. Negazione assoluta della differenza, dell’autorità. Parità sociale. Matricidio, islamismo… Anche l’enunciato “Siamo tutti servi”, per esempio di Allah. “Siamo tutti servi” è platonismo. “Siamo tutti schiavi del padrone”, l’unico che conosce l’origine dei nomi e che dunque è padrone perché può formulare correttamente la domanda.
Quindi, la parità: parità sociale, parità degli schiavi. Perché la parità è sempre degli schiavi e promuove sempre il riscatto, la ribellione che è sempre ribellione contro il padre. La ribellione è filiale, è contro il padre per il riscatto del figlio che finalmente può fare come il padre. Facile a dirsi ma “Come il padre non puoi essere”. Questo già Freud lo diceva: “Come il padre devi essere, ma come il padre non puoi essere”. Impossibilità della parità. Idea che mai si realizza. Come il padre devi essere è l’imperativo del super-io, dice Freud, ma come il padre non puoi essere.
E tuttavia c’è questo mito, il mito del padre, il mito intoglibile. Ma, appunto, ci pensa il matricidio a toglierlo! Idea di parità e il padre è tolto, il padre è morto, è messo a morte; e se il padre è morto il figlio è destinato a morire, e l’Altro, l’Altro irrappresentabile e insignificabile, è volto alla significazione, alla rappresentazione, alla presentificazione e gli viene attribuito un significato per cui rappresenta il male, la morte, il nemico. Quindi, nella parità, quando tutto è bene o tutto è male, s’insedia il fatalismo del bene o del male.
Il corollario del matricidio è l’infanticidio e l’omicidio, ivi compreso il suicidio. Matricidio è anche assenza di combinazione e di combinatoria. La combinazione è un termine interessante. La binazione, il bis, il due, il due originario, l’apertura, l’ossimoro, con il matricidio viene tolto perché s’instaura l’alternativa. Non più positivo-negativo come ossimoro, bene-male come ossimoro, alto-basso come ossimoro, ma, o bene o male, o positivo o negativo, o vita o morte.
L’alternativa. Senza combinazione, l’alternativa. Nell’alternativa niente più materia intellettuale, niente più qualificazione, la qualità delle cose. Le cose sono tali, si tratta di localizzarne l’origine, la fine e la causa finale. È curioso, ma il procedimento che viene attuato – come ricordava qualche giorno fa, in una conversazione, la dottoressa Resoli – è lo stesso procedimento attuato dal discorso medico-psichiatrico per i così detti “malati mentali”, malati mentali tra molte virgolette, di cui, una volta data l’etichetta non importa individuare e capire il ragionamento, ma diagnosticare la causa delle loro azioni o dei loro pensieri.
La causa. Qual è la causa? Ora viene ascritta alla pazzia, ora alla malattia. Non più al ragionamento. Il causalismo è il procedimento elettivo dell’alternativa che esclude il processo di qualificazione e il ragionamento, e che deve solo individuare il luogo del male, la sua origine e la sua fine. È una modalità che poi viene assunta dal discorso medico quasi nella sua totalità, ma parte dall’idea della malattia mentale. Per il discorso medico ogni malattia è malattia mentale perché significa il male dell’Altro, e, per curarlo, l’Altro viene espulso a favore di un soggetto la cui possibilità è di essere o un soggetto sano o un soggetto malato. L’aborto rientra nel fantasma di padronanza del matricidio. Alla madre è assegnata la funzione di morte, dunque la madre è mortifera nel discorso matricida. La madre è mortifera in quanto può dare la vita, ma può anche toglierla e l’aborto è la risposta a questa fantasmatica, ne è la sua conseguenza, l’applicazione.
L’infanticidio è la conseguenza dell’idea che l’uno, anziché funzionare nell’inidentità, si divida in due, e l’uno che si divide in due, muore. Se si divide in due, il figlio muore. Per capire ciò bisogna leggere la Bibbia, per esempio la parabola delle due madri e di Re Salomone. La donna matricida e infanticida lascerebbe che il figlio venisse diviso in due. Metà all’una, metà all’altra, così siamo pari. Per “fortuna” c’è Salomone, per fortuna l’uno non si divide in due. Questo indica la parabola, che l’uno non si divide in due e il figlio non è destinato a morire, perché il figlio non si divide in due, ma funziona. Anche qui assenza di parità. Il funzionamento esclude la parità. L’uno si piega ma non si divide, non si divide in due.
Pubblico Volevo una precisazione per quanto lei ha detto dell’aborto, che è la risposta alla fantasmatica della madre mortifera.
R.C. Sì. Perché, non va bene?
Pubblico Per me non è chiaro.
R.C. E come faccio? Per me è chiaro. Dica lei cosa non è chiaro.
Pubblico Il matricidio elimina l’aborto. Se io uccido la madre che porta la morte…
R.C. Il matricidio è la negazione del tempo nella sua infinità, nel senso che è l’idea del tempo che finisce. Il mito della madre è il mito del tempo, è il mito che le cose non finiscono, che le cose non cessano, che la materia intellettuale non viene mai meno, che l’origine non ha luogo. Sono vari elementi. Nel mito della madre possiamo anche mettere la manna, il mito della manna. Ha presente la manna? Il cibo intellettuale, che non dura e che all’occorrenza c’è. C’è all’occorrenza, ma non dura, cioè non finisce, non si può economizzare, non si può accantonare, è senza riserve, è senza remore. C’è all’occorrenza. E anche la madre.
Gregorio Gigante La madre è la negazione del viaggio?
R.C. Perché?
G.G. Se il viaggio si ferma?
R.C. Come può fermarsi il viaggio?
G.G. Attraverso la sostantificazione.
R.C. Bravo. Attraverso la sostantificazione. La sostantificazione è matricidio. Cioè, è la negazione della materia intellettuale e la negazione del tempo. È in questa logica la negazione del viaggio. È solo presumendo che il viaggio non ci sia più, che non sia possibile, che non ci sono le risorse, che non c’è la materia del viaggio che allora, a partire dal matricidio, l’infanticidio. Tolta la madre come mito del tempo, come mito del viaggio come lei nota, allora l’infanticidio.
G.G. Questione intorno al figlio fallo.
R.C. Il figlio fallo? Il figlio fallo è già infanticidio, è sulla via dell’infanticidio. L’attribuzione del fallo al figlio nega l’apertura, nega il due e quindi avviene una temporalizzazione dell’apertura. Non è chiaro? Adesso vediamo di chiarirlo ulteriormente. Il figlio fallo è anche il figlio che la falsa madre dice a Salomone di avere, e che è disposta a dividere con l’altra madre. Meglio morto che darla vinta all’altra madre. Meglio mezzo a testa piuttosto che la ragione dell’Altro, meglio morto. Ecco il figlio fallo. Così è più chiaro?
M.A.V. A proposito dell’aborto, stavo pensando al figlio-aborto, morto, in cui la madre funziona; cioè, il padre funzionando, uccide, ma se la madre funziona…
R.C. Esatto. Se la madre funzionasse sarebbe funzione di morte. Ma la madre, appunto, non funziona, è infunzionale.
M.A.V. Ma nell’ipotesi che la madre possa funzionare, quindi possa abortire…
R.C. La madre è indice del malinteso, non è funzionale.
M.A.V. Sì, ma in questa accezione di madre che funziona, tecnicamente prende il posto del padre, perché, se funziona, funziona come nome.
R.C. Come nome della morte. È il mito della fine. È il mito delle Parche. Il mito delle Parche è questo. La madre che dà la vita è la madre che la toglie. I greci già vivevano in questo incubo. Una volta negata la madre, quindi rappresentata come funzione di morte, anche il padre è tolto. È inevitabile.
Corollario dell’idea di matricidio è l’idea d’incesto, incesto che nega la sessualità a favore dell’erotismo, a cui seguono la paura e il panico. Dal discorso medico vengono chiamati “attacchi di panico”. Attacchi, attacco, “ho avuto un attacco…”. Ma cosa vuole dire “attacco di panico”? Adesso dilagano gli attacchi di panico. Tutto è attacco di panico, quindi tutto deve essere trattato con gli psicofarmaci. Lo psicofarmaco è la risposta all’attacco di panico. Il panico, che nega l’Altro, dunque sostantifica, giustamente si avvale della sostanza. Pari pari. Panico e sostanza. È giusto, è quel che si merita. Alla rappresentazione della sostanza viene data la sostanza. Che bella cosa! Così viene confermata la sostantificazione.
Ma, il matricidio comporta l’anfibologia, cioè la rappresentazione dell’alternativa; questa è l’anfibologia, anfibologia dell’animale fantastico, l’idea di avere due soluzioni. Anche l’idea di averne una sola è sempre matricida, la stessa idea di soluzione è matricida, nel senso che procede dalla fine. Quale soluzione? “Ma c’è soluzione?”, “Ma in questo modo risolvo?”, “Risolviamo?”. Risolvo cosa? La questione finisce? Può finire il disagio?
Il disagio è interminabile perché il disagio è una virtù dell’apertura. Propriamente il disagio è l’assenza di fondamento. Dunque, il disagio indica che le cose procedono dall’apertura e tendono a qualificarsi. La tensione pulsionale è il disagio. Così come l’impossibilità di potere stabilire quel che si è e quel che si ha. Disagio. Questo è il disagio strutturale: ignoranza strutturale e impossibilità di attribuire un luogo d’origine alla pulsione. Il disagio strutturale è ciò da cui procede la domanda.
La soluzione, l’idea di soluzione, la richiesta di soluzione postula la fine del disagio, postula la localizzazione, postula la sostantificazione di una causa delle idee, dei pensieri, dei desideri, dei sogni, di una causa finale, questo è il punto. Non la causa nel senso della provocazione, quindi nel senso dell’oggetto causa. Ma una causa finale, una causa che deve, a un certo punto, estinguersi. Allora, l’idea di soluzione è già idea di fine, è già previsione della fine. Questa idea di fine, questa idea di alternativa procede dal padre dato per morto, dunque dal toglimento, dalla negazione della funzione padre. Postulato il padre morto, il padre assente, il padre debole, il padre indegno, allora l’ossimoro, da cui procede anche il padre, è tolto. Perché il padre procede dal due e una volta che è tolto il due, la combinazione si rappresenta nell’alternativa, nell’anfibologia.
Allora, il materiale fiabesco, la fiaba che ognuno si rappresenta di sé o dell’Altro, la fiaba che ognuno coltiva, prende avvio dalla rappresentazione del padre che vacilla, che oscilla nell’alternativa fra forte e debole, fra padre e amante, fra padre e marito, fra padre e oggetto amoroso o sessuale. Così, il padre debole o il padre amante possono volgersi nella fantasia del marito traditore o che può tradire, o comunque debole rispetto alla tentazione sostanzialista. Il padre debole è già il padre morto. Il padre messo a morte. È il padre rappresentato nel pettegolezzo, nella diceria.
Ora, nell’esperienza cifrematica, leggiamo e ascoltiamo il racconto, non già il pettegolezzo. Il così detto fatto, riferito e creduto senza trasposizione, è fantasma materno, è pettegolezzo, è dono di morte, è il discorso giudiziario. Credere al fatto riferito è partecipare al pettegolezzo, è accettare il dono di morte, è accettare la condanna a morte.
Occorre intendere che la domanda è domanda intellettuale, la domanda di aiuto è domanda intellettuale, è domanda di servizio intellettuale. Non domanda di risoluzione o di sostanza: domanda di servizio intellettuale. Domanda, cioè di articolazione del disagio, non di toglimento del disagio, perché, tolto il disagio, è tolto il cervello delle cose, il cervello della parola, il cervello di ciascuno.
Dunque, non c’è tecnologia che possa sostituirsi al disagio, non c’è farmaco che possa soddisfare alla domanda. Per questo la cifrematica si inaugura in ciascun atto e si compie nei dispositivi di direzione e di qualità e non c’è settore che sia escluso. È inconcorrenziale perché si avvale della proprietà della parola e l’ordine è quello della parola. Certamente non quello professionale.
Detto brevemente, sgombrate il campo dall’idea di potere governare il mondo, di vivere nel mondo, di aderire all’ordine del mondo o a un ordine sociale, perché l’ordine è quello della parola.
E sgombrando il campo anche dall’ordine del discorso, di cosa si tratta, allora, nella Storia di Aladino e della lampada meravigliosa? Perché la storia è di Aladino, la fiaba è di Aladino, ma il caso, che caso indica la storia di Aladino? Come abbiamo in qualche modo accennato fin qui, il caso è quello della principessa. La storia di Aladino narra il caso della principessa!
Oh! Sorpresa delle sorprese! Era ormai chiarissimo, no? Chi può rimanere sorpreso ormai da questo? Nessuno. Come sono andate in realtà le cose? La principessa sta per sposarsi e lì, tra i preparativi, “ci pensa”, comincia a pensarci. Si chiede, per esempio, chi sia meglio fra il padre e lo sposo. Chi sia più ricco, più potente, più forte. Più ricco, notava qualcuno prima. La ricchezza, la questione della ricchezza.
C’è la ricchezza assoluta che sta nel capitale, cioè in ciò che si scrive, in ciò che resta del processo di qualificazione, del processo di cifratura. Perché la cifra è il nostro capitale. E quindi c’è un capitale assoluto, una ricchezza assoluta che sta nella cifra, oppure c’è l’anfibologia della ricchezza. L’idea dell’alternativa fra la ricchezza e la povertà. Le cose possono finire! La ricchezza può finire! E, allora, possiamo andare tutti in miseria. Ricchezza o povertà? Anfibologia della ricchezza, cessazione della qualificazione, matricidio, idea di fine. Dunque, questo si chiede la principessa, chi, fra il padre e lo sposo, abbia un’origine più nobile. Sposarsi, migliora o non migliora la sua situazione? Così, c’è questo dubbio che è dubbio intorno al padre, innanzi tutto, il dubbio dell’origine. Dubbio che può formularsi in tanti modi: è veramente suo padre? È veramente il sultano? È veramente il più grande? Lo sposo sarà il più grande? E lei, è veramente sua figlia? Ha veramente origini nobili?
È curioso che, sorgendo tutte queste domande, la madre non c’è. All’inizio della fiaba la madre è la madre di Aladino, non è la madre della principessa. E la madre di Aladino, com’è? È una sartina, misera misera, che aveva sposato un sartino misero misero, che aveva un figlio scapestrato, incapace d’imparare un mestiere, un perdigiorno. Una madre sempre in dubbio se con il ricavato di quel poco di lavoro sarebbe mai riuscita a portare a casa un po’ di cibo. È come la matrigna di Hansel e Gretel, o come la nonna della Sirenetta, o la matrigna dei dodici cigni. È una madre matrigna, e la madre è stata fatta fuori. C’è invece la sultana, cioè la moglie del sultano, che non è la madre. La madre compare a un certo punto, dopo la prima notte di nozze. E, dunque, senza la madre, come sarà la prima notte di nozze? Incestuosa. Degradante. Erotica. Assolutamente da panico. Da panico e da paura.
Allora, questo ci indica che la denigrazione di sé e la degradazione dell’Altro procedono dall’anfibologia dell’animale fantastico, cioè dal toglimento della madre e dalla negazione del padre, dal toglimento dell’apertura e dal matricidio. Senza la materia intellettuale, senza il processo intellettuale, senza il disagio tutto è all’insegna della mortalità, della negatività, della malignità. Se venisse prestato orecchio clinicamente a ciascuna cosa, sarebbe del tutto inutile somministrare farmaci, somministrare droghe.
Improvvisamente, giornali, media e vari osservatori astronomici si rendono conto che l’alcool è una droga e che quattro o sei giovani su dieci cominciano a assumere alcool dall’età di dodici anni. Che novità! Improvvisamente, nel 2004 gli scienziati si rendono conto di questo. Oh! Come mai? Come mai dei fanciulli cresciuti in famiglie dove i genitori si drogano dalla mattina alla sera, si rivolgono alla droga? Stupore generale! Ma se un mese fa il Consiglio Superiore di Sanità ha spostato dalla categoria stupefacenti alla categoria psicofarmaci uno stupefacente antico come il Ritalin, una sostanza di quelle che una volta veniva usata per doparsi, un’anfetamina, e ora viene inserita tra gli psicofarmaci, addirittura diventa il farmaco elettivo per i bambini, quelli “affetti” dal “disturbo dell’attenzione fluttuante e da irritabilità”. Cioè i bambini che non stanno fermi. I bambini che non stanno mai fermi sono quindi bambini che devono essere legati alle sedie. Ma legarli alle sedie no, è brutto, non va bene, insorgerebbero i pacifisti che avrebbero subito di che manifestare, “Non si legano i bambini!”, a meno che i lacci non siano invisibili! Magari chimici! Quelli sì! Per carità! Il grande luminare che sta a Pisa dice che sì, occorre somministrare i farmaci dall’età di sei anni, altrimenti perdiamo tempo per la cura. Perdiamo tempo prezioso, perché, tanto, dai sei anni in poi siamo tutti malati. “Curiamoci!”, in assenza di educazione intellettuale!
I bambini bevono dall’età di dodici anni. Ma è il meno che possono fare! D’altronde, questa è l’educazione che ricevono. A casa, in famiglia, dove per ogni cazzata c’è una pastiglia da prendere. Uno è ansioso? La pastiglia. È lento? La pastiglia. Ha preso troppe pastiglie acquietanti, si deve pigliare quelle eccitanti e viceversa. Dorme? Pastiglie risveglianti. Non dorme? Pastiglie ipnotizzanti. Tutto per la soluzione del problema. Abbiamo la soluzione per ogni problema! Non vuole farmaci? Ma allora ci sono le psicoterapie: brevi, lunghe, mirate, gnostiche, non gnostiche, aggregate ai farmaci, mediate dai farmaci, abbinate ai farmaci, con meno farmaci, con più farmaci. Per una pacificazione, così i pacifisti sono tutti in pace, pacificati. C’è un disagio? Non sia mai!
Intanto la principessa pensa. Pensa alle nozze, pensa a Aladino. Dopo avere avuto dubbi intorno al sultano, comincia a avere qualche dubbio anche su Aladino, lo sposo. Sulla sua origine: sarà nobile o sarà un plebeo? Sarà ricco o sarà un poveraccio? Ma, sessualmente, avrà qualche valore? Aladino, diventa uomo di paglia. È senza qualità, e, se ha qualche merito, sporadicamente, non è per merito suo ma è per via di certe arti magiche, per via di una certa lampada. Uomo senza qualità.
Ma i dubbi intorno allo sposo procedono da quelli intorno al padre. Infatti, la principessa ritiene che il padre, per debolezza, per avidità, stia per abbandonarla a un uomo qualsiasi, a un uomo di basse origini. E da questi dubbi procedono le fantasie sulle peripezie di Aladino e della sua vita, nel caso lo sposasse. Cosa potrebbe accadere se sposasse Aladino? Sarebbe costantemente in pericolo di rapimento, di morte, d’incesto. Il marito sarebbe sempre a zonzo, a cacciare, a sollazzarsi, e lei sarebbe sempre in casa a fare le faccende, esposta a ogni sorta di pericolo. Tutt’al più potrebbe, talvolta, farsi qualche amante come il Mago Africano.
Io avrei ancora da proseguire, ma sono già le ventitré, però vi do un’indicazione che sicuramente non era sfuggita a quanti fra voi abbiano letto la fiaba a pagina 715. Allora, dicevo che le fantasie erotiche, di degradazione, procedono dall’anfibologia paterna, dai dubbi intorno al padre, debole, misero, povero, incapace, padre da poco. Infatti, come descrive la principessa la prima notte di nozze alla mamma? Un momento dopo che ella e il suo sposo si erano coricati, erano stati trasportati in un baleno in un’altra stanza, “meschina e oscura”, in cui si era trovata sola e separata dal suo sposo, senza sapere che cosa fosse accaduto di lui. Lo sposo non c’è più. Nella stanza “meschina e scura”, lo sposo non c’è più. E chi c’è? Lo schifo. Aveva poi visto un giovane – non c’è più lo sposo, ma un giovane – il quale le aveva detto alcune parole che, per il terrore, non aveva nemmeno ascoltato, e poi si era coricato al posto del suo sposo. Lo sposo non c’è più ma, improvvisamente, un’amante, mai visto prima, che si corica con lei, al posto del suo sposo, mettendo, prima, una spada tra lei stessa e lui. Di che spada si sarà trattato, la prima notte di nozze?
Il caso clinico della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa
Ruggero Chinaglia Alla villa San Carlo Borromeo, a Senago, il 28, 29 e 30 maggio si tiene il Congresso mondiale di cifrematica dal titolo Il secondo rinascimento nel pianeta. Un appuntamento straordinario dove sono stati invitati cifrematici, psicanalisti, matematici, scrittori, poeti, artisti, teologi, giuristi, filosofi, imprenditori, medici, biologi, scienziati, banchieri, studenti, finanzieri, amministratori pubblici, ricercatori. Ci sono molti intellettuali da vari paesi d’Europa, dagli Stati Uniti, dalla Cina, dal Giappone. È un appuntamento per verificare a che punto si trova il secondo rinascimento nel pianeta. E nessuno di noi è estraneo al secondo rinascimento, no? Cosa dice? Lei si sente estraneo al secondo rinascimento?
Gregorio Gigante Guardando la situazione economica e finanziaria dubito che siamo nel rinascimento, guardando la situazione individuale, probabilmente sì. Immagino che lei badi molto di più a quella culturale.
R.C. Ma quella culturale non prescinde da un tessuto che investe pure l’economia, la finanza, l’impresa, l’industria.
G.G. Ecco, allora se parliamo di impresa, finanza e industria io sono assolutamente pessimista.
R.C. Al di là di quello che può costituire uno “sguardo d’insieme”, si tratta di verificare i contributi, le istanze, gli avvenimenti e i dispositivi in atto nel pianeta che non concorrono alla visione generale, ma che danno indicazioni per il secondo rinascimento nel pianeta, perché è questo che importa. Importa non la visione del mondo ma quei contributi, quegli avvenimenti, quelle istanze che sono qua e là, e che magari possono anche sfuggire ai più, ma che tuttavia sono essenziali per il secondo rinascimento.
G.G. Speriamo che sia così.
R.C. Ma non è che dobbiamo sperare e basta. Sperando, occorre che ciascuno faccia la sua parte.
G.G. Però ciascuno è sempre un granello di sabbia all’interno…
R.C. Ma di granelli di sabbia è fatto il deserto, così come di gocce d’acqua è fatto l’oceano.
G.G. Questo è vero, però, se io prelevo una goccia dall’oceano oppure la immetto, non se ne accorge nessuno.
R.C. Questo è vero pessimismo.
G.G. Il vero pessimismo viene dai dati dei distretti industriali italiani che stanno scendendo, uno dopo l’altro, in modo catastrofico. La competitività cinese, l’aggressività del mercato asiatico e il numero di ditte che in Italia sta chiudendo.
R.C. Quindi occorre leggere questi dati, occorre farne una lettura non catastrofista, non ottimista né pessimista, perché c’è sempre stata l’idea che ogni variazione e ogni novità concorressero alla fine del pianeta. Perché? Perché il pianeta è valutato per lo più con l’occhio dell’abitudine, quindi con il ricordo del passato. E questo non aiuta a valutare come una novità possa invece concorrere, chiaramente lungo una trasformazione, a un altro modo, e è questo di cui si tratta: un altro modo delle cose.
Dunque, è un’occasione unica, unica e irripetibile per fare una lettura differente dalla vulgata che, appunto, è sempre o catastrofista o sensazionalista, per cui tutto deve cambiare, oppure nulla deve cambiare, ma sempre in una concezione legata ai ricordi. Invece, ben altro è il contributo che può dare questo congresso, e noi auspichiamo che lo dia, partendo dalla constatazione che non si tratta di sperare che avvenga chissà cosa, ma che bisogna dare il proprio contributo.
Dicevamo anche di alcuni libri. C’è un libro in particolare che, data la situazione – direbbe il nostro amico – planetaria, è il caso di leggere, e si intitola La guerra. È un romanzo scritto qualche anno fa, quindi non certamente in relazione alla guerra dell’Irak o alle ultime guerre, ma La guerra è un romanzo che può dare un contributo alla lettura della guerra in corso e anche di alte. La guerra è un romanzo molto bello di Francesco Saverio Alonzo, e è lì a disposizione. Basta rivolgersi alla dottoressa Novaretti che può indicare come fare per acquistarlo. Poi ce ne sono anche altri, ma questo mi sembra particolarmente indicato come lettura, accanto alla bellissima Storia di Aladino e della lampada meravigliosa.
Allora, vi siete preparati per l’incontro di questa sera? Chi ha preparato una domanda, una considerazione, una notazione?
Bruna Milesi Giovedì scorso mi era stata prospettata una cosa molto interessante. Io ho riletto la fiaba e, apparentemente, avevo letto una cosa per un’altra.
R.C. Apparentemente.
B.M. Sono corsa a casa. E invece leggo che Fatima è proprio la madre di Aladino. Ci sono rimasta proprio male.
R.C. Così ha letto?
B.M. Sì. È scritto così. Per tanto la mia delusione è stata grande. Uno di noi disse: “Si nota che sei straniero da come […] Fatima, madre di Aladino…”.
R.C. Dove sta scritto questo?
B.M. Nelle ultime pagine, quando il fratello…
R.C. Ma lei che edizione ha?
B.M. Mondadori.
R.C. Mondadori! Non va bene quell’edizione. È molto imprecisa, tanto è vero che c’è questa imprecisione.
B.M. Quale delle due è imprecisa?
R.C. Quella lì.
B.M. Questa qui. E come mai?
R.C. Perché non c’entra nulla, perché non è così.
B.M. Non è così?
R.C. A che punto è questa cosa?
B.M. Nelle ultime pagine, quando…
R.C. Quando?
B.M. Appena il dannato uomo si rallegrò quando il fratello del mago si reca nella città di Aladino… e prende informazioni e, poco dopo, si reca a casa di questa donna, verso la fine. Secondo questa edizione, è la terzultima pagina.
R.C. Perché è un’edizione succinta, riassuntiva. No, non c’entra nulla. …Santa donna, quali miracoli! Come, gli disse, […] non avete mai sentito parlare di lei, se suscita l’ammirazione di tutta la città… eccetera eccetera, ma non è la mamma di Aladino.
B.M. E anche in un altro punto parla di questa donna come la mamma di Aladino.
R.C. In questa edizione, di pagine ce ne sono molte di più da questo punto alla conclusione del racconto, capisce? Perché quella è riassuntiva, non va bene.
B.M. Pazienza.
Pubblico È in direzione della sintesi.
R.C. È in direzione della sintesi, è un’edizione gnostica.
Quindi, è così che si è preparata per dare notizie di questa natura? Questo non stravolgerebbe mica il tessuto fiabesco, in realtà, però non è così. Occorre dare a Fatima quel che è di Fatima e alla madre di Aladino quel che è della madre di Aladino. Ci sono altre notizie? Va bene.
La Storia di Aladino e della lampada meravigliosa è la storia che descrive la traiettoria del meraviglioso, dalla rappresentazione all’irrappresentabile, dall’idea di sé all’evento temporale di cui il sé è la condizione. Traiettoria del miracolo senza magia e senza ipnosi. La lettura della storia dissipa ogni possibile riferimento al magico e all’ipnotico, ma a condizione di leggerla. Leggerla vuole dire dissipare ogni possibile riferimento alla magia e all’ipnosi in quanto accade. È facile dire “Questo accade per magia. Questo accade per ipnosi”. No, non accadrebbe. Per magia e per ipnosi nulla accade, nulla avviene, tanto meno nulla diviene, e ogni riferimento al magico e all’ipnotico nega l’avvenimento. Leggendola secondo la nominazione, con l’Antico e con il Nuovo Testamento, con l’unicità del caso della principessa, il cifratore approda all’assioma dell’annunciazione. Comunemente nota come annunciazione di Maria.
Il transfert si avvale della trifunzionalità del segno, e la traccia della trifunzionalità è reperibile nel testo, nella lingua greca, per esempio a proposito del verbo dire, che ha tre modi: ειρω, eiro, λεγω, lego, φημì, fhemì. Leggendo il testo dell’annunciazione secondo Luca, ci siamo imbattuti proprio in questa traccia, perché noi siamo sempre stati abituati a porre attenzione al logos. Ma non c’è solo ò logos, c’è anche tò ρημα, rhema. Maria, secondo Luca, nell’annunciazione dice proprio tò ρημα, rhema: “Γenoiτó μoi κaτà τò rημá soυ”, Genoitò moi katà to rhemà sou, “Avvenga di me secondo quel che hai detto, secondo la tua parola”. Qui, viene tradotto “…secondo la parola di Dio”, ma è “…secondo la tua parola”, “secondo quel che hai detto”, “secondo la parola”.
È una distinzione interessantissima, perché da ειρω, eiro procede anche l’ironia, la questione aperta. Dunque, tre verbi che indicano struttura e funzionamento della parola. Ó logos (la parola nella sua logica e nella sua struttura), tò rhema (la parola nell’annunciazione, nel processo intellettuale, per cui ciò che si dice si qualifica e si dirige alla sua cifra), η φημη, hé fhéme, la profezia (la parola con la sua causa, con il suo annuncio), fino alla fama (la parola nella sua tensione alla chiarezza). Questa è l’annunciazione, ossia la struttura del transfert che trae con sé l’obbedienza.
L’obbedienza ha molti fieri oppositori che la riportano sempre alla sudditanza. Invece no, obbedienza è obbedienza alla parola nel suo processo intellettuale, nel suo dire, a quel che si dice e, dicendosi, lungo il processo di qualificazione, approda alla cifra.
L’anfibologia dell’animale fantastico è il metodo imposto al soggetto dall’applicazione della dicotomia alla relazione e, conseguentemente, alle cose. L’anfibologia dell’animale fantastico incomincia quando, rispetto all’obbedienza, rispetto alla relazione, alle indicazioni, agli indici del tempo, il soggetto reagisce e si chiede se ciò sia bene o sia male, se conviene o non conviene, se è buono o cattivo, se è positivo o negativo, come se le cose fossero anfibologiche, cioè potessero andare verso il bene o andare verso il male. E questo è l’animale fantastico di ogni fiaba.
Il tempo è divisione, ma è divisione che non divide in due; non divide in due parti o in due tronconi, o in due metà. Per effetto della divisione temporale s’instaura la differenza sessuale, la differenza assoluta. Cioè, con la divisione s’instaura la differenza, non la dicotomia. Ma c’è anche la divisione da sé del figlio, cui segue l’inidentità del figlio, figlio che non è una persona fisica né una persona spirituale, non è maschera, ma è il significante che funziona nel transfert. Divisione funzionale e divisione sessuale o temporale intervengono nella struttura della parola.
Che cosa comporta ammettere il figlio e la divisione da sé che lo caratterizza? Comporta la dissipazione dell’idea del gemello, della copia, del pari, del simile, del discendente genealogico, dunque la dissipazione dell’idea di rivalità. Senza l’ammissione del figlio, del figlio funzionale, ci sono rivali da tutte le parti; ognuno vede rivali dappertutto.
La questione è pratica e clinica, e comporta che ogni idea di rivalità esige l’analisi del figlio, della struttura del figlio, dell’idea del figlio. Quale idea di figlio io mi porto appresso? Quindi, la divisione da sé è proprietà del figlio, la divisione sessuale è proprietà del tempo. La piega che ciascuna cosa incontra procedendo nella qualificazione è proprietà dell’Altro. Dalla piega quale proprietà dell’Altro, procede la dissipazione dell’idea della credenza nella casistica, della statistica, della serialità, della significabilità del segno e della sua prevedibilità, nonché della probabilità, nonché della possibilità.
Allora, è dalla piega, dall’instaurazione della piega quale proprietà dell’Altro, che esige l’instaurazione dell’Altro, che procedono il racconto e la narrazione, il sogno e la dimenticanza, come dire che si dissipa il realismo, l’idea che ciò che vedo, che sento, che penso, che dico, che sento dire sia reale. Ciò che sento, che dico, che penso, non è reale, a meno che io non viva nella soggettività, non sia soggetto del realismo, cioè soggetto senza la parola, senza la logica della nominazione, senza annunciazione, senza transfert.
Tolto il transfert, tolta l’annunciazione, tolto quindi il mito di Maria, il mito di Cristo, tolta tutta una serie di cose, allora sorge il realismo. Il realismo è il regime, il regime senza parola, questo è il realismo. Regime antintellettuale dove ognuno parla la sua lingua come lingua comune, lingua gergale senza annunciazione, senza Babele, senza Pentecoste. Realismo. Senza tempo, perché il realismo esige il toglimento del tempo. Non c’è più differenza, c’è il realismo, ossia lo stato dei fatti “Le cose stanno così”! Questo è il realismo. Primo corollario del realismo è l’idea di mortalità.
Ora, di ciò che dico, sento dire, vedo, leggo, sento raccontare, racconto, di ciò che odo, di ciò che scrivo, di ciò che altri scrive, altri dice, importa la lezione, non il realismo, non il significato. La lezione e la sezione secondo la logica della nominazione, e di questo si tratta nella questione intellettuale, che va dalla libertà del principio della parola alla libertà intellettuale, alla cifra della parola. E quindi la lezione non è più ex cathedra, ma segue la cifratura stessa, e importa la lezione del secondo rinascimento.
Qual è la lezione del secondo rinascimento? Cifrando il materiale linguistico, il materiale del racconto, il materiale della narrazione, il materiale di ciò che si dice, dunque il materiale non realistico ma linguistico, il fantasma materno si dissipa a favore dell’operazione, ossia, l’enunciazione di un’idea di fine, di un’idea di disgrazia, di un’idea di male, di un’idea di corruzione, di disgregazione, di denigrazione, di degradazione, anche quell’idea è sulla traccia di un operatore che è sintattico, frastico e pragmatico, cioè di un operatore che va in direzione della scrittura della ricerca e della scrittura del fare, sempre che vi sia il dispositivo della ricerca e il dispositivo dell’impresa; certamente non per magia né per ipnosi.
Nel dispositivo della ricerca e nel dispositivo dell’impresa ogni idea, anche quella, per così dire, che si appunta sul negativo, sul male e su ogni rappresentazione della negatività e della malignità, può andare in direzione della sua cifra, avendo modo d’intendere l’operatore non secondo il realismo del fantasma materno, ma secondo l’estremismo della parola, per cui ciascuna cosa va presa per la sua punta e non per la sua coda, anche dove viene posto l’accento sul negativo, perché questo è effetto di un’operazione d’applicazione della dicotomia.
Leggendo senza condividere la dicotomizzazione, siamo in grado di ascoltare, di udire, di leggere di cosa si tratti. La lettura del secondo rinascimento e con il secondo rinascimento è cifrale, esige il caso di qualità, l’unicum, la cifra. Le cose si fanno, si valutano e si valorizzano non più a partire dal deterrente della pena, come ogni buon soggetto insegna, ma per l’esigenza di valore e di soddisfazione. Valore e soddisfazione esigono sicuramente la dissipazione soggettiva.
Che cos’è la soggettività della soddisfazione? È l’idea della localizzazione e della contabilità della soddisfazione, di sapere dove stia, di potere prevederla, di potere calcolarla, di potere gestirla.
Queste sono indicazioni che vengono dalla lettura del testo delle Mille e una notte, tenendo conto delle indicazioni del caso della principessa Shahrazàd che, situandosi nell’idea di alternativa, quindi procedendo dal matricidio anziché dall’apertura, situandosi nell’idea di alternativa se la rappresenta come il taglio della testa. La dicotomia, una volta applicata all’apertura, alle cose, alla relazione, poi ritorna fantasmaticamente come l’idea del possibile taglio della testa.
Che cos’è il taglio della testa? Per Shahrazàd è il taglio della testa, ma per altri, altre cose. Per Shahrazàd è una rappresentazione materna, una rappresentazione localizzata e sostanzializzata della divisione sessuale, della divisione temporale o, per un altro verso, una rappresentazione dell’inaccettabilità dell’assenza di ragionamento, un modo di dirsi “Se mi lascio prendere dall’alternativa, se applico l’alternativa anziché ragionare, ebbene, è una decapitazione”. Quindi, per un verso, un cedimento, un lasciarsi andare all’idea materna, però anche un’istanza di ragionamento, perché non c’è da credere che questa possa venire meno del tutto. Non c’è proprio modo di togliere il cervello dalle cose, se non in un certo discorso che arriva fino al suicidio, certamente, ma non proprio a ogni piè sospinto.
Il caso clinico rilascia teoremi e assiomi. E come il cifratore si accorge della scrittura clinica del suo caso? Dai teoremi e dagli assiomi che concorrono ai cifremi del suo viaggio, cioè alle proprietà della parola e dell’itinerario, come dire che un viaggio senza teoremi, senza assiomi e senza cifremi non è un viaggio. Non c’è viaggio che possa procedere senza teoremi, assiomi e cifremi.
Importa, qui, mettere in evidenza che ciò che consente la lettura e l’ascolto di quel che nelle conversazioni, nelle sedute, negli incontri è addotto come causa, o giustificazione del male, o del negativo, o di una qualche impossibilità, è un fantasma materno soggettivo che pone una sfida: la sfida dell’ascolto, la sfida della lettura, la sfida del suo rivolgimento verso la cifra, la sfida di non essere accettato realisticamente, perché se così fosse, nessuno andrebbe a raccontare.
Ci avete mai pensato? In virtù di che cosa qualcuno va a raccontare i suoi guai, le sue negatività, i suoi problemi, le sue impossibilità a altri? Per la chance dell’ascolto, per l’eventualità dell’ascolto, della lettura, ossia della dissipazione del realismo che in parte lo prende. In parte, una piccola parte, altrimenti non andrebbe nemmeno a raccontare, non ci sarebbe nessun racconto, nessuna conversazione. Allora, che cosa accade se invece dell’ascolto, se invece del dispositivo della parola s’instaura una complicità? Che cosa accade? Che il soggetto incontra una specularità, una condivisione, e il fantasma si conferma anziché dissiparsi. Allora, può accadere come a quella persona che si recava da un allievo di Freud e che, dopo la seduta, andava spesso a mangiare un piatto di cervella fritte. Eh sì, perché per lui il cervello dell’analista era assolutamente “commestibile”, era assolutamente “in pappa”, e l’unico modo di rappresentarselo era quello di andare a mangiarselo fritto. È ciò indicativo, è assolutamente indicativo. Instauratasi la complicità, per non cedere al fantasma materno, costui aveva trovato l’accorgimento di andare a mangiarsi un piatto di cervella fritte! Non è che la complicità non produca effetti, ne produce, per esempio questo riportato da Lacan, e non solo. Complicità che impedisce il viaggio e la dissipazione del fantasma.
Ora, perché vi sia viaggio, perché si produca ascolto, perché il cervello non debba essere mangiato fritto, o in umido, o in altri modi, occorre non credere a ciò che viene impartito dall’addestramento disciplinare degli psicopompi, i quali prescrivono che il così detto paziente – paziente che deve essere molto paziente – e lo psicopompo in questione, debbano vestire gli stessi panni, tant’è che lo psicopompo deve mettersi nei panni altrui.
È questa la complicità, la condivisione delle abitudini, la condivisione dell’habitus, una complicità buona per i convenevoli sociali, ma non per l’itinerario intellettuale. Quindi, ogni forma di così detta empatia, simpatia, compatimento, patimento, ogni forma di pathos, di compassione e di compatologia, cioè di condivisione del sintomo inserendolo in una classificazione, ogni forma di compatologia che dovrebbe unire lo psicopompo e il suo alter ego, il paziente, o il paziente e il suo alter ego, lo psicopompo, stabilisce la complicità che è spacciata per alleanza terapeutica.
Ma l’alleanza non è terapeutica, non può essere finalizzata alla terapia; l’alleanza non può essere finalizzata. L’alleanza procede dall’apertura, è il modo stesso del due, quindi è il modo del legame-slegame, è il modo della relazione, che però non è relazione con qualcuno, ma è l’alleanza originaria della parola. Non è alleanza con, non è relazione con qualcuno. E dall’alleanza procede il patto, il patto per la riuscita. Per la riuscita! Non è il patto sociale, non è il patto per la terapia. È assolutamente incommensurabile la distanza tra la questione intellettuale, il viaggio intellettuale, e ogni psicoterapia. Occorre che questo sia chiaro.
G.G. Può chiarire meglio questa distanza incommensurabile?
R.C. La distanza fra l’itinerario intellettuale, l’itinerario cifrematico e ogni psicoterapia, che si fonda invece su stereotipi, su quegli stessi stereotipi che impediscono la dissipazione fantasmatica, è incommensurabile. Un esempio? Lo stereotipo psicopatologico, il riferimento alla psicopatologia. Il riferimento alla psicopatologia, con il suo correlato, la diagnosi psicopatologica, nega, impedisce annichilisce ogni possibile attraversamento del fantasma perché lo conferma ab ovo, all’origine. Cioè, conferma la nozione stessa di origine, d’origine negativa, di appartenenza negativa, di destino negativo con la diagnosi psicopatologica, con la prescrizione di malattia. È più chiaro così? Perché non sempre arrivo subito alla chiarezza, ho bisogno che lei mi solleciti. Occorrono sollecitazioni. Capisce?
G.G. Sì, però, secondo me, avere le definizioni della psicopatologia aiuta.
R.C. Aiuta chi? Lo psicopompo a fare lo psicopompo?
G.G. Anche imparare a farlo.
R.C. Esatto, imparare a fare lo psicopompo! Ma qui non si tratta di fare lo psicopompo, cioè non si tratta di condurre anime da una sponda all’altra dell’Acheronte.
G.G. Però le definizioni servono.
R.C. A condizione che siano cifrali e non definizioni ontologiche. Ogni definizione ontologica risulta una prescrizione e, come tale, grava sul viaggio. È come un’ancora che trattiene e impedisce il viaggio.
G.G. Però, posso? Voglio interromperla in questo tipo di discorso molto più complesso, perché ho pensato a un dettaglio.
R.C. Sì, prego.
G.G. Però, qui non viviamo in un mondo euclideo, cioè una sfera non tocca un piano in un solo punto, ma in una moltitudine di punti. Io, giusto per fare un esempio, ho comprato un tavolo che ha un colore indefinito fra il verde e il blu, perché, mentre prima magari uno poteva distinguere il verde dal blu, adesso, con l’uso del computer, uno ha tutte le gradazioni, il tutto continuo che esiste tra il verde e il blu, che non può definirlo, però comunque uno si muove per approssimazioni. La sfera non esiste, ma io la definisco. Il verde è comodo definirlo, è comodo definire il blu. Sicuramente quel colore che è fra i due non è il rosso. Allora, a questo punto, secondo me, “disturbo psicotico di personalità” oppure “disturbo borderline di personalità”, è molto utile avendo una definizione. Poi, chiaramente, non esisterà mai un cento per cento…
R.C. Ma è utile a che pro?
G.G. Al pro di potere fare in modo che la persona prenda consapevolezza di quelle che sono le sue difficoltà.
R.C. Ah! Prenda consapevolezza, prenda la coscienza di malattia! Prenda consapevolezza che è disturbato!
G.G. Eh sì, perché è importante questo.
R.C. Ma è disturbato per chi? Perché? Secondo quale canone?
G.G. Quello che ha decapitato il soldato americano sicuramente è una persona disturbata. Che lui lo capisca è importante, perché lui crede di essere un eroe. Il tifoso che spara il colpo allo stadio è molto probabile che abbia un disturbo borderline della personalità, è importante che lo capisca. Secondo me, non è una persona normale quello che spara allo stadio. A mio avviso le definizioni aiutano parecchio per dare una definizione, per capire più o meno dove uno deve andare a parare. Ma è chiaro che se uno poi etichetta, allora lì sta sbagliando.
R.C. Questo se noi prescindiamo dal racconto, dal racconto che l’autore di un certo gesto può fare.
G.G. Etichettare favorisce personaggi come Stalin. In Russia, i manicomi, gli psichiatri erano al servizio del potere.
R.C. Eh sì. In Germania erano al servizio di Hitler, in Cile erano al servizio di Pinochet, in Cina al servizio di Mao e via discorrendo.
G.G. Io volevo sapere se la consapevolezza di una persona nasce nel momento in cui si percepisce come estraneo a se stesso. Questa percezione, quando esiste?
R.C. La percezione di estraneità?
G.G. Io credo che uno la percepisca nel momento in cui s’identifica con un altro e vede che l’altro sta facendo qualcosa che lui avrebbe fatto in quella situazione. A me è capitato così in una circostanza precisa, e ho capito, ho preso consapevolezza, mi sono svegliato.
R.C. Ecco, certo. La questione è proprio questa: è la questione dell’identificazione, dello specchio senza specularità, quindi è la questione della cifratura, dell’analisi, del ragionamento e non dell’etichettatura. A che giova l’etichettatura? Se noi facciamo l’elenco di qualcosa, questa elencazione, questo catalogo, questa catalogazione giova alla dissipazione del fantasma, per cui ciascun caso è in corso in quella vicenda apparentemente simile, senza ascoltarne il racconto, la testimonianza? Perché, appunto, il canone occidentale invita al catalogo, alla sistematizzazione, alla classificazione, non alla lettura, non all’ascolto, cioè non invita a intendere le ragioni come ragioni dell’Altro, ma pone una “ragione” come schema applicabile, come idea di una ragione, di un raziocinio, di una ragionevolezza. Ma la ragionevolezza non è la ragione.
Ciascuno pensa, parla, dice, fa non per ragionevolezza, ma secondo la ragione della parola. Se noi ci fermiamo alla ragionevolezza e leggiamo la storia di Aladino e della lampada meravigliosa, che cosa ha di interessante da dirci? Ragionevolmente, quale lezione potrebbe venire da una lettura ragionevole della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa? Perché sarebbe meravigliosa questa lampada? Ragionevolmente parlando, perché? Perché compie prodigi? Soddisfa i desideri? Sarebbe quello? Ragionevolmente parlando, sarebbe quello l’interesse? Che occorre dotarsi di uno strumento magico per continuare a vivere ipnotizzati? Ragionevolmente, l’interesse della fiaba sarebbe che occorre dotarsi della lampada, di una lampada magica per conseguire i propri sogni, i propri desideri? Sarebbe questo, ragionevolmente, l’interesse? Ma se noi la leggiamo ragionevolmente, cosa potremmo trovare se non questo? C’era una volta Aladino che era povero e disgraziato, poi è diventato ricco e famoso, e aveva anche una bella moglie piena di soldi. Dunque, sarebbe questa la lezione? Era piccolo, nero e sfigato; è diventato bianco, grosso e fortunato. E allora ognuno deve sperare di diventare Aladino; è così? Cioè, la lezione della fiaba è che c’è chi è fortunato e chi è sfigato? Meglio sperare di essere fortunati, ragionevolmente. Ragionevolmente, così la possiamo leggere, no? O c’è modo di ricavare altre indicazioni, a parte queste, ragionevolmente? Ditemi.
G.G. Chiunque è sfigato, nero, piccolo, eccetera eccetera; comunque, ha una speranza di potere diventare qualcosa di più, quindi…
R.C. Ma certo! Ognuno ha la speranza, ognuno può sperare. È questo il canone occidentale. E se non lo consegue in questa vita, può sperare nell’aldilà! È questa la rassegnazione. La rassegnazione è questo: “speriamo, speriamo che ci vada bene”. Sperate, sperate fratres! Speriamo. No! Qui non si parla né di magia, né di ipnosi, né di rassegnazione; è questo l’interesse della cosa. In questa fiaba, anzi in questa storia, importa non già Aladino, ma la principessa. Se noi la leggiamo come la storia di Aladino, prendiamo una cantonata, la leggiamo canonicamente e, allora, a un certo punto, la fiaba finisce, e vissero tutti felici e contenti. È una fiaba a lieto fine, cioè è una fiaba che conferma la rassegnazione dei mortali, perché, tanto, tutto finisce. O lietamente o meno lietamente, tutto finisce. Qui, per favorire la rassegnazione, canonicamente ci sarebbe il lieto fine. Invece non c’è il lieto fine, tant’è vero che il libro prosegue, il racconto prosegue, perché è un racconto nel viaggio di Shahrazàd; è Shahrazàd che racconta! Quindi, Shahrazàd presenta il suo personaggio: questo fa ognuno che si presenta! Presentandosi, ognuno si presenta come personaggio, e racconta che cosa? Ciò che l’ha prodotto nella convinzione di rappresentare quel personaggio. Con una sfida: di non essere imprigionato nel personaggio. Con un auspicio: che si dissipi quel personaggio. Non che cambi, ma che si dissipi. Il personaggio non cambia: o si dissipa o si ripete. Identico, mutatis mutandis. O il personaggio si dissipa, e la fantasmatica che lo rappresenta è attraversata, oppure quel personaggio è sempre riproposto, perché è funzionale al mondo che rappresenta, è funzionale alla presentificazione del ricordo su cui si regge. O quel ricordo è dissipato o è mantenuto e si ripropone, volta per volta, con qualche variante, perché ognuno, una volta presentato personaggio, è al servizio di quel personaggio, obbedisce a quel personaggio, perché quel personaggio giustifica la realtà presente, e quindi è necessario. Sta qui la furbizia della ragionevolezza.
Cecilia Maurantonio Quindi il personaggio si regge sulla credenza della realtà.
R.C. E certo. Giustifica, giustifica. Causa e giustifica la realtà presente.
G.G. La guarigione è una conseguenza. […] un sintomo compare come conseguenza.
R.C. Sta qui la furbizia della ragione. La furbizia della ragione è quella di presumere di sapere quale sia il sintomo, di localizzare il sintomo, magari definendolo. Lei dice “un sintomo, poniamo un sintomo”. Quello che però comunemente è chiamato “un sintomo” è una rappresentazione.
G.G. La persona non soffre in realtà? La sua sofferenza è autentica.
R.C. Non è questo il punto. Il masochismo morale vive di questa sofferenza. E se lei provasse a togliergliela, vedrebbe le conseguenze. Capisce? Si fa presto a dire la sofferenza. Ma di cosa si tratta? Quale sofferenza? Quella che si rappresenta, quella che si mostra? Quella fa parte del personaggio. Allora, la questione è la dissipazione del personaggio. Dissipandosi il personaggio è chiaro che tutto ciò che vi sta intorno sfuma, non ha più dove poggiare, ma occorre la dissipazione del personaggio e della rappresentazione da cui il personaggio è stato creato, prodotto, presentato e mantenuto. E tutto ciò è complesso, non poggia sul senso comune, sul buon senso, sulla ragionevolezza, per nulla. Questa è la questione. Non basta il buon senso o il senso comune per intendere dove poggia, perché e come s’instauri un certo personaggio, e a cosa è funzionale. Tutto ciò non è già saputo, non è già noto, non sta nelle classificazioni, e ciascun caso è da indagare nel suo viaggio non secondo una casistica, perché così non s’intenderebbe nulla.
Dunque, la Storia di Aladino e della lampada meravigliosa è innanzi tutto una storia; non è il fatto di Aladino, è la storia. Per intendere di che cosa si tratti, occorre leggerla senza il canone e occorre indagare i personaggi della fiaba senza realismo. Allora, noi troviamo che c’è una principessa e c’è un promesso sposo. Ma la principessa come si prefigura le nozze? Come abbiamo visto la settimana scorsa, se le prefigura “…in una stanza meschina e scura”, quindi c’è una degradazione della sessualità. A partire da che cosa?
La principessa, in attesa delle nozze, dubita se sia il caso di procedere alle nozze stesse. Perché, se si sposasse, che cosa accadrebbe? Accadrebbero tutta una serie di disavventure: che Aladino potrebbe rivelarsi un poveraccio non in grado di difenderla, lei potrebbe venire rapita, si farebbe avanti un pretendente nella fattispecie di un mago, addirittura africano che, mentre il marito distrattamente si fa gli affari suoi da un’altra parte, arriva lì e la insidia, e lei, poi, potrebbe cedere alle insidie, oppure dovrebbe addirittura ucciderlo. E poi cosa accadrebbe? Che ce ne sarebbe un altro. Tutta una serie di dicotomie, di alternative, di anfibologie fra il padre e il sultano, fra il padre e lo sposo, fra lo sposo e l’amante, fra il padre e l’amante, fra lo sposo di nobili origini o di umili origini, tutta una serie di possibilità positive o negative che vengono da dove? Da dove vengono? Vengono dal matricidio! E, simultaneamente, con il matricidio è fantasmatizzata anche la messa a morte del padre e la messa a morte dello sposo, e con la degradazione della sessualità.
Se voi leggete la storia fino alla rappresentazione degradata delle nozze, noterete che non c’è la madre; non c’è la madre della sposa. La madre della principessa è assente, è negata. C’è la sultana, c’è la madre di Aladino, ma la madre della principessa non c’è. E la madre di Aladino è una madre… Beh, sì, ha l’ardire di presentarsi al sultano, ma è paurosa, ha paura del genio, ha paura della ricchezza, non vuole sapere di questo, non vuole sapere di quello, ha paura di Aladino, non riesce a educarlo, è una madre con mille pecche, è una madre senza mito, è una matrigna, è una madre che è una disgrazia avere. E, infatti, Aladino, con una madre così, ha mille peripezie.
Improvvisamente, la madre giunge dopo le nozze. Ma quali nozze? Le nozze in cui Aladino non è Aladino; lo sposo è Aladino, ma non è Aladino. C’è l’anfibologia tra Aladino e il figlio del visir, Aladino e il figlio. Come sarebbe il figlio se… Come sarebbe? Sarebbe come Aladino, come il visir, come il figlio del visir? Il quale, la prima notte di nozze, si fa chiudere nel bagno. Ma tutto questo è fantasmatica della principessa. Aladino è personaggio della principessa, è un’anfibologia ideata dalla principessa che, partendo dal matricidio, quindi dalla fine, pensa la sua fine se si sposasse. A partire dalla fine, segue tutta la serie delle disgrazie.
Quindi, il viaggio non è di Aladino, è della principessa, che, negando la parola, negando l’infinito, negando il dispositivo, negando la differenza del figlio e la differenza assoluta, si rappresenta ogni negatività: le minacce di rapimento, di morte, di stupro…
G.G. La spada!
R.C. La spada. Eh, la spada. La spada era lì.
G.G. Nella cacciata dal paradiso, gli arcangeli, muniti di spada, impedivano di entrare.
R.C. Sì, esatto. Qui invece era fra lui e lei. Ma, appunto, forse che la cacciata non è una fantasia? “C’era una volta un giardino dove stavamo benissimo e, a un certo punto, ne fummo cacciati”. “Qualcuno mi costrinse a venire al mondo in questa valle di lacrime”. “Guai a lui! Guai a lui che mi ha immesso nella mortalità. Guai a lui!”. Fantasia ora di Adamo ora di Eva, fantasia dell’uomo, fantasia dell’uomo mortale. La cacciata è una fantasia dell’uomo mortale, è una fantasia del soggetto, il quale soggetto dice: “È stato lui! No, è stata lei! Ma guarda che, se era per me, ero ancora lì. È stato lui! Ma no, è stata lei! Ah!”, e quindi si mantiene come personaggio mortale, attribuendo la colpa e giustificando la pena, e dunque instaurando il canone della vendetta. Qui, invece, la principessa non cede, non si lascia andare al realismo, ma avviene l’elaborazione della fantasia di alternativa.
Il caso è quello della promessa sposa che la notte prima delle nozze si chiede: “Ma faccio bene o faccio male a sposarlo? Ma questo sposo è veramente un bravo ragazzo o è un malintenzionato? E mio padre, che mi lascia andare così alle nozze, che mi concede a questo che non sappiamo bene se sia un buon uomo o un uomo malvagio, è un disgraziato. In virtù di che cosa mi fa sposare? Perché non mi vuole bene, mio padre non mi ama, mi lascia andare con uno qualsiasi che è arrivato lì, di umilissime origini, che ha fatto qualcosa di buono, ma per via di certi aiuti, per cui non vale gran che”.
Però la notte passa e queste fantasie sono elaborate. E non c’è più l’alternativa fra il padre e lo sposo, non c’è più l’alternativa al matrimonio, perché, con la madre instaurata, con il mito della madre, data l’infinità delle cose, il matrimonio non è incestuoso, non è la realizzazione dell’incesto, ma diviene dispositivo sessuale, diviene sacramento, cioè diviene nella parola dispositivo e non come realizzazione erotica dell’incesto.
Questo è il caso che propone questa storia, dove appunto la lampada non è magica, è meravigliosa, perché dalla lampada procede ciascuna cosa e va in direzione della qualità. Quindi, non è la lampada del bene o del male, perché, se così fosse, Shahrazàd non instaurerebbe il dispositivo del matrimonio, mentre noi leggiamo che Shahrazàd si sposa e non c’è più il taglio della testa, e non c’è più il tradimento, e non c’è più l’incesto, e lungo una serie di teoremi e di assiomi si scrive il viaggio di Shahrazàd.
La Storia di Aladino e della lampada meravigliosa svolge il caso clinico della promessa sposa che ha un momento di debolezza, di dubbio, un cedimento dovuto al matricidio, perché è a partire da ciò che sorge l’idea di alternativa. Allora sì, la lampada è magica nel cedimento del matricidio, nel momento in cui l’origine si localizza e, localizzandosi l’origine, la morte è assicurata, significata dall’uovo di rukh, l’origine del potere del genio, l’origine del potere della lampada. Posta l’idea di origine, il genio non ha più potere perché non c’è l’annunciazione. E, invece, dalla lampada procede l’annunciazione, questa è la questione effettiva del genio, questa è la questione di Aladino e del genio. Si tratta dell’annunciazione, e lungo l’annunciazione avvengono le cose fino alla scrittura del caso, che si scrive con il matrimonio, con la dissipazione dell’idea d’incesto.
Questo è il teorema del caso: non c’è più erotismo, non c’è più incesto! Il matrimonio esige la dissipazione dell’erotismo e del tabù dell’incesto, cioè della rappresentazione dell’incesto, senza cui non c’è matrimonio ma idea di stupro, di violenza, di pericolo, di rapimento, di degradazione.
È chiaro che ci sono tante altre cose al proposito, ma per ora concludiamo e proseguiamo il viaggio.