LA LINGUA DELLA VITA a Castelfranco Veneto
- On 17 Aprile 2023
Venerdì 21 aprile 2023, alle ore 20,45 nella Sala Guidolin della biblioteca di Castelfranco Veneto, in Piazza San Liberale, organizzata dall’Associazione cifrematica di Padova, con il Patrocinio del Comune di Castelfranco Veneto, il dott. Ruggero Chinaglia, cifrematico, medico, psicanalista, tiene la conferenza con dibattito dal titolo
LA LINGUA DELLA VITA
Il disagio, la critica, la clinica
Il progetto, il programma, l’avvenire
Intervento introduttivo di
Stefano Fior, imprenditore e ricercatore dell’Associazione Cifrematica di Padova.
L’incontro, che affronta questioni che sempre più insistentemente si pongono per gli studenti, i genitori e gl’insegnanti, è rivolto all’intera cittadinanza.
L’ingresso è libero.
Ciascuno, nell’indispensabile necessità di costruire giorno per giorno l’itinerario del vivere, può enunciare in modo anomalo le sue esigenze. Ciò richiede apertura e ascolto da parte di chi sta attorno, per non classificare come malattia quanto viene posto in modo non chiaro e “comprensibile” e fornire aiuto effettivo. È una questione di tolleranza assoluta. Allora può avvenire un contributo alla vita.
Ing. Stefano Fior
* * *
Per ulteriori informazioni scrivere a ruggerochinaglia@infinito.it o tel. 049 656218
RUGGERO CHINAGLIA
LA LINGUA DELLA VITA
Il disagio, la critica, la clinica
Il progetto, il programma, l’avvenire
Questa conferenza è stata organizzata e proposta in un programma di attività, qui a Castelfranco e non solo, miranti a analizzare le questioni che diffusamente fanno del tessuto sociale un’ingessatura e che sono fortemente avvertite in modo problematico nell’istituzione scolastica, in quell’età cosiddetta scolare, che va dalla scuola dell’obbligo all’università.
Doveva tenersi in una scuola, come altri interventi che seguiranno, ma l’intolleranza della compagnia di spirito non lo ha reso possibile. Alludo a questioni quotidiane da cui la parola è bandita e che sono etichettate come sintomatologie, sindromi, malattie, disturbi, che si evidenziano nella famiglia e nella scuola con chiusure, scontrosità, difficoltà nello studio e nella riuscita, ricerca dell’ebbrezza, ansia, angoscia, noia, nausea, vergogna, pudore, fastidio, sgomento, irritabilità, stanchezza. Sono questioni che, se inascoltate possono giungere al rifiuto dell’alimentazione, e al taglio del taglio, con l’autolesionismo. Sono questioni che non chiedono soluzioni e trattamenti, come avviene per lo più, con l’applicazione delle categorie del simile, dell’opposto, dell’analogo dell’uguale, ma l’istituzione di dispositivi della parola. È essenziale esplorare e capire di cosa si tratti. Questa sera proviamo a dare un contributo. Con qualche questione preliminare.
L’epoca, ossia il discorso comune, in cui molti si trovano, con i suoi precetti, che si avvalgono dei bollettini di guerra delle autarchie e delle democrature, dei comunicati della compagnia di spirito che mira a governare ogni provincia, dei giornali, delle radio, delle televisioni e di internet, ha assunto il compito prioritario di eliminare la cittadinanza, con la sua scrittura civile e di istituire invece la sudditanza. Abolendo la parola, la sua particolarità la sua struttura, il suo modo.
L’atto di parola è contraddistinto dalle sue virtù e dalle sue proprietà. È linguistico perché caratterizzato dall’afasia e dall’alingua. L’afasia, cioè la parola non si parla. Nessuno parla la parola: nessuno ha padronanza sulla parola, nessuno dice quel che vuole dire. L’alingua, ossia nessuno parla la lingua comune. Nessuno è soggetto padrone della lingua. La lingua della parola non s’impara e non è mai la stessa, non si eredita e non è innata. Gli elementi linguistici dell’atto non rispondono all’intenzionalità, né a un codice predeterminato. Nessuna lingua comune. Nessuna condivisione della lingua e delle intenzioni; tanto meno delle idee.
In breve, la parola e la sua lingua dissipano ogni presunta facoltà e competenza sulla parola. Ogni presunta padronanza e imperio. È vano escogitare trucchi e furbizie per credere o immaginare di potere dominare la parola. Questa questione, essenziale, è la questione intellettuale come questione della parola. Accogliere e accettare la questione non va da sé, perché impedisce di esercitare il business della parola come business della morte. Attorno a cui c’è il tentativo di esercitare un monopolio. Il business della morte è il business della conformazione, dell’adeguamento, della normalità, dell’inscrizione in un genere comune, in un’identità comune, al netto delle “piccole differenze” consentite e concesse dal catalogo della normalità. Queste furbizie con i relativi stratagemmi, cercano di contrastare la parola, e sopra tutto la particolarità e l’anomalia costitutiva. E ecco allora le gergalità diffuse, la lingua comune, la lingua per comprendersi, la lingua che annichilisce il particolare, lo specifico, la proprietà linguistica, la specificità linguistica.
La parola è originaria, cioè è senza origine; ciascun atto è originario e non dipende da ciò che precede e ciò che segue. L’atto è temporale, quindi esente dall’alternativa fra il prima e il poi. Nessun atto è uguale a un altro. La parola è caratterizzata dal disagio. Il disagio è una delle virtù del principio della parola. Insieme all’aria, la leggerezza, il caos, l’anoressia, l’integrità, l’intero e l’integrazione. Il disagio è essenziale per intendere la questione della parola: non è la negativa di una presunta coppia oppositiva escogitata dai faccendieri del business della morte, non è la negativa dell’agio, dell’agiatezza, della comodità, dello stare bene, non è il sinonimo dell’alterazione lieve della “salute mentale”. Il disagio come virtù del principio indica nella sua natura linguistica della lingua greca, δισ αγω, δισ αγειν, che le cose procedono dal due.
La procedura della parola dal due alla qualità è la procedura per integrazione: nulla è carente, nulla è in eccesso, ciascuna cosa si integra nell’atto, nella struttura e si scrive in direzione della qualità. Le cose procedono dal due e si rivolgono alla qualità. La procedura per integrazione investe anche la rivoluzione di ciascuna cosa alla qualità. Questa rivoluzione è ciò che linguisticamente è la domanda di ciascuno. Per le virtù del principio della parola e per la procedura della parola, la domanda di ciascuno tende alla cifra, tende alla qualità. Tende a disporsi nel dispositivo della parola, per procedere. L’avvenire è inimmaginabile: pensare l’avvenire istituisce il tempo che finisce o l’ultimo tempo, ossia l’inferno, introdotto nel quotidiano. Come presumere di vivere nell’inferno? Nella pena, con il senso di colpa e di debito. Con l’angoscia e con la penitenzialità di non soddisfare la volontà dell’Altro, sia esso Dio, l’ente, il superiore, chi sta sopra, chi comanda.
L’inferno è l’altro nome della volontà, con la sua mitologia di fare quel che si vuole. Ma chi vuole e che cosa vuole? Quel che ognuno presume la propria volontà è la volontà dell’Altro, ossia la volontà delle prescrizioni, del canone, dell’uniformazione, della condivisione, dell’attesa della morte ultima. Salvezza e salvazione sono le attese che si producono nell’infernale della vita, dove il tempo è negato a favore dell’idea della fine del tempo e dell’attesa dell’ultimo tempo e dell’ultima morte.
Il progetto e il programma di vita s’istituiscono rispetto al dispositivo della parola e in particolare rispetto alle sensazioni della struttura in atto, nella sua differenza e nella sua variazione costanti. Questo impedisce ogni canone, ogni previsione, ogni conformazione. Per questo è stata introdotta nel canone iniziatico di cui si avvalgono le filosofie, le psicologie, le sociologie, le religioni della morte, la rieducazione spacciata per educazione, per addestramento, per training, per counseling, per coaching, addirittura come cura drogologica o comportamentale.
Quanto avviene nell’apparato sociale, che istituisce canoni della correttezza, canoni della rieducazione, canoni e prescrizioni iniziatiche in cui si tratta di arrivare alla fine, con gli imperativi del dovere essere, del dovere avere, del dovere fare, del dovere sapere, del dovere sapere fare, del dovere avere successo, del dovere essere come gli altri, di non dovere eccellere, per non contravvenire al principio di uguale, di dovere partecipare, condividere, comprendere, quindi usare una certa stereotipia per accomunarsi va nella direzione contraria alla parola e alla sua spinta. Molte prescrizioni che ispirano il modello di suddito ideale riguardano anche proprio la spinta, la tensione che deve essere idealmente abolita a favore del relax, della calma, della vacanza permanente, della facilità, in breve della soggettività. La soggettività è giustificata con l’origine, con la famiglia, con la classe, con il genere, con la cerchia, con la tribù che devono essere mantenuti. Per assecondare precetti e imperativi, per indossare l’habitus della conformità e le abitudini conseguenti, diventa impossibile l’instaurazione della sessualità come politica del tempo, perché il tempo è precluso e ciascun atto, ciascuna ipotesi e è pensata e valutata per la sua fine. Ciascuno provi a fare attenzione a quante volte interviene nell’interlocuzione con altri o nell’interlocuzione di altri nei suoi confronti, la locuzione “alla fine”.
Dove ciascuno vive? Come vivere? La decisione di vivere esige il secondo rinascimento della parola e la sua industria, esige il labirinto e il giardino del tempo della parola. Ciascuno vive nella ricerca e nell’impresa. Nessun luogo, nessun posto, nessuna sostanza. Ma, l’ambito e l’ambiente della parola. Nel gerundio della ricerca e dell’impresa della vita. La vita nel gerundio è la parola che diviene cifra. Questa è la nostra accezione di vita. Pertanto è senza durata e senza idea di durata. L’idea di durata è idea di fine, di ultimo tempo; è arbitrio dell’idea di fine e di morte. L’idea di morte è un arbitrio dell’idea. L’idea arbitraria, l’idea originaria è senza arbitrio della fine. L’arbitrio dell’idea è un’idea cui è assegnata una significazione convenzionale, comunitaria, sociale, finita.
Della morte non c’è idea: la morte, quel che è chiamato morte, è indice della differenza e della varietà temporale. L’esperienza della differenza e della varietà è l’unica esperienza che avviene e è nel gerundio della vita. Per questo, attenendoci a questa linguistica, alla linguistica della parola, l’esperienza della morte è l’esperienza del gerundio della vita. È esperienza dell’indice della differenza e della varietà temporale. Differenza e varietà sono ciò per cui ciascuna volta è un’altra volta. Ciascuna volta è senza plurale. Il discorso della morte, che procede dal principio di uguale con la ripetizione dell’identico, attua la formula “Tutte le volte che…” come se si trattasse sempre della stessa volta, senza il caso specifico e di qualità. La rieducazione alla soggettività.
L’esperienza è l’esperienza della volta in atto. E l’esperienza si scrive, per cui la volta non è l’ultima volta e non è sacrale, non è il paradigma, non è il modello, non è lo standard. Per via della differenza e della varietà, il gerundio si scrive e non è l’ultimo tempo. E la novità è proprietà di ciò che si fa e si scrive. La novità non è l’ultima novità. Eppure, ognuno coltiva il fantasma di morte, il fantasma dell’ultimo tempo, il fantasma di fine.
Il fantasma di morte è l’applicazione della conoscenza. E della sua rimemorazione. “A mia conoscenza…”, “A mia memoria…”, “Le cose sono”, “Io sono, noi siamo”. L’arbitrio dell’idea cerca la coerenza tra un’idea e l’altra, tra una volta e l’altra. È il fantasma dell’imperativo algebrico, perché tutto sia uguale a zero. Ciò che sembra esulare dalla conoscenza e dalla rimemorazione esula dalla possibilità di essere ricondotto all’equazione, esula dall’imperativo equazionario. E è respinto.
Se la varietà e la differenza sono bandite, allora il fantasma di conoscenza negando il tempo, nega anche le sue virtù, la carità, la grazia, la verginità. Allora, il tempo negato doppia la negazione del due con l’instaurazione della negativa del tempo, ossia la sua fine, e l’alternanza e l’alternativa fra il bene e il male. Allora, ciascun elemento della struttura sintattica, frastica, pragmatica è nell’alternanza e nell’alternativa. Alternanza e alternativa fra vita e morte, fra puro e radicale, fra naturale e innato, fra primo e iniziale. La riverberazione di ciò è che l’origine, la famiglia, il padre, il fratello, la madre, la donna, l’uomo, l’amico, e altre cose, sono prese nell’alternanza e nell’alternativa con il loro contrario. Ognuno si trova nell’alternanza e nell’alternativa, quindi nella paura della differenza e della variazione. È la paura della corruzione, del male, dell’incesto, del difetto, della lacuna, del fiasco. È la paura dell’Altro. Nel secondo rinascimento, nel labirinto della ricerca, ciascun elemento è originario.
Il soggetto del sacrificio istituisce la famiglia sacrificale, dove il padre è carente, assente, morente o morto, il figlio è carente, debole, difettoso, incapace, la madre è sofferente, dolorosa, deve mediare fra le carenze altrui: “avrei dovuto, avrei preferito, sarebbe stato opportuno, avrei voluto, ma…” sono le enunciazioni che procedono dall’idea della vita come sacrificio; in nome del bene dell’Altro, nel segno dell’alternativa, farsi vittima nega il narcisismo della vita e sancisce l’accettazione delle negatività giustificando l’assistenzialismo che nega l’auctoritas, l’abundantia, la superfluentia. L’idea di ultimo tempo istituisce anche l’edonismo penale e penitenziale. L’esperienza si scrive, non per confermarsi, non per spiegarsi, non per esercitare effetti taumaturgici, in direzione dell’approdo. Non si può prescindere dalla linguistica della vita e non si può accettare la linguistica della morte con le sue alternative e i suoi ricatti.
Il discorso dell’Unico ha vari risvolti. Anche il ricorso all’esperto e al suo sapere accreditato e validato vale all’uniforme e all’uniformazione dell’informazione. Per esempio: fa parte della linguistica della morte presumere e prescrivere di conoscere la perdita e ciò che sarebbe perduto, sulla base dei costumi antropologici. Nella vulgata antropologica è chiamato lutto il sentimento della perdita dell’oggetto amato o d’amore. Evitare l’esplorazione della fiaba, è un indice dell’invischiamento alle proprie idee, che non ammettono la parodia, la differenza e la variazione. La parodia non è da confondere con il cambiare idea, perché le idee non si cambiano: o si dissipano o persistono, la parodia sta nell’assenza di realismo che consente l’esplorazione del tessuto linguistico. Con il realismo, persiste l’idea di origine, di appartenenza, di genere, di ghénos, di fine del tempo, dell’ultimo tempo, dell’economia del tempo, della riproduzione economica del fatto.
La formula più frequente di chi si è rivolto a me nei mesi più recenti, pur per svariati motivi, è: “So benissimo che bisognerebbe fare in questo o in quell’altro modo, ma…”. Oppure: “So benissimo che dovrei essere in questo o in quell’altro modo, ma…”. “Ma”, c’è un ma, qualcosa si frappone al sapere e al dovere essere.
La modalità altruistica psicoterapica si prodiga perché il sapere e il dovere non siano smentiti, anzi si propone di rafforzare gli stratagemmi e gli accorgimenti perché il dovere, il sapere, l’essere siano confermati e ogni prescrizione non sia smentita. La questione è invece altra e differente. La questione non sta nel “ma”, sta nella formula “So benissimo che”. È la formula dell’adeguamento, della conformazione, della volontà dell’Altro da soddisfare immaginando e credendo che si tratti della propria volontà o della volontà comune cui piegarsi. E non si tratta nemmeno di affrettarsi a smentire il presunto sapere, cioè il sapere che segue l’arbitrio dell’idea, per correggere, educare, convertire. Sarebbe una forma penalpedagogica di rieducazione, d’iniziazione, di prescrizione, di una verità contro un’altra presunta verità. Sarebbe un’istigazione all’opposizione e alla rivendicazione.
“So benissimo che” non annuncia la verità, ma un dubbio mascherato da certezza. Un dubbio che cerca di fondarsi sull’avere o sull’essere ma s’imbatte sul “non”. A che pro togliere la funzione del non per confermare o smentire una certezza presunta dall’arbitrio dell’idea? In nome di un ideale, di un’utopia, di un obbligo morale, di un’idea di relazione, di un sistema di relazione, di un’identità, di un’appartenenza? “Io so benissimo” è la formula dell’autofagia. Sancisce l’equazione fra l’io e l’essere. Nella conferma della sostanza, della consustanzialità, ognuno si fa cannibale. “Io sono una persona che…”. E segue il ritratto in ossequio a un’entità ideale, a un arbitrio dell’idea. Un tentativo definitorio. Ogni tentativo di definizione si appella al sentimento, all’emozione, alla personalità e ne incontra lo scacco, che chiama, e è chiamato, deviazione. È il nome che l’intolleranza dà all’anomalia. L’anomalia rende impossibile l’uniformità del pathos della morte.
La convinzione e il convincimento sorgono sull’arbitrio dell’idea dell’ultimo tempo e dell’ultima morte, quindi della possibile riproduzione economica del fatto: “Stante quel che mi è accaduto, non può che accadermi quel che mi accade”. E non c’è più legge, etica, clinica della vita. Nel dispositivo della parola le cose si dispongono. Chi può arrogarsi l’arbitrio di stabilire che sono già disposte? L’idea di uguale, di uguale comune, istituisce il comune ultimo tempo. Con l’ultimo giudizio. L’ultimo giudizio è anticipato in modo penitenziale dall’autocritica. L’ultimo giudizio istituisce il ritorno all’idea di origine, e il viaggio è sempre rivolto all’indietro, perché riproduce la critica all’origine con la riproduzione economica del fatto fondante il ghénos. E l’autocritica istituisce il combattente dell’ultima guerra, quella di liberazione o di soluzione.