Da giovedì 15 novembre 2001, alle ore 21, a Padova, ciascuno è invitato alle conversazioni cifrematiche tenute da Ruggero Chinaglia medico, psicanalista, brainworker, sul tema
BRAINWORKING – LA CLINICA DELL’IMPRESA
Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione dell’informazione, all’era della comunicazione le cose non smettono di rivolgersi. La rivoluzione in corso è incessante e interminabile. È non è un fatto eccezionale o sporadico. Non è occasionale o fatalistico. È la rivoluzione della parola inaugurata dalla domanda e dal suo dispositivo. Che vi sia domanda è essenziale. Che non vi sia è pressoché impossibile. Ma, importa che vi sia ascolto della domanda e che alla domanda segua il dispositivo. E questo è raro. E sta qui la questione del brainworking dell’impresa.
Giovedì 15 Novembre, Il capitale intellettuale
Brainworking indica questo, che il lavoro intellettuale è un lavoro incessante che non è dato una volta per tutte, che richiede umiltà, generosità, indulgenza con costanza, con persistenza, perché si tratta dell’approdo alla qualità intellettuale. Per qualità, non intendiamo ciò che la pubblicistica televisiva indica come graduatoria di qualcosa che sarebbe meglio di un’altra cosa. La qualità è un assoluto; è l’assoluto per cui ciascuna cosa giunge alla sua cifra. La qualità è la cifra delle cose. E quindi, è essenziale per ciascuno; la questione è come ciascuno diviene brainworker, diviene lavoratore di cervello, diviene lavoratore che si rivolge alla qualità.
Non è una questione tecnologica né una questione di applicazione di tecniche o di tecnologia, perché il brainworking non si basa sull’apprendimento di una tecnica. È questione non di tecnica, ma di logica e di itinerario; itinerario artistico, culturale, scientifico, pragmatico. Quindi, il brainworking non è sapere tecnologico, non è imparabile o applicabile “a tavolino”; è il frutto di una procedura intellettuale che sfocia nell’invenzione e nell’arte.
Giovedì 22 Novembre, Come la vita diviene impresa
Una delle mitologie più diffuse tra quante costituiscono la fantasmatica del materno è quella del diritto/privilegio di venire assistiti. Subito seguita da quella di dovere essere guidati e protetti perché nulla risulti difficile. La nozione di difficoltà sembra avere assunto nell’ideologia corrente una connotazione negativa al punto che da più parti viene cercato di evitare qualunque cosa possa costituire difficoltà. Spesso sento ripetere che ci sarebbe da fare una certa cosa, però è difficile, e, quindi molto spesso viene accantonata, o quanto meno viene tentato o proposto l’evitamento. La difficoltà viene assimilata all’impossibilità: “È difficile, quindi è impossibile che io possa farcela”, questo è l’enunciato che frequentemente viene opposto all’attraversamento della difficoltà. Di cosa si tratta nella difficoltà? Difficoltà non è il contrario di possibile, di possibilità. Non c’è nessuna attinenza fra difficoltà e possibilità. L’idea che si è affermata ideologicamente è che le cose debbono essere facili; facili e facoltative. Cioè rientrare nelle facoltà umane. Presunte umane. Cos’è la facoltà umana? Forse la possibilità di stabilire se fare o non fare? La facoltà umana sarebbe dunque il possibilismo? Chi può stabilire se qualcosa è da fare? È il programma a stabilire il da farsi, non qualcuno. Tanto meno sulla base della possibilità e/o della facilità.
Giovedì 28 Novembre, Il cervello
Parlando facile, il brainworking è escluso.È esclusa la tensione linguistica, è esclusa la forza della parola. Non può instaurarsi il dispositivo del lavoro intellettuale, da cui ciascuno trae la sua forza. Eppure nella gran parte delle occasioni di parola degli umani è questo gergo comune che viene impiegato, nella presunta illusione di comprendersi, di capirsi meglio, di comunicare l’un l’altro in maniera più intima. Quale abbaglio! L’uso del gergo è il primo indizio di un cedimento intellettuale che mina il dispositivo immunitario. Dispositivo della salute quale istanza della qualità, dispositivo della leggerezza, dell’assenza di sostanza.
Che cosa vuol dire porre il male davanti a sé: vuol dire applicare alla parola la negativa del tempo, con le conseguenze di prevedere il male, il negativo, la malattia, la morte. Prevederli cioè introdurli nel proprio ambiente. Che cos’è la negativa del tempo? È l’idea che il tempo finisca, che le cose finiscano, che le cose vadano a finire male. È facile lasciarsi andare e prevedere cose di questo tipo, dicendo che non c’è più nulla da fare. È l’applicazione dell’idea di sé alle cose, quando l’idea di sé, o dell’Altro, è fatta dipendere da una localizzazione dell’origine, della famiglia di origine, dai ricordi non analizzati della propria vita domestica.
“Lasciarsi andare” è abbandonarsi alle fantasie mortifere, cioè che il tempo finisca, che le cose finiscano, che non ci sia più niente da fare se non arrendersi e aspettare. Aspettare è sempre aspettare la morte o la liberazione dalla morte, ossia è sempre in relazione alla morte come riferimento. Il discorso occidentale spicca per questo suo riferimento alla morte, intesa come sostanza, ossia come qualcosa da considerare in quanto tale. Questa idea della morte che nega il tempo e la differenza è la negazione stessa del dispositivo intellettuale, è la negazione dello sforzo intellettuale, è il lasciarsi andare alla soggettività.
La vita intesa in questo modo è una mera attesa della fine, è attesa della morte come sostanza, è la morte bianca. Con la morte bianca, il rimando, la rinuncia, le dimissioni, l’abdicazione, la sparizione diventano all’ordine del giorno. Alla prima difficoltà il soggetto non ha che da scegliere il modo migliore per confermare la sua mortalità. È la mentalità che si afferma sul dispositivo intellettuale. La mentalità è il toglimento del tempo a favore dell’abitudine, del luogo comune e del senso comune.