- EDIZIONE
- Una lingua nuova. La lingua della parola – libro
- La realtà della parola
- L’inconscio e la qualità della vita
- Il terremoto. Nella sessualità, nella clinica, nell’impresa
- La tentazione
- Stress. La clinica della vita
- L’Art Ambassador. La vendita, il messaggio, il valore
- L’ascolto e i dispositivi di direzione e di educazione
- Brainworking. La questione intellettuale
- La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione
- La lampada di Aladino. I giovani, l’amore, la finanza
- La lettura delle fiabe. Quale ambiente, quale educazione
- L’educazione e la direzione. L’autorità, la responsabilità, la capacità, la decisione
- La formazione intellettuale dell’insegnante nel terzo millennio
- L’idea del male, di dio e della morte nel discorso occidentale
- L’autorità nella famiglia e nella scuola
- La parola, il silenzio, la comunicazione. L’ascolto e la clinica
- La follia e l’arte
- La scuola e il progetto di vita
- L’educazione
- Arte e cultura della tolleranza
- Scuola e famiglia nel dispositivo dell’educazione
- La qualità dell’ascolto nella comunicazione
LA LAMPADA DI ALADINO. I GIOVANI, L’AMORE, LA FINANZA
- La famiglia di Aladino
- La lampada dell’erotismo
- La poesia dell’acqua
- L’amore
- I giovani e la conoscenza
- Aladino, il cibo, il fumo
La famiglia di Aladino
Ruggero Chinaglia Un fantasma si aggira per il pianeta: il fantasma dell’Islam. L’Islam, oggi, è ritenuto essere un elemento di disturbo in grado di sovvertire il sistema istituito dal discorso occidentale, il suo ordine e il suo canone; così pensando, si trascura che esso è un corollario del discorso occidentale. Il fantasma che attraversa il pianeta e lo agita e lo scuote è il fantasma di padronanza, con la paura, insita in esso, di perderla. Il fantasma di padronanza è l’idea di poter avere il dominio sulle cose, sui pensieri propri e altrui, sui desideri, sulla parola, sugli accadimenti, in modo che nulla possa sfuggire al controllo, in modo che nulla possa sorprendere, meravigliare, inquietare, interrogare, in modo che nulla possa sfuggire alla volontà. Volere è potere è il motto che consentirebbe di non essere costretti a interrogarsi su ciò che accade, sul perché accade, su come accade: “Io voglio e così sia”. Una certa mitologia tecnologica impone non già di rispondere agli interrogativi intorno al perché delle cose, ma di soddisfare le esigenze rapidamente, senza indugi, senza sbavature, in modo che le cose siano rispondenti all’idea che ognuno ne ha, per un realismo dell’immaginazione. Per un’immaginazione, quindi, senza immagine, ossia senza la semovenza dell’immagine, senza scarto fra l’immagine che si produce nella sembianza e l’immagine pensata, prevista, presunta.
L’idea di padronanza è l’idea di una possibile applicazione alle cose della via rapida, della via breve, spiccia, della via facile. È l’idea di poter andare per le spicce, di tagliar corto, di poter seguire una via rettilinea, senza pieghe, senza increspature, quindi di poter fare e stare senza la parola. Il fantasma di padronanza privilegia ora la magia, ora l’ipnosi. La prima realizza le cose come sono pensate, cioè rende le cose come devono essere per soddisfare il desiderio, ma senza sforzo, senza che ciò debba richiedere sforzo alcuno, dunque senza pulsione, senza ricerca, senza lavoro intellettuale: “Così dev’essere, così sia”; senza domanda, senza dispositivo, senza l’itinerario che va dalla causa alla cifra, dalla causa alla qualità, dalla causa al valore come valore assoluto, quindi come valore non quantificabile, valore imprevedibile, incalcolabile, valore estremo. È questa la cifra. Non il valore condiviso, ma il valore assoluto, il valore di cui non c’è nemmeno l’idea, quindi un valore sorprendente. A questa sorpresa dovrebbe porre riparo la magia, che toglie le cose dall’itinerario intellettuale. Ciascuna cosa, nella magia, è immobile, senza particolarità, dunque senza sessualità. La magia toglie le cose dal parricidio e dalla sessualità, le renderebbe immobili, inerti e quindi padroneggiabili; toglierebbe dalle cose la materia intellettuale, la materia sessuale. La magia consentirebbe che al disegno, al progetto, all’idea di qualcosa possa seguire il programma, la politica, la strategia, ma senza ingegno, senza dovere ingegnarsi per istituire il dispositivo perché questo avvenga, perché il disegno, il progetto e il programma si compiano e si concludano.
La magia si legittima attestandosi nell’obiettività delle formule del senso comune, la più in voga delle quali, sulla quale c’è quasi unanimità, recita che tutti devono morire. A questo punto è forse più chiaro che il fantasma di padronanza è un fantasma di morte che converte il tempo in durata, dopo avere convertito la particolarità in generalità e obiettività. La conversione del tempo in durata risponde all’idea che il tempo possa finire o addirittura debba finire; importa, allora, non già il tempo, ma la sua fine. Per rendere l’idea: un famoso motto zen narra che, se voi indicate qualcosa a un cane, il cane guarderà il vostro dito, non già la cosa indicata. Lo stesso vale per la nozione di durata: conta la fine, non già, più, il tempo. Quindi l’idea di durata, la nozione di durata è la negazione stessa del tempo, che non ha nessuna durata, perché è istantaneo. Il tempo non dura, è istante. Ma per chi si bea dell’idea di durata, la questione diventa allora “quanto mi resta”.
Quanto mi resta? Quanto mi resta da vivere? Chi può dire quanto gli resta? E’ certo che, una volta accettata questa idea del tempo o, meglio, della sua negazione, la paura sovrasta ogni cosa, fino all’erotismo della paura che culmina nella rassegnazione o nell’euforia distruttrice. In attesa della fine, ogni mortificazione va bene, è accettata, sia la mortificazione di sé, sia la mortificazione dell’altro. E cosa è più mortificante della negazione del valore e del processo di valorizzazione con cui procede la vita stessa? Che cosa sarebbe la vita senza il processo di valorizzazione, senza il valore delle cose, il valore che non è già insito nelle cose in sé, ma il valore che segue al processo di valorizzazione, cioè alla qualifica? La vita, senza questo processo di valorizzazione, sarebbe la vita animalesca, la vita bestiale, la vita senza pulsione, la vita, appunto, come attesa della fine. Ma questa non è vita perché la vita è viaggio, ma non in direzione della fine: è in direzione della conquista, del compimento, della conclusione del disegno, del progetto, dell’acquisizione perenne e incessante del valore che segue alla scrittura delle cose.
Nulla di automatico, quindi, nulla di già assegnato, nulla di già prescritto. È un viaggio che esige dispositivi, esige la domanda, esige l’itinerario, soprattutto la direzione, perché un viaggio senza direzione è un andare in tondo. Allora, essenziale è la direzione, e non c’è chi già la sappia, non è una questione di innatismo. La vita come viaggio ha la sua condizione nella solitudine, nella singolarità, nella particolarità. Il fantasma di padronanza contrasta la condizione del viaggio, contrasta la solitudine e, appunto per questo, tenta di instaurare l’obiettività e, per un altro verso, la generalità con cui ognuno ritiene di appartenere a un genere, a un insieme, a una classe, a un ordine sociale, familiare. Pertanto, a partire da questo, ognuno si confronta con il suo presunto simile, si misura, si paragona, si giudica; tolto l’assoluto, tolta la condizione del viaggio, restano i simili con cui confrontarsi, con cui misurarsi, con cui accapigliarsi o con cui stabilire i vari compromessi per negare il viaggio e per sancire, invece, che ciò che accomuna non è il viaggio, ma la sua fine: ognuno sarebbe accomunato dalla fine del viaggio.
Per questa via, dunque, ognuno si risparmia o si euforizza o si rassegna o si condanna o si loda. Ma, tolto l’assoluto, tolta la condizione, ognuno resta invischiato nelle pastoie del senso comune, del buon senso, del consenso. E noi abbiamo dinanzi agli occhi e alle orecchie, proprio in questi giorni, lo spettacolo del buon senso con i suoi motti: le riforme si devono ispirare al buon senso, gli accordi si devono ispirare al buon senso. Quasi a dire che basta che ognuno si rivolga al buon senso per imboccare la giusta direzione. E quale sarebbe la direzione del buon senso, del senso comune, del consenso? È la direzione che risulta dalla condivisione dell’idea più diffusa, ossia dell’idea di padronanza, ossia dell’idea di morte.
La paura della morte, intesa come fine del tempo, instaura l’idolatria, la superstizione idolatra che è superstizione drogologica, sostanzialista, superstizione ora algebrica, ora geometrica, che si fonda sulla credenza dell’alternativa fra il positivo e il negativo, con le sue figure, e dell’alternativa fra il sopra e il sotto o fra il dentro e il fuori, con le sue figure. Chi può avere il potere di allontanare il male, di allontanare la fine, di allontanare la cacciata, di allontanare l’abbandono? Ebbene, ognuno elegge un idolo presunto in grado di esercitare questo potere, e a quest’idolo rivolge ciò che ritiene essere il suo amore per avere un segno che questo amore sia ricambiato. Ma sarebbe questo l’amore? È ciò che vedremo di considerare e analizzare. Per ora, diciamo che, a partire da questa idea di amore, a partire da questa erotizzazione idolatra, è stato creato dio. Dio! Ogni dio, ogni divinità è creata per questo scopo. Sarebbe il dio con il potere di creare, con il potere di fare. Ma dio non ha il potere di fare, non c’è dio che possa fare, non è nelle prerogative di dio fare. Non c’è il dio agente.
Il dio agente è l’idolo, cioè la versione idolatra dell’operatore. Dio è operatore, opera perché le cose si facciano, è operatore logico, ma non è agente. L’idea del dio agente è un’idea magica. Ognuno, pur in questa sua idea di padronanza, pur auspicando la magia, ognuno avverte la complessità delle cose, delle sensazioni, delle emozioni, dei pensieri, la complessità delle istanze, delle esigenze, delle spinte in varie direzioni. E cosa fa? Per lo più ci pensa. Ci pensa, come alla morte. Alla morte, ognuno pensa. Ma a cosa pensa? Non c’è chi possa dire di conoscere la morte. E dunque a cosa pensa quando dice che ci pensa? A cosa pensa? Pensa a qualcosa che gli sfugge, di cui non ha nessuna idea, eppure ognuno dice che ci pensa o, quanto meno, dice che ci pensa e che farebbe meglio a non pensarci. Per non pensarci più, per paura di pensarci, per paura di pensare non si sa bene a cosa, per paura di pensare a qualcosa che non si può né controllare né padroneggiare è sorta l’ipnosi. Con l’ipnosi non c’è più problema, non ci si pensa più, non c’è più da pensarci; con l’ipnosi ognuno può farsi un concetto di sé, può farsi un concetto dell’altro, può farsi un concetto delle cose, non già un’idea, un pensiero. No. Un concetto, un concetto condiviso e standard, un concetto comune con cui le cose sono condivisibili, comprensibili, accomunabili, pensabili da ognuno, senza questione di particolarità. Non c’è nessuna particolarità, c’è la soggettività. Con l’ipnosi, le cose sono soggettive, cioè non stanno più nella parola, non stanno più nel loro viaggio dalla condizione alla qualità, ma stanno nel concetto, stanno nel discorso, stanno nel canone. Stanno. Non vanno e vengono secondo la pulsione; stanno, sono tali, ipnotizzate e ognuno può quindi farsene carico. Con l’ipnosi, anche le sensazioni vengono sottoposte a un’idea di padronanza, ritenendo di poterle gestire. E come? Convertendole in sentimenti. Non ci sono più sensazioni, ma sentimenti. Ogni sensazione diventa sentimento e, come tale, codificabile; entra nel canone del sentimentale.
È sorta così, con questo scopo, la psicologia dei sentimenti, ossia lo sciocchezzaio generale soggettivo. Come sentire, come devono essere i sentimenti. Il sentimentale: la sensazione che diviene mentale, mentalistica, che diviene mentalità. Mentalità delle sensazioni il sentimento. Ma può la sensazione iscriversi nella mentalità? Forse che ciascuno, con il suo sentire, può iscriversi in una mentalità, in un genere, in uno standard? Questo è il progetto dell’ipnosi, pedissequamente seguito dall’impostazione psicoterapica, che altro non è se non il tentativo di applicare a ognuno il fantasma di padronanza. Dunque, il controllo sulla particolarità e la singolarità sfocia nella creazione della magia; l’idea di controllo sulla combinazione, sull’accadere, sulla ricerca sfocia nell’ipnosi. Chi si rivolge all’ipnosi già denota un’impostazione economica della ricerca, un’impostazione economica sullo sforzo intellettuale. La verità dev’essere svelata da un altro; il ricercatore dev’essere un altro, non già ciascuno come ricercatore, ma ognuno sarebbe massa inerte su cui un altro deve svolgere la ricerca. Il soggetto dell’ipnosi è inerte, è materia inerte da cui dev’essere estratto il male. E dunque c’è assoluta identità tra il soggetto dell’ipnosi e il soggetto socratico che si rivolge alla levatrice, al maieuta perché faccia il suo lavoro di estrazione, cui egli è del tutto indifferente. Levatrice, psicopompo, maieuta, psicoterapeuta, tutto ciò fa parte della costellazione magicoipnotica.
Tutto ciò per introdurre e accennare qualcosa intorno alla Lampada di Aladino, titolo di questa serie di incontri che affrontano varie questioni, varie figure dell’impostazione sostanzialista che è dilagante nell’epoca attuale. Dilagante perché accettata, dilagante perché poggia sull’idea più accettata e più diffusa, che è appunto l’idea di padronanza. E qualche spunto ci viene anche da questa fiaba, Storia di Aladino e della lampada meravigliosa.
La storia. Qual è la storia di Aladino? Qual è la storia del viaggio? Qual è la storia di ciascuno, nel viaggio? Perché, se c’è viaggio, la storia è la storia del viaggio, è la storia che si scrive viaggiando; non è la storia del soggetto, non è l’anamnesi, non è la cartella clinica del soggetto, cioè non è la storia genealogica; è la storia del viaggio, è la storia intellettuale. È la storia. Ma che cosa indica questo termine, storia? La ricerca. La storia è la ricerca che si scrive; non è l’ontologia, non è l’essere del soggetto, l’essere di qualcuno; è la ricerca che si scrive, ricerca che si racconta e si scrive: questo importa della storia. Storia vera? Storia inventata? Quale storia? Quale storia non sarebbe vera? Storia menzognera? Chi racconta, mente o dice la verità? E quel che effettua raccontando è vero, è verità? Le sensazioni, gli effetti di senso, di sapere, di verità sono veri, sono fasulli? Come sono? E da cosa dipendono? Chi può dire, senza analizzare, le combinazioni linguistiche che si producono raccontando? Chi può dire che ciò che si sta dicendo è o non è vero? Il paradosso del mentitore si volge nel paradosso della menzogna, ossia nel paradosso dell’impossibilità di stabilire prima quel che sia vero e quel che sia falso, che certo non si può stabilire sulla base del ricordo o della padronanza sulle cose che si crede di poter dire, perché il dire sovverte la padronanza e promuove la ricerca.
Dicevamo di Aladino e la sua storia, Storia di Aladino e della lampada meravigliosa. La storia è nota, per lo più: Aladino è un fanciullo; la storia incomincia con il padre che muore, poverissimo, lasciando la famiglia in condizioni tribolate. Perché muore? Muore per i dispiaceri arrecatigli dal figlio; come si usa dire, di crepacuore. La madre di Aladino a mala pena riesce a procurare il cibo giorno per giorno; Aladino cresce apparentemente senza educazione e senza mostrare interesse per alcunché. Un giorno, mentre sta giocando per le strade, come suole ciascun giorno, viene avvicinato da un mago, il Mago Africano, potentissimo, che si spaccia per lo zio e, con alcuni stratagemmi, si accaparra la fiducia sua e di sua madre; lo porta quindi in una caverna e gli fa trovare la lampada meravigliosa. Prima di farlo uscire dalla caverna, gli chiede di consegnargli la lampada, ma Aladino non gliela consegna. Anche se nella caverna, accanto alla lampada, aveva trovato un giardino meraviglioso con alberi da cui pendevano frutti straordinari, gemme, pietre preziose, monili di cui aveva fatto incetta, si rifiuta di consegnare la lampada. Esaurita la pazienza, il mago lo lascia nella caverna, abbandonandolo nelle viscere della terra. Dopo tre giorni senza luce e senza cibo, Aladino, sfiorando l’anello magico che gli aveva consegnato il mago, improvvisamente si trova dinanzi il genio e gli dice: “Fammi uscire”. Il genio lo fa uscire. “Dammi da mangiare, ho fame”: il genio gli dà da mangiare. Sembra quasi di trovarsi nel Vangelo, con un’inversione e un rovesciamento tra la resurrezione di Cristo e le tentazioni da parte di Satana. Dopo tre giorni, Aladino torna all’aperto e il genio, novello Satana, ne soddisfa le richieste sostanzialiste.
Aladino, tornato a casa con la lampada e con tutti i frutti, vede la principessa figlia del sultano e si accorge che non tutte le donne sono come sua madre. Se ne innamora e manda la madre dal sultano per chiederla in sposa. Sempre con l’aiuto del genio, questa volta il genio della lampada – perché c’è tutta una gerarchia anche dei geni: geni dell’anello, geni della lampada – manda al sultano doni ricchissimi, per cui egli comincia a prendere in considerazione questo Aladino. Aladino fa chiedere in sposa la principessa e il sultano dice che ci deve pensare; intanto, però, la dà in moglie al figlio del Gran Visir.
Aladino, che pensava di essere lui il promesso, informato che si stanno per celebrare le nozze tra la principessa e il figlio del Visir manda il genio a rapirli, una prima e una seconda volta. Questi si spaventano; il figlio del Visir si spaventa ancora di più e rinuncia alla principessa. Aladino si rifà vivo presso il sultano con altri doni e ottiene finalmente la principessa in sposa. Immagina un palazzo meraviglioso e chiede al genio di costruirlo; quando lo vede, è proprio come l’aveva pensato. Sposa finalmente la ragazza. Ma ecco che, sul più bello, ritorna il mago che, mentre Aladino è in giro a divertirsi, con uno stratagemma si prende la lampada e rapisce la principessa. Aladino ritorna, non trova più la casa, la principessa, il palazzo, la lampada, gli schiavi, non trova più niente. Grazie però al genio dell’anello viene a sapere dove è stato portato il suo palazzo. Arriva lì, uccide il mago e riporta a casa il tutto. Si fa una grande festa, ma ecco che arriva un altro mago, il fratello del Mago Africano, che ne combina di cotte e di crude. Alla fine, anche lui viene ucciso da Aladino il quale, uccisi i due maghi, sposata la principessa, alla morte del sultano diventa egli stesso sultano. E qui termina la fiaba di Aladino e della lampada meravigliosa.
Ma tutti questi personaggi, chi sono? Da dove vengono? Chi è Aladino? Chi è Aladino che, figlio del sarto poverissimo, diventa sultano? E chi è la madre, equivalente generale di tutte le donne meno una? Sembra il rovesciamento del mito di Mirra. Mirra ambiva a tutti meno uno; qui, invece, tutte le donne sono come la madre, meno una. Chi sono questi due maghi e chi sono questi geni della lampada e dell’anello? Da dove vengono? Da dove viene questa lampada? Chi vuole azzardare qualche risposta a questi interrogativi, onde cominciare a capire qualcosa di questa famiglia di Aladino, per poter capire qual è l’itinerario che Aladino compie?