- ATTIVITÀ ANNO 2008
- Come vivere, come fare, come comunicare
- Lezioni di vita 1
- Lezioni di vita 2
- Arrigo Cipriani. Harry’s Bar
- Vivere il monumento
- Cuba. Dissidenza e scrittura civile
- La sicurezza alimentare in Cina e nel pianeta
- I tesori della Russia a Venezia
- La follia, la pazzia, la clinica
- Il racconto e il viaggio
- Lussuria e censura
- La scuola del disagio e dell’ascolto
- La scuola del disagio e dell’ascolto
Come vivere, come fare, come comunicare: lezioni settimanali di psicanalisi tenute da Ruggero Chinaglia, cifrematico, psicanalista, alle ore 21, da venerdì 15 febbraio nella Sala Polivalente della Guizza, in Via Santa Maria Assunta, 35/A, a Padova dal titolo
COME VIVERE, COME FARE, COME COMUNICARE
Per ciascuno la questione essenziale è come vivere, come fare, come comunicare: quando l’arte, la poesia, la finanza, l’impresa, l’amore, la sessualità, la clinica, la scrittura giovano al valore estremo; quando la soddisfazione da cui procede la salute è un’esigenza non più rimandabile; quando la questione è di vita o di morte; quando si tratta di riuscire; quando la vita è pulsionale, il modo e i dispositivi della parola sono necessari. Come acquisirli?
Come vivere, come fare, come comunicare. La funzione principale di questi incontri è quella di esaminare le peculiarità e le caratteristiche della psicanalisi, termine oggi spesso frainteso e male interpretato. La psicanalisi, differentemente da una disciplina e da una forma di psicoterapia, è lavoro analitico e clinico, che implica l’ascolto e l’intendimento. La clinica come viaggio imprevedibile attraverso le sfumature, viaggio caratterizzato dallo stress che, a differenza della depressione o della reazione patologica a qualcosa, è tensione intellettuale, ossia spinta e pulsione. La clinica in quanto processo di valorizzazione, secondo cui il valore non è mai già dato. La clinica come ricerca e comunicazione, ossia come modo per acquisire i dispositivi della parola, senza i quali non è possibile fare, né vivere, né, appunto, comunicare. Poiché la questione di vita è quella della riuscita.
Venerdì 15 febbraio, Il contributo della psicanalisi alla vita
Come vivere, come fare, come comunicare. Ancora oggi c’è chi crede che la psicanalisi debba essere riservata a chi è malato e, quindi, intraprenderne l’esperienza sarebbe già un’ammissione di malattia. Niente di più arcaico. Niente di più fuorviante. È una denigrazione. La psicanalisi è l’esperienza della parola originaria. Esperienza della parola e dei suoi effetti, esperienza che annovera come suoi componenti la ricerca e l’impresa. Simultaneamente. Già questo aspetto, simultaneità di ricerca e d’impresa, è una novità non trascurabile e è una caratteristica che spesso viene trascurata dal discorso comune. Psicanalisi è esperienza di parola, psicanalisi è occasione di formazione e d’insegnamento, psicanalisi è esperienza di vita.
Venerdì 22 febbraio, Psicanalisi? Non sono mica matto!
La questione da affrontare è perché la psicanalisi è ammessa, e non sempre, come “metodo terapeutico”, ma in nessun caso è ammessa come esperienza artistica, culturale, formativa, come scuola di vita. Perché attorno alla psicanalisi è stato alimentato il pregiudizio secondo il quale per ricorrervi bisogna essere malati, affetti da qualcosa, o, comunque stare male? Perché è stata spacciata come psicofarmaco e invece non è apprezzato l’arricchimento intellettuale, culturale, artistico, scientifico che produce? Forse perché da sempre è stato chiaro che la psicanalisi non è per i funzionari del luogo comune, né per chi si fa vittima di un presunto destino avverso o del principio della sostanza.
Venerdì 7 marzo, L’enigma della vita. Relazione sociale e dispositivo
Il modello cui s’ispira la psicoterapia è il rapporto personale instaurato sul modello del rapporto sociale fra chi è presunto curare e chi è presunto curato. Senza l’esperienza di associazione, esperienza che consente di elaborare la questione dell’istituzione in quanto istituzione psicanalitica, la burocrazia impera. Burocrazia nel senso della credenza nel potere invisibile e nella predestinazione, nonché nell’inerzia del fatalismo. Ogni idea di salvezza, che si volga o no nella promessa della salvezza che istituisce il totalitarismo delle convenzioni, fonda la demarcazione fra l’effettiva libertà intellettuale e ciò che annoda l’ideologia della vendetta come legame sociale. Chi crede nella salvezza s’istituisce come vittima, chi promette la salvezza s’istituisce come carnefice, rinnovando la diabolica coppia schiavo/padrone di platonica memoria e che si rinnova surrettiziamente dove sia istituita la coppia maestro/allievo o medico/paziente, o curante/curato. Varianti delle coppia capace/incapace.
Venerdì 14 marzo, L’uomo, l’evoluzione, l’idea di bene
L’idea di progresso e l’idea di regresso sono tributarie dell’idea di fine. Procedono da un insieme dato per finito e rispetto a cui qualcosa possa qualificarsi progresso o regresso; ma rispetto a cosa? Rispetto al bene ideale. Progresso e regresso sono modi di riferirsi a un’idea evolutiva, dove il miraggio sta nell’evoluzione verso il meglio, verso il bene ideale. Questa idea dell’evoluzione sottende l’ideologia apocalittica o messianica. L’idioma, la particolarità della parola, come toglierla, come abolirla? Con la coscienza, con la nozione di uomo quale equivalente generale del genere, privo di valore.
Venerdì 28 marzo, La valorizzazione della vita
L’idea di evoluzione applicata all’uomo è l’altra faccia del fantasma di morte. È un modo di negare l’infinito e applicarsi una fine certa. Il fantasma di evoluzione è un risvolto dell’idea di bene comune, di bene prescritto: cosa è ritenuto evolutivo? Ciò che migliora la specie. Ma come la migliora? Secondo quale criterio? Secondo l’idea di bene che dovrebbe salvare dall’idea di fine. È un’idea di bene sottoposta all’idea di fine e di morte. Nell’infinito nessun progresso e nessuna evoluzione, ma variazione e differenza assolute e costanti: e questo rende impossibile prescrivere il fine di bene. Allora, la questione è la valorizzazione della vita, non già la sua fine o il suo senso. Porsi la domanda sul senso della vita è situarsi in una posizione fatalistica, ontologizzante rispetto alla vita, come se fosse qualcosa che c’è già. La vita senza ontologia è la parola stessa, che si struttura atto per atto e esige di scriversi in direzione della salute. Con la clinica.