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La lampada di Aladino 2

LA LAMPADA DI ALADINO. I GIOVANI, LA SESSUALITÀ,  LA COMUNICAZIONE

  1. Come il fantasma di morte fonda la nosologia e si dilegua all’orlo della vita
  2. Come la salute procede dalla questione di vita o di morte
  3. Di una lampada che non illumina. Ovvero come l’ingenuità e la sessualità procedono dall’ignoranza
  4. Cristo, Aladino e l’annunciazione
  5. Aladino, la principessa e la sessualità
  6. Mamma la paura: il matricidio, l’aborto, l’infanticidio
  7. L’incredibile potere dell’uovo di Ruck
  8. Patrimonio e matrimonio
  9. Il caso clinico della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa

Cristo, Aladino e l’annunciazione

Ruggero Chinaglia Proseguiamo questa sera con la lettura di Aladino. La lettura è ciò con cui le cose giungono al semplice, quindi ciò con cui la fiaba giunge alla saga, cioè alla cifratura del materiale che propone, con la dissipazione del fantasma di mortalità e del conseguente fantasma di padronanza.

Al punto in cui siamo giunti con la lettura di Aladino e la lampada meravigliosa, constatiamo che questa fiaba procede dalla Bibbia, combinando Antico e Nuovo Testamento, e c’indica come l’Islam partecipa del Cristianesimo, oltre a partecipare del discorso greco, della gnosi greca.

Leggiamo un brano della Bibbia, in particolare una parte del secondo capitolo del Genesi: Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c’è l’oro, e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon; esso scorre intorno a tutto il paese di Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.

Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza, del bene e del male, non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”.

Poi è noto che il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”, e gli pone accanto Eva.

“Il serpente, che era la più astuta di tutte le bestie, disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino, Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”, fino alla cacciata e le relative conseguenze.

Mentre il Vangelo di Luca, 1,26-38, così racconta: Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato Grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.

Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra, la potenza dell’Altissimo; colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei. (Luca 1,26-38).

Questo nella Bibbia, quanto al mito della cacciata, al mito di Adamo ed Eva e al mito dell’annunciazione.

Leggiamo ora qualcosa della storia di Aladino e la lampada meravigliosa, che comincia così :

Nella capitale di un regno della Cina, ricchissimo e molto esteso, il nome del quale ora non ricordo, viveva un sarto che si chiamava Mustafà, senza altra distinzione se non quella che gli dava la sua professione. Il sarto Mustafà era molto povero e il suo lavoro gli procurava appena quanto era necessario per mantenere se stesso, sua moglie e un figlio che il cielo gli aveva dato.

Quindi, Aladino, un figlio che viene dal cielo.

Il figlio, che si chiamava Aladino, era stato allevato con trascuratezza ed era un monellaccio. Era cattivo, ostinato, disobbediente a suo padre e a sua madre. Non appena fu un po’ cresciuto, i suoi genitori non riuscirono più a tenerlo in casa; usciva fin dal mattino e passava il tempo a giocare per la strada o nelle piazze, con piccoli vagabondi, discoli al par di lui.

Giunto all’età di imparare un mestiere, suo padre, che non era in condizione di fargliene imparare uno diverso dal suo, lo prese nella sua bottega, e cominciò a mostrargli come dovesse maneggiare l’ago. Ma né con le buone, né minacciandogli castighi, fu possibile al padre dominare lo spirito volubile del figlio e costringerlo ad essere assiduo e costante nel lavoro come avrebbe voluto.

Non appena Mustafà voltava la testa, Aladino scappava per ritornare solo la sera. Il padre lo castigava ma Aladino era incorreggibile e, con grande dispiacere, il padre si vide costretto a lasciarlo fare. Ciò lo addolorò molto e il dispiacere di non poter far rigare diritto suo figlio, gli causò una malattia così ostinata che ne morì dopo qualche mese.

La madre di Aladino, quando vide che suo figlio non voleva imparare il mestiere del padre, chiuse la bottega, e vendette i ferri del mestiere per mantenere col ricavato, unito al poco che avrebbe potuto guadagnare filando il cotone, sé e suo figlio.

Aladino, che non era più trattenuto dal timore di suo padre, e che tanto poco si curava di sua madre da osare di minacciarla alla minima esortazione che gli faceva, si abbandonò allora alla più completa libertà, conducendo una vita scapestrata. Frequentava sempre i ragazzi della sua età, né tralasciava di giocare con loro con passione maggiore di prima.

Continuò questa vita fino a quindici anni, senza dimostrare interesse per nessuna cosa. Era in questa condizione, quando un giorno, mentre giocava in una piazza con una schiera di vagabondi, secondo la sua abitudine, fu notato da un forestiero di passaggio che si fermò a guardarlo.

Quel forestiero era un mago insigne, conosciuto con il nome di Mago Africano. [Tratto da Le mille e una notte, Ed. Newton, pagg. 679/680 ]

La fiaba comincia praticamente con la morte del padre. Prima, il padre è descritto con tutte le caratteristiche negative – povero, misero, incapace di educare il figlio, incapace di lavorare, incapace di dominare lo spirito volubile del figlio; insomma, proprio un padre da poco – fino a che, appunto, muore. Quindi il padre è un padre già morto, morto prima ancora di morire, un padre senza autorità, senza qualità. E il figlio Aladino è il figlio discolo, il figlio generato che degenera. Il figlio di papà che si perde, che si lascia andare. Si lascia andare a partire dal padre morto. Ma come può il padre morire, il padre che è immortale nella parola? Infatti, anche la fiaba ne tiene conto e arriva subito un altro padre, il Mago Africano, che invece è ricchissimo, bravissimo, insigne, conosciuto.

Ecco che, a partire dal padre morto, dall’idea di mortalità attribuita al padre, si instaura l’anfibologia del padre: padre buono/padre malvagio, padre povero/padre ricco, padre sano/padre malato. Insomma, a partire dall’idea del padre morto, sorge la dicotomia, cioè sorge ogni possibile attribuzione di qualcosa e del suo opposto. Ebbene, pur nell’anfibologia, pure nell’alternativa, nella fantasmatica che indica l’oscillazione tra padre buono e padre malvagio, la vicenda di Aladino non può non procedere dal padre. Questa è la prima questione in cui ci imbattiamo leggendo la fiaba e analizzando ciò che ci pone dinnanzi, senza parteciparvi con la morale, senza che questo debba essere funzionale a una morale del bene o del male.

E dunque, pur in questa apparente messa a morte del padre, procedendo dal padre, si avvia il viaggio di Aladino. E che cosa accade ad Aladino, dopo aver incontrato questo altro padre, che è generoso, gli offre vestiti, gli offre varie indicazioni, lo toglie dalla strada, lo porta con sé a far conoscere ai mercanti, ai gioiellieri, alle persone importanti, gli fa scegliere i vestiti che preferisce. Accade che un giorno dice:

“Andiamo, caro figlio, oggi voglio farti vedere delle cose bellissime!”.

A tale scopo lo condusse a una porta della città, che portava verso grandi e belle case o, per dir meglio, palazzi magnifici, ognuno dei quali aveva bellissimi giardini, i cui ingressi erano liberi. A ogni palazzo che vedevano chiedeva ad Aladino se gli piacesse e ogni volta che appariva un nuovo palazzo Aladino esclamava: “Oh zio, questo è ancora più bello degli altri che abbiamo visto!”.

Intanto s’inoltravano sempre più nella campagna, e l’astuto mago, che desiderava andare ancora più lontano per portare a compimento il piano che aveva in mente, colse l’occasione di entrare in uno di quei giardini.

Quindi, il mago porta Aladino a vedere i giardini. È noto l’interesse assoluto dei ragazzi di 15 anni verso i giardini, no? Questo, in ogni paese, in particolare in Cina. Però, il mago dice ad Aladino che ci sono dei giardini bellissimi e Aladino lo segue. E poi, dopo un po’, riposano, fanno uno spuntino e poi  …proseguono il cammino in mezzo ai giardini che erano separati gli uni dagli altri solo da piccoli fossi, che segnavano i confini, ma non impedivano il passaggio. La buona fede faceva sì che i contadini di quella capitale non avessero bisogno di altre precauzioni per impedire di nuocersi l’un l’altro [pag. 685].

Bastava un piccolo fosso. Sembra quasi che la lezione di Roma fosse già nota: chiunque attraversasse il fosso subiva la sorte di Remo.

Il Mago Africano insensibilmente condusse Aladino molto lontano oltre i giardini, e gli fece traversar dei campi, che lo condussero fin vicino ai monti.

Aladino, che non aveva mai camminato tanto, si sentì molto stanco per quella lunga passeggiata.

“Zio”, disse al mago, “dove andiamo? Abbiamo lasciato molto indietro i giardini, e non vedo altro che monti. Se c’inoltriamo ancora, non so se avrò forza abbastanza per ritornare alla città.”

Aladino è stanco e non sa se avrà forza abbastanza per ritornare in città.

“Fatti animo, nipote”, gli rispose il finto zio, “voglio farti vedere un altro giardino che supera in bellezza tutti quelli che hai visto. Non è molto lontano di qui, anzi non vi sono da fare ormai che pochi passi e quando vi arriveremo tu stesso mi dirai se non ti sarebbe spiaciuto di non averlo veduto, dopo esser giunto così vicino.” [pag. 686]

E così giungono finalmente nella valle del giardino.

Era questo il luogo straordinario in cui il Mago Africano aveva voluto condurre Aladino per l’esecuzione di un gran progetto per cui era venuto dall’Africa fino in Cina.

“Non andiamo oltre”, disse ad Aladino, “voglio farti vedere cose straordinarie e sconosciute ai mortali: e mi ringrazierai poi di averti fatto assistere a tante meraviglie.

E lì il mago compie il rito: accende il fuoco …e, mentre la legna bruciava, vi gettò sopra un profumo che teneva pronto. Si formò allora un fumo densissimo, che egli spinse da una parte e dall’altra pronunciando parole magiche che Aladino non capì.
Nello stesso momento la terra tremò, e si aprì davanti al mago e ad Aladino, e lasciò scoperto un blocco di pietra quadrato di un piede e mezzo circa di lato e alto circa un piede, posato orizzontalmente, con un anello di bronzo infisso nel mezzo, per poterlo sollevare.

Aladino, spaventato da quanto accadeva davanti ai suoi occhi, avrebbe voluto darsi alla fuga. Ma era necessaria questa cerimonia magica e il mago lo trattenne, rimproverandolo molto e dandogli uno schiaffo tanto violento, che lo gettò a terra, e poco mancò che non gli rompesse i denti.

Il povero Aladino tutto tremante, e con le lacrime agli occhi, esclamò:

“Caro zio, che ho mai fatto per meritare che mi picchiate così forte?”.

“Ho le mie buone ragioni per trattarti a questo modo”, gli rispose il mago. Il mago tratta Aladino con le sue buone ragioni. “Sono tuo zio, e tengo ora il posto di tuo padre; non devi quindi discutere con me. Ma, figlio mio”, aggiunse poi con tono più dolce, “non temere di nulla: non chiedo altro che di essere ubbidito alla lettera, se vuoi trarre profitto e renderti degno dei vantaggi che ti voglio procurare”.

…“Hai visto ciò che ho fatto, grazie alla virtù del mio profumo e alle parole che ho pronunciato? – profumo e parole – Sappi dunque che sotto questa pietra c’è nascosto un tesoro, che è destinato a te e ti farà diventare un giorno il più ricco sovrano del mondo. Ciò è tanto vero, che non c’è nessuno al mondo, tranne te, a cui sia concesso di toccare questa pietra e di sollevarla per entrarvi. A me pure è proibito toccarla, e porre piede nel luogo dove si trova il tesoro, quando sarà aperta. Perciò bisogna che tu faccia esattamente quanto ti dirò, senza trascurare nulla: questo è un affare di grande importanza per te e per me”.

E Aladino a questo punto è incuriosito. “Ebbene zio, di che si tratta? Comandate, sono pronto a obbedirvi.” “Bene”, dice il mago, “mi fa molto piacere, figlio mio, che tu abbia preso questa decisione. Vieni, accostati, prendi quest’anello e alza la pietra.”

“Ma zio”, rispose Aladino, “non sono abbastanza forte per alzarla; bisogna che mi aiutiate.”

“No”, replicò il mago, “non hai bisogno del mio aiuto e non otterremmo nulla, io e te, se ti aiutassi; è necessario che l’alzi da solo. Pronuncia il nome di tuo padre e di tuo nonno, tenendo nelle mani l’anello, e vedrai che ci riuscirai senza fatica.”

Così fa Aladino e, sorprendentemente, solleva la pietra.

“Figlio mio”, disse allora il Mago Africano ad Aladino, “ascolta attentamente tutto ciò che sto per dirti. Scendi nella caverna e, quando sarai giunto ai piedi degli scalini che vedi, troverai una porta aperta, per la quale entrerai in un gran locale a volta, diviso in tre grandi sale, una dopo l’altra. In ognuna vedrai, a destra e a sinistra, quattro grandi vasi di bronzo a forma di tini, pieni d’oro e d’argento: ma bada bene di non toccarli. Prima di entrare nella prima sala, alzati la veste, e stringitela bene in vita; passa nella seconda, senza fermarti, e da questa nella terza. Bada soprattutto a non accostarti ai muri e a non toccarli con la veste, poiché se li toccassi, moriresti subito. Questa è appunto la ragione per cui ti ho detto che devi tenerla stretta in vita. In fondo alla terza sala vi è una porta che dà accesso a un giardino con bellissimi alberi tutti carichi di frutta: cammina diritto e attraversa il giardino seguendo un sentiero che ti porterà a una scala di cinquanta gradini per salire su una terrazza. Quando sarai giunto su di essa, vedrai dirimpetto a te una nicchia, e in questa una lucerna accesa. Piglia la lucerna, spegnila, e quando avrai gettato via lo stoppino, e versato il combustibile, mettitela in petto e portamela. Non temere di macchiarti l’abito, perché il combustibile non è composto d’olio. Se i frutti del giardino ti piacciono, ne potrai raccogliere quanti ne vorrai, perché non è proibito.” [pagg.  686 – 687]

…“Va’, figlio mio”, gli disse, dopo avergli dato queste istruzioni, “scendi con coraggio: stiamo per diventare ricchi tutti e due per tutta la vita.”

Eh, non prima di avergli dato un anello, che si tolse dal dito, dicendogli che l’avrebbe preservato da ogni male che gli potesse accadere, se avesse osservato bene quanto gli aveva ordinato. Quindi, Aladino si inoltra nel giardino, attraversa il giardino senza fermarsi, sale sulla terrazza, prende la lampada, la spegne, getta lo stoppino, il combustibile e se la nasconde in petto. Poi torna indietro e si ferma nel giardino, un giardino bellissimo.

Gli alberi erano carichi di frutti stravaganti. Ogni albero ne portava diversi. Ve n’erano di bianchi, di lucenti e trasparenti come il cristallo, di rossi, di verdi, di azzurri e di quelli che si accostavano al giallo, con molte altre specie.

I bianchi erano perle, quelli lucenti e trasparenti, diamanti; quelli rosso cupo, rubini; quelli verdi, smeraldi; quelli violetti, ametiste, gli azzurri, turchesi e così via, e questi frutti eran tutti di una grossezza e di una perfezione straordinaria.

Aladino, che non ne conosceva né le qualità né il valore, non restò affatto colpito alla vista di questi frutti che non erano di suo gusto, come lo sarebbero stati invece fichi, uva e gli altri frutti eccellenti che sono comuni in Cina. Non essendo ancora in età da conoscerne il valore, immaginò che quei frutti fossero soltanto vetri colorati di poco conto. [pag. 688]

Quindi, non ci sono vergini nel giardino, ma frutti e vetri colorati, cristalli colorati. È noto che la mitologia del martire islamico è guidata dall’idea di avere, dopo la morte, la visione del giardino, allietata da settantadue vergini. Così narra la mitologia; ma che è, appunto, pura e mera mitologia, dovuta a un errore di traduzione, perché in realtà, nel giardino, ci sono frutti e, in particolare, uva colorata, proprio come ci racconta Aladino. Quindi, Aladino, nonostante non ne conosca il valore, prende molti frutti di ogni colore e se ne riempì le tasche, le borse, l’abito, nelle pieghe della cintura, dappertutto; anche in petto, tra la veste e la camicia e si dirige verso l’uscita.

Dunque Aladino è nel giardino e dinanzi all’uscita, vede lo zio e dice:

“Zio, vi prego di porgermi la mano per aiutarmi a salire”.

Il mago gli disse:“Figlio mio, dammi prima la lampada, perché potrebbe esserti d’impaccio”.

“Perdonatemi zio,” replicò Aladino. “Non mi impaccia affatto e ve la darò, appena sarò salito.”

Insomma, Aladino non molla la lampada e il Mago Africano si arrabbia moltissimo e dunque …esasperato dalla resistenza del ragazzo, fu preso da uno spaventevole sdegno. Gettò un poco del suo profumo sopra il fuoco che aveva avuto cura di mantenere acceso, e appena ebbe pronunciate due parole magiche, la pietra, che serviva a chiudere l’ingresso della caverna, ritornò da sé al suo posto con sopra la terra, nel medesimo stato in cui era all’arrivo del Mago Africano e di Aladino. [pag. 689]

E dunque, Aladino è sotto terra. Fa per tornare nel giardino, ma il giardino non c’è più: un muro gli impedisce l’accesso. Non c’è più il giardino e Aladino si trova nella terra, anzi, sotto terra. Quindi, anche Aladino è cacciato dal giardino, dal giardino dai frutti meravigliosi, per non aver restituito la lampada. Da una parte si tratta di aver preso i frutti di un certo albero, dall’altra di non aver restituito la lampada. Aladino è sepolto, sepolto vivo.

Chiamò mille volte suo zio gridando che era pronto a dargli la lampada: ma le sue grida erano inutili, e non vi era più mezzo di essere udito. Allora rimase nelle tenebre e nell’oscurità…

Infine, dopo aver dato tregua alle lacrime, discese fino in fondo alla scala della caverna per andare a cercare la luce nel giardino da dove era già passato; ma il muro si era richiuso ed unito di nuovo, per un altro incantesimo del Mago Africano.

…Raddoppiò le grida e i pianti, e si sedette sulla scala della caverna senza speranza di rivedere mai più la luce, e con la certezza di passare dalle tenebre in cui era, a quelle di una prossima morte.

Aladino restò due giorni in quello stato, senza mangiare né bere. Il terzo giorno finalmente, pensando che la morte fosse inevitabile, alzò al cielo le mani giunte e con una perfetta rassegnazione ai voleri di Dio esclamò:

“Non vi è forza e potenza che in Dio, il Grande, l’Altissimo!”.

Nell’alzare le mani giunte, fregò senza avvedersene l’anello, che il mago Africano gli aveva messo al dito, e di cui non conosceva ancora la virtù.

Improvvisamente, un genio di statura immensa e dallo sguardo spaventevole, prese forma davanti a lui come se venisse da sotto terra, finché toccò con la testa il soffitto, e disse ad Aladino queste parole:

“Che vuoi? Eccomi pronto ad obbedirti come tuo schiavo, tuo e di tutti coloro che hanno l’anello al dito, io e gli altri schiavi dell’anello”.

…“Chiunque tu sia, fammi uscire da questo luogo, se ne hai il potere”.

Non appena ebbe pronunciato queste parole, la terra si aprì ed egli si trovò fuori dalla caverna, esattamente nel luogo dove il mago l’aveva condotto. [pagg. 690 – 691]

Allora, dopo tre giorni, al terzo giorno, Aladino, che era sepolto, esce dal sepolcro. Non possiamo dire proprio che resuscita, perché non era mai morto, però questo ci interroga intorno alla natura e alla struttura della resurrezione.

È sorprendente questa combinazione di Aladino con Cristo, e occorre dire che c’è anche un’altra evocazione che rafforza questa combinazione.

Noi abbiamo, nel Vangelo, il racconto della tentazione sostanzialista, cui Cristo viene sottoposto da Satana. “Guarda le ricchezze del mondo, adorami e tutto questo sarà tuo”. Mentre Cristo non abbocca, Aladino abbocca. Abbocca, ma fino a un certo punto, pare, perché non restituisce questa lampada. E l’indicazione interessante che ci dà Aladino è intorno alla resurrezione, in cui il figlio risorge, ma risorge in quanto non è mai morto. Leggendo Aladino con Cristo, anche per Aladino si tratta della dissipazione della genealogia. Lì dove la fiaba ci presenta Aladino come il filius generatus, il figlio che partecipa della genealogia e del fantasma di mortalità, che accomuna il padre morto con il figlio morituro – questa è la genealogia – invece lo troviamo poi come filius genitus, perché la condizione della risurrezione in Cristo è appunto che è filius genitus nec generatus.

Questa è la lezione di Sant’Agostino: il filius è filius genitus nec generatus. Che cosa indica questo? Non tanto come è stato tradotto, che si tratta del figlio generato e non creato. Genitus, non generatus. Genito non vuol dire generato. Sant’Agostino dice che è genitus, in quanto procede dal padre; non generato dal padre, ma procedente dal padre. Questa è la questione straordinaria che Aladino ci ripropone, anche se per la via del fantasma materno, ossia per la via secondo cui ogni figlio che si crede generato è il figlio che si ritiene mortale, è l’uomo di Aristotele, l’uomo mortale; mentre è immortale il filius genitus, che procede a sua volta dal padre immortale, che dunque è in questa processione e non nella genealogia. Questo filius genitus è il figlio senza identità, che non deve assomigliare al padre, che non partecipa né della sostanza, né di altra caratteristica genealogica, meno che mai della caratteristica genealogica per eccellenza, ossia la mortalità. Il filius che risorge è il filius che si divide da sé; non che si divide in due, in quanto partecipa della procreazione, ma che si divide da sé, ossia è il significante che funziona, il significante preso nella funzione.

È questa la questione della tripartizione del segno: padre-figlio-Altro, o padre-figlio-spirito. Se togliamo uno di questi, nemmeno gli altri esistono. È la questione del genere, della tripartizione del genere o della tripartizione del segno: il figlio procede dal padre, l’Altro procede dal figlio e procede dal padre, mentre il padre procede dal due. Questa è la processione, che indica la tripartizione funzionale del segno: padre-figlio-Altro.

È in questo modo che il segno funziona parlando, in questa genesi  – secondo cui il figlio procede dal padre, il padre procede dal due e l’Altro procede dal figlio e dal padre – sta la logica, la logica della parola, la logica della nominazione.

Ora, genitus nec generatus, comporta che il figlio nasce o che non nasce? È nato o non è nato? Dove sta la nascita per ciascuno? Di che cosa si tratta quanto alla nascita? La nascita è qualcosa di assolutamente non naturalistico; si tratta di non confondere la nascita con il parto. In che modo ciascuno partecipa della nascita? E che ne è della nascita per ciascuno, quanto al viaggio intellettuale? Pare una questione seria, no? Perché è facile dire che si nasce e si muore. Se il figlio è genitus nec generatus, nasce il figlio? E se nasce, come nasce?

E accanto alla nascita non dobbiamo trascurare la natura, e accanto alla natura la nazione, dove, per natura, si tratta dell’andare e venire delle cose: da dove le cose vengono e dove vanno; nella natura si tratta anche della struttura della pulsione. Invece nella nazione si tratta dell’avvenire. Ora, è chiaramente un altro dispositivo, in cui la nascita non è intesa junghianamente come avvio verso la morte, né come la venuta al mondo. Non è trascurabile questa cosa, ma è determinante rispetto al vivere, rispetto all’idea che ognuno può avere di sé, dell’Altro, della famiglia, perché, chi si crede generato, cioè, si crede “figlio di”, chiaramente si inscrive in una genealogia, si inscrive in un fantasma di mortalità, con tutto ciò che ne segue, con tutto ciò che comporta rispetto anche alla logica e al modo del viaggio, al progetto e al programma di vita, a ciò che fa o che non fa, che farà o non farà, che ha fatto o non ha fatto. Cioè, il rimando, la riserva, la remora, il rimpianto, il pentimento, sono corollari dell’idea del filius. Qual è l’idea che ognuno ha del filius? Da questo discende un’idea di sé, un’idea dell’Altro, un’idea del padre.

Noi, leggendo il testo di Aladino, constatiamo che i guai, per Aladino, cominciano a partire dalla sua idea di padre, e da questa idea del padre procede lo scenario: il figlio discolo, il figlio degenere, il figlio senza avvenire… Quale avvenire se il padre è dato per morto? Dato per morto il padre, anche il figlio o è morto o morirà, comunque tanto bene non sta, già comincia a sentirsi con qualche guaio.

Allora, non è una questione meramente teologica, è una questione linguistica. Quella che può sembrare una questione teologica, è una questione linguistica, una questione logica. È la questione della genesi e della genetica, secondo cui ciascuno è in viaggio. Con quale genesi e con quale genetica procede il viaggio? Qual è la genesi e qual è la genetica secondo cui procede il viaggio? Questo è quanto ci pone Aladino, cioè il mito di Cristo: la questione intorno alla genesi e alla genetica secondo cui procede il viaggio. È tenendo conto di questo che noi possiamo leggere Aladino con Cristo, altrimenti leggiamo Aladino e basta, cioè Aladino, ossia il pazzo, Aladino il visionario, Aladino il degenere, Aladino l’allucinato, Aladino come segno di ogni possibile idealità. La questione analitica e clinica sorge perché, anche a partire da quel che si enuncia come dicotomia, come alternativa tra la positività e la negatività, anche da lì c’è una domanda che esige di cogliersi e non di essere catalogata, ossia inscritta in un casellario.

Occorre tenere conto della lezione che viene dalla parola originaria, e occorre tenere conto dell’annunciazione. Nel testo cristiano l’angelo è la condizione del’annunciazione. Nella variante islamica l’angelo chiede: “Cosa vuoi? Io sono il tuo servo, ti soddisferò”. Cosa vuoi? Quindi, nella variante islamica ci sarebbe il volere, che è sempre il volere divino, il volere di Allah. E quindi c’è chi ha da soddisfare il volere. Nel testo biblico, invece, non c’è questo volere, c’è l’indicazione dell’avvenire. Avverrà che…, avviene che… È un’altra cosa: ciò che avviene non è soggetto alle modalità del potere, del sapere, del dovere o del volere.

L’avvenire è senza soggettività, non è preso nel viluppo delle soggettività, delle varianti del fantasma di padronanza. E questo è essenziale: poter cogliere, individuare, articolare il fantasma di padronanza lì dove si pone è essenziale perché il viaggio prosegua; altrimenti, al primo inghippo si ferma. Si ferma e si giustifica la fermata secondo ogni facile idealità: non posso, non voglio, non so, non vedo… E pretesti ce n’è a bizzeffe, no? Ogni pretesto è buono per confermare queste idealità. Ma come avviene che, per esempio, il viaggio di Aladino prosegua? Innanzi tutto perché il padre non è morto e non muore. È immortale. E così il figlio, e così l’Altro. Da questa struttura il viaggio prosegue, non è destinato a finire e le vicissitudini del viaggio non sono il segno del male, del negativo, della morte, ma sono vicende del viaggio. Se vengono affrontate, sono vicende del viaggio; se costituiscono il segno del male, del negativo, della morte, non verranno affrontate, e il viaggio si arresta. È banale, ma è così. Questo è l’importante della clinica perché il viaggio proceda.

 


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